Già più di mille i ricorsi dei detenuti a Strasburgo contro il sovraffollamento

Antigone e altre associazioni raccolgono i reclami dei detenuti

Alfredo Imbellone
Liberazione 3 gennaio 2010 – speciale Carcere e castigo


Nell’estate del 2009 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia a risarcire Izet Sulejmanovic per essere stato costretto, durante la sua detenzione nel carcere romano di Rebibbia, a vivere in uno «spazio personale» inferiore ai tre metri quadrati. La condanna ha riguardato solo i cinque mesi di detenzione in cui si sono potute riscontrare tali condizioni di sovraffollamento e il risarcimento è stato quantificato in mille euro.
Per la prima volta in Italia le condizioni di invivibilità delle carceri determinate dal sovraffollamento sono state definite da un organismo giurisdizionale di livello internazionale. È un precedente significativo che, grazie a un intervento europeo, rompe l’immobilismo italiano attorno alla violazione quotidiana del dettato costituzionale contenuto nell’articolo 27 che stabilisce la presunzione d’innocenza fino a condanna definitiva, l’umanità e il fine rieducativo delle pene e l’inammissibilità della condanna a morte.
Grazie a una definizione di standard di vivibilità da parte del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, la Corte ha potuto individuare nelle condizioni di sovraffollamento un «trattamento inumano e degradante» che viola l’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. La vivibilità minima si misura in termini di spazi assegnati a ogni detenuto, tempo quotidiano che si può trascorrere fuori dalla cella, accesso alla luce e all’aria, privacy per quando si utilizza il wc.
E’ proprio il carattere “oggettivo e misurabile” della sentenza Sulemamovic che la rende un evento potenzialmente dirompente nei confronti delle disastrose condizioni del sistema penitenziario italiano. Non a caso la sentenza ha visto la strenua opposizione in seno alla Corte del giudice italiano Vladimiro Zagrebelsky, contrario a qualsiasi automatismo nel riconoscimento delle condizioni di sovraffollamento come trattamenti inumani e degradanti. In effetti se i detenuti che vivono in queste condizioni continueranno a seguire l’esempio di Sulemamovic, il governo italiano si potrebbe trovare costretto a risarcire decine di migliaia di detenuti. Gli standard di vivibilità definiti a livello europeo si avvicinano infatti molto alla cosiddetta capienza “regolamentare” delle nostre carceri (circa 43.000 posti), o al limite alla capienza “da metro quadrato” calcolata dalla Direzione generale dei Beni e dei Servizi del ministero (circa 52.000 posti). In ogni caso si è ben al di sotto delle attuali presenze (circa 67.000), superiori persino alla cosiddetta capienza “tollerabile” (circa 64.000 posti) stabilita con decreto ministeriale aumentando – sic et simpliciter – i posti regolamentari del 47%.
La significatività della sentenza Sulemamovic non è sfuggita alle organizzazioni che si muovono in difesa dei diritti delle persone detenute. Ristretti Orizzonti mette a disposizione tramite il sito Internet, www.ristretti.it, materiali utili per una documentazione approfondita sulla vicenda; il Comitato radicale per la giustizia Piero Calamandrei ha predisposto un modello di ricorso che ciascun detenuto può compilare e inviare direttamente alla Corte. L’intervento più significativo, tuttavia, sembra essere quello messo in campo dall’associazione Antigone che da settembre 2009 ha messo a disposizione il proprio Difensore civico in una campagna per sostenere i detenuti che vogliono andare davanti ai giudici europei per denunciare condizioni di invivibilità in cui si trovano costretti.
Parlando con Simona Filippi, avvocato di Antigone, abbiamo appreso che a oggi sono più di mille i detenuti che si sono rivolti all’associazione per chiedere aiuto nella presentazione del ricorso. Per supportare i detenuti Antigone ha costituito una rete nazionale di volontari, prevalentemente avvocati, impegnati nella presentazione dei ricorsi. Sinora si sono rivolti a questa iniziativa singoli detenuti, così come gruppi. Dal carcere di Saluzzo hanno scritto ad Antigone: «Siamo in due in cella da uno. […] un passeggio di 25 persone attualmente ci andiamo in 56 persone, in due salette che sono utilizzate per socializzare ci andiamo più di 40 persone e pensate che sono state create per 25 persone. Alle finestre ci sono delle doppie griglie che ci causano dei problemi di vista perché non possiamo vedere fuori. [….]».
Non ci sono termini di scadenza per la presentazione del ricorso laddove la persona detenuta si trova a vivere in condizioni di sovraffollamento. I termini per presentare il ricorso davanti alla Corte europea, infatti, scadono dopo sei mesi dalla cessazione della causa che determina la violazione del diritto. In questo caso, i sei mesi iniziano a decorrere da quando si viene trasferiti in un altro istituto o da quando si esce dal carcere per fine pena. I riferimenti per chi fosse interessato a presentare il ricorso sono: Difensore civico – Associazione Antigone, Via Principe Eugenio 31, 00185 Roma, difensorecivico@associazioneantigone.it.

