Il pene della Repubblica, il sequestro Dozier e altre storie 

Ancora un articolo di Pino Narducci (il precedente lo potete leggere qui), magistrato e ricercatore, sull’impiego della tortura nell’azione di contrasto ai gruppi armati dell’estrema sinistra nei primissimi anni 80, ospitato sulla rivista di Magistratura democratica. Ho già scritto molto anche se non a sufficienza su questo tema (su questo blog potrete trovare molto materiale). Aggiungo solo una cosa prima di lasciarvi alla lettura di questo articolo: Cesare Di Lenardo, una delle persone di cui si parla in questo testo, miltante delle Brigate rosse arrestato nel blitz che portò alla liberazione del generale americano James Lee Dozier, selvaggiamente torturato (la foto qui sotto è presa dalla perizia medica che venne svolta durante le indagini), è ancora in carcere nonostante i 43 anni trascorsi.

di Pino Narducci
presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia

«Dovevamo arrestarci l’un con l’altro», www.questionegiustizia.it, 29 gennaio 2024

Nell’appartamento veronese entrano in quattro, travestiti da idraulici. Tengono la donna sotto il tiro di una pistola, la immobilizzano ed escono con l’ostaggio nascosto in un baule, caricandolo su un pulmino che è rimasto in attesa in strada. Poi, via, di gran corsa, verso Padova dove è stata allestita la base in cui il prigioniero resterà per più di 40 giorni[1].

È il 17 dicembre 1981 e, con il sequestro di James Lee Dozier, generale statunitense NATO[2], le Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente realizzano l’azione più spettacolare di una storia iniziata appena pochi mesi prima, dopo la cattura di Mario Moretti[3].

Durante la fase del rapimento uno dei sequestratori parlava uno “slang” americano, così scrivono i giornali dell’epoca, e quindi, lo scenario è quello di una operazione in cui gli attori non possono essere soltanto i brigatisti italiani. Anzi, la foto del sequestrato diffusa dalle BR-PCC è un fotomontaggio e questo vuol dire che Dozier già si trova all’estero, forse dopo aver viaggiato su uno dei tanti TIR che vanno e vengono dall’Austria. I cronisti sono pronti a scommettere che il rapimento è opera di una centrale europea del terrorismo che comprende le BR, la RAF tedesca, l’ETA basca e l’IRA, organizzazioni che si sono incontrate in riunioni sul lago di Garda e in Svizzera. Insomma, un turbinio di improbabili ipotesi e di vere e proprie bufale.

È vero invece che, a Roma, arrivano alcuni agenti CIA e che il Ministero dell’Interno, guidato dal democristiano Virginio Rognoni, seleziona il nucleo di funzionari che dovrà coordinare le indagini nel Veneto: Umberto Improta, Oscar Fioriolli, Salvatore Genova e Luciano De Gregori. 

Nella Questura di Verona, Gaspare De Francisci, il capo dell’UCIGOS (Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali), convoca la squadra messa in piedi dal Viminale. L’Italia non può perdere la faccia e, quindi, secondo ordini che vengono dall’alto, per trovare Dozier si potrà usare qualsiasi mezzo, anche le maniere forti. Nessun timore, rassicura De Francisci, perché, se qualcuno resterà invischiato in una storia di violenza, godrà di una sicura copertura, politica ed istituzionale.

Finalmente può partire la caccia ai rapitori del generale e, questa volta, è consentito ogni metodo per estorcere informazioni.

Il giorno dopo arriva a Verona il funzionario dell’UCIGOS Nicola Ciocia (il professor De Tormentis secondo la definizione che gli è stata affibbiata da Improta), lo specialista, con la sua squadra dei “cinque dell’Ave Maria”, delle sevizie che servono a far parlare. Ha già torturato, nel maggio ’78, Enrico Triaca, il tipografo brigatista di via Pio Foà a Roma[4] e questa volta, finalmente, può agire senza adottare particolari precauzioni perché la sorte di coloro che saranno arrestati, veri o presunti brigatisti che siano, è stata decisa dall’alto: se non parlano subito, magari dopo schiaffi e pugni, saranno torturati.

Ciocia resta in Veneto solo qualche giorno. Poi corre a Roma dove sono stati arrestati, il 3 gennaio ’82, Stefano Petrella ed Ennio Di Rocco, membri delle BR-Partito Guerriglia, per fare loro quello che ha già fatto a Triaca.

Dozier è tenuto al sicuro in un appartamento, in via Ippolito Pindemonte, all’interno del quale è stata collocata una tenda in cui vive il prigioniero. 

Ma gli uomini del Viminale non hanno alcuna idea del luogo in cui possa trovarsi né della identità dei brigatisti. E le centinaia di telefoni messi sotto controllo non possono certo condurre alla prigione del generale. Non resta che prelevare le persone, interrogarle e, soprattutto, affidarsi, come già faceva l’inquisizione, alle sedute di tortura.

Alla fine di gennaio accade a Nazareno Mantovani che viene interrogato e picchiato per prepararlo alla vera e propria seduta di tortura che è affidata a Ciocia ed alla sua squadra. I poliziotti hanno un luogo appartato per infliggere tormenti. È un villino che è stato preso in affitto dalla questura veronese. Mantovani ci arriva bendato. Ciocia ed i suoi uomini “trattano” Mantovani con acqua e il sale, ma esagerano, tanto che De Francisci interrompe la seduta dopo lo svenimento del prigioniero. 

Paolo Galati mette i poliziotti sulle tracce di una militante. Oscar Fioriolli dirige la perquisizione a casa di Elisabetta Arcangeli senza sapere che dentro ci troverà anche Ruggero Volinia, nome di battaglia “Federico”. È lui che ha guidato il pulmino con dentro Dozier da Verona a Padova.

Separati da un muro, Volinia e Arcangeli si trovano all’ultimo piano della Questura veronese. Ciascuno può sentire l’altro mentre Fioriolli li interroga ed Improta segue la scena. La brigatista, nuda, è legata mentre i poliziotti le tirano i capezzoli con una pinza e le infilano un manganello nella vagina. Dall’altra parte del muro, percuotono Volinia. Lo caricano su una macchina, lo conducono in una chiesa sconsacrata e, sottoposto ad acqua e sale dal gruppo di Ciocia, rivela il luogo in cui si trova Dozier[5].

Il 28 gennaio 1982, verso le 11:00, sette uomini del NOCS (Nucleo Operativo Centrale Sicurezza), le “teste di cuoio” della Polizia italiana, irrompono nell’appartamento di via Pindemonte. Senza difficoltà, immobilizzano i carcerieri di Dozier: Antonio Savasta, Giovanni Ciucci, Cesare Di Lenardo, Emanuela Frascella ed Emilia Libéra. 

I brigatisti vengono messi pancia a terra sul pianerottolo mentre arrivano Genova ed Improta. Sono bendati ed hanno le mani legate dietro la schiena. Rifiutano di rivelare la propria identità ed i nomi di battaglia ed allora giù calci e botte. Qualche poliziotto ritiene sia ancor più efficace camminare sopra i loro corpi. 

Alle due militanti («Sei una mignotta?» urlano i polizotti, «No!», ed allora giù calci e pugni) va ancor peggio. Abbassano la gonna ed i collant di Libéra e Frascella, sferrano calci sul pube e sul sedere, alzano la maglietta delle due donne e tirano i capezzoli del seno.

Su quel pianerottolo gli arrestati restano una infinità di tempo (sicuramente, dietro le porte dei vari piani del grande edificio, tanti ascoltano quello che sta accadendo, ma nessuno ha il coraggio di mettere la testa fuori). Poi, gli agenti NOCS portano i brigatisti nella palazzina del II reparto celere di Padova.

Il senso di impunità è talmente smisurato che il comandante del reparto scrive un ordine di servizio e non esita a mettere nero su bianco le disposizioni che dovranno essere seguite per custodire i sequestratori di Dozier, un documento che prova, prima ancora di qualsiasi testimonianza, quali metodi illegali saranno usati contro gli arrestati.

I cinque detenuti dovranno «essere costantemente legati e bendati», dovranno essere usati tutti gli accorgimenti per «non far avere loro la percezione del luogo in cui si trovano», il personale «non dovrà assolutamente rivolgere loro parola o rispondere a loro domande, tantomeno pronunciare nomi, luoghi e gradi che possano dar luogo ad eventuali identificazioni», i detenuti potranno «essere accompagnati eccezionalmente» in bagno, «non dovrà essere esaudita nessun’altra richiesta se non previa superiore opportuna autorizzazione» e «si dovrà accertare da parte del personale preposto che i legacci e i bendaggi siano sempre ben messi». 

L’estensore del piccolo manuale di istruzioni per annichilire e spezzare il detenuto non dimentica di raccomandare che «il servizio ovviamente riveste natura di massima riservatezza»[6]

La giornata del 28 gennaio è frenetica e la tortura inizia a produrre i suoi risultati. 

«Quando sei entrata nelle BR? Chi ha partecipato al sequestro? Chi è Sara?». Frascella non risponde alle domande, così chi la interroga le alza la gonna, le cala le mutande e le strappa i peli del pube. La brigatista inizia a cedere e fornisce qualche informazione. 

Escono i “cattivi” e nella stanza entrano i “buoni”. «Dai collabora, ti conviene», continuano a ripeterle. Tornano i “cattivi” e riprendono a strapparle i peli del pube ed a stringergli i capezzoli. La fanno appoggiare a un tavolo e le dicono che le infileranno una gamba della sedia nella vagina. Frascella cede e parla di “Federico”. Bendata e legata su una sedia, la militante non può dormire perché appena si appisola qualcuno corre a svegliarla. È notte fonda quando tornano i “buoni” e Frascella, che ha sentito chiaramente le grida di Savasta e Di Lenardo, vuota il sacco. 

