All’alba del quarantatreesimo anniversario della strage alla stazione centrale di Bologna incombe una nuova stagione di strumentalizzazione politica della storia. L’attentato esplosivo che fece saltare in aria circa trecento persone provocandone la morte di 85 è ancora un campo di battaglia giudiziario, politico e storico. Diversi esponenti dell’attuale maggioranza di governo hanno depositato all’inizio del mese di luglio una proposta di indagine parlamentare sulle «connessioni del terrorismo interno e internazionale con gli attentati, le stragi e i tentativi di destabilizzazione delle istituzioni democratiche avvenuti in Italia dal 1953 al 1992 e sulle attività svolte dai servizi segreti nazionali e stranieri, anche relativamente alla scomparsa di Graziella De Palo e Italo Toni e all’attentato del 1982 alla Sinagoga di Roma». Già nel precedente mese di febbraio, Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera di Fratelli d’Italia, aveva lanciato la singolare proposta di una inchiesta sulla violenza politica avvenuta in Italia tra il 1970 e il 1989. Furbescamente Rampelli aggirava la madre di tutte le stragi, ovvero la bomba esplosa il 12 dicembre 1969 all’interno della banca dell’agricoltura di piazza Fontana a Milano. Vicenda in cui la responsabilità della destra neofascista, in combutta con alcuni apparati Nato del Triveneto, è stata accertata in sede giudiziaria e storica. La destra italiana ha una tara genetica, quella dello stragismo intrecciato alle velleità golpiste messe in campo negli anni 70. L’attuale destra di governo, erede di quella stagione, ha tra gli obiettivi la ripulitura della propria storia, il lavaggio dei propri crimini e misfatti. La storia del primo cinquantennio repubblicano deve essere immersa nella candeggina delle commissioni d’inchiesta parlamentare per essere sbiancata, cancellata e riscritta, o meglio rovesciata. L’obiettivo è il capovolgimento del paradigma storico dello stragismo fascista e statale (democristiano), una sorta di risarcimento simbolico che in qualche modo deve riequilibrare e riabilitare in forma vittimistica la sua immagine macchiata dall’infamia indelebile per il ruolo giocato in quella sporca stagione di bombe nelle piazze, sui treni e nelle stazioni.
Washing storiografico La proposta di Rampelli è stata così sussunta nel nuovo progetto che mira a rileggere il secolo breve della repubblica italiana. Sul portale istituzionale del parlamento non è ancora possibile conoscere il testo integrale del disegno di legge perché in fase di assegnazione, tuttavia il titolo è più che emblematico poiché propone la rilettura di un intero periodo storico che va dai moti triestini del novembre 1953, repressi dal governo militare alleato, fino alle stragi mafiose di Capaci e via D’Amelio. Il tutto – sembrano suggerire i promotori, tra cui compare anche il nome di Rita Dalla Chiesa (Forza Italia) insieme a quello di Sasso (Lega), Antoniozzi, Mollicone e Foti (Fratelli d’Italia) – sorretto da un’unica trama in cui nuclei di terrorismo interno erano sovradeterminati da forze straniere. Se per decenni la narrazione complottista della sinistra, elaborata dalla cultura cattocomunista, aveva designato l’atlantismo Nato, con tutti i suoi derivati e subordinate, come responsabile di ogni cosa, per la destra si deve semplicemente rovesciare la narrazione. Ennesima prova di subalternità culturale e assenza di capacità critica. La complessità del mondo, delle relazioni sociali, dei processi e dei conflitti che muovono la storia può restare materia di una piccola cerchia di studiosi, quel che conta è costruire una diversa egemonia culturale fatta di bugie, favole e leggende da spacciare come nuovo oppio dei popoli. Giunta finalmente al governo del Paese in una condizione di vuoto pneumatico dell’opposizione politica e di fragilità dell’opposizione sociale, per un periodo che salvo errori macroscopici o drastici rivolgimenti internazionali ha tutte le opportunità di non esser breve, la destra erede del regime sconfitto nel 1945 deve riscrivere la propria storia. Per realizzare la propria visione autoritaria e disciplinare della società e dare corpo al più sfrenato liberismo economico ha ormai tra le mani le leve dello Stato, deve dunque cancellare ogni memoria del proprio passato sporco e cospirativo, dove nell’ombra si proponeva strumento del potere per portare a termine le azioni più indicibili pur di fermare il protagonismo del movimento operaio e delle sinistre.
