Truffa dei Parioli, il guadagno facile che “incanta” anche a sinistra
Paolo Persichetti
Liberazione 8 aprile 2011
Quello che più colpisce del raggiro finanziario messo in piedi da Gianfranco Lande, un po’ troppo velocemente ribattezzato il “Madoff dei Parioli”, vicenda sulla quale si sono dilungate le cronache dei giorni scorsi, non è tanto lo schema truffaldino messo in piedi quanto il profilo di alcune delle vittime, quasi 1200, finite nella rete. La tecnica utilizzata da Lande e dai suoi sodali finiti a Regina Coeli insieme a lui, attraverso alcune società costituite inizialmente in Paesi europei dove vige una larga deregulation finanziaria, come l’Irlanda e la Gran Bretagna, riprende la tecnica resa celebre negli Stati uniti all’inizio del secolo scorso dal migrante italiano Charles Ponzi. Si tratta del vecchio trucco della piramide: attraverso la promessa di guadagni rapidi e lucrosi, grazie a interessi sugli investimenti vertiginosi, si rastrella denaro. Il segreto è quello di trovarsi sempre al vertice della piramide ed aspettare che questa allarghi la sua base. L’afflusso di denaro dei nuovi clienti permette di remunerare i lauti interessi promessi ai primi. Lo schema regge finché la base della piramide continua ad allargarsi, poi crolla tutto. Nel frattempo i promotori della truffa scappano con la cassa. Ponzi reclutava le sue vittime tra gli altri immigranti e nei ceti popolari. Con appena due dollari si entrava nella società. In questo modo raccolse diversi milioni di dollari truffando quasi 40 mila persone.
Bernard Madoff, che è stato presidente del Nasdaq, il listino più importante nel mercato degli affari degli ultimi decenni, è riuscito a condurre fino al sublime questo modello attirando nella sua rete non singoli clienti ma i maggiori istituti finanziari del mondo. L’entità della truffa stavolta è stata dell’ordine dei miliardi di dollari, oltre 50. Addebitare a lui il crack della finanza internazionale sarebbe comunque un errore anche se la giustizia americana ne ha fatto un capro espiatorio. Ceti medi in rovina e grande borghesia avevano bisogno di un colpevole. Ma la bolla del mercato immobiliare statunitense, da cui hanno avuto origine i “derivati finanziari” utilizzati dai fondi speculativi che hanno invaso la finanza mondiale dopando l’economia, il debito pubblico di molti Paesi, persino quello di regioni e comuni in Italia, non sono certo riconducibili all’azione di un singolo attore. Il problema evidentemente investe l’evoluzione sistemica del capitalismo.
Lande, molto più modestamente, ha beffato il gotha della Roma pariolina, quartiere d’eccellenza della Capitale. Ma anche qui ridurre tutto ad una semplice truffa è forse fin troppo riduttivo. Lande e i suoi associati hanno certo agito fraudolosamente con società non autorizzate alla raccolta del risparmio, ma la loro azione illecita ha trovato spazio nelle maglie per nulla illegali della finanza internazionale. Il denaro dei loro clienti veniva investito in portafogli finanziari di varia natura, con l’arrivo dello scudo fiscale di Tremonti, Lande ha avuto l’occasione di creare una nuova società, questa volta autorizzata a raccogliere risparmio, che si è occupata di riportare in Italia i capitali precedentemente trasferiti all’estero al nero per convogliarli in nuovi investimenti dai contorni incerti, finché il crack della finanza internazionale ha accelerato il crollo di tutta l’architettura finanziaria messa in piedi.
Molto più interessante appare invece il profilo socio-culturale dei truffati, tra vip, imprenditori, politici (diversi piddini), calciatori e persino affiliati del clan Piromalli, si annidano alcune figure di punta del fronte girotondino che hanno promosso in chiave essenzialmente moralista l’antiberlusconismo nell’ultimo decennio. Spicca il nome di Sabina Guzzanti (400 mila euro persi), a dire il vero, fatta eccezione per Corrado, c’è l’intera famiglia: padre (275 mila) e sorellina più piccola (88 mila). Significativo il coinvolgimento dei Piromalli, esponenti di un noto clan della ‘ndrangheta calabrese, arrestati per estorsione su denuncia di un terrorizzato Lande perché cercavano di recuperare i 14 milioni versati, mentre erano loro i truffati. Circostanza che sfata molti luoghi comuni sul libìvello d’integrazione delle organizzazioni criminali con i “terzi e quarti livelli” finanziari. Ma forse ancora più decisive appaiono le parole di Mario Adinolfi, il bloger già candidato alle primarie dell’Ulivo, anch’egli esponente della galassia girotondina, che i suoi soldi li ha recuperati per tempo guadagnandoci un bel gruzzolo. Come ha spiegato in una intervista al Messaggero, aveva capito che non bisognava essere tra gli ultimi della piramide. A leggerlo, anche lui tra i più accesi antiberlusconiani, sembra di sentire invece uno dei tanti yesmen di Arcore: «Sono uno dei pochi che ha vinto», esulta. Quando il cavaliere entrava in politica Adinolfi affidava il suo denaro a Lande, «tra il ’94 e il ’95 credo. Ho tenuto i soldi “fermi” per quattro anni e già mi sembrava tantissimo». Adinolfi non è fesso, capisce l’antifona e chiede in dietro il suo investimento. E’ presto e la base della piramide si sta ancora allargando, per lui è una fortuna. Si è studiato bene la questione, come confessa sempre al quotidiano romano, dove conclude: «ho avuto indietro il denaro e gli interessi. E’ andata molto bene». Pecunia non olet si sa.