In un’altra stanza, Emilia Libéra è costretta a restare in ginocchio, sul pavimento, per alcune ore. Un “premuroso” poliziotto che la sorveglia le dice che i suoi colleghi, nella stanza accanto, stanno violentando la Frascella. Poi, bendata, viene messa su una sedia. Arriva il “cattivo” e le chiede dove possono trovare Sara, il nome di battaglia di Barbara Balzerani. 

Libéra non apre bocca e allora giù pugni e schiaffi, capezzoli schiacciati e calci sul pube. Le tolgono pantaloni e mutande e la fanno chinare su un tavolo. Il “cattivo” annuncia che le metterà un bastone nella vagina e, aggiunge, lei deve crederci perché lui ha già “trattato” Di Rocco e Petrella. Libéra sa che con i due brigatisti hanno usato l’acqua e il sale e teme che, da un momento all’altro, tocchi a lei la stessa sorte.

Anche Savasta, bendato e legato su una sedia, viene colpito su tutto il corpo ed i seviziatori si divertono a spegnergli sigarette sulle mani. Sente le grida di Libéra e Frascella, ma non la voce di Ciucci che, dicono i poliziotti, è già morto. Poi arrivano i «giustizieri» (così si presentano a Savasta) che puntano la pistola alla tempia del brigatista e minacciano di ucciderlo. Savasta cerca di fermarli: «Io sto già parlando». Ma a loro non interessa, sono giustizieri[7].

I “cattivi” vanno via ed i “buoni” lo portano in un’altra stanza e, dopo avergli chiesto se vuole nominare un avvocato, gli fanno firmare un verbale.

Savasta, Libéra, Frascella e Ciucci (lui è veramente malridotto perché non riesce a camminare e gira seduto su una sedia da ufficio) vengono messi insieme in una stanza. Discutono e decidono tutti insieme di saltare il fosso e collaborare.  

E così, già quella notte, forniscono le prime informazioni. Quelle di Savasta sono molto importanti perché lui conosce la base di via Verga, a Milano, dove più volte si è riunita la Direzione strategica. 

Di Lenardo non cede ed è l’unico che non si piega alla tortura. Non si può dire che con lui non siano stati chiari: «Nessuno sa del tuo arresto, sei solo un sequestrato e possiamo fare di te quello che vogliamo». Ma il brigatista si ostina a non parlare, si dichiara prigioniero politico ed allora occorre ricorrere a tormenti più sofisticati. 

I poliziotti si danno il cambio per colpirlo sulla pianta dei piedi, ma non disdegnano di sbattergli la testa contro il muro. Lo fanno distendere per terra, nudo, per ricevere scariche elettriche sul pene e sui testicoli, mentre altri gli danno calci ai fianchi e gli comprimono la testa. Poi pugni e schiaffi al volto, colpi sul naso, compressione delle pupille, schiacciamento della testa con i piedi, bruciatura delle mani, tagli al polpaccio. Con i calci, gli rompono il timpano dell’orecchio sinistro. 

A Di Lenardo non viene risparmiato nulla, ma, se i suoi compagni, nella notte tra il 31 gennaio e il 1° febbraio, già firmano i verbali di dichiarazioni spontanee, il brigatista è irremovibile. Ed allora bisogna fare in fretta perché tra qualche ora si presenterà in caserma il sostituto procuratore veronese per gli interrogatori. I poliziotti sono delusi. Nella base milanese di via Verga, quella indicata da Savasta, non hanno trovato nessuno. Forse, Di Lenardo può fornire altre notizie. Magari, può far arrestare la Balzerani. «Di Lenardo deve parlare». 

Gli tolgono le manette dai polsi e le mettono ai piedi, gli legano le mani con pezzi di stoffa, gli stringono la benda sugli occhi, chiudono la bocca con un’altra benda e lo mettono nel bagagliaio di un’auto si mette in movimento seguita da un altro veicolo. Dopo un giro di mezz’ora le auto si fermano e due poliziotti trascinano il brigatista tenendolo per le ascelle. Di Lenardo comprende che si trova su un prato, sicuramente in una una campagna nei dintorni di Padova. 

Lo fanno inginocchiare e lo pestano. Solito copione: il “cattivo” arrabbiato si alterna al “buono” che modera gli eccessi. Poi una voce, più forte delle altre: «Adesso ti spariamo». Parte un colpo di pistola. Non è morto!!! Nemmeno la finta esecuzione (el simulacro de fusilamiento, tanto in voga in America latina) fa crollare il detenuto[8]

Di nuovo botte. Lo riportano in caserma. Nudo, steso su un tavolo con la testa penzoloni, braccia e gambe legate. Gli riempiono la bocca di sale, gli tappano il naso e giù acqua in grande quantità. Una pausa e poi si riprende. Altra pausa e si riprende. Di Lenardo non respira, sta soffocando, il corpo trema, grida. Si fermano. Mentre viene torturato il brigatista sente qualcuno dire «Genova». Pensa a un poliziotto, ad uno di quelli che, nei giorni precedenti, gli hanno parlato delle operazioni anti BR che hanno fatto nel capoluogo ligure. Si sbaglia. Alcuni giorni dopo, un funzionario cerca di convincerlo a collaborare. Entra nella stanza un poliziotto e dice «dottor Genova, al telefono». Di Lenardo allora comprende: nella stanza, mentre veniva torturato, c’era il commissario Salvatore Genova[9].

I brigatisti non vengono portati in carcere ed il sostituto procuratore veronese li interroga, il 1° e il 2 febbraio, negli uffici della celere. Savasta riempie pagine e pagine di verbale. Così fanno anche Libéra, Ciucci e Frascella. Buon ultimo, nel pomeriggio del 2 febbraio, Cesare Di Lenardo si siede davanti al magistrato. Lui non ha nulla da dire, vuole solo denunciare le sevizie che ha subito. Lo farà di nuovo, il 28 febbraio, con un dettagliato memoriale spedito alla Procura ed al Presidente del Tribunale di Verona.  

Il sistema generalizzato delle violenze sugli arrestati per fatti di terrorismo è cresciuto così a dismisura che, proprio nel febbraio-marzo ’82, diventa incontrollabile e non è più possibile tenerlo segreto.

Pier Vittorio Buffa, de “L’Espresso”, e Luca Villoresi, di “La Repubblica”, pubblicano due articoli grazie a notizie fornite da fonti interne alla Polizia che non vogliono assecondare la linea oltranzista dettata dal Viminale. Le pratiche della tortura sono diffuse e vanno oltre i confini delle province di Padova e Verona. A Mestre, nel II distretto di Polizia, hanno usato gli stessi mezzi. La stessa cosa è avvenuta anche a Roma e Viterbo. A Villoresi, un anonimo investigatore veneto sostanzialmente ammette che la tortura, in alcuni casi, è stata usata e rivendica il risultato di aver «ripulito il Veneto»[10].  

Si moltiplicano le denunce, ma Virginio Rognoni risponde seccamente: «…sulle pretese violenze cui sarebbero stati sottoposti i terroristi recentemente arrestati a Padova e nel Veneto posso dire che sono totalmente false».

Al Ministro dell’Interno risponde anche Magistratura Democratica, l’unico gruppo di giudici che affronta, senza reticenze, il tema dei metodi con i quali viene praticato il contrasto al terrorismo. MD giudica «non sufficienti e definitive le risposte date dal governo», vede distintamente «il pericolo di cedimenti e tolleranze per simili degenerazioni», chiede di «rispettare i termini di legge per presentare l’arrestato al magistrato» e sollecita i magistrati a «fare indagini ed accertamenti medico-legali sulle violenze denunciate». 

Intanto, il processo veronese al gruppo dirigente e ai militanti delle BR-PCC va avanti senza particolari sussulti. Sfilano davanti ai giudici tutti i brigatisti che hanno fatto la scelta di collaborare ed i funzionari di Polizia che li hanno arrestati. Quando arriva il suo turno, Umberto Improta racconta che Ruggero Volinia “Federico”, appena arrestato, subito ha detto di voler collaborare, ha condotto i poliziotti ad un covo a Mestre e poi ha fornito tutte le informazioni sul covo di via Pindemonte. E giunti qui, continua Improta, l’inarrestabile onda del pentitismo ha prodotto altri risultati. Pensate che, aggiunge il funzionario UCIGOS, terminata l’irruzione alle 11:20, Antonio Savasta, appena 15 minuti dopo, già esclamava: «Vi dirò tutto!».

Le uniche voci dissonanti sono quelle di Cesare Di Lenardo e di Alberta Biliato che, presentandosi come prigioniera politica, sostiene che le dichiarazioni che lei ha fatto al magistrato, dopo l’arresto a Treviso, sono solo il frutto delle torture che ha subito.  

Poi un colpo di scena, l’unico del processo. Savasta, Libéra, Frascella e Ciucci – che sino a quel momento hanno fatto ogni sorta di rivelazione, ma nulla hanno detto sulle violenze – consegnano un memoriale al Tribunale. Non fanno marcia indietro rispetto alla scelta del “pentimento”, ma assicurano di non aver avuto favori perché «il trattamento riservatoci dopo l’arresto è stato per noi tutti identico a quello che altri compagni hanno denunciato». E proseguono: «Quattro lunghissimi giorni che non ti fanno restare dentro neanche la dignità di disprezzare chi ti ha torturato, che hanno un fine ben più ambizioso delle informazioni immediatamente estorte, poiché perseguono l’annientamento della tua identità politica». Così, mentre il processo veronese si avvia alle batture finali, per la prima volta anche i brigatisti “pentiti” denunciano le torture[11].   

