La rivolta in fabbrica, rapporti di lavoro e lotte operaie alla Fiat Mirafiori dal 1962 al 1973

Esce in Germania il libro più completo sulle lotte operaie a Mirafiori tra ’62 e ’73, scritto dallo storico Dietmar Lange. La recensione di Sergio Bologna

Sergio Bologna, il manifesto 21 aprile 2021

È uscito in Germania presso il grande e prestigioso gruppo editoriale Vandenhoeck & Ruprecht il libro di Dietmar Lange, Aufstand in der Fabrik. Arbeitsverhältnisse und Arbeitskämpfe bei Fiat Mirafiori 1962 bis 1973 (Rivolta in fabbrica. Condizione operaia e lotte operaie alla Fiat Mirafiori 1962-1973), pp. 421, euro 63. Messo a paragone con le numerose rievocazioni di quella stagione che la ricorrenza dell’autunno caldo ha stimolato prima e dopo la pandemia, il lavoro di Lange mostra un respiro storico che nulla ha a che vedere con l’«aria di famiglia» che traspira dalla produzione pubblicistica italiana. Lange colloca la vicenda Fiat in un quadro che la iscrive nelle «onde lunghe» dei cicli di lotta che partono dalla Comune di Parigi e, attraverso i moti rivoluzionari del 1917-23, giungono agli anni Sessanta del secolo scorso.
Sembra di avvertire qui la lezione di Marcel van den Linden e della sua Global Labour History, che se da un lato ha cercato di rovesciare l’eurocentrismo della storia del lavoro come l’abbiamo praticata durante tutto il Novecento, dall’altro lato ci ha messo in guardia da un eccessivo uso della microstoria nell’analisi delle lotte dei lavoratori, spingendoci a innalzare lo sguardo sui grandi snodi della storia mondiale. Per altro verso Lange si richiama esplicitamente al Labour Process Debate lanciato da Harry Bravermann agli inizi degli anni Settanta, che sollecitò gli storici ad occuparsi del controllo sociale sulla forza lavoro esercitato attraverso dinamiche e strumenti ben diversi da quelli dell’ingegneria taylorista in fabbrica. Un controllo che provoca nella classe operaia una reazione alla stessa altezza e che i sociologi tedeschi chiamarono di proletarische Öffentlichkeit o di Gegen-Öffentlichkeit.

Da questo intinerario metodologico Lange arriva all’operaismo italiano, del tutto correttamente, a nostro avviso, perché il punto di contatto è rappresentato proprio da quella netta distinzione tra la sfera della «composizione tecnica di classe» e la sfera della «composizione politica di classe». L’operaismo non aveva mai concepito un «dentro» e un «fuori» la fabbrica, come due spazi fisici dove all’interno del primo si lottava per il salario e l’orario e all’interno del secondo per la casa, i trasporti, la scuola, l’informazione ecc. (le cosiddette «lotte per le riforme» post-69). Le due sfere erano concepite come due gradi di maturità antagonista, quindi come un percorso lungo il quale la forma della cooperazione nella e per la produzione si rovescia in forma di conflitto collettivo.
Le prime diciotto pagine in cui l’autore si sofferma su questi aspetti metodologici meritano una particolare attenzione perché identificano chiaramente un punto di vista molto diverso da quello di molta letteratura e memorialistica italiana sulla vicenda Fiat, prigioniera certe volte di una visione «localistica», pur con la forte passione politica della scrittura. Lange colloca la vicenda Fiat al centro di quella «frattura strutturale» (Strukturbruch) verificatasi nella società capitalistica, che noi abbiamo chiamato «passaggio dal fordismo al postfordismo».
L’anno in cui questa frattura ha cominciato ad apparire in tutta la sua dimensione planetaria è il 1973, più precisamente ottobre 1973 con lo scoppio della «crisi petrolifera». Ma è anche l’anno in cui il ciclo che si era aperto agli inizi degli anni Sessanta ed era culminato nell’autunno caldo comincia una discesa non lineare, anzi, costellata di sussulti e di riposizionamenti strategici (si pensi al movimento del ’77), prima della sconfitta bruciante dell’ottobre 1980 proprio alla Fiat.
E qui si pone un altro problema di carattere metodologico. Un problema di periodizzazione. Quando e dove inizia il ciclo? Alla Fiat sicuramente nel 1962 e quindi Lange ha fatto benissimo a iniziare la sua narrazione da lì, riprendendo la periodizzazione classica dei Quaderni Rossi. Se fosse partito dal 1967 avrebbe probabilmente commesso lo stesso errore in cui sono incorsi molti di noi attribuendo funzione di «detonatore» alle lotte studentesche.