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Antigone: “Piano carceri, unica novita i poteri speciali a Ionta”
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Processo breve: amnistia per soli ricchi

Giustizia, due binari: prescizione breve solo per i “colletti bianchi”, detenzioni lunghe e celle sovraffollate per tutti gli altri

Paolo Persichetti
Liberazione 24 novembre 2009

Prescrizione breve per colletti bianchi e ceti abbienti, detenzioni lunghe e celle sovraffollate per tutti gli altri. Da una parte un’amnistia mascherata e tutta di classe per chi riesce sempre a sottrarsi al processo, figuriamoci alla condanna; dall’altra condanne pesanti, aggravanti e recidive di ogni ordine e grado, pene lunghe e senza benefici, per chi non appartiene ai ceti del privilegio, come è accaduto a Giovanni Lorusso, morto nel carcere di Palmi pochi giorni fa. “Dimenticato” in cella dall’ufficio matricola, nonostante una ordinanza del gip gli avesse concesso gli arresti domiciliari. Lorusso era “pericoloso” perché nell’agosto 2008 aveva rubato uno zaino in una spiaggia di Rimini. Furto punito con una condanna a 4 anni e 5 mesi. Sanzione provocata dall’applicazione di una serie di aggravanti: la recidiva specifica prevista dalla ex Cirielli, la violazione delle misure di sorveglianza dovute alla qualifica di delinquente professionale, che gli era stata applicata in ragione della sua ricca fedina penale. Insomma la classica persecuzione. Dopo la pena, tutta scontata fino all’ultimo secondo, arriva la sanzione civile, l’esclusione dal consesso sociale. Marcato a vita col tesserino rosso al posto della carta d’identità. Niente impieghi nei pubblici uffici, niente patente di guida. Devi giustificare ogni tuo spostamento. Non puoi lasciare il comune di residenza senza un’autorizzazione specifica. Puoi uscire di casa solo nelle ore autorizzate. Liberalissima misura di polizia ereditata dal fascismo e republicanizzata con un espediente: non è più il prefetto che emette la sanzione ma il magistrato di sorveglianza. In fondo ci vuole poco per diventare democratici: basta un giudice nei paraggi e il gioco è fatto. Come ci spiega il nuovo filosofo della politica Roberto Saviano con le sue letterine da baci perugina. È questa l’idea di giustizia che viaggia ormai da anni in questo Paese. Una specie di tira e molla tra il centrodestra che vuole l’immunità degli opulenti, la tolleranza zero su base censitaria, processi e carcere per quelli che considera rifiuti sociali e nemici: migranti, tossicodipendenti, terroristi; e il centrosinistra che se ne infischia di chi viene triturato da leggi sempre più liberticide e pur di arrivare a sconfiggere l’odiato Berlusconi (senza mai riuscirci), promuove un’idea di società penale e disciplinare. In questo clima imbestialito, dove nelle carceri ormai non si hanno più di tre metri quadrati a testa, dove i reclusi hanno raggiunto le 66 mila unità a fronte di 42 mila posti tollerati, sono riprese le proteste. Al Marassi di Genova, venerdì sera i detenuti hanno avviato una battitura contro la situazione di sovraffollamento. Le difficili condizioni di vivibilità hanno subito fatto salire la tensione e nella serata un detenuto ha tentato il suicidio. Intorno alle 23.50, il personale di custodia ha avvertito un forte odore di gas provenire dalla sezione di alta sicurezza. L’intervento tempestivo ha permesso di trovare l’uomo ancora in vita, riverso a terra con la testa ricoperta da una busta di plastica all’interno della quale confluiva il gas di una bomboletta impiegata per il fornello da cucina. Una volta ripresosi, l’uomo ha giustificato la sua azione dipserata come un «gesto di protesta contro le condizioni detentive». Nel solo 2008 sono stati sventati 650 suicidi. La battitura è stata sospesa nella giornata di sabato, dopo un incontro dei reclusi con il direttore che si è impegnato a risolvere nel giro di 24 ore alcune delle situazioni più insostenibili. Una protesta analoga si sarebbe svolta anche nel carcere di Lucca, protagonista questa estate di una semirivolta, insieme ad altre carceri toscane. Ne ha dato notizia il segretario generale del Sappe, Donato Capece, che ha spiegato come nel penitenziario lucchese siano ospitati 200 detenuti per una capienza di appena 82 persone. Mentre a Marassi 780 reclusi si dividono lo spazio previsto per 430 posti letto. Proteste con battitura dei ferri contro il sovraffollamento anche nel carcere San Donato di Pescara. Secondo i testimoni, l’eco delle grida giungeva fin nelle strade circostanti le mura di cinta, in particolare la parola «sovraffollamento», ripetuta in continuazione. Nella struttura del capoluogo adriatico è stata superata la capienza massima, con 75 detenuti in più rispetto a quanto previsto (195 invece di 120). Situazione divenuta ancora più pesante dopo la chiusura della sezione penale per lavori di ristrutturazione, che ha reso necessario ridistribuire i detenuti nelle altre due sezioni. Nelle carceri abruzzesi vi sono attualmente 1.909 detenuti, 434 oltre il limite regolamentare.