A Giovanni Palombarini, segretario di Magistratura democratica, che sostiene che la risposta di Rognoni «non è certo stata tranquillizzante ed esaustiva, non dissipa i sospetti, né quieta le voci»[12], ed ai tanti che denunciano la barbarie che si sta consumando sembra quasi indirettamente rispondere il sostituto procuratore che, al termine del processo veronese ai brigatisti, durante la requisitoria, rivolge «un grazie motivato alla polizia che ha lavorato nella più stretta legalità» perché «..mai ho ricevuto lamentele, non dico denunce, di comportamenti scorretti, non dico di abusi…» sino alla scoperta del covo padovano a cui si è arrivati nella “più piena legalità”, grazie esclusivamente alle «indagini sagaci della polizia giudiziaria».

Proprio mentre il magistrato pronuncia queste parole alla Camera dei deputati si svolge un dibattito dai contenuti molto meno rassicuranti. Il Ministro dell’Interno, per la seconda volta, risponde alle tante interrogazioni sul tema delle violenze. I parlamentari citano decine casi accaduti in tutta Italia, ma, soprattutto, le denunce delineano i profili di un sistema diffuso che ha travolto le regole dello stato di diritto ed ha generato una involuzione autoritaria e repressiva[13].  

E’ il sistema nel quale maturano le torture: diventa prassi comune mettere un cappuccio all’arrestato oppure bendarlo; gli interrogatori dei sospettati avvengono in luoghi diversi dagli uffici delle forze di polizia per creare un effetto di “disorientamento”; i familiari, per giorni, ignorano la sorte della persona fermata ed invano, al pari degli avvocati, la cercano nelle carceri; si esercitano pressioni indebite sulle famiglie affinché convincano gli arrestati a collaborare; ai detenuti si chiede, insistentemente, di rinunciare a nominare un difensore di fiducia e di affidarsi al difensore di ufficio; gli arrestati non vengono portati in carcere, ma sono trattenuti presso commissariati, questure, caserme; gli interrogatori del pubblico ministero avvengono molto oltre i termini stabiliti dalla legge, in alcuni casi anche 9/10 giorni dopo l’arresto; vengono denunciati anche casi di illegale “patteggiamento” nei quali si chiede all’interrogato di non denunciare le violenze subite in cambio di favori che riceverà.

Ma il governo non fa nessuna apertura e Virginio Rognoni, anzi, alza il tiro e sostiene che i terroristi, non riuscendo ad arginare il fenomeno dilagante del pentitismo, hanno messo in piedi una vera e propria campagna diffamatoria per colpire la credibilità delle forze di polizia.

I poliziotti democratici di Venezia organizzati nel SIULP (Sindacato Italiano Unitario Lavoratori della Polizia) intervengono a gamba tesa nella polemica politica e, con un comunicato diffuso il 10 marzo ’82, sostengono, sulle violenze, che «tali pratiche sono state tollerate o, addirittura, incoraggiate da direttive dall’alto e infine sostenute dal tacito consenso di una opinione pubblica condizionata dall’incalzare sanguinaria e folle di un terrorismo che ha avvelenato la vita politica e sociale del paese».  

Anche le Brigate Rosse fanno i conti con un fenomeno, inedito per dimensioni e radicalità, che sta sconvolgendo la vita della organizzazione. Il 18 marzo 1982 diffondono un lunghissimo comunicato nel quale lanciano la parola d’ordine della «ritirata strategica» sviluppando una articolata analisi della pratica della tortura («la tortura misura un nuovo livello di scontro») e degli effetti che sta producendo.  

Il gruppo di Magistratura Democratica nel Consiglio Superiore della Magistratura chiede che l’organo di autogoverno dei giudici metta all’ordine del giorno del plenum la discussione su quella che si sta profilando come una vera e propria emergenza democratica[14]

Il magistrato inquirente di Verona trasmette gli atti alla procura padovana, competente per le violenze accadute in via Pindemonte e nella caserma della celere. 

Vittorio Borraccetti, sostituto procuratore padovano, ascolta tutti i brigatisti, scova testimoni anche tra i poliziotti e, attraverso altri accertamenti medici, dimostra che le violenze non sono una invenzione.   

Nel giugno ’82, il giudice istruttore Mario Fabiani firma i mandati di cattura contro alcuni tra i responsabili di quei fatti, tra i quali Salvatore Genova, vicedirigente la Digos genovese. Le accuse sono di concorso in sequestro di persona, violenza privata e lesioni personali.

Scatta istantanea la solidarietà agli arrestati e monta la rabbia contro i magistrati.

Virginio Rognoni esprime «perplessità ed amarezza» per i provvedimenti, mentre il Questore di Genova telegrafa al Presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, manifestando fiducia nella condotta tenuta del commissario arrestato. Nei locali della Questura di Roma si tiene una assemblea permanente dei poliziotti che non escludono di organizzare altre clamorose iniziative. «Se volevano portarci all’esasperazione, ci sono riusciti…nemmeno ad alcuni accusati per banda armata è stato riservato lo stesso trattamento», tuona un anonimo dirigente UCIGOS al giornalista de “l’Unità” che lo avvicina.

Il 5 luglio ’83, in un clima apertamente ostile ai magistrati, si apre il processo padovano mentre un gruppo di poliziotti, solidali con i colleghi imputati, presidia l’ingresso del Tribunale. Salvatore Genova non può essere giudicato perché è stato appena eletto, nella fila del PSDI, nelle elezioni politiche generali del 26 giugno ed occorre attendere l’autorizzazione a procedere della Camera dei deputati che, tre anni più tardi, nel 1986, rifiuta di concederla. Nella udienza dell’8 giugno, il Capitano Lucio De Santis viene arrestato in aula per falsa testimonianza e condannato. Depongono tutti i brigatisti che descrivono le violenze patite, i medici che hanno osservato i segni lasciati dalle torture e i testimoni che confermano l’utilizzo di metodi illegali. 

Un quadro impressionante, alternativo a quello offerto dal testimone Umberto Improta che, in udienza, racconta una storia diversa, cioè di come nacque, nella palazzina della celere, un rapporto cameratesco tra poliziotti carcerieri e brigatisti carcerati: «…il rapporto tra personale UCIGOS, i NOCS e gli arrestati era un rapporto ottimo, di piena collaborazione, addirittura affettuoso…»[15].

Ma i giudici non credono ai poliziotti ed ai funzionari dell’UCIGOS e il 15 luglio 1983, il Presidente del collegio, Francesco Aliprandi, legge il dispositivo della sentenza con la quale gli imputati vengono condannati per il reato di abuso di autorità contro arrestati[16]

I brigatisti e i militanti di altre formazioni picchiati e torturati, durante e dopo il sequestro Dozier, furono moltissimi e, dissoltosi il fumo della retorica che accompagna il plauso ed i riconoscimenti ai liberatori del generale statunitense, emergono i fatti crudi di una operazione nella quale si consumarono violenze che servirono a carpire informazioni senza le quali, come ha francamente riconosciuto Salvatore Genova, quel risultato non sarebbe mai stato raggiunto. Anzi, molte di queste violenze, in realtà, non sortirono nemmeno questo effetto visto che tanti episodi avvennero quando Dozier era già libero e rappresentarono, così, una delle cause scatenanti la scelta di collaborazione assunta dai brigatisti mentre erano in balia dei torturatori. 

Quella padovana è l’unica sentenza degli anni ‘80 che riconosce la responsabilità di pubblici ufficiali per fatti di violenza commessi contro arrestati per vicende di terrorismo. Le decine di denunce fatte da altri inquisiti non producono altro che archiviazioni perché sono ignoti gli autori delle violenze[17].

Tra il 2007 e il 2012, il commissario Salvatore “Rino” Genova decide di raccontare ai giornalisti Matteo Indice e Pier Vittorio Buffa cosa è realmente accaduto durante la stagione di lotta al terrorismo. Descrive le torture, confessa il suo ruolo e quello dei suoi colleghi (De Francisci, Improta, Fioriolli, Ciocia) nell’uso dei metodi illegali e conferma che furono i vertici del Viminale ad impartire la linea della tortura[18]. A Buffa, laconicamente dice: «…Non ho fatto quello che sarebbe stato giusto fare. Arrestare i miei colleghi che le compivano. Dovevamo arrestarci l’un con l’altro. Questo dovevamo fare…»[19].

Le parole del commissario non scatenano la reazione veemente dei vertici istituzionali. Certo, quelli tirati direttamente in causa replicano che si tratta di fantasie, ma anche nel fronte di quelli che sostengono che mai ci furono violenze sui brigatisti si aprono alcune crepe, con ammissioni, a volte, sorprendenti. È il caso di Giordano Fainelli, ex ispettore capo della Digos veronese, che sostiene che, in realtà, Ruggero Volinia trattò la sua confessione in cambio della immunità per Elisabetta Arcangeli e di una sostanziosa somma di denaro, superiore a quella consegnata a Paolo Galati che parlò dopo aver ricevuto circa 40 milioni e la promessa di un trattamento favorevole per il fratello Michele, brigatista che già si trovava in carcere[20].

Ma Fainelli, che nega che Volinia sia stato torturato, ammette poi che la notte del 26 gennaio ’82, insieme ad Umberto Improta e altri colleghi, condusse Ruggero Volinia in un villino in un residence in cui c’era anche Nicola Ciocia. Non assistette a torture, ma non esclude che «l’euforia collettiva portò qualcuno ad andare oltre le righe»[21].      

A queste vicende fa riferimento Giuliano Amato intervenendo, a sorpresa, sul tema. E non usa un linguaggio paludato: la classe politica «aveva coperto il ricorso a metodi e strumenti ai margini della legalità…quando non extralegali…vi fu il ricorso a forme di pressione fisica e psicologica su alcune migliaia di arrestati e detenuti che, nel caso dei primi, sembra siano talvolta arrivate, malgrado le smentite, a toccare la tortura». La magistratura non è senza colpe perché «se pochissimi magistrati seppero del water boarding e pochi dei pestaggi degli arrestati, diverso è il caso dei trattamenti speciali dei detenuti e della possibilità di usare il carcere come strumento di pressione nei confronti di categorie di persone ritenute particolarmente indegne, che divennero pratiche abbastanza diffuse negli anni Ottanta»[22].  