Ma oggi sappiamo cheche non è corretto isolare Torino dal resto d’Italia e Lange, se proprio avesse voluto mantenere estrema coerenza alla sua posizione, non avrebbe dovuto ignorarlo. Lo scontro alla Fiat che si sarebbe concluso nell’ottobre 1980 non s’identifica con il grande ciclo, perché la data d’inizio di quel ciclo è il 1960, Milano, sciopero dei 70 mila elettromeccanici, una lotta «che resiste un minuto più del padrone» per quasi un anno e vince. Questo vizio «torinocentrico» che ci siamo portati dietro per decenni evidentemente è contagioso.
Lange trova nella produzione storiografica che lo ha preceduto un’insufficiente capacità di cogliere tutta la complessità delle interrelazioni tra sfera dello sviluppo economico, sfera dei mutamenti tecnologici, comportamenti soggettivi di classe, rappresentanza sindacale e configurazione del sociale e dichiara che il suo intento è stato proprio quello di affrontare di petto questa complessità nello sforzo di realizzarne una sintesi. Se ci sia riuscito o meno dovremmo poterlo giudicare analizzando in dettaglio i vari capitoli del libro, compito che richiederebbe uno spazio ben maggiore di questa che non è una recensione ma una semplice segnalazione.
Ci limitiamo pertanto a elencare gli argomenti dei diversi capitoli: l’Italia del miracolo economico, la formazione di un pensiero della «nuova sinistra», l’epoca della catena di montaggio, piazza Statuto e le sue conseguenze, l’ombra della congiuntura (1963-66), il «maggio strisciante» alla Fiat, crisi e mutamento nell’Italia inizi anni Settanta, un nuovo modello di gestione alla Fiat, la stagione contrattuale del 1972/73. I capitoli dedicati al nuovo modello di gestione costituiscono la sezione più corposa del volume e riguardano il confronto classe-direzione di fabbrica sull’organizzazione del lavoro, sui cottimi, l’inquadramento unico, i ritmi, il potere dei capi, la fase cioè in cui l’egualitarismo dell’autunno caldo si deve tradurre in articolazione di reparto, contestando l’ingegneria taylorista. È qui che Lange dà maggiore spazio al ruolo della sinistra radicale, in particolare a Lotta Continua e al potere d’interdizione che un solo reparto chiave (ad esempio, la verniciatura) può esercitare sull’intero flusso produttivo.

Nella ventina di pagine di Zusammenfassung Lange cambia completamente tono e punto di vista rispetto alle pagine introduttive sulla metodologia. La lunga narrazione precedente lo ha costretto a rimettersi sul terreno della microstoria, dell’indagine sociologica, dell’ascolto della soggettività operaia. È un riconoscimento che i limiti da lui individuati all’inizio nella storiografia che lo ha preceduto non sono limiti della visione d’insieme ma il portato di una «parzialità» che la storiografia militante ha sempre rivendicato.
Gli va riconosciuto comunque non solo di aver lavorato su gran parte delle fonti primarie disponibili ma di aver mantenuto un grande equilibrio nel giudizio sul ruolo di determinati attori, per esempio sul ruolo della sinistra radicale, che non ha certo esercitato una leadership ma sicuramente ha avuto un ruolo importante nel mettere in comunicazione i diversi segmenti della classe operaia Fiat oltre ad aver saputo certe volte interpretare la soggettività degli operai comuni (scritto sempre in italiano e in corsivo nel testo) meglio del sindacato. A questo proposito va notato che avrebbe potuto andare più in profondità sulla differenziazione di atteggiamenti e di pratica tra militanti Fiom e Fim di fabbrica e apparati di partito e di sindacato. Ma questo non inficia un valutazione molto positiva del lavoro svolto da Lange, in effetti un libro così completo mancava, la vicenda Fiat con questa ricerca entra nella «grande storia».
Un solo dubbio va sollevato. Acquisterebbe una valenza del tutto diversa la vicenda Fiat, se non la esaminassimo isolatamente ma nel contesto generale della conflittualità operaia in Italia, se accanto a Torino mettessimo Genova, Milano e la Lombardia, il Veneto, Napoli e via via i tanti territori dove l’antagonismo operaio si è manifestato nella sua interezza. Forse verrebbe esaltata la sua esemplarità ma forse verrebbe anche relativizzato il suo ruolo.

Chi era Prospero Gallinari?

prospero-gallinari-2Nelle cronache televisive e giornalistiche di questi giorni la figura di Prospero Gallinari è stata descritta come quella di un personaggio ambiguo e reticente, morto portando con sé (supposti) «segreti e misteri sul caso Moro». Un’accusa che serve a sorreggere un’antica calunnia: questi silenzi sarebbero stati la merce di scambio per uscire dal carcere. Una tesi che Miguel Gotor ha largamente sostenuto nel suo Il Memoriale della Repubblica, Einaudi 2011, cadendo tuttavia in palesi contraddizioni.
Mario Moretti è da 32 anni in stato detentivo, semilibero dal 1997, anche se Gotor con una grossolana imprecisione scrive che è libero dal 1994. Un errore importante poiché su questa grave inesattezza poggia l’intera impalcatura del suo teorema.
Gallinari, come abbiamo visto (leggi qui) era agli arresti domiciliari per gravi motivi di salute che lo rendevano incompatibile alla detenzione; Rita Algranati è in carcere. Due presunti componenti del commando che operò in via Fani sono all’estero. Uno di questi, Alvaro Lojacono, ha scontato la pena in Svizzera. Tutti gli altri, a 34 anni dai fatti (una distanza senza precedenti nella storia d’Italia e nel resto d’Europa), hanno terminato le loro condanne: chi perché essendosi dissociato ha usufruito da tempo di ampi sconti di pena; chi perché alla fine del lungo percorso penitenziario ha avuto accesso alla liberazione condizionale.