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Lo scudo di classe di Berlusconi
La farsa della giustizia di classe
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Il populismo penale una malattia democratica

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Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Populismo penale, una declinazione del neoliberismo

Sprigionare la società
Desincarcerer la société
Carcere, gli spettri del 41 bis

Suicidi in carcere, detenuti orfani della politica

Libri – In carcere: del suicidio ed altre fughe, Laura Baccaro e Francesco Morelli, Ristretti orizzonti

Paolo Persichetti
Liberazione 23 settembre 2009

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«Parlare di morte fa ridere, di un riso forzato e osceno. Parlare di sesso non provoca più nemmeno questa reazione: il sesso è legale, solo la morte è pornografica», scriveva Jean Baudrillard. Forse è per questo che in carcere ci si toglie la vita con tanta frequenza. Perché è rimasto uno dei luoghi dove permane ancora l’osceno, dove il sesso è vietato e la morte fa compagnia. Come si conciliano i decessi in carcere dovuti alla malasanità, all’alto numero di suicidi, oppure le migliaia di atti di autolesionismo e scioperi della fame col dettato costituzionale che cita espressamente il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e le finalità rieducative della pena? Per chi conosce il mondo opaco degli universi concentrazionari: carceri, centri d’identificazione ed espulsione, Opg e sezioni psichiatriche dove si praticano Tso senza controllo e sono tornati in auge i letti di contenzione in spregio della riforma Basaglia, la domanda può apparire fin troppo logora, un esercizio di svogliata retorica. Il volume edito da Ristretti orizzonti, In carcere: del suicidio e altre fughe, scritto a due mani da Laura Baccaro e Francesco Morelli (lei, psicologa e criminologa, lui, animatore del sito www. Ristretti orizzonti.it), ha il merito di restituire appieno la capacità di scandalo, l’indignazione della prima volta. Corredato con una serie di appendici storiche, normative e statistiche, il volume affronta il tema del suicidio seguendo un approccio socio-psicologico accompagnato da una ricca documentazione e una folta serie di testimonianze pescate dall’archivio di Ristretti orizzonti. Se ne è discusso ieri in occasione di una conferenza stampa tenutasi presso la Camera dei deputati, presenti Ornella Favero responsabile di Ristretti Orizzonti, Rita Bernardini, deputato radicale-Pd, Luigi Manconi ex sottosegretario alla Giustizia, Luigia Pulla, direttrice dell’ufficio studi dell’amministrazione penitenziaria e altri. Assenti, nonostante fossero i padroni di casa, i poco onorevoli deputati. L’argomento ha già perso d’interesse per il ceto politico-istituzionale (ammesso che l’abbia mai avuto) nonostante lo scorso Ferragosto ci sia stata la più grossa visita parlamentare negli istituti di pena dal dopoguerra. Proprio quella visita aveva consentito di aggiornare i dati sui decessi all’interno delle carceri, 53 (di cui 33 suicidi) dall’inizio dell’anno e almeno 4 mila gli atti di autolesionismo segnalati dall’inizio del 2008. Ultimo l’episodio, che ha avuto una certa eco sui quotidiani nazionali, quello di Sami Mbarka Ben Gargi, il 41enne tunisino morto alla fine di un lungo sciopero della fame avviato per protestare contro una condanna che riteneva infondata. Il fatto che all’interno delle carceri ci si tolga la vita con più frequenza che nella società esterna è un dato abbastanza intuitivo, non ci vuole molto per capirlo. Esistono tuttavia studi scientifici che fin dalla fine dell’Ottocento ne comprovano la fondatezza. Da allora la domanda rimane più o meno la stessa: quali sono le cause che favoriscono lo scatenamento del comportamento suicidario o autolesionista, di fronte ai mutamenti architettonici e normativi che hanno modificato la vita carceraria? Quanto può incidere il sovraffollamento attuale? Il degrado delle condizioni dirette e indirette, la riduzione degli spazi di vita, 3 metri a testa (anche meno in alcune situazioni) invece dei 6-7 abituali, le minori opportunità di lavoro, di spazi di socialità, di colloqui, l’assistenza sanitaria già carente che va in tilt, l’impossibilità per gli operatori (educatori e psicologi ridotti al lumicino) di seguire il trattamento e quindi di presentare dossier che reggano al vaglio di magistrati di sorveglianza sempre più maldisposti a concedere benefici, quanto pesa? Molto moltissimo. Ma c’è un dato che più d’ogni altro sorprende: l’esplosione dei suicidi segue il varo della riforma carceraria. Un terzo in meno prima della riforma e un numero di tentati suicidi e gesti di autolesionismo 14 volte superiore dopo. Gli autori trovano una spiegazione nei mutamenti sociologici intervenuti nella popolazione detenuta, oggi più fragile (alto numero di tossicodipendenti e stranieri); i mutamenti culturali (suicidarsi è meno disonorevole); la frantumazione della coesione; la struttura monocellulare che ha sostituito le camerate e quindi introdotto più solitudine. Rilievi socio-culturali importanti che ricordano in parte le modificazioni che hanno travolto la classe operaia. Ora questi cambiamenti, sovrapposti alle innovazioni normative, delineano un qualcosa che sa molto di politico. La Gozzini (1986) ha spezzato lo sviluppo di rivendicazioni collettive, rendendo la detenzione una vicenda fondamentalmente singola, “privata”, legata a una logica premiale, paternalistico-inquisitoriale. L’aggressività o il conflitto hanno così mutato di segno rivolgendosi contro degli attori, i detenuti, divenuti soggetti nel senso di assoggettati. La fine della parola politica, della stagione delle lotte carcerarie ha lasciato come unica via l’impolitica dei corpi.