Questa vicenda mette in mostra l’essenza dei protagonisti girotondismo, l’indignazione moralista dei salotti che dietro le virtù pubbliche declamate cela gli stessi vizi privati del berlusconismo. In pubblico se la pigliano con il Cavaliere e i suoi loschi affari ma in privato tentano di fare la stesa cosa, anche se poi non ci riescono solo per imperizia delle membra. Dove sta la diffrenza?
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Populismo penale


inevitabilmente, abbassa la soglia della paura nel momento in cui sottopone i cittadini americani a una pressione sempre più forte. Le conseguenze dell’ascesa della questione criminale a uno status del genere sono state enormi: che si individui il valore della democrazia americana nelle sue caratteristiche di libertà o di uguaglianza, il governo attraverso la criminalità ha prodotto effetti negativi. In primo luogo, il massiccio dirottamento di risorse fiscali e amministrative verso il sistema di giustizia criminale – a livello statale e federale – ha configurato una trasformazione efficacemente descritta come transizione dallo “stato sociale” allo “stato penale”. Il risultato non è stato un governo più leggero, ma un esecutivo più autoritario, un potere legislativo più inerte e un sistema giudiziario più difensivo di quanto sia mai stato imputato allo stesso stato sociale. Inoltre, la parte di popolazione sotto custodia penale per aver commesso reati è cresciuta al di là di ogni legge storica. Alla fine del XX secolo, un numero senza precedenti di americani era confinato in prigioni statali o di contea, in centri di detenzione e luoghi di custodia all’interno delle scuole. La declinazione razziale di questa incarcerazione ha visibilmente invertito aspetti chiave della rivoluzione dei diritti civili. Per la prima volta dall’abolizione della schiavitù, un gruppo definito di americani vive, su basi più o meno permanenti, in una condizione giuridica di non-libertà – in virtù di una singola condanna all’ergastolo, di ripetute incarcerazioni, oppure delle conseguenze di lungo termine di una condanna penale; non solo, ma tra questi una sconcertante percentuale discende dagli schiavi liberati. Governare questa porzione di popolazione attraverso il sistema penale non ha garantito quelle condizioni di sicurezza che
potrebbero ispirare un maggiore investimento delle inner cities (cinture urbane, Ndr), ma, al contrario, ha ulteriormente stigmatizzato comunità già assediate dalla concentrazione della povertà. Come è prevedibile, sono i poveri, sovrarappresentati in entrambi i gruppi, a condividere questo destino; ma anche la vita quotidiana delle famiglie middle class è stata trasformata, non tanto dalla criminalità in sé, quanto dalla “paura della criminalità”. Nelle famiglie appartenenti alla middle class, decisioni quali dove vivere, dove lavorare e dove mandare a scuola i figli sono prese sempre più spesso in base al rischio percepito di criminalità. Nella misura in cui le istituzioni che sono al servizio della middle class si concentrano sulla gestione della paura della criminalità, la nostra nei confronti degli altri e quella degli altri nei nostri confronti, gli effetti si moltiplicano. Il punto non è che la middle class sia più colpita dal governo attraverso la criminalità di quanto lo siano i poveri; piuttosto, è considerare tanto il sistema di giustizia penale incentrato sulla comunità povere quanto il settore privato degli ambienti securizzati middle class alla stregua di specifiche modalità di classe, tra loro interagenti, del governo attraverso la criminalità. Tanto l’emergere delle gated communities (complessi residenziali chiusi all’accesso dei non residenti, Ndr) quanto il moltiplicarsi di smisurati Suv (sport utility vehicles) riflettono la priorità accordata dalle famiglie middle class alla sicurezza e al mantenimento della distanza, contro un rischio di criminalità associato ai poveri urbani. Ma come i critici dello sprawl (progressiva estensione delle città oltre il perimetro urbano, Ndr) hanno iniziato a documentare, un’insistenza così pesante sulla fortificazione rende queste comunità ancora più dipendenti da una polizia aggressiva e dallo stato penale per la tutela delle norme di civiltà. Infatti, il nuovo ambiente securizzato tende ad alimentare alcune routine circoscritte, ma quando si presentano situazioni inedite, esso tende a creare ciò che gli economisti chiamano (in modo appropriato, nel nostro caso) “dilemma del prigioniero”: vale a dire un gioco in cui i giocatori non possono collaborare, e possono avere la meglio solo se si fanno predatori per primi. L’ultimo che resta fuori perde (anche se sta tornando al suo Suv o nella sua gated community). In un ambiente di questo tipo, è lecito aspettarsi che querele e procedimenti penali intervengano sempre più a ristabilire il controllo sociale in assenza di fiducia.