Nemmeno le inusuali rivelazioni di Giuliano Amato sgretolano il muro del silenzio eretto 40 anni fa. Tace la classe politica della prima Repubblica, tacciono i vertici del Viminale e della Polizia di stato, resta silenziosa la magistratura non meno dei giornalisti che quelle inchieste seguirono, celebrando i fasti di uno Stato democratico che prevaleva sulle formazioni eversive sempre rispettando le regole del diritto.

Insomma, un’Italia reticente (reticente proprio nel senso strettamente giuridico «di chi tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti») che non ha ancora trovato il coraggio di discutere, senza infingimenti, dei metodi che vennero impiegati per sconfiggere le organizzazioni della lotta armata, anche di quelli usati durante le indagini in cui raffinati investigatori «cercavano Dozier dentro la vagina di una brigatista».     

[1] Il nucleo che, con vari ruoli, sequestrò e trasportò Dozier a Padova era composto da Antonio Savasta, Pietro Vanzi, Marcello Capuano, Cesare Di Lenardo, Emilia Libéra e Alberta Biliato. Una avvincente ricostruzione della vicenda Dozier e delle torture inflitte nella fase della investigazione è contenuta nella docu-serie Sky Original Il sequestro Dozier. Un’operazione perfetta, 2022. 

[2] Dozier, al momento del sequestro, era sottocapo di stato maggiore addetto al Comando delle forze terrestri NATO nell’Europa meridionale.

[3] Alla fine del 1980, nella organizzazione BR matura la rottura definitiva con la colonna milanese “Walter Alasia” che viene espulsa nel dicembre di quell’anno. Mario Moretti viene arrestato a Milano il 4 aprile 1981. Nello stesso anno, il Fronte carceri e la colonna napoletana danno vita alle BR-Partito Guerriglia, organizzazione che fa capo a Giovanni Senzani. Infine, nell’autunno 1981, si costituiscono le BR-Partito Comunista Combattente, fortemente radicate nella colonna romana, in quella genovese ed in quella veneta (la colonna Annamaria Ludmann-Cecilia) che realizza il sequestro Dozier. 

[4] Enrico Triaca è il protagonista del documentario di Stefano Pasetto Il Tipografo, 2022, vincitore del premio quale miglior lungometraggio all’8° Festival internazionale del documentario Visioni dal Mondo. Sulla vicenda Triaca, vedi dell’autore I tormenti e la calunnia” pubblicato su www.questionegiustizia.it, 12 luglio 2023.

[5] La dettagliata descrizione delle torture inflitte a Nazareno Mantovani, Ruggero Volinia ed Elisabetta Arcangeli è contenuta nella testimonianza resa da Salvatore Genova al giornalista Pier Vittorio Buffa e ad altri organi di informazione. 

[6] L’ordine di servizio del comandante del II reparto celere disciplinava esso stesso una forma di tortura sui prigionieri o, quantomeno, una pratica di trattamento inumano e degradante: bendati, legati, tenuti costantemente al buio e senza avere la possibilità, per diversi giorni, di avere la percezione del luogo in cui si trovavano e della identità di coloro che li interrogavano, i brigatisti furono sottoposti alla “deprivazione sensoriale”. Inoltre, nel processo padovano, venne provato che i poliziotti usarono costantemente anche il metodo della privazione del sonno. A questi mezzi aveva fatto ampio ricorso l’esercito inglese in Irlanda, nei primi anni ’70, contro i detenuti appartenenti all’IRA (Irish Republican Army). Già bollato dalla Commissione europea dei diritti dell’uomo come pratica di tortura, in seguito la Corte europea dei diritti dell’uomo sostenne che il metodo della “deprivazione sensoriale” costituiva una pratica di trattamento inumano e degradante. 

[7] Quasi certamente si tratta dello stesso gruppo di poliziotti della celere padovana che, secondo le successive rivelazioni di Salvatore Genova, si autodefiniva “Guerrieri della notte”. 

[8] Intervistati per la docu-serie Il sequestro Dozier. Un’operazione perfetta, gli ex poliziotti Danilo Amore e Carmelo Di Janni hanno riconosciuto che il racconto di Cesare Di Lenardo sulla finta fucilazione era vero. 

[9] I racconti di Savasta, Di Lenardo, Frascella, Libéra sulle violenze subite sono riportati, integralmente, nella sentenza del Tribunale di Padova del 15 luglio 1983. 

[10] L’articolo di Pier Vittorio Buffa dal titolo Il rullo confessore venne pubblicato su L’Espresso del 28 febbraio 1982. Quello di Luca Villoresi intitolato Ma le torture ci sono state? comparve sull’edizione di La Repubblica del 18 marzo 1982. I due giornalisti vennero arrestati per ordine della magistratura veneziana perché rifiutarono di rivelare l’identità delle loro fonti. L’articolo di Buffa contiene anche una elencazione di altre vicende di violenza su arrestati per fatti di terrorismo: Massimiliano Corsi, Stefano Petrella, Ennio Di Rocco, Luciano Farina, Lino Vai e Gianfranco Fornoni. 

[11] I giudici veronesi, con la sentenza emessa il 25 marzo 1982, condannarono gli ideatori ed esecutori del sequestro Dozier: Francesco Lo Bianco, Barbara Balzerani, Umberto Catabiani, Vittorio Antonini, Luigi Novelli, Remo Pancelli, Marcello Capuano, Pietro Vanzi, Cesare Di Lenardo, Alberta Biliato, Ruggero Volinia, Antonio Savasta, Emilia Libéra, Giovanni Ciucci, Emanuela Frascella, Armando Lanza e Roberto Zanca. 

[12] Intervista di Giovanni Palombarini a Il Manifesto dell’11 marzo 1982. 

[13] Nella seduta del 22 marzo 1982 della Camera dei deputati, diversi parlamentari fecero riferimento ad una miriade di fatti di violenza praticati su arrestati e detenuti. I casi citati, oltre ovviamente quelli veneti, riguardavano gli arresti di Pietro Mutti, Anna Rita Marino, Giuseppe De Biase, Gianni Tonello, Giorgio Benfenati e Paola Maturi.

[14] La richiesta venne rivolta al Vicepresidente Giancarlo De Carolis da Salvatore Senese, Franco Ippolito ed Edmondo Bruti Liberati, rappresentanti di Magistratura Democratica nel CSM. 

[15] Sulle testimonianze di De Francisci e Improta, i giudici padovani scrissero: «con le loro risposte evasive e con il loro comportamento omissivo circa l’obbligo di indagare…hanno dimostrato il loro preciso intento di difendere gli imputati e il loro operato».

[16] La sentenza del Tribunale di Padova, Pres. Aliprandi, emessa il 15 luglio 1983, è pubblicata su Il Foro Italiano, maggio 1984, vol. 107, No. 5, con commento di Domenico Pulitanò. La condanna venne inflitta agli agenti NOCS Danilo Amore, Carmelo Di Janni, Fabio Laurenzi e al tenente del II reparto celere Giancarlo Aralla solo per l’episodio del trasporto illegale in campagna e della finta fucilazione del brigatista Di Lenardo. Inoltre, Amore venne riconosciuto responsabile anche di violenza privata contro Emilia Libéra. L’amnistia promulgata nel 1990 cancellò la condanna.

[17] Nel 2013, i giudici della Corte di Appello di Perugia, accogliendo la richiesta di revisione della sentenza irrevocabile di condanna per il reato di calunnia, hanno riconosciuto che, nel 1978, Enrico Triaca venne torturato. 

[18] Secondo il ricercatore Paolo Persichetti («8 gennaio 1982, quando il governo Spadolini autorizzò il ricorso alla tortura» in Insorgenze, 30 marzo 2012) il governo diede il via libera all’uso della tortura nel corso di una riservatissima seduta del Comitato Interministeriale per l’informazione e la sicurezza (CIIS) a cui parteciparono il Presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, ed i ministri Rognoni, Lagorio, Marchiora, La Malfa, Di Giesi e Altissimo. 

[19] L’articolo del giornalista Matteo Indice che contiene l’intervista a Salvatore Genova, dal titolo E la CIA si stupì dei nostri metodi venne pubblicato su Il Secolo XIX del 24 giugno 2007. Quello di Pier Vittorio Buffa, dal titolo Così torturavamo i brigatisti comparve su L’Espresso del 5 aprile 2012. 

[20] Michele Galati, componente della colonna veneta delle Brigate Rosse, venne arrestato nel dicembre 1980. Il 4 febbraio ’82, al PM di Venezia, fece le sue prime rivelazioni. Galati sostenne che, da un po’ di tempo, stava già collaborando segretamente con il generale Dalla Chiesa ed altri ufficiali dell’Arma dei Carabinieri con i quali parlava in occasione delle traduzioni dal carcere. Rivelò anche che, nell’ottobre ’81, aveva informato Dalla Chiesa che le BR intendevano rapire un alto ufficiale statunitense in forza alla NATO e di stanza a Verona o Vicenza.

[21] Intervista di Giordano Fainelli al quotidiano L’Adige del 12 febbraio 2012. Anche Salvatore Genova raccontò che ad alcuni brigatisti “pentiti” venne elargita una somma complessiva di 100 milioni di lire, denaro prelevato da un fondo riservato del Viminale. 

[22] Le considerazioni sono contenute nel libro di Giuliano Amato e Andrea Graziosi, Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia, il Mulino, 2013.    