A queste accuse ha risposto Francesco Piccioni in una intervista apparsa su Contropiano (leggi qui).
Altri commentatori hanno poi offerto delle raffigurazioni grottesce e caricaturali di Gallinari, dipinto come uno «stalinista», pronto a sacrificare chiunque se il disegno superiore della rivoluzione lo avesse richiesto (Andrea Colombo), personaggio spietato, sospetto agente del Kgb, adepto della scuola del comunismo sovietico (Fasanella), dove avrebbe «imparato a coniugare la durezza ideologica con la disponibilità al compromesso, la rivendicazione orgogliosa delle proprie scelte, anche quelle più tragiche, con la tendenza a scendere a patti con il diavolo» (sempre Fasanella).
Ma chi era veramente Prospero Gallinari? Senza avere la pretesa di essere esaustivo, questo scambio che ho avuto in queste ore con Andrea Colombo dopo un suo articolo apparso sul sito online de Gli Altri, può aiutare a capirne qualcosa di più

Caro Andrea Colombo,
ripeto, il tuo pezzo poteva essere bello perché capace di cogliere alcuni aspetti decisivi della personalità di Prospero Gallinari e soprattutto di ricordare come non si sia mai fatto estorcere – come ha recentemente sottolineato Scalzone – “nessuna confessione d’innocenza” di fronte all’accusa rivelatasi alla fine inesatta di essere stato l’esecutore materiale di Moro, nonostante ciò l’avrebbe probabilmente aiutato ad uscire molto prima dal carcere per le sue difficilissime condizioni di salute.
Caratteristiche che tu però hai confinato unicamente alla dimensione umana del personaggio, mentre in una sorta di chiaroscuro ne hai demonizzato quella politica, dandogli dello “stalinista”.

Cito: «era un rivoluzionario generoso e di animo buono, ma era anche uno stalinista, uno di quelli che se il partito glielo avesse ordinato ti avrebbe eliminato, con le lacrime agli occhi ma senza esitare, convinto che questo fosse il suo dovere di rivoluzionario e di soldato della guerra di classe. Quella spietatezza politica era inaccettabile, certo, ma Prospero la condivideva con migliaia e migliaia di militanti dei suoi tempi. Che non erano i nostri, perché Prospero Gallinari era davvero un uomo e un rivoluzionario e un comunista “d’altri tempi”.
Affermazione che fa il paio con quella precedente, “Con noi, ragazzi di movimento, che negli anni ’70 il Pci lo odiavamo e lo combattevamo aveva pochissimo a che spartire. […]Ci guardava con sospetto, come quasi tutti i brigatisti, operai e contadini la cui continuità con la tradizione comunista era molto più ferrea della nostra».

Mi riferivo, con tutta evidenza a questi infelici passaggi quando ho accennato a quel dizionario dei luoghi comuni nel quale alla fine sei inevitabilmente scivolato. E mi sembra che nella replica tu abbia colto perfettamente il senso della mia critica, imbarcandoti tuttavia in un tentativo di precisazione del senso che attribuivi al termine “stalinismo” che non solo non rende giustizia a Prospero, ma trasforma questa categoria in una sorta di concetto metastorico del tutto fuorviante.

Andiamo per ordine: sostieni che la risposta di Gallinari su Tienanmen sarebbe un dettaglio banale! A me non sembra proprio, al contrario la trovo dirimente. Tu invece lasci ingiustamente pensare che sia stato un escamotage intelligente per dissimulare un’identità in quel momento impopolare. E la cosa, se mi permetti, è ancora più offensiva per la memoria di Prospero perché oltre a dargli dello stalinista gli dai pure del dissimulatore.

Le Br, nel bene o nel male, hanno sempre detto quello che sono state e sono sempre state quello che hanno detto. Se avessero appoggiato il “socialismo di mercato” cinese, come accade per tutte le varie tendenze con venature rosso-brune, nazional-bolsceviche, identitarie e comunitariste, che ormai dilagano ben oltre gli ambienti veterocomunisti, in quel momento l’avrebbero sostenuto senza problemi.
Ma la loro storia ci dice che hanno tentato di rappresentare l’opposto.

Nella tua replica introduci con molta leggerezza una equivalenza tra terzointernazionalismo e stalinismo per poi affermare che “voi”, cioè noi brigatisti di più generazioni, saremmo stati gli epigoni di quella cultura politica.
Capisco che nella tua affermazione sia contenuta una carica polemica antica derivante dalla tua originaria appartenenza ad una delle componenti dell’operaismo che si è sempre narrata come l’unica legittima rappresentante di quella storia, in realtà molto complessa, e si è autoincensata come l’antitesi intelligente e moderna, rivale e alternativa alle culture considerate “vetero” presenti nel resto del movimento, anzi “esterne” al movimento come vi piaceva tanto dire delle Brigate rosse.

Per fortuna, caro Andrea, la storia è ben più complessa, articolata, carica di sfumature e sorprendenti smentite. Dovreste liberarvi, tu e i tuoi amici postoperaisti e postnegriani, da certe leggende ideologiche, uscire dalle narrazioni autocelebrative e calarvi all’interno di una visione più laica degli anni 70, che alcune ricerche sociologiche sull’origine politica-ideologica dei militanti della lotta armata, e delle Brigate rosse in particolare, già consentono.

Da tempo questi dati ci dicono che il grosso dei militanti della lotta armata viene dal filone operaista, comprese le Br che pure, a differenza di altre formazioni armate più omogenee, hanno avuto una composizione socio-ideologica molto eclettica che nei 19 anni della loro storia ha reclutato nelle aree politiche più disparate, subendo anche influenze legate al peso delle diverse generazioni che vi affluivano.

Se le Br fossero state soltanto quella sorta di cartolina di Épinal in salsa emiliana legata alla vicenda del gruppo dell’appartamento o dei trentini della facoltà di sociologia, sarebbero finite con la trappola di Girotto-frate Mitra. Quella emiliana fu una enclave mitizzata e mediatizzata a cui crede ormai solo quel cospirazionista attardato di Fasanella, anche perché per anni molti di quel gruppo hanno rappresentato la parte visibile dell’organizzazione, quella finita in carcere.