Per chi vuole approfondire
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Indulto e crollo della recidiva: una lezione che non piace a Marco Travaglio

Al pubblico ministero d’Italia non va giù che l’indulto abbia contribuito a ridurre il numero dei reati

Paolo Persichetti
Liberazione 26 agosto 2009

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Ci mancava proprio lui, don Manetta. La calura ci aveva liberato per un po’ dalle sue requisitorie.
Marco Travaglio è tornato a prendersela con l’indulto. Sull’Espresso (20 agosto) definisce un «presunto ragionamento portentoso» l’analisi dei dati della ricerca di Giovanni Torrente, (http://www.ristretti.it/commenti/2009/maggio/pdf15/ricerca_torrente.pdf.) dell’università di Torino, che hanno dimostrato come indulto, benefici e misure alternative, abbiano abbattuto la recidiva delittuosa. Insomma fatto calare i reati. Una cocente sconfitta per i giustizialisti della sua risma.
A Travaglio i numeri non piacciono. Li preferisce solo se declinati in anni di galera, altrimenti adora le parole, ma solo dei pentiti, soprattutto se de relato. È uno da buco della serratura che si trastulla con le intercettazioni telefoniche. Per il pubblico ministero d’Italia, se la recidiva è crollata è solo perché i furfanti non sono stati ancora presi. Aspettate e vedrete, dice. Un vero puzzone, uno di quelli che pur di non starci è disposto a fare carte false.
Caro dottor Manetta a essere calati sono i fatti-reato. Se ci sono meno denunce vuole dire che ci sono stati meno delitti, non meno persone arrestate. Anzi quelle aumentano per effetto di leggi che puniscono l’uso di droghe e la migrazione clandestina. Così le carceri scoppiano.
Ci sono due cose che Travaglio non capirà mai: la prima è che solo a metà degli anni 70 l’Italia ha toccato il suo minimo storico di detenuti. Quando la gente ha una speranza e lotta, non ruba. La seconda è che la pensa come Martelli e Craxi, che per primi introdussero la politica della tolleranza zero.

Link
Giovanni Torrente, indulto. La verità, tutta la verità, nient’altro che la verità.pdf.

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Carcerazioni facili, dopo le proteste torna in carcere. Aggirate le garanzie processuali

Nel paese del carcere facile, il Corriere della Sera s’inventa l’ennesima polemica sulle scarcerazioni rapide

Carceri affollate: Giudici californiani, «Svuotate le celle»

In California dopo il successo di una Class action promossa da un’associazione di detenuti, la Corte federale ordina la scarcerazione di 43 mila detenuti  entro due anni. Intanto l’Italia subisce la prima condanna per il sovraffollamento delle sue prigioni