Il filo che lega le torture contro le Brigate rosse alle violenze poliziesche di Genova 2001

Dalla brigatista torturata nel 1982 alla guida della questura di Genova subito dopo il G8 da dove denunciò i giornalisti per gli articoli sul massacro alla Diaz, fino agli affari con i dittatori africani: tutte le ombre nascoste nel passato di Fioriolli

Carlo Bonini
La Repubblica 9 Gennaio 2013 (Vai alla fonte)

fioriolli_oscarROMA — Al centro della vicenda napoletana balla un prefetto in pensione la cui storia, da sola, racconta la linea d’ombra di un pezzo della storia recente della polizia Italiana. E che ha il suo incipit nel gennaio 1982. Oscar Fioriolli, classe 1947, trentino di Riva del Garda, poliziotto formato nei reparti Celere, è nelle squadre speciali dell’Antiterrorismo. Le Br-Pcc hanno sequestrato il generale americano James Lee Dozier, vicecomandante delle Forze terrestri alleate per il sud Europa. E il Viminale ha deciso che nella caccia all’ostaggio sia arrivato il momento di mettere in un canto la Costituzione. Salvatore Genova, in quei giorni funzionario della Digos di Verona, è testimone dell’interrogatorio di Elisabetta Arcangeli, arrestata come sospetta fiancheggiatrice delle Br e ritenuta possibile chiave per arrivare al covo in cui è prigioniero l’alto ufficiale. Racconta Salvatore Genova nell’aprile dello scorso anno all’Espresso: «Separati da un muro, perché potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia (il compagno della Arcangeli ndr.) e la Arcangeli. Li sta interrogando Fioriolli. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna (…) Carico insieme a loro Volinia su una macchina, lo portiamo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale».

Di quel peccato originale, Fioriolli non vorrà mai parlare. Ma su quel peccato originale costruisce una carriera. Non ha modi né bruschi, né grevi da sbirro. Piuttosto le stimmate, la forma mentis, di quella polizia politica. Ama le belle cose e mischiarsi tra la gente che conta. Tra l’87 e il ’97, dirige la Digos di Genova, e il suo primo incarico da questore (1997) è ad Agrigento. Dove resta due anni prima della rotazione a Modena (1999-2001) e Palermo, dove resta però solo pochi mesi. Il G8 di Genova lo riporta nell’agosto 2001 nella sua città, dove è rotolata la sola testa del questore Francesco Colucci. Fioriolli è nella massima considerazione di Gianni De Gennaro, allora capo della polizia, e la sua biografia combacia come un calco con l’urgenza che, in quel momento, ha il Viminale. A Fioriolli non va spiegato quello che deve fare. E la sua prima mossa è una denuncia in Procura contro la stampa genovese accusata di “calunniare” la polizia nelle sue ricostruzioni sui fatti della Diaz. La seconda, la melina che impedisce la compiuta identificazione della “macedonia” di polizia che ha fatto irruzione nella scuola. La questura di Genova, del resto, è roba sua. A cominciare dalla Digos e dal suo dirigente Spartaco Mortola. Che come lui è nella cerchia di amici di un faccendiere siriano, tale Fouzi Hadj. Un tipo ricercato per bancarotta, da cui Fioriolli riceve un prestito di 50 mila euro e che fa balenare opachi affari in materia di sicurezza con la dittatura della Guinea Conakry.

Nel gennaio 2005, Fioriolli è a Napoli, nella questura che è stata fino a poco tempo prima di Izzo e terremotata dall’inchiesta della Procura sui fatti della caserma Raniero (prova generale del G8 genovese). Sappiamo oggi come è andata. Gli ultimi anni sono a Roma, a capo della scuola di formazione per l’ordine pubblico e alle specialità. In tempo per la pensione. E per togliere il disturbo prima che cominci a grandinare.

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Il verbale. L’ex commissario e il caso Dozier: «Così torturammo i brigatisti»

Il Corriere della sera pubblica alcuni passaggi della deposizione rilasciata dall’ex commissario della Digos, Salvatore Genova, che confermano le torture praticate durante le indagini contro le Brigate rosse. Il verbale è stato raccolto nell’ambito dell’inchiesta difensiva condotta dagli avvocati Francesco Romeo e Claudio Giangiacomo per ottenere la revisione del processo che ha portato alla condanna di Enrico Triaca per calunnia, dopo che questi aveva denunciato le sevizie subite. L’ex commissario, ormai in pensione col grado di questore, ribadisce, questa volta nel corso di un atto giudiziario che Triaca diceva la verità: «Nicola Ciocia dell’Ucigos mi raccontò di avergli praticato il wateboarding. Tortura che impiegò anche nel 1982, durante le indagini sul rapimento Dozier, sempre su ordine dei vertici della polizia e del governo»

Giovanni Bianconi
Corriere della Sera, 6 gennaio 2013
showimg2-1-cgiROMA — Finora si trattava di ricostruzioni giornalistiche, interviste più o meno esplicite, mezze ammissioni anonime. Adesso invece è tutto scritto in un atto giudiziario, un interrogatorio di cui il testimone si assume la piena responsabilità. Sapendo di poter incorrere, qualora affermasse il falso, in una condanna fino a quattro anni di galera. È il rischio accettato dall’ex commissario di polizia, nonché ex deputato socialdemocratico, Salvatore Genova, uno degli investigatori che trentuno anni fa partecipò alla liberazione del generale statunitense James Lee Dozier, sequestrato dalle Brigate rosse.
Il 30 luglio scorso Genova ha deposto davanti a un avvocato che lo ascoltava nell’ambito di proprie indagini difensive, svelando le torture inflitte ad alcuni sospetti fiancheggiatori delle Br per arrivare alla prigione di Dozier; metodi «duri» avallati dal governo di allora, aggiunge l’ex poliziotto, con una dichiarazione tanto clamorosa quanto foriera di reazioni e (forse) ulteriori accertamenti giudiziari. «È stato tutto disposto dall’alto — ha detto Genova all’avvocato Francesco Romeo, difensore dell’ex brigatista Enrico Triaca, uno dei presunti torturati —.  C’è stata la volontà politica, che poi scompare sempre in Italia, che è stata quella del capo della polizia, d’accordo con l’allora ministro Rognoni… E infatti noi facemmo». L’avvocato lo interrompe: «Mi sta dicendo che l’autorizzazione a fare quel tipo di tortura…». E Genova: «Non poteva non essere, non era cosa personale di Ciocia (il poliziotto chiamato “De Tormentis” che secondo il suo ex collega dirigeva i “trattamenti”, ndr)… Fu De Francisci che fece una riunione con noi. Lui era il capo dell’Ucigos e ci disse “facciamo tutto ciò che è possibile”».
L’Ucigos era l’organismo responsabile delle indagini antiterrorismo sull’intero territorio nazionale, e nel ricordo di Genova il prefetto De Francisci che la guidava dette il «via libera» a sistemi d’interrogatorio poco ortodossi: «Anche usando dei metodi duri, disse così, perché ovviamente eravamo veramente allo stremo come Stato…». L’alleato americano premeva per ottenere risultati, «tant’è che durante tutte’queste indagini noi fummo sempre seguiti, non ovviamente con interferenza ma con la loro presenza, da agenti della Cia».
Il sistema d’interrogatorio attraverso tortura, al quale il testimone sostiene di aver assistito personalmente, è chiamato waterboarding: il prigioniero viene legato mani e piedi a un tavolo, un imbuto infilato in bocca e giù litri di acqua e sale per dare la sensazione dell’annegamento. «Era una tecnica molto usata dalle squadre mobili», denuncia Genova; ecco perché fu chiamato il «professor De Tormentis», al secolo Nicola Ciocia, poliziotto di dichiarate simpatie mussoliniane che a Napoli e in altre regioni del Sud aveva combattuto la criminalità comune e organizzata.
«Di quella tecnica io a quel momento non ne conoscevo l’esistenza», precisa Genova. Davanti ai suoi occhi, al waterboarding fu prima sottosposto un presunto fiancheggiatore delle Br, poi il futuro «pentito» Ruggero Volinia. Lo arrestarono insieme alla fidanzata, «semidenudata e tenuta in piedi con degli oggetti, mi sembra un manganello che le veniva passato, introdotto all’interno delle cosce, delle gambe». «Dopo aver ingurgitato acqua e sale», racconta Genova, Volinia «alzò leggermente la testa e la mano, chiese un attimo per poter parlare: “E se vi dicessi dov’è Dozier?”».
Così, nel gennaio 1982, si arrivò alla liberazione del generale. Alla quale seguirono i maltrattamenti sui suoi carcerieri, che vennero alla luce grazie a indagini giudiziarie e disciplinari su alcuni poliziotti. Genova, che poté usufruire dell’immunità parlamentare garantitagli dal seggio socialdemocratico, oggi ha deciso di riparlarne. Prima al quotidiano ligure II Secolo XIX e ora col difensore di Triaca, l’ex br arrestato nel ’78, all’indomani dell’omicidio Moro, che denunciò di essere stato torturato e per questo fu condannato per calunnia. Oggi l’avvocato Romeo ha presentato un’istanza di revisione di quel processo, basata anche sulle rivelazione di Genova. Il quale racconta di aver saputo che ad occuparsi di Triaca fu proprio De Tormentis-Ciocia, l’esperto di waterboarding che si muoveva –  a suo dire – con tanto di garanzie ministeriali.
«Non ci fu alcuna copertura — ribatte l’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni -. Anzi, i comportamenti “duri” accertati furono prontamente perseguiti. C’era una certa esasperazione degli investigatori, questo sì; gli Stati Uniti volevano mandare le loro “teste di cuoio” per liberare Dozier, e io mi impuntai per difendere le nostre competenze. Ma non ho mai avallato alcun genere di tortura». E il prefetto in pensione De Francisci replica alla testimonianza di Genova: «Sono tutte bugie. Io non ho torturato nessuno né tollerato niente di ciò che luì dice. È un bugiardo, lo citerò in giudizio». Dopo trent’anni e più, un capitolo rimasto oscuro e ora riaperto della storia dell’antiterrorismo italiano promette nuovi sviluppi.