In realtà l’insediamento più grosso e strutturale stava nelle fabbriche del triangolo industriale, proveniva dall’esperienza dei Cub, era l’anima operaia, quell’operaio massa nuovo e sovversivo.
Ma ciò che ha fatto sopravvivere questo gruppo per quasi due decenni è stata la capacità di uscire anche dalla fabbrica, radicarsi nel territorio, insediarsi nelle periferie romane e milanesi, fino a Napoli.
Nelle Br non confluiscono solo ex Fgci (fatto anche generazionale. Chi era giovane nei primi anni 60 passava da lì come avvenne per alcuni fondatori di Potop), qualcuno, o pezzi del gruppo feltrinelliano, ma comunisti libertari come Faina, larghe fette di Potere operaio, meno di Lc, maoisti, quelli prima confluiti per Potop (altri ex mao confluiti in Potop fondano gruppi armati concorrenti) e altri ancora, e poi quel magma definito genericamente Autonomia, prima e dopo il 77.
Il reclutamento in una città come Roma, soprattutto nella zona periferica sud-est, si prolunga fino alla metà degli anni 80.

Che il terzointernazionalismo non sia riassumibile nello stalinismo lo si deve affermare per rispetto delle altre famiglie del comunismo internazionale. Quanto meno avresti dovuto prendere delle precauzioni periodizzando. I troskisti, i bordighisti, per citarne solo alcune, sono a pieno titolo figli di quella tradizione.
Senza dover citare Revelli, quella proiezione verso l’assoluto del fine che giustifica ogni mezzo non è propria solo dello stalinismo, che l’ha portata alla sua aberrazione massima, all’abisso senza ritorno. E’ insita in molte altre culture non solo del comunismo rivoluzionario, in quelle leniniste, nel troskismo, nella tradizione anarchica, ma e propria anche delle culture nazionaliste e fasciste, appartiene – lo sai meglio di me – alla grande avventura sionista tuttora in corso.
Aggiungo che non manca nemmeno nelle esperienze dell’operaismo armato: devo forse ricordare le gesta di Segio o le imprese di Fioroni?

Si da il caso che nella biografia di Prospero Gallinari non troverai nulla di tutto ciò!

Ecco appunto, torniamo a Prospero. La sua cultura è un must particolare, originale, che ha delle similitudini con gli altri emiliani ma non è sovrapponibile a quella di altri dirigenti brigatisti come Moretti, Curcio, Senzani, Balzerani, Guagliardo, per stare al gioco dei nomi conosciuti.

Un comunismo contadino che mette radici nell’Emilia profonda, che ha legami forti con la memoria della Resistenza in una zona segnata duramente dalla guerra civile (legami giustificati anche dalla vicinanza anagrafica), nella quale è presente la tradizione insurrezionalista, con elementi secchiani e dunque certamente di scuola “emmelle”, ma che si intrecciano pure con l’opposizione ingraiana. Un sostrato che si misura, e qui sta l’intelligenza e l’originalità del percorso di Gallinari, con le nuove culture sovversive della metropoli degli anni 70: quella operaia prima e quella delle periferie urbane dopo.

Posso capire cosa c’entra tutto ciò con lo stalinismo?

Ti sei mai chiesto come sia stato possibile che uno come Gallinari abbia di fatto installato, fatto crescere, dato basi solidissime alla colonna romana, la colonna terziaria per definizione, quella sociologicamente più negriana…. Quella dell’operaio sociale, dei disoccupati, dei borgatari, degli studenti, dei lavoratori dei servizi, dei ferrovieri.
Chi mai tra questi giovani, Gallinari avrebbe guardato con sospetto, come sostieni?

Solo una persona con una grande duttilità, una enorme capacità di ascolto e di adattamento avrebbe potuto “accudire” quel fiume di giovani che volevano entrare nell’organizzazione.

Le tue, Andrea, sono incrostazioni ideologiche, pregiudizi che non reggono alla luce dei fatti e di cui faresti bene a liberarti.

Non c’è stata organizzazione meno terzointernazionalista delle Br, questo è il punto. Forse alcuni accenti del genere riapparvero nell’aspro dibattito interno che divise quanto restava delle Br-pcc alla metà degli anni 80, ma era un momento in cui la voglia di tirare bilanci e rifondare tutto spingeva a cercare spunti ovunque. Durò poco.

La Brigate rosse, in realtà, hanno innovato, praticando un’eresia organizzativa ed ideologica. Guardavano agli esempi della guerriglia urbana metropolitana, Marighella e non il Che. Antileniniste sul piano dell’organizzazione, rifiutavano il modello del doppio livello, legale e illegale, della separazione tra direzione politica e braccio armato propugnando l’unificazione tra politico e militare, con un discorso che traeva coerenza dal rifiuto della divisione del lavoro manuale e intellettuale.

Nelle Br non esistevano i capi che mandavano i gregari a sporcarsi le mani, l’intellettuale che dava la linea e gli altri che eseguivano. Il dirigente andava in prima linea, non diceva armiamoci e partite per poi giustificarsi, come fece un certo professore, dicendo: “hanno capito male i miei libri”. Era moralismo rivoluzionario? Probabile.
Comunque si trattava di una formula organizzativa differente da quelle di altre formazioni di matrice operista ortodossa che invece praticarono senza problemi questa dualità tipicamente terzointernazionalista.

Vengo infine all’ultima parte, lì dove affermi che Prospero era uno di quelli, «che se il partito glielo avesse ordinato ti avrebbe eliminato, con le lacrime agli occhi ma senza esitare, convinto che questo fosse il suo dovere di rivoluzionario e di soldato della guerra di classe. Quella spietatezza politica era inaccettabile, certo, ma Prospero la condivideva con migliaia e migliaia di militanti dei suoi tempi».