migranti e richiedenti asilo. D’altro canto, con la crescente interdipendenza tra paesi e popoli, e con la coabitazione ‘coatta’ tra questi ultimi, la presenza dell’altro si rende visibile e finisce per creare insicurezza. Ecco un paradosso. L’insicurezza creata dai mercati riguarda tutti, o per lo meno le maggioranze, in termini di paura rispetto al futuro, vulnerabilità nei confronti del datore di lavoro, impotenza verso i processi decisionali. Ma una simile paura, che Bakhtin definirebbe ‘cosmica’, rivolta com’è a un potere inafferrabile e debordante, viene tradotta in sgomento indirizzato a minoranze visibili. Se lo Stato non può più difenderci dall’economnia, se non è più in grado di guidarla ma solo di obberdirle, allora dovrà difenderci da altre fonti di insicurezza. A uno Stato snello, che rinuncia alle tradizionali funzioni protettive, si chiede allora l’essenziale: la difesa del proprio corpo e dei propri possedimenti, anziché la difesa da un’economia che li minaccia. Il populismo penale è legato allo snellimento dello Stato e alla domanda crescente di difesa personale anziché sociale. Il termine populismo, d’altro canto, va riferito al risentimento di gruppi che si credono trascurati o abbandonati dall’autorità. Questo risentimento, però, si traduce in ostilità verso altri gruppi o individui ritenuti complici della condizione di abbandono avvertita. Il populismo non aspira al sostegno dell’opinione pubblica in generale, ma solo di quel settore della società che si crede sfavorito e danneggiato dalla presenza e dalle attività di altri gruppi. Questi ultimi, ritenuti immeritevoli di quanto posseggono, vengono indicati come responsabli dell’emarginazione di chi non vuole far altro che condurre un’esistenza ordinaria e silenziosa. Michael Howard, ministro britannico conservatore, in una dichiarazione rilasciata nel 1993, espresse con chiarezza questo pensiero: la maggioranza silenziosa è diventata rumorosa, perché il sistema della giustizia criminale fa ormai troppo per i criminali e troppo poco per la protezione del pubblico. Secondo una definizione comune, sono populisti i politici che concepiscono politiche penali punitive le quali sembrano rispecchiare gli umori popolari. Il populismo penale che si diffonde oggi, in realtà, nasconde altro. Assistiamo allo spettacolo dell’affluenza privata e dello squallore pubblico. Avvertiamo che i legami sociali si indeboliscono e sappiamo che solo questi legami possono contribuire, almeno parzialmente, a ostacolare gli appetiti individuali
eccessivi. La paura dell’altro, in questo contesto, è paura del tipo di sistema che abbiamo creato, è consapevolezza che sappiamo rispondere al crimine, ma non siamo in grado di rispondere alle sue cause. In una situazione di ineguaglianza crescente, con una polarizzazione della ricchezza che torna a livelli ottocenteschi, si teme che il crimine sia destinato a diffondersi e ad assumere i connotati della disperazione. Si teme l’ineguaglianza, non il crimine. Il populismo penale, infine, può avere una propria funzione latente. Se la severità penale, nei primi decenni della rivoluzione industriale, intendeva disciplinare le orde di spossessati al lavoro di fabbrica, nell’epoca corrente una simile severità può educare chi conduce vita precaria ad accettare la propria insicurezza e interiorizzare il proprio scarso valore sociale e umano. La pena, allora, contribuirà alla riduzione delle aspettative, convincendo chi ne è colpito della propria inutilità. Il populismo penale, in breve, è il compagno ideale della crescita economica, basata spesso sulla produzione dell’inutile che rende alcuni gruppi di esseri umani inutili. Ho detto in apertura che, nell’esaminare i paesi individualmente, si notano differenze non secondarie. Guardando all’Italia, ad esempio, credo che il populismo penale si avvalga di uno sfondo culturale e politico davvero singolare. Con una vita pubblica ormai priva di qualsiasi missione etica, e un’élite che moltiplica le manifestazioni della propria illegalità, il populismo non è il trasferimento in politica del risentimento popolare o delle intuizioni che vengono dalla strada, ma è l’insulto, l’aggressione, la depredazione che alcuni temono di poter subire per strada.