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Torture di Stato: i nomi di chi diede l’ordine ed eseguì le torture. Le rivelazioni di Salvatore Genova all’“Espresso”

Sevizie ai brigatisti. Le denunciò “l’Espresso” trent’anni fa. Fu smentito e il cronista arrestato. Oggi uno dei presenti conferma e dice chi le ordinò

Colloquio con Salvatore Genova di Pier Vittorio Buffa
L’Espresso 6 aprile 2012

«Sì, sono anche io responsabile di quelle torture. Ho usato le maniere forti con i detenuti, ho usato violenza a persone affidate alla mia custodia. E, inoltre, non ho fatto quello che sarebbe stato giusto fare. Arrestare i miei colleghi che le compivano. Dovevamo arrestarci l’un con l’altro, questo dovevamo fare».
Salvatore Genova è l’uomo il cui nome è da trent’anni legato a una grigia vicenda della nostra storia recente. Quella delle torture subite da molti terroristi tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Una vicenda grigia perché malgrado il convergere di testimonianze concordanti, le denunce di poliziotti coraggiosi e le inchieste giudiziarie la verità non è mai stata accertata. Nessuna condanna definitiva, nessuna responsabilità gerarchico-amministrativa, nessuna responsabilità politica. Solo lui, il commissario di polizia Salvatore Genova, e quattro altri poliziotti arrestati con l’accusa di aver seviziato Cesare Di Lenardo, uno dei cinque carcerieri del generale americano James Lee Dozier, sequestrato dalle Brigate rosse il 17 dicembre 1981 e liberato dalla polizia il 28 gennaio 1982. Evocare il nome di Genova vuol dire far tornare alla memoria l’acqua e sale ai brigatisti, le sevizie, le botte.
Oggi Salvatore Genova non ci sta più. Nel 1997 aveva iniziato a mandare al ministero informative ed esposti senza avere risposte. Adesso ha deciso di fare nomi, indicare responsabilità, svelare quello che accadde davvero in quei giorni drammatici Ecco il suo racconto.

L’ordine dall’alto
«Questura di Verona, dicembre 1981. Il prefetto Gaspare De Francisci, capo della struttura di intelligence del Viminale (Ucigos) convoca Umberto Improta, Salvatore Genova, Oscar Fioriolli e Luciano De Gregori. È la squadra messa in campo dal ministero dell’Interno (guidato dal democristiano Virginio Rognoni) per cercare di risolvere il caso Dozier.
Il capo dell’Ucigos, De Francisci, ci dice che l’indagine è delicata e importante, dobbiamo fare bella figura. E ci dà il via libera a usare le maniere forti per risolvere il sequestro. Ci guarda uno a uno e con la mano destra indica verso l’alto, ordini che vengono dall’alto, dice, quindi non preoccupatevi, se restate con la camicia impigliata da qualche parte, sarete coperti, faremo quadrato. Improta fa sì con la testa e dice che si può stare tranquilli, che per noi garantisce lui. Il messaggio è chiaro e dopo la riunione cerchiamo di metterlo ulteriormente a fuoco. Fino a dove arriverà la copertura? Fino a dove possiamo spingerci? Dobbiamo evitare ferite gravi e morti, questo ci diciamo tra di noi funzionari. E far male agli arrestati senza lasciare il segno.

Arriva Nicola Ciocia-De Tormentis, lo specialista del waterboarding
Il giorno dopo, a una riunione più allargata, partecipa anche un funzionario che tutti noi conosciamo di nome e di fama e che in quell’occasione ci viene presentato. E’ Nicola Ciocia, primo dirigente, capo della cosiddetta squadretta dei quattro dell’Ave Maria come li chiamiamo noi. Sono gli specialisti dell’interrogatorio duro, dell’acqua e sale: legano la vittima a un tavolo e, con un imbuto o con un tubo, gli fanno ingurgitare grandi quantità di acqua salata. La squadra è stata costituita all’indomani dell’uccisione di Moro con un compito preciso. Applicare anche ai detenuti politici quello che fanno tutte le squadre mobili. Ciocia, va precisato, non agì di propria iniziativa. La costituzione della squadretta fu decisa a livello ministeriale.
Ciocia, che Umberto Improta soprannomina dottor De Tormentis, un nomignolo che gli resta attaccato per tutta la vita, torna a Verona a gennaio, con i suoi uomini, i quattro dell’Ave Maria. Da più di un mese il generale è prigioniero, la pressione su di noi è altissima.

Improta, Fioriolli e Genova “disarticolano” (tradotto: pestano brutalmente) Nazareno Mantovani in un villino appositamente affittato per le torture
Il 23 gennaio viene arrestato un fiancheggiatore, Nazareno Mantovani. Iniziamo a interrogarlo noi, lo portiamo all’ultimo piano della questura. Oltre a me ci sono Improta e Fioriolli. Dobbiamo “disarticolarlo”, prepararlo per Ciocia e i quattro dell’Ave Maria. Lo facciamo a parole, ma non solo. Gli usiamo violenza, anche io. Poi bisogna portarlo da Ciocia in un villino preso in affitto dalla questura. Lo facciamo di notte. Lo carichiamo, bendato, su una macchina insieme a quattro dei nostri. Su un’altra ci sono Ciocia con i suoi uomini, incappucciati. Fioriolli, Improta e io, insieme ad altri agenti, siamo su altre due macchine. Una volta arrivati Mantovani viene spogliato, legato mani e piedi e Ciocia inizia il suo lavoro con noi come spettatori. Prima le minacce, dure, terrorizzanti: “Eccoti qua, il solito agnello sacrificale, sei in mano nostra, se non parli per te finisce male”. Poi il tubo in gola, l’acqua salatissima, il sale in bocca e l’acqua nel tubo. Dopo un quarto d’ora Mantovani sviene e si fermano. Poi riprendono. Mentre lo stanno trattando entra il capo dell’Ucigos, De Francisci, e fa smettere il waterboarding.
Dopo qualche giorno l’interrogatorio decisivo che ci porterà alla liberazione di Dozier, quello del br Ruggero Volinia e della sua compagna, Elisabetta Arcangeli.

Lo stupro di Elisabetta Arcangeli
Io sono fuori per degli arresti e quando rientro in questura vado all’ultimo piano. Qui, separati da un muro, perché potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia e la Arcangeli. Li sta interrogando Fioriolli, ma sarei potuto essere io al suo posto, probabilmente mi sarei comportato allo stesso modo. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna. I due sono molto uniti, costruiranno poi la loro vita insieme, avranno due figlie. È uno dei momenti più vergognosi di quei giorni, uno dei momenti in cui dovrei arrestare i miei colleghi e me stesso. Invece carico insieme a loro Volinia su una macchina, lo portiamo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale e dopo pochi minuti parla, ci dice dove è tenuto prigioniero il generale Dozier. Il blitz è un successo, prendiamo tutti e cinque i terroristi e li portiamo nella caserma della Celere di Padova. Ciascuno in una stanza, legato alle sedie, bendato, due donne e tre uomini. Tra loro Antonio Savasta che inizierà a parlare quasi subito, e proprio con me, consentendoci di fare centinaia di arresti.

Il giardino dei torturatori

Dopo i quattro dell’Ave maria arrivano i Guerrieri della notte
Ma le violenze non finiscono con la liberazione del generale. Il clima è surriscaldato. Tutti sanno come abbiamo fatto parlare Volinia e scatta l’imitazione, il “mano libera per tutti”. Un gruppo di poliziotti della celere, che si autodefinisce Guerrieri della notte, quando noi non ci siamo, va nelle stanze dove sono i cinque brigatisti e li picchia duramente. Un ufficiale della celere, uno di quei giorni, viene da me chiedendomi se può dare una ripassata a “quello stronzo”, riferendosi a Cesare Di Lenardo, l’unico dei cinque che non collabora con noi. Io non gli dico di no e inizia in quell’attimo la vicenda che ha portato al mio arresto. La mia responsabilità esiste ed è precisa, non aver impedito che il tenente Giancarlo Aralla portasse Di Lenardo fuori dalla caserma. La finta fucilazione e quello che accadde fuori dalla caserma lo sappiamo dalla testimonianza di Di Lenardo. Io rividi il detenuto alle docce. Degli agenti stavano improvvisando su di lui un trattamento di acqua e sale. Li feci smettere ma non li denunciai diventando così loro complice.

Dopo Padova torture anche a Mestre
La voglia di emulare, di menar le mani, di far parlare quegli “stronzi” non si ferma a Padova. Di Mestre so per certo. Al distretto di polizia vengono portati diversi terroristi arrestati dopo le indicazioni di Savasta. I poliziotti si improvvisano torturatori, usano acqua e sale senza essere preparati come Ciocia e i suoi, si fanno vedere da colleghi che parlano e denunciano. Ma l’inchiesta non porterà da nessuna parte.
Quando i giornali cominciano a parlare di torture e scatta l’indagine contro di me e gli altri per il caso Di Lenardo mi faccio vivo con Improta, gli dico che non voglio restare con il cerino in mano, che devono difendermi. Lui promette, dice di non preoccuparmi, ma solo l’elezione al Parlamento propostami dal Partito socialdemocratico mi toglie dal processo. Gli altri quattro arrestati con me vengono condannati in primo grado e, alla fine, amnistiati.

L’impunità
Noi non siamo mai stati in prigione. Io venni portato all’ospedale militare di Padova e lì mi venivano a trovare funzionari di polizia per informarmi delle intenzioni dei magistrati. Tra le mie carte ho ritrovato un appunto dattiloscritto che mi venne consegnato in quei giorni. È una falsa, ma dettagliatissima, ricostruzione dei fatti che dovevamo sostenere per essere scagionati. Suppongo che lo stesso foglio venne dato anche agli altri arrestati perché non ci fossero contraddizioni tra di noi.
Io me ne sono restato buono per tutti questi anni perché non volevo far scoppiare lo scandalo, fare arrestare tutti quanti.
Oggi, guardandomi indietro, vedo con chiarezza che ho sbagliato, che non avrei dovuto commettere quelle cose, né consentirle. Non dovevo farlo né come uomo né come poliziotto. L’esperienza mi ha insegnato che avremmo potuto ottenere gli stessi risultati anche senza le violenze e la squadretta dell’Ave Maria».