Qui siamo alla calunnia bella e buona. Diversa solo nello stile dalle parole che ha scritto Fasanella su Panorama.
Dovresti rileggere quanto ha ricordato Lanfranco Pace in una intervista apparsa sul Foglio di questi giorni sull’atteggiamento misurato con il quale Gallinari gestì la grave crisi provocata dal modo in cui Morucci e Faranda uscirono dalle Br, rubando parte dell’arsenale militare dell’organizzazione. Un comportamento gravissimo, definito allora “banditesco” e che nella storia delle organizzazioni rivoluzionarie ha sempre provocato l’eliminazione dei responsabili.

Nelle Br esisteva una prassi che consentiva a chiunque fosse in crisi o in disaccordo di andare via dall’organizzazione se avesse voluto, ritirandosi a vita privata se era ancora possibile. Quando chi usciva era già latitante, otteneva in dotazione l’arma personale, dei soldi e un minimo di aiuto logistico, a rischio – come avvenne molte volte – di cadere in trappole micidiali tese dalla polizia. Nessuno veniva messo alla porta, gettato in strada.

Morucci e Faranda non si accontentarono di ciò, ebbero un comportamento “poco leale”, nonostante ciò quella vicenda venne ricondotta da Gallinari all’interno di una gestione politica del dissenso. Giudizi molto duri ma nessuna rappresaglia. Aggiungo che a minacciare Morucci in carcere furono altri personaggi, no sto qui a fare il nome, ma sai benissimo di chi parlo.

E visto che parliamo di Morucci ricordo – come da egli stesso raccontato nei suoi libri – che fu lui e non certo Gallinari ad intrattenere rapporti molto stretti con Feltrinelli, quando era ancora responsabile del lavoro illegale di Potere operaio (e le Br erano appena un piccolo gruppetto), fino ad avere quasi una doppia appartenenza.
Feltrinelli aveva rapporti internazionali di peso, non solo con Cuba e le guerriglie sud americane ma anche con il blocco orientale. Perché mai allora l’etichetta di stalinista non ricade su di lui ma l’appiccichi a Gallinari? E perché mai è lui che dovrebbe rispondere della leggenda del superclan come va dicendo Fasanella?

Concludo ricordando il ruolo e il comportamento tenuto da Prospero negli anni di carcere anche nei momenti di massima tensione interna alle Br o con altri gruppi (7 aprile, movimento della dissociazione), sempre improntato a ricondurre sul piano del confronto politico, anche aspro ma sempre politico, le divergenze, le rotture, lontano da qualsiasi sopraffazione fisica.

Basta leggere le sue memorie, il rammarico con cui racconta gli anni bui delle rese di conti che nel clima allucinato delle carceri speciali portò tronconi scissionisti delle Br a scagliarsi contro altri pezzi della stessa organizzazione, scatenando una guerra contro le proprie ombre, alla ricerca del capro espiatorio di turno.
Gallinari difese quelli che avevano ceduto sotto la pressione degli interrogatori o delle torture dando prova di saggezza, umanità, buon senso, grande lungimiranza politica e umana.

Un grande dirigente, il cui atteggiamento restio ad entrare nei dettagli era una questione di stile non di reticenza. Un vecchio stile comunista, misurato, asciutto, che si sforzava di trattenere i sentimenti, di mettere in avanti sempre la lucidità.

Paolo Persichetti

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E’ morto il br Prospero Gallinari: era generoso, altruista, coraggioso

Andrea Colombo
Gli Altri online 14 gennaio 2013

Prospero Gallinari era una persona meravigliosa. Molti lo sanno ma temo che pochi lo scriveranno. Invece è bene che sia detto. Era generoso, altruista, coraggioso. Era uno di quelli di cui si dice “col cuore grande” e forse non è solo un caso che alla fine, dopo una lotta lunghissima, proprio il cuore lo abbia fregato.
Certo, Prospero ha sparato, Prospero ha ucciso. Tecnicamente Prospero è stato un assassino. Ma chiunque lo abbia conosciuto anche solo di sfuggita sa perfettamente che questa verità è bugiarda. Non rende neppur minimamente ragione della vita e dell’animo di Prospero Gallinari.
Era un uomo d’altri tempi. Un militante comunista di quelli che per due secoli hanno fatto la storia. Un partigiano nato per caso a guerra finita. Da ragazzo si faceva chilometri a piedi per andarsi a leggere l’Unità nel bar del paese più vicino alla fattoria in cui era cresciuto. Da uomo fatto era ancora quel ragazzo.
Con noi, ragazzi di movimento, che negli anni ’70 il Pci lo odiavamo e lo combattevamo aveva pochissimo a che spartire. «Io – mi ha detto una volta – sono sempre stato un militante del Partito comunista italiano e, anche se ti sembrerà strano, in tutte le organizzazioni di cui ho fatto parte ho sempre rappresentato l’ala moderata». Ci guardava con sospetto, come quasi tutti i brigatisti, operai e contadini la cui continuità con la tradizione comunista era molto più ferrea della nostra.
Per anni e anni Gallinari è rimasto in galera col cuore sempre più malconcio, passando da un infarto a un altro. Avrebbe avuto il diritto di scontare la pena fuori da quelle mura, con un male così grave. Non gli veniva consentito solo perché era considerato, a torto, l’uomo che aveva ucciso Aldo Moro. Avesse detto che no, non era vero, che si assumeva tutte le responsabilità di quell’esecuzione atroce ma a sparare non era stato lui, lo avrebbero tirato fuori subito. Nessuno osò mai proporgli un gesto simile. Sarebbe bastato a farsi togliere per sempre la parola.
Gallinari sarebbe morto in galera senza un fiato se Mario Moretti, nel suo libro-intervista a Riossana Rossanda e Carla Mosca, non avesse dettio che a uccidere, in quel garage di via Montalcini, era stato lui. Tutti gli impedimenti che fino a quel momento avevano reso impossibile la sua scarcerazione caddero come per miracolo.
Sia chiaro, Prospero era un rivoluzionario generoso e di animo buono, ma era anche uno stalinista, uno di quelli che se il partito glielo avesse ordinato ti avrebbe eliminato, con le lacrime agli occhi ma senza esitare, convinto che questo fosse il suo dovere di rivoluzionario e di soldato della guerra di classe. Quella spietatezza politica era inaccettabile, certo, ma Prospero la condivideva con migliaia e migliaia di militanti dei suoi tempi. Che non erano i nostri, perché Prospero Gallinari era davvero un uomo e un rivoluzionario e un comunista “d’altri tempi”.
Credo che a tutti quelli che lo hanno conosciuto, per quanto lontanissimi fossero dalle sue scelte, per quanto severamente lo possano aver criticato, mancherà moltissimo.