Paolo Persichetti

Liberazione 6 agosto 2009

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La corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha condannato nelle scorse settimane l’Italia a risarcire la cifra simbolica di mille euro per “danni morali” a un ex detenuto, Izet Sulejmanovic, perché vivere in 2,7 metri quadrati di spazio, cifra inferiore al limite di vivibilità di 7 metri quadri a persona stabilito dal comitato europeo per la prevenzione della tortura, è «inumano e degradante». Il trentaseienne bosniaco, condannato nel 2002 a due anni di reclusione per furto aggravato, era finito nel carcere romano di Rebibbia dove era rimasto rinchiuso per alcuni mesi in una cella che ospitava altre 5 persone. 16 metri e 20 centimetri da dividere in sei. Più o meno la realtà quotidiana di tutte le carceri italiane, anzi nemmeno la peggiore. Basti ricordare che tempo fa, nella casa circondariale di Trieste, si era sperimentata la turnazione, regolata con un registro, dei materassi sul pavimento. La cosiddetta “quinta branda”, cioè il posto in più ricavato con mezzi di fortuna nelle celle collettive, in genere da quattro, è stata sorpassata da tempo. Ormai si ricorre ai letti a castello. Le sezioni monocellulari ospitano due, se non tre detenuti per “cubicolo”, mentre nei “cameroncini” si può arrivare a sette-otto ospiti. Poi ci sono i “transiti”, le sezioni di prima accoglienza dove non esistono limiti. Pollai umani. Calca di corpi. La sanzione stabilita dai giudici europei è dunque importante perché riconosce l’illegalità permanente della condizione carceraria. Probabilmente questa è solo la prima di una lunga serie di condanne che investiranno il sistema carcerario italiano, e non si capisce bene con quale faccia i dirigenti del Dap e del ministero della Giustizia potranno affacciarsi in Europa. Il problema tuttavia non è solo italiano, anzi più esattamente l’Italia l’ha importato dagli Stati uniti, soggiogata dalle politiche sicuritarie della tolleranza zero. Ora però arriva il conto e sarà salato in termini economici e sociali. Il livello di tensione e conflitto sta salendo, l’ingestibilità dell’universo carcere diventa ogni giorno di più difficile. L’ossessione della sicurezza «ha generato solo insicurezza», come ricordava tempo fa Michele Ainis su La Stampa. Basta ascoltare gli allarmi lanciati dai sindacati penitenziari. Un coro unanime denuncia l’invivibilità e la pericolosità raggiunta dal sistema.
Negli Stati uniti, ha raccontato l’altro ieri il New York Times, un comitato di giudici federali della California ha ordinato al governatore Arnold Schwarzenegger di ridurre il numero dei reclusi di almeno 40 mila unità entro i prossimi due anni, cioè circa il 27% della popolazione totale.

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Il giudizio emesso dalla corte è molto netto, definisce senza mezzi termini il circuito penitenziario, così come oggi è concepito, un sistema «criminogeno». Dopo aver indagato per alcuni anni il trattamento riservato ai reclusi, a seguito di una class action promossa da un’associazione di carcerati, e dopo lo stato di emergenza proclamato dallo stesso governatore nel 2006,  i tre giudici federali hanno stilato un rapporto di 184 pagine nel quale concedono 45 giorni di tempo ai membri dell’assemblea statale e al governatore per presentare un piano che riduca la popolazione dalle attuali 150 mila unità a 110 mila. Nel rapporto i giudici denunciano violazioni patenti dei diritti individuali sanciti dalla costituzione. «La salute fisica e mentale degli istituti californiani è umanamente e costituzionalmente inadeguata da oltre 10 anni». Per lungo tempo sono state negate, in situazioni dove l’affollamento può raggiungere livelli spettrali anche del 300%, «le cure fisiche e mentali essenziali con conseguenze talvolta fatali».

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Il rapporto descrive un flusso d’ingresso negli istituti che stravolge tutte le misure di verifica e gestione, con l’effetto di rendere poco accurate le fasi d’identificazione e di certificazione dello stato di salute degli incarcerati, suscitando situazioni di pericolo per la custodia e i reclusi stessi. Emerge un sistema caotico con tripli letti a castello, brande accatastate in palestre e corridoi. In sostanza l’inchiesta delinea lucidamente il tracollo del complesso carcerario-industriale e della politica della tolleranza zero risoltasi nel suo esatto contrario, ovvero una industria dell’insicurezza. Schwarzenegger aveva già proposto una riduzione di 27 mila unità, ma i giudici ora portano la barra a 43 mila. Nessuno pensa alla costruzione di nuove carceri come in Italia. Una vacanza in California potrebbe suggerire qualche buona idea al ministro Alfano e al capo del Dap, Ionta. Buon viaggio.

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Carcere, solo posti in piedi

Carcere d’estate, solo posti in piedi. Il Dap, “ghiaccio per tutti”