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Torture contro i militanti della lotta armata
8 gennaio 1982, quando il governo Spadolini autorizzò il ricorso alla tortura
Cercavano Dozier nella vagina di una brigatista

Torture di Stato: «L’ordine venne dal governo. Oltre a me coinvolti De Francisci, Improta, Ciocia, Fiorolli, De Gregori». L’ex commissario Salvatore Genova racconta tutto

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Sull’Espresso in edicola da oggi venerdì 6 aprile 2012 la testimonianza rilasciata a Piervittorio Buffa dall’ex commissario di Polizia Salvatore Genova, aggregato alla squadra speciale del ministero dell’Interno durante le indagini sul sequestro Dozier tra la fine del 1981 e il 1982

«Questura di Verona, dicembre 1981. Il prefetto Gaspare De Francisci, capo della struttura di intelligence del Viminale (Ucigos) convoca Umberto Improta, Salvatore Genova, Oscar Firiolli, e Luciano De Gregori. E’ la squadra messa in cmpo dal ministero dell’Interno (guidato dal democristiano Virginio Rognoni) per cercare di risolvere il caso Dozier.
Il capo dell’Ucigos, De Francisci, ci dice che l’indagine è delicata e importante, dobbiamo fare bella figura. E ci dà il via libera a usare maniere forti per risolvere il sequestro. Ci guarda uno a uno e con la mano destra indica verso l’alto, ordini che vengono dall’alto, dice, quindi non preoccupatevi, se restate con la camicia impigliata da qualche parte, sarete coperti, faremo quadrato. Improta fa sì con la testa e dice che si può stare tranquilli, che per noi garantisce lui. Il messaggio è chiaro e dopo la riunione cerchiamo di metterlo ulteriormente a fuoco. Fino a dove arriverà la copertura? Fino a dove possiamo spingerci? Dobbiamo evitare ferite gravi e morti, questo ci diciamo tra di noi funzionari. E far male agli arrestati senza lasciare il segno».

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Dallo Stato etico allo Stato emotivo: Virginio Rognoni «Le torture? L’emotività era forte»

Buon democristiano non mente: le risposte che Vinginio Rognoni concede in questa intervista più che lette vanno interpretate. Rognoni è il ministro delle torture, il politico che più di ogni altro ci ha messo la faccia. Chiamato in parlamento ha negato, negato più volte l’evidenza, ammettendo di fronte ai parlamentari solo 12 casi, avvenuti in un arco di pochi mesi. Tuttavia tra un diniego e l’altro emergono dettagli interessanti. Intanto Rognoni nega male, molto male, quando afferma che ad operare furono solo squadre di polizia locali. Affermazione in contrasto con quanto rivela più avanti: «affidai le responsabilità maggiori a Gaspare De Francisci, il capo dell’ufficio era Umberto Improta» (due nomi che ritornano sempre ed in posizione di vertice nella scena delle torture, come stabilì anche una inchiesta della magistratura sul caso di Cesare Di Lenardo), ovvero all’Ucigos. Ad operare c’era anche personale che veniva direttamente dal ministero o da corpi speciali come i Nocs, oppure investigatori di altre città come Salvatore Genova.
La squadra di torturatori guidata da Nicola Ciocia era sul posto fin dai primi momenti dell’indagine, non dovette perdere tempo per spostarsi ma operò immediatamente. La strategia, infatti, fu quella del ricorso alle intercettazioni di massa degli ambienti dell’autonomia, da cui scaturivano perquisizioni a largo raggio e interrogatori violenti per raccogliere informazioni. Già in questa fase venne coinvolto Nicola Ciocia che sottopose ad un violento waterboarding Nazareno Mantovani e successivamente Ruggero Volinia, che prima venne pestato da altri funzionari mentre la sua compagna, Elisabbetta Arcangeli, subiva violenze sessuali. (link Torture e violenze sessuali contro le donne della lotta armata).
Rivelatrice, infine, appare la risposta finale che chiama in causa i «rivolgimenti interiori, dell’“esposizione” umana cui gli investigatori che ogni giorno combattevano il terrorismo erano sottoposti, capace di generare una rabbia incontenibile». Insomma, sembra dire Rognoni, seppure c’è stata qualche tortura dovete capirli quei poveri funzionari sottoposti a tanto stress.

Matteo Indice
Secolo XIX
, 25 giugnio 2007

Il colloquio con Rognoni (il cui ultimo incarico istituzionale è stata la vicepresidenza del Csm, fino allo scorso anno) avviene telefonicamente, in due momenti distinti. «La lotta all’eversione dell’ordine democratico – spiega –  è sempre stata un fatto corale, almeno come tale la intendevo io, in cui tutti dovevano fare la propria parte. In frangenti particolari occorre affidarsi alle intuizioni e in qualche modo alla creatività dei poliziotti. Così facemmo, ma io già all’epoca giurai davanti al Capo dello Stato che, per quanto mi risultava, non ci furono eccessi».
Il primo passo è la rievocazione del lavoro investigativo che portò alla liberazione del generale americano James Lee Dozier, rapito dalle Brigate Rosse a Verona nel dicembre 1981 e liberato nel febbraio dell’anno successivo a Padova. Proprio uno dei terroristi arrestati per quella vicenda Cesare Di Lenardo con la sua denuncia diede il “la” all’unica indagine mai condotta da una procura sulle sevizie. Ricostruendo quel caso, negli ultimi giorni, abbiamo raccolto il resoconto di Salvatore Genova (uno dei funzionari che lavorò materialmente per il dissequestro) e soprattutto di un questore uscito nel 1984 dalla polizia, che ai tempi faceva parte dell’Ucigos: ha confermato l’esistenza d’un gruppo “parallelo”, da lui gestito direttamente e specializzato in sistemi violenti.
Virginio Rognoni non condivide questo tipo di ricostruzione, «sebbene la situazione fosse di assoluta emergenza». «La liberazione di Dozier rappresentò un passaggio chiave nella lotta al terrorismo, senza dubbio uno spartiacque. E credo che ogni interrogatorio fosse tenuto in condizioni di garanzia, nei limiti del possibile. Non dimentichiamo le pressioni, enormi, che subivamo dall’opinione pubblica dopo ogni attentato,in quella specifica occasione pure dagli Stati Uniti. La posizione del nostro Paese è sempre stata di rifiuto nei confronti della tortura».
Eppure, le rivelazioni del superpoliziotto che per almeno sei anni dal 1978 al 1984 lavorò all’Ucigos (Ufficio centrale per le investigazioni generali e le operazioni speciali) con compiti prettamente operativi, raccontano una storia diversa: «Con un drappello di fedelissimi ha riferito al Secolo XIX raggiungevo le città dove si dovevano torchiare i testi più importanti. E in alcuni frangenti, ammesso che ci si dovesse arrivare, la tortura rappresentava davvero l’unico modo per salvare delle vite».
«Non credo – insiste Rognoni – esistesse il tempo materiale per compiere soprusi. Erano le squadre locali, le varie Digos o i commissariati, a intercettare di volta in volta i sospettati, a far scattare il fermo di polizia giudiziaria. E nel breve intervallo di tempo in cui si protraeva questo provvedimento, non so quanto margine avrebbe avuto un organismo occulto e specializzato che doveva muoversi in ogni parte d’Italia».
In realtà, l’ex questore intervistato a Napoli spiega che i “cinque” parteciparono direttamente ad alcuni interrogatori dopo aver affiancato per giorni, e sul posto, altri investigatori che curavano le varie indagini dal principio: «Persino la Cia ha aggiunto rimase sbalordita dai nostri sistemi. In particolare, uno degli ufficiali che dovevano affiancare le autorità italiane come supervisori durante la vicenda Dozier si mise le mani nei capelli e disse: “Non credevo arrivaste a un livello tale di pressione”».
Per Virginio Rognoni «il compito dell’intelligence americana era talmente marginale, che non penso avessero un ruolo operativo tale da poter assistere a procedure estremamente delicate». Poi descrive la struttura dell’Ucigos: «Affidai le responsabilità maggiori a Gaspare De Francisci, il capo dell’ufficio era Umberto Improta. Come detto, in alcuni casi occorre fidarsi dell’acume e delle abilità dei singoli uomini, ai quali è sostanzialmente delegata tutta l’attività operativa».
Rognoni fu chiamato a rispondere più volte, alla Camera, sulle denunce di torture presentate dai terroristi, ma mai era stato interpellato sulla presenza d’un gruppo strutturato che le compiva sistematicamente, “I cinque dell’Ave Maria” appunto. «Un’espressione gergale», la definisce ancora, sebbene l’ultimo ragionamento risulti più articolato. «L’opinione pubblica dev’essere richiamata sul contesto di forte emotività che segnava quell’epoca. Penso alla brutalità con cui fu rapito e massacrato nel 1981 Vincenzo Taliercio (direttore del Petrolchimico di Mestre).
Ecco, davanti al risentimento prodotto da azioni simili non ci possono essere giustificazioni, non si può certo accettare la sevizia in un quadro democratico. Tuttavia va posto il problema, più ampio, dei rivolgimenti interiori, dell’”esposizione” umana cui gli investigatori che ogni giorno combattevano il terrorismo erano sottoposti, capace di generare una rabbia incontenibile».