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Replica di Paolo Persichetti
15 gennaio 2013 at 19:52

C’è un episodio sconosciuto che vorrei raccontare: nel 1989 erano in corso nell’aula bunker di Rebibbia diversi maxi processi; l’appello del Moro ter, quello per insurrezione contro i poteri dello Stato, oltre a quello contro le Br-Udcc nel quale ero imputato. In quel momento si discuteva molto di soluzione politica, c’erano settori dello Stato che volevano chiudere la vicenda della lotta armata. L’atteggiamento dei media verso i prigionieri politici era cambiato e così accadeva che ogni tanto ci veniva offerta la parola. In una pausa delle udienze, il giornalista Ennio Remondino intervistò Prospero Gallinari e tra le diverse domande gli chiese anche con chi stessero i prigionieri delle Br: con il governo cinese, che aveva inviato i carri armati in piazza, o con i manifestanti di Tienamen? «Con gli occupanti della piazza, e con chi se no?», fu la risposta di Gallinari. Naturalmente Bruno Vespa, allora direttore del Tg1, tagliò quella frase che smontava uno dei cliché più classici e mistificatori incollati sulla pelle dei militanti della lotta armata.
Caro Andrea hai fatto la fine di Vespa. Peccato che il tuo pezzo molto bello sia alla fine scivolato nel dizionario dei luoghi comuni.

Paolo Persichetti

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Replica di Andrea Colombo
15 gennaio 2013 at 20:50

Caro Paolo, mi sono riletto il pezzo, scritto molto a caldo, per rintracciare gli eventuali luoghi comuni. Non sono sicuro che ci siano, anche se come medium internet non agevola l’approfondimento. Cmq provo a spiegarmi. Non sapevo di quella domanda di Ennio Remondino, ma non avrei avuto alcun dubbio sulla risposta di Prospero. Però, scusa, che c’azzecca? Se Prospero fosse stato con il Pcc, in quell’occasione, non sarebbe stato stalinista ma stupido, e non lo era.
Mi riferivo a qualcosa di meno banale, più tragico, per certi versi anche più funesto. Una intera generazione di comunisti, quella terzinternazionalista, ha accettato parecchie aberrazioni, sapendo che erano tali, dunque soffrendole, perché questo era l’interesse del partito e, dunque, della rivoluzione. Esempio non brigatista e non sanguinolento: quando il Pci decise di estromettere Giuliano Pajetta, la cui sola colpa era quella di aver fatto la resistenza in Jugoslavia, Giancarlo sapeva perfettamente che si trattava di una feroce ingiustizia e che suo fratello fosse oggetto di quella ingiustizia che gli rovinò la vita non lo faceva certo felice. Ma scelse di tacere perché questo chiedeva il partito, cioè la rivoluzione. Di esempi simili ce ne sono letteralmente migliaia: quello era lo stalinismo. Era atroce, era in qualche misura “inumano” ma aveva una sua altrettanto atroce nobiltà. Voi, secondo me, siete stati gli ultimi epigoni di quella cultura.
Non sarò reticente: so perfettamente che tutti gli inquilini di via Montalcini soffrirono come cani il 9 maggio del 1978. Però scesero lo stesso in garage perché ritenevano che questo chiedesse, anzi imponesse, la rivoluzione. Quella contraddizione è tragica e secondo me voi, magari non sempre essendone coscienti, la avete vissuta più di chiunque altro in quegli anni. E Prospero, credo, persino più degli altri.
Questo volevo dire, e non sono convinto, ripeto, che sia un luogo comune.