Paolo Persichetti
Liberazione 9 luglio 2008

«Solo posti in piedi». Questo è il cartello che presto verrà affisso davanti alle entrate degli istituti di pena.
Si è sforata ormai anche la soglia dell’ipocrisia, quella che prevede un «capienza tollerabile» di 63.762 detenuti a fronte di una soglia regolamentare che invece ne accetta “solo” 43.201, cioè 20 mila in meno. Quest’ultima a sua volta gonfiata. Il numero di posti realmente fruibile carceri affollate rid3infatti è ancora più basso, non arriva ai 38 mila. Ieri eravamo a 63.789. Peggio di un carro bestiame. A Trieste la direzione del carcere aveva persino introdotto un registro dei materassi a terra per stabilire chi a turno doveva dormire sul pavimento. Un modo per regolamentare il disagio ed evitare tensioni. Dopo le brande supplementari, dopo i letti a castello che raggiungono il soffitto, dopo l’occupazione delle salette una volta adibite per la socialità, quelle dove in genere c’era il tavolo da ping-pong e alcune sedie e tavolini per giocare a carte oppure a scacchi ed ora vivono in permanenza 20-30 persone, dopo i pavimenti sono rimasti solo i posti in piedi. Restano i corridoi (come in certi ospedali), ma ancora per poco.
Ovviamente c’è fermento nelle carceri per questa situazione che rasenta l’indicibile, soprattutto quando il caldo torrido, come quello di questi giorni, rende impraticabili le più elementari condizioni di vita e d’igiene. Ma non è che in inverno sarà meglio. Ora infatti le direzioni possono ricorrere al prolungamento delle ore d’aria nei cortili, come indicato da una circolare del Dap. Ma quando arriverà il freddo e le ore di cella chiusa si prolungheranno la vita sarà ancora di più un inferno.
Da settimane si registrano proteste collettive dei reclusi. In almeno 30 istituti di pena sono in corso scioperi del vitto e “battiture” ad orari prestabiliti. Andate sotto le mura del carcere della vostra città e sentirete un assordante concerto di pentole e casseruole accompagnato da urla, canti, fischi, stracci alle finestre. Il popolo chiuso si fa sentire, suona la sua sinfonia d’estate. A Lanciano, Secondigliano, Reggio Emilia, Rebibbia reclusione, Marassi, Marino del Tronto, Como, Piacenza, Saluzzo, Catania, Palermo, Pisa, Verona, Venezia, i detenuti hanno inscenato proteste a turno.
Negli uffici del Dap se non è allarme rosso, poco ci manca. Anche se nessuno l’evoca e le preoccupazioni si dirigono soprattutto verso comportamenti individuali, come l’autolesionismo e i suicidi (è stato vietato l’uso di scatolame in metallo), lo spettro della rivolta aleggia nei retropensieri. Basta un niente, una scintilla in situazioni sature di tensione e malumore perché tutto precipiti. Per questo la protesta ha contagiato anche la polizia penitenziaria che deve convivere con il sovraffollamento. Le principali sigle sindacali hanno manifestato ieri a Bologna. Seconda tappa dopo Milano. Il calendario della protesta degli agenti di custodia prevede ulteriori tappe a Bari, Palermo, Cagliari per poi concludersi a Roma in settembre. I sindacati penitenziari denunciano il «disinteresse del Ministro Alfano» e una carenza d’organico cifrata a 5 mila agenti. Ricordano, inoltre, come il “piano carceri”, nel quale si prevedeva la costruzione di 24 nuovi istituti e l’ampliamento di quelli esistenti, non è mai decollato. Affermano anche che «la soluzione di tutti i problemi non può essere quella di affidarsi solo e soltanto all’edilizia penitenziaria». L’idea che la semplice estensione della superficie repressiva, la moltiplicazione senza precedenti dei contenitori penali, l’esplosione della popolazione detenuta fino alle 80-100 mila unità messe in conto dalle proiezioni del piano carceri non sia più la soluzione ma parte del problema, è un’acquisizione nuova in territori come quelli della penitenziaria. Si tratta evidentemente di quel semplice “buon senso” che nasce da chi opera a contatto diretto con la realtà carceraria fuori dalle strumentalizzazioni politiche, dalla demagogia populista e giustizialista. Si tratta di una consapevolezza sistemica che però non ha rappresentanza sociale e mediatica e non trova traduzione in un sistema politico che ormai funziona solo per lobby e gruppi di potere. Le proteste dei detenuti non riescono a farsi sentire, non trovano eco in periodo dove il conflitto è demonizzato, la protesta criminalizzata, soprattutto i movimenti deboli, isolati, confusi.
Pur ammettendo che la situazione è «altamente critica», il Dap può permettersi di rispondere ricorrendo a dei ridicoli palliativi. Il presidente, Franco Ionta, ha istituito un sistema di monitoraggio, un gruppo di lavoro con facoltà di verifica e proposta, costituito col bilancino per dare visibilità ai diversi interessi corporativi che compongono la realtà penitenziaria: due magistrati, un direttore penitenziario, un ufficiale giudiziario e due alti ufficiali della polizia penitenziaria. In una circolare di 16 pagine, inviata a tutti gli istituti di pena, indica l’individuazione di «spazi detentivi a gestione “aperta” – con limitate ricadute sul contingente da impiegare per il controllo e la sicurezza – dove assegnare detenuti di minore pericolosità». Una soluzione arrangiata per tenere i reclusi ammassati nelle celle solo in orari notturni. Ha disposto un incremento delle ore di passeggio e l’acquisto di maggiori quantità di ghiaccio e metadone. Il carcere, come avrebbe detto Gigi Proietti si è liqueso.