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Cossiga: Un dirigente del Pci mi disse “date una strizzatina ai brigatisti”
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Salvatore Genova, che liberò Dozier, racconta le torture ai brigatisti
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Parla Nicola Ciocia, alias De Tormentis, il capo dei cinque dell’Ave Maria: “Torture contro i Br per il bene dell’Italia”
Le rivelazioni dell’ex capo dei Nocs, Salvatore Genova: “squadre di torturatori contro i terroristi rossi”
Il generale Dozier alla cerimonia in ricordo di Umberto Improta, uno dei funzionari di polizia coinvolti nelle torture
Torture della Repubblica: il movimento argentino degli escraches, un esempio di pratica sociale della verità
Torture e violenze sessuali contro le donne della lotta armata

Il generale Dozier incontra i giornalisti per il trentennale della sua liberazione: tranquilli nessuno parlerà delle torture!

Il generale James Lee Dozier, l’ex ufficiale statunitense comandante del settore meridionale della Nato, rapito dalle Brigate Rosse e liberato il 28 gennaio del 1982, dopo un’inchiesta segnata dal ricorso sistematico alle torture, ha incontrato oggi i giornalisti nei locali dell’Hotel Milton di Roma, in via Emanuele Filiberto 155. L’appuntamento era fissato per le 17. L’evento è stato organizzato per “festeggiare” il trentennale della sua liberazione insieme ai 12 uomini che agli ordini di Edoardo Perna, comandante del nucleo Nocs che penetrò nell’appartamento di via Pindemonte a Padova, riuscirono a liberare il generale della Nato.
«Sarà un’incontro di festa e allo stesso tempo l’occasione per rievocare e conoscere nel dettaglio l’operazione che portò alla sua liberazione», ha detto ieri all’Adnkronos Edoardo Perna. «Arrivammo all’appartamento a bordo di un camion, simulando un trasloco. Fu un’operazione perfetta, in pochi secondi riuscimmo a liberare Dozier», ricorda sempre Perna.
Questo è il link del servizio passato al Tg1 delle 20.00.
Ma il racconto di Perna è solo solo un breve fotogramma dell’operazione che prese inizio, come racconta qui sotto Salvatore Genova, all’epoca dei fatti commissario della Digos aggregato all’Ucigos, in un’intervista rilasciata il 24 giugno 2007 e confermata recentemente in una puntata di Chi L’ha visto? su Rai3, con la tortura scientifica di due «fiancheggiatori delle Br» ed in particolare su una donna, Elisabetta Arcangeli, messa in pratica da una squadra speciale del ministero dell’Interno guidata da Nicola Ciocia-professor De Tormentis, in una chiesa sconsacrata di Verona.

Aggiungiamo solo una piccola postilla al racconto dell’operazione di salvataggio del generale fatta da Matteo Indice, grazie alle dichiarazioni di Salvatore Genova e dell’anonimo funzionario, che poi – recentemente – si è scoperto essere Nicola Ciocia, alias De Tormentis, allora in forza all’Ucigos col grado di primo dirigente: sembra che su quei 100 milioni che un’altro importante funzionario dell’Ucigos si recò a ritirare a Roma venne fatta la cresta. Agli arrestati che sotto tortura divvennero collaboratori di giustizia fu consegnata la metà della somma presa dal fondo segreto del ministero dell’Interno. Anche la ragion di Stato ha il suo prezzo!

La vera storia della liberazione di Dozier

Matteo Indice
Il Secolo XIX
, 24 giugno 2007,  pagina 2

La soffiata decisiva per la liberazione del generale americano James Lee Dozier, vicecapo della Nato in Italia rapito dalle Br a Verona il 17 dicembre 1981 e liberato a Padova il 28 gennaio 1982 arrivò grazie alla tortura, scientifica,di due fiancheggiatori, messa in pratica in una chiesa sconsacrata a Verona, «un passaggio che impressionò persino la Cia». E dopo la liberazione, almeno 100 milioni delle vecchie lire furono distribuiti “informalmente” fra alcuni “pentiti”, le cui rivelazioni diedero impulso decisivo alla soluzione dell’inchiesta: gli stessi pentiti, ovviamente, non rivelarono mai nulla di preciso sulle sevizie.
È questa la ricostruzione, dettagliata e inedita, raccolta dal Secolo XIX direttamente da due dei funzionari di polizia che parteciparono alle fasi più delicate di quell’operazione.
Di uno, Salvatore Genova (all’epoca commissario della Digos genovese “aggregato” all’Ucigos) abbiamo rivelato nei giorni scorsi l’identità. L’altro l’abbiamo raggiunto a Napoli, ed è il superpoliziotto che guidava saltuariamente “I cinque dell’Ave Maria”, una squadra specializzata in interrogatori violenti. Ne rispettiamo, al momento, la richiesta dell’anonimato. Ma le loro dichiarazioni colmano la lacuna che il sostituto procuratore di Padova Vittorio Borraccetti e il giudice Roberto Aliprandi, presidente della Corte d’Assise che giudicò alcuni agenti incriminati per il pestaggio dei br sequestratori (ma non dei fiancheggiatori, ndr) descrissero nella requisitoria e nella sentenza di primo grado. Rimarcarono che non soltanto i poliziotti imputati compirono le torture, «e comunque non di propria iniziativa ma su ordine di persone più alte in grado». Nell’atto giudiziario venivano citati esplicitamente, quali «autori di un comportamento omissivo», l’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci e Umberto Improta, ai tempi funzionario della stessa divisione e in seguito prefetto di Napoli. «Con loro – rivela oggi l’investigatore anonimo [Nicola Ciocia Ndr], con il quale abbiamo avuto il lungo colloquio riportato a pagina 3 – avevo rapporti costanti, erano informati passo passo di tutte le procedure adottate per risolvere l’emergenza». Da Salvatore Genova arrivano invece le chiarificazioni sulle tappe che segnarono la soluzione del giallo. «Furono messe sotto controllo centinaia di utenze telefoniche, con l’obiettivo di scandagliare l’area dell’eversione. Ascoltavamo di tutto, in particolare le conversazioni di giovani militanti nell’Autonomia operaia. Il centro investigativo era la questura di Verona, dove di tanto in tanto venivano accompagnati i sospetti. Talvolta passavano per le mani di altri uomini in divisa, che usavano ogni sistema pur di farli parlare ». È in questo modo che vengono individuati RuggeroVolinia (il cui nome risulta negli atti dei vari processi) e la sua fidanzata. «Vennero accompagnati in questura – prosegue Genova – e nessuno si aspettava che da quell’uomo potessero arrivare indicazioni tanto importanti».
Non potevano immaginare, sulle prime, di trovarsi davanti “Federico” (questo il suo nome di battaglia), ovvero colui che materialmente, a bordo d’un furgone, trasferì Dozier dalla sua casa di Lungadige Catena a Verona al covo di via Ippolito Pindemonte, a Padova. Aggiunge, Genova: «Un gruppo specializzato si occupò dell’interrogatorio. Separarono Volinia dalla compagna e su di lei ci furono violenze. Io non partecipai all’azione, ma in seguito tacqui davanti ai giudici per proteggere altri funzionari, che mi garantirono avanzamenti di carriera in cambio del silenzio».
È solo la prima parte. «Sentendo le urla disumane della fidanzata, Ruggero Volinia a un certo punto supplicò di fermarsi. E iniziò a fare qualche nome; nulla di eclatante, ma palesava evidentemente una consapevolezza superiore a tanti altri». È lì che entrano in scena, direttamente, “I cinque dell’Ave Maria”. La conferma arriva da Napoli, a distanza di 25 anni, dalla voce del superiore che li guidava. «Io ribadisce il superpoliziotto [Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis] che non è mai stato coinvolto in alcun procedimento mi trovavo a cena in un ristorante con il capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci, che mi disse dell’interrogatorio in corso. Fu deciso allora di trasferire Volinia in una chiesa sconsacrata, un luogo più isolato, e qui ottenemmo indicazioni sensazionali. Anch’io raggiunsi il santuario, insieme ai miei, e lì si usarono “metodi forti”, gli stessi che portarono due fra gli ufficiali della Cia che ci affiancavano ogni giorno, a mettersi le mani nei capelli: “Non credevamo, dissero, che gli italiani arrivassero a un livello di pressione tale”».
L’autista è provato da una giornata infernale e alla fine cede, racconta tutto. «Se vi dicessi dov’è nascosto Dozier?». È la notte fra il 26 e il 27 gennaio, nella chiesa nessuno osa fiatare, a quel punto. E il prosieguo delle operazioni è cronaca nota: il blitz ad opera dei Nocs nella casa di via Pindemonte, dove Dozier era recluso sotto una tenda, e l’arresto dei brigatisti Antonio Savasta, Emilia Libera, Cesare Di Lenardo (colui che fece scattare la prima e circoscritta indagine sulle torture), Giovanni Ciucci e Daniela Frascella. Nei giorni successivi accadono altre cose, che nessuna indagine ha mai svelato con chiarezza. Le chiarifica ancora Salvatore Genova: «Un altro dei funzionari che parteciparono alle fasi finali degli accertamenti, e che assistette alle torture, andò a Roma a prelevare i soldi destinati ad alcuni pentiti, stornati da un fondo segreto destinato a quel tipo di risarcimento». Le stesse cose potrebbe ripetere a breve, davanti ai magistrati veneti che allora si occuparono del caso.

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Torture contro i militanti della lotta armata
Salvatore Genova, che liberò Dozier, racconta le torture ai brigatisti
Il penalista Lovatini: “Anche le donne delle Br sottoposte ad abusi e violenze”
Parla Nicola Ciocia, alias De Tormentis, il capo dei cinque dell’Ave Maria: “Torture contro i Br per il bene dell’Italia”
Le rivelazioni dell’ex capo dei Nocs, Salvatore Genova: “squadre di torturatori contro i terroristi rossi”
Il generale Dozier alla cerimonia in ricordo di Umberto Improta, uno dei funzionari di polizia coinvolti nelle torture
Torture della Repubblica: il movimento argentino degli escraches, un esempio di pratica sociale della verità