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Steve Wright, per una storia dell’operaismo

Recensioni – Dobbiamo a Steve Wright, noto studioso australiano dei movimenti della seconda metà del Novecento, questo volume che disegna la parabola di Classe Operaia. L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo (postfazione di Riccardo Bellofiore e Massimiliano Tomba, Edizioni Alegre, Roma 2008, pp. 334, euro 20) (1964-67), Potere Operaio (1969-73) e dell’Autonomia operaia (1973-79

Ferruccio Gambino
Liberazione
17 ottobre 2008


Alla prima edizione inglese del 2002 è seguita l’edizione tedesca del 2005 e adesso quella italiana, nella traduzione di Willer Montefusco, grazie al rinnovato interesse per l’operaismo, come osservano Bellofiore e Tomba nella loro postfazione. Steve Wright ricostruisce questa vicenda che troppo a lungo era rimasta affidata alle arringhe di vari magistrati, a parte il notevole contributo di Franco Berardi (La nefasta utopia di Potere Operaio, Castelvecchi, 2003) e ci offre un’interpretazione documentata e originale del dibattito che ha segnato l’operaismo negli anni ’60 e ’70.
Quando si dice operaismo, occorre chiarire. In Italia di operaismi ne sono comparsi almeno tre: prima è venuto l’operaismo di chi si batteva contro questo lavoro e contro l’insensatezza di questo sistema di accumulazione; poi l’operaismo di quanti cercavano di introdurre nuove tematiche operaie nelle istituzioni del movimento operaio; infine l’operaismo di coloro che, reclutando una base militare nelle fabbriche, intendevano costruire un partito armato di ispirazione bolscevica. Chiamo il primo, operaismo anti-accumulativo; il secondo, operaismo istituzionale, il terzo, operaismo reclutativo.
In questo volume, Steve Wright si occupa del primo dei tre operaismi, di gran lunga il più originale. L’autore dedica i due capitoli iniziali alle difficili condizioni in cui quella sinistra che era ai margini del Pci e del Psi andava cercando la strada per uscire dalle strettoie degli anni Cinquanta, quando campeggiavano le grottesche contrapposizioni dei due blocchi nella Guerra fredda. La figura centrale di quella ricerca fu Raniero Panzieri. Il suo programma, «restituire il marxismo al suo naturale terreno che è il terreno della critica permanente», trovava attenzione perlopiù tra una minoranza di giovani intellettuali che gravitavano attorno ai due partiti di sinistra o che avevano sperimentato strategie di non-violenza, ad esempio Goffredo Fofi, Mauro Gobbini, Giovanni Mottura. Come aveva visto Franco Fortini, ben poche forze politiche sembravano disponibili a mettersi in gioco contro l’irreggimentazione con la quale si trasferivano dalle campagne all’industria in Italia e all’estero milioni di individui alla ricerca di un salario, in un processo che i padroni del vapore e il partito della Democrazia cristiana promuovevano sovente con modalità di compromesso tra dormitorio e caserma. Delle dure condizioni in cui questi migranti interni lavoravano nell’industria si conosceva ben poco e quel poco non era argomento da menzionare nell’arena politica.


Con Quaderni Rossi, la rivista diretta da Panzieri, l’incantesimo si ruppe. I tempi e i modi dello sfruttamento industriale entravano finalmente nel dibattito pubblico: a cominciare dalla condizione operaia nella città-fabbrica di Torino. Wright rintraccia giustamente nella categoria di “composizione di classe” il filo rosso dell’esperienza dell’operaismo dei Quaderni Rossi e poi del gruppo che se ne distacca per fondare nel 1964 la rivista Classe Operaia. L’autore non segue il percorso dei Quaderni Rossi dopo tale scissione, ma occorre ricordare che il lavoro della rivista diretta da Vittorio Rieser avrebbe continuato a fornire elementi indispensabili di conoscenza ai giovani militanti che affrontavano l’intervento nelle fabbriche alla fine degli anni Sessanta.
Classe Operaia
era un esperimento che cominciava negando alla classe operaia in Italia il carattere di «compatta massa sociale». Semmai, l’omogeneità «è un obiettivo per cui lottare», ma soltanto a patto di prendere posizione nel conflitto e rilevare dall’interno «l’estrema differenziazione fra i livelli dello sfruttamento capitalistico nelle varie zone, settori, aziende», come scriveva Romano Alquati nel 1965. Wright pone in primo piano il contributo di Mario Tronti, direttore di Classe Operaia, secondo il quale il Marx ossificato dagli economisti dello sviluppo e scienziato dei movimenti del capitale ha troppo a lungo occultato il Marx della rivoluzione contro il capitale e del primato dell’iniziativa di parte operaia. Abbandonate le vecchie certezze dei partiti di sinistra, la navigazione diventava incerta. Nella fase dei Quaderni Rossi avevano soccorso gli scritti di alcuni sociologi industriali statunitensi che non erano allineati con la sociologia dominante, Alvin Gouldner in particolare; ma per il resto era necessario, volenti o nolenti, camminare su terreno inesplorato, mostrando, ad esempio, che la proletarizzazione in Italia era parte di una tendenza  mondiale e che in tale processo era già avvenuta qualche grande rottura della pretesa armonia socialista, come nell’Insurrezione ungherese del 1956. Per quante forze si riuscisse a mettere in campo in Italia contro l’asserita inesorabilità della marcia capitalistica, c’era chi in Classe Operaia si rendeva conto che i partiti di sinistra risultavano arnesi spuntati e che occorreva cercare anche in altri paesi esperienze di lotta contro lo stato delle cose.