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Sistema carcere, troppi morti

Da gennaio a maggio 2009 sono trentatré le persone che hanno perso la vita. C’è un rapporto diretto tra sovraffollamento e incremento dei suicidi

Paolo Persichetti
Liberazione 6 giugno 2009

Aziz aveva 34 anni. Di lui le cronache non hanno registrato il cognome. Era marocchino, quanto basta. Si è impiccato nel carcere di Spoleto all’inizio dell’anno. Il 26 gennaio, invece, si è tolto la vita allo stesso modo, in una cella del reparto di elevata vigilanza del carcere di Poggioreale, un croato di 37 anni. Di lui non si conosce nemmeno il nome. Leonardo Di Modugno aveva 25 anni, si è appeso con una corda di fortuna l’8 marzo alla Casermette, la casa circondariale di Foggia, dove era seguito da uno psichiatra. Giancarlo Monni, detenuto al Buoncammino di Cagliari, è morto per un attacco di broncopolmonite. Aveva 35 anni ed era sieropositivo. Antonio Saladino è deceduto al Mammagialla di Viterbo. Aveva 57 anni, anche lui con problemi psichici. Per togliersi la vita ha scelto un sistema diverso. Ha infilato la testa dentro una busta di plastica che poi ha riempito con il gas del fornellino da campeggio usato in cella per cucinare. Chissà, forse non voleva morire.  suicidi-confronto-2005-2009
Aspirare il gas è uno dei modi per sballarsi. Lo stordimento è una forma di evasione che aiuta i più fragili a tirare avanti. Ma ogni volta la «pippata»  (come si dice in gergo) si fa sempre più lunga fino a diventare letale. E poi c’è lei, Mabruka Mimuni, 42 anni, trovata esanime con una corda al collo la mattina del 7 maggio nel Cei di Ponte Galeria, a Roma. La sera prima le avevano comunicato l’espulsione. Non voleva tornare in nessun modo in Tunisia. Aveva scontato alcuni anni di carcere, poi era uscita in misura alternativa per lavorare con una cooperativa. Allo scadere della pena è stata rinchiusa nel centro di retenzione. Era finalmente riuscita a rifarsi una vita. L’espulsione spezzava di nuovo la sua vita. Ritornare indietro dopo tanta fatica sarebbe stata la sconfitta più umiliante. Non lo ha permesso.
Dai primi mesi dell’anno sono morti nelle carceri, o nei Cei italiani, 33 persone. Di queste ben 28 per suicidio; il numero più alto registrato nello stesso periodo da quando Ristretti Orizzonti ha dato vita ad un osservatorio specifico sulla questione. Gli altri decessi sono dovuti a cause non accertate oppure a patologie aggravate dalla condizione detentiva. Dei suicidati, 16 erano italiani e 12 stranieri. Si tolgono la vita soprattutto i più giovani, 10 avevano tra i 20 e i 29 anni, 9 tra i 30 e i 39. Nei primi mesi del 2005, i suicidi sono stati 25, 23 nel 2006. Solo 13 nel 2007, grazie all’indulto, già 18 l’hanno dopo. Ma diamo un po’ di luce a questi nomi, almeno quelli noti: Salvatore Mignone, Rocco Lo Presti, Francesco Lo Bianco, M.B., Gaetano Sorice, Vincenzo Sepe, Mohammed,  Giuliano D., senza nome, Jed Zarog, senza nome, Marcello Russo, Francesco Esposito, Carmelo Castro, Gianclaudio Arbola, senza nome, Andrei Zgonnikov, Daniele Topi, Ihssane Fakhreddine, Franco Fuschi, Graziano Iorio, Ion Vassiliu, L.P., senza nome, senza nome, Samir Mesbah, senza nome.
C’è un rapporto diretto tra sovraffollamento e incremento dei suicidi. Le carceri hanno ormai oltrepassato il tetto dei 63 mila detenuti, cioè 20 mila in più della capienza “regolamentare”. In realtà quella realmente fruibile è ancora più bassa, non arriva ai 38 mila posti. 5 mila in meno di quella indicata ufficialmente. Tra la capienza fruibile (quella che corrisponde ai posti letto reali), e la capienza “tollerabile”, criterio amministrativo introdotto dal ministero per estendere virtualmente la capacità di accoglienza delle prigioni, c’è un divario di 30 mila posti. L’affollamento carcerario è già strutturalmente insostenibile. Condizioni di vita bestiali e promiscuità forzata caratterizzano l’attuale «trattamento penitenziario». Le norme previste nell’ordinamento e nel regolamento del 2000 sono lettera morta.
Questa lista di scomparsi ricorda quella dei morti per lavoro. Strage silenziosa. In un’epoca in cui la figura della vittima è stata eletta a modello ideale, queste morti si consumano nell’indifferenza generale. Cosa manca loro per suscitare almeno un po’ d’empatia umana? Forse il fatto che lo statuto privilegiato della «vittima» è caratterizzato da un accesso fortemente limitato e diseguale, riconosciuto sulla base di ben selezionati requisiti di ordine politico, sociale, economico, culturale e etnico. Per i gruppi stigmatizzati in partenza, non vi è alcuna possibilità di accedere alla santità vittimaria. Più della vittima in se è la nozione di “vittima meritevole” che trova affermazione e legittimazione. Si è vittime solo dopo aver ottenuto il sigillo dei forti. Per le altre si preparano carceri galleggianti.