La chiusura dell’esperimento di Classe Operaia, chiusura decisa dalla direzione che poi sarebbe rientrata nel Pci, lasciava perplessi parecchi militanti. Dopo un lungo 1967, finalmente il ’68  internazionale e il ’69 italiano confermavano che si poteva fare politica fuori dalle istituzioni del movimento operaio. Ancora oggi pochi rilevano tuttavia che queste insorgenze si manifestano quando la Rivolta afro-americana e operaia di Detroit dell’estate del 1967 è già stata repressa nel sangue dall’Ottantaduesima divisione aerotrasportata. Sarebbe il caso di rammentarlo almeno a coloro che cantano le meraviglie dei cosiddetti Trent’anni Gloriosi (1946-1975), quando, a  loro dire, la classe operaia se la spassava nello Stato del benessere. Wright riannoda i fili del dibattito legato agli eventi del 1968-69 con cui i resti di Classe Operaia che non rientrarono nei ranghi della sinistra costituirono il gruppo di Potere Operaio. Si trattava di militanti che maturarono questa decisione grazie soprattutto all’opera di orientamento e all’azione politica di Toni Negri e di altri attivisti quali Guido Bianchini e Luciano Ferrari Bravo, che si erano  raccolti attorno al periodico Potere Operaio veneto-emiliano nella fase di chiusura di Classe Operaia. Sul gruppo di Potere Operaio è scorso molto inchiostro, prevalentemente per mano sia dei pubblici ministeri dei processi intentati contro i militanti di Potere Operaio sia dei loro epigoni. Per contro, Wright riesce a calibrare il racconto e il giudizio mostrando le linee di convergenza e di collisione delle varie – e in alcuni casi eterogenee – componenti già attive che entrano in Potere Operaio.
Va aggiunto che quando esce il primo numero del periodico omonimo (settembre 1969), la situazione va chiudendosi a livello internazionale in Occidente, anche se meno pesantemente di quanto era avvenuto nelle repubbliche popolari con i carri armati sovietici a Praga (agosto 1968). Potere Operaio si trova stretto tra la repressione strisciante di suoi militanti in fabbrica e la legittimazione del sindacato da parte padronale e statale dopo l’approvazione dello Statuto dei lavoratori (1970). Analogamente a quanto era già successo altrove, l’esodo da Potere Operaio di un intero gruppo di femministe sposta altrove un dibattito che andava già evolvendo fuori dagli schemi tradizionali e che non manca di riverberarsi su quasi tutte le altre formazioni politiche. Quanto alle iniziative a proposito del Mezzogiorno, Potere Operaio si sottrae alla soluzione facile dell’organizzazione del malcontento e punta a formare quadri  capaci di sostenere lotte di lungo corso, per le quali tuttavia i partiti tradizionali sembrano ancora offrire più convincenti  garanzie contro l’isolamento. Lontana purtroppo dai riflettori mediatici ma insistente, anche se timida, rimane la battaglia ecologista che si situa sulla difensiva come lotta operaia contro la nocività industriale e la monetizzazione della salute.


A livello di politica generale, in quegli anni l’uso spregiudicato della Cassa integrazione guadagni, le ristrutturazioni industriali, la diffusione della piccola fabbrica per aggirare lo Statuto dei lavoratori e le scelte urbanistiche si allineavano alle scelte strategiche del capitale industriale che in altri paesi tendevano a rendere obsolete intere sezioni di combattiva classe operaia, come nella Ruhr o in Michigan. A questo proposito, l’antologia curata da Luciano Ferrari Bravo, Imperialismo e classe operaia multinazionale (Feltrinelli 1975) costituiva una notevole anticipazione nella comprensione delle tendenze globali. Le misure di dislocazione industriale e di relativi ammortizzatori sociali sembravano aver poco a che fare con la strategia della tensione e con lo stragismo di Stato (va ricordato, tra l’altro, il prezzo pesante in termini di repressione che nel dicembre del 1971 Potere Operaio pagò, da solo, per la prima manifestazione milanese di massa nell’anniversario della strage di Piazza Fontana). In realtà, in quegli anni era massiccia la combinazione di dosi di paura e di blandizie che le sfere dirigenti riuscivano a rovesciare sul campo dove si giocavano i rapporti di forza con le  “classi pericolose”, al punto che non si esitava ad allentare le cordicelle della spesa pubblica sino alla voragine del debito degli anni Ottanta. All’interno di Potere Operaio, come nota Wright, le divergenze decisive riguardarono allora il peso da attribuire alle mosse dell’avversario. E qui avvennero i primi abbandoni e, ancor più gravemente, si insinuò la tentazione bolscevica dei due momenti, di avanguardia e di massa. E’ forse in questa dissociazione, la quale, come osservò allora Mario Dalmaviva, non veniva legittimata dagli sfruttati, che si collocava la figura che avrebbe dovuto tenere insieme avanguardia e massa, quella dell’operaio sociale di Toni Negri (capitolo 7). Intanto avanzava tutt’altro operaismo, quello reclutativo, che, dando come ormai perso il “popolo teleguidato”, scopriva la fabbrica come  campo di selezione del partito armato.


Wright dedica i due capitoli finali alla storiografia dell’operaio massa e al collasso dell’operaismo. Nel primo, egli esamina i lavori di Sergio Bologna, Karl Heinz Roth e di altri e passa in rassegna i temi della rivista Primo Maggio. Nel secondo, sono presentate le alternative tra i propugnatori della guerra civile e i libertari che si scontrano nel settembre del 1977 a Bologna. I primi avranno la meglio all’interno di quanto rimane della sinistra extraparlamentare, mentre le minoritarie ragioni dell’operaismo vengono tenacemente difese dai Comitati autonomi operai di Roma. Poi, l’ondata di arresti abbattutasi il 7 aprile del 1979 e nei mesi successivi sui militanti di Potere Operaio semplifica, per così dire, il dibattito  ponendo ai militanti la vecchia domanda: “da che parte stai?”. Il dibattito operaista passerà attraverso il laminatoio della  galera e dell’esilio, manifestando così una sua singolare vocazione cosmopolitica. Per sua fortuna, e anche per merito di Steve Wright, esso è quasi sempre rimasto lontano dal libero mercato delle idee.