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Carcere: il governo della sofferenza

Come e perché tanti suicidi in carcere?

di Sandro Margara
Il manifesto, 23 aprile 2009

La metto così: il carcere è, e in sostanza è sempre stato, una questione totale: cioè, una questione in ogni suo aspetto, un continuum di criticità, che si tengono tutte fra loro. La questione dei suicidi in carcere, a mio avviso, va letta così. Nel contesto del carcere, per dire una cosa ovvia, tutto quello che dovrebbe rilevare sul nostro tema è la sua vivibilità o la sua invivibilità. Il discorso potrebbe allora svilupparsi nella ricostruzione di tutti i fattori e dinamiche di invivibilità, non pochi e non leggeri. Poi, bisognerebbe attuare una strategia dell’attenzione nei confronti di coloro che soffrono in modo speciale la invivibilità. Ma c’è, indubbiamente, a monte di questi aspetti, un primo punto che non può essere ignorato: ed è quella che potrebbe essere chiamato la “vivibilità dell’arresto”, che ha un proprio rilievo, provato dal dato statistico (ricavato dal libro di Baccaro e Morelli: Il carcere: del suicidio e di altre fughe, letto in bozza) che il 28% dei suicidi in carcere si verificano entro i primi dieci giorni e il 34% entro il primo mese. Sotto questo profilo del “tintinnio delle manette”, il carcere fa solo da cornice al precipitare di vicende individuali, rispetto alle quali un sistema di attenzione degli operatori non è facile, specie in presenza di certe strategie processuali. Naturalmente, c’è chi dirà: “Non vorrai mica che il carcere non faccia paura?”. Ma veniamo ai fattori di invivibilità del carcere, subìti e sofferti da tutti e da alcuni fino a rinunciare alla vita. Il primo è quello legato al sovraffollamento, che ha due aspetti a cominciare dal fatto di vivere a ridosso immediato di altre vite, il levarsi reciprocamente l’aria, il che non è affatto poco (gli esperimenti per le scimmie dicono che diventano nervose: e gli uomini?). Ma poi, in una struttura sovraffollata, inevitabilmente le disfunzioni sono infinite. Si lotta per sopravvivere a livelli minimi. Il Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio di Europa (Cpt), ha considerato la situazione di sovraffollamento in carcere, come “trattamento inumano e degradante”. Tanto maggiore sarà la invivibilità quanto più si accompagnerà alle lunghe permanenze in cella, a fare della cella il luogo di una vita invivibile. E la normalità, in situazioni del genere, è che dalla cella si esce solo per brevi periodi “d’aria”, ma non per lavorare o per altre attività né, per molti dei detenuti (stranieri, persone sbandate per le ragioni più varie, etc.), per avere colloqui con i familiari. È possibile costruire prospettive di uscita da queste situazioni? Lo impediscono: la povertà delle risorse organizzative del carcere su questo versante, le risposte sempre più difficili e spesso negative della magistratura, lo stesso ridursi delle possibilità o la mancanza di queste per la fascia sempre più numerosa degli stranieri, che attendono solo l’espulsione (nei grandi carceri metropolitani sono ormai ben oltre il 50%, ma anche la media nazionale si avvicina al 40%). C’era una volta un Ordinamento penitenziario che dava delle speranze di permessi di uscita, di misure alternative, ma anche questi spazi si sono sempre più ristretti – per leggi forcaiole e per magistrati condizionati dal clima sociale che le produce – e le speranze si sono trasformate in delusioni. D’altronde, il suicidio non è l’unico prodotto della invivibilità delle carceri: lo sono anche i tentati suicidi, come pure, spesso difficili da distinguere dai primi, i gesti autolesionistici. Tutto insieme, si arriva vicini all’inferno. C’è, comunque, una campagna della amministrazione penitenziaria per individuare e agire a sostegno dei soggetti più a rischio. Ma non si può sperare che questo serva quando gli sforzi necessari sono limitati da poche risorse, destinati a durare per poco tempo, come accaduto in passato, affidati ad un sistema di sorveglianza psicologica e psichiatrica mai costruito adeguatamente: il tutto sempre dentro quelle condizioni di invivibilità che si mantengono e si concorre anzi ad aggravare, come dimostra l’accelerazione delle dinamiche di sovraffollamento. Tento una conclusione. Sentire, tutti, la responsabilità di questi morti e del carcere che li produce è una scelta etica desueta.

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