Utilizzare la strage di Bologna per costruire un nuovo paradigma stragista L’attuale proposta di una commissione d’inchiesta ricalca una precedente iniziativa depositata sempre da esponenti di Fratelli d’Italia nel 2021, anche se allora l’indagine si fermava al 1989. Il testo dell’epoca faceva riferimento a saggi e studi fautori della esistenza di «collegamenti internazionali del terrorismo italiano» con chiaro riferimento all’attività delle formazioni combattenti palestinesi, senza risparmiare accuse alla sinistra armata italiana, sulla scorta dei lavori di “autori d’area” come Enzo Raisi, Valerio Cutonilli o giornalisti come Gian Marco Chiocci, oggi direttore del Tg1, Gian paolo Pelizzaro e altri. Tra i temi centrali da rivedere c’era la responsabilità neofascista nella strage di Bologna, a seguito di un documento del capo centro Sismi a Beirut, Stefano Giovannone, del 27 giugno 1980. Dalla parziale e fuorviante lettura di quel testo e dal clamoroso errore dell’ex parlamentare Carlo Giovanardi, che aveva confuso la data di un documento dell’aprile 1981, nel quale si riferivano minacce da parte palestinese, antidatandolo all’aprile 80, si elaborava il teorema della ritorsione palestinese come movente della strage giustificata – a detta degli esponenti della destra – dal sequestro, nel novembre del 1979 davanti al porto di Ortona, dei due lanciamissili non armati appartenenti al Fronte popolare per la liberazione della Palestina. La successiva desecretazione di una cospicua parte carteggio (195 documenti resi accessibili in due momenti diversi tra giugno 2022 e aprile 2023) proveniente dal centro Sismi di Beirut metteva fine alla cosiddetta pista palestinese, proposta come verità alternativa alle sentenze giudiziarie che indicano, sia pur tra lacune, prove indiziarie e ricostruzioni storiche dietrologiche, la responsabilità della destra neofascista nella strage alla stazione. Le carte di Giovannone dimostrano, infatti, che la crisi dei lanciamissili si era conclusa già il 2 luglio 1980.
Le recriminazioni della destra per le attese andate deluse Recentemente l’avvocato di estrema destra Valerio Cutonilli ha dato voce alla cocente delusione della destra nei confronti del carteggio Giovannone-Olp puntando il dito su ciò che a suo dire manca: «C’è un buco temporale inverosimile, a mio avviso non casuale, che copre proprio il periodo più utile per la ricerca sulla strage di Bologna. Quello che va dai primi di luglio alla metà di settembre 1980». Prendersela con le presunte «carte mancanti», magari «sottratte», è una vecchia risorsa della retorica complottista che ha sempre pensato di risolvere con questo facile escamotage le proprie defaillances, anche in questo Cutonilli manca di originalità e copia pedissequamente gli inarrivabili maestri del complottismo di sinistra. Quello dell’estate ’80 è in realtà il periodo di silenzio più breve, nel carteggio ce ne sono di ben più lunghi, ma a Cutonilli – posto che lo sappia – non interessano perché non sono strumentalizzabili. Ancora Cutonilli, si è detto «sconvolto» per aver appreso solo recentemente che il palestinese Abu Saleh, coinvolto nella vicenda degli Strela, nel 1981 fu trasferito dal carcere speciale di Trani a quello di Pianosa, dove subì insieme a decine di altri detenuti un brutale pestaggio. Cutonilli insinua che l’episodio sia collegato alla strage di Bologna, dimenticando che il trasferimento in massa da Trani avvenne dopo la rivolta seguita al sequestro D’Urso, rapito dalle Brigate rosse. Una parte dei detenuti vennero trasferiti a Pianosa e qui pestati per rappresaglia, come Saleh che nella rivolta non ebbe alcun ruolo. Nel carteggio del Sismi gli esponenti del Fplp, ben consapevoli delle ragioni del pestaggio, si lamentarono con Giovannone e chiesero il trasferimento a Rebibbia che avvenne di lì a poco, testimoniando netta condanna nei confronti delle Brigate rosse e solidarietà verso il magistrato D’Urso, che al ministero della Giustizia si occupava degli Istituti penitenziari. Basterebbe leggerli i documenti o attenersi ai fatti ma per alcuni, come ricordava Nietzsche, «non esistono i fatti ma solo interpretazioni».
«…Fui caricato, mi misero le manette dietro la schiena, mi bendarono steso a terra e il furgone partì. Nessuno parlava, si sentiva solo un leggero bisbiglio e un rumore di armi, caricatori che venivano inseriti, carrelli che mettevano il colpo in canna…Dopo una mezz’ora circa…il furgone si fermò. Mi fecero scendere, salimmo delle scale e mi introdussero in una stanza. Lì venni spogliato, mi caricarono su un tavolo e mi legarono alle quattro estremità con le spalle e la testa fuori dal tavolo, accesero la radio con il volume al massimo e cominciò il trattamento. Un maiale si sedette sulla pancia, un altro mi sollevò la testa tenendomi il naso otturato e un altro mi inserì il tubo dell’acqua in bocca…Nessuno parla tranne De Tormentis che dà ordini, decide quando smettere e quando ricominciare, fa le domande…poi ti viene somministrato qualcosa che si dice dovrebbe essere del sale, ma tu non senti più il sapore, dopo un po’ che tieni la testa penzoloni i muscoli cominciano a farti del male e a ogni movimento ti sembra che il primo tratto della spina dorsale ti venga strappato dalla carne, dai muscoli dai nervi…uno, due, tre spasmi e De Tormentis ordina di smettere…all’ennesimo stop un’altra voce che dice di smettere, che può bastare…De Tormentis invece insiste per continuare, ma l’altra voce ha paura e s’impone e così vengo slegato…vengo caricato nel furgone, si sente il rumore di una porta automatica e si parte. Tornati in Questura, nel cortile vengo sbendato e consegnato a due guardie che mi portano in cella di sicurezza…».
Sono trascorsi nove giorni dalla uccisione di Aldo Moro, ma le prime informazioni sui militanti brigatisti del Tiburtino l’UCIGOS le ha raccolte alla fine di marzo (forse da un confidente, forse, ipotizzano altri, dai militanti della Sezione PCI del quartiere) ed i pedinamenti producono risultati inaspettati.
La mattina del 17 maggio ’78, agenti UCIGOS e Digos perquisiscono la casa dove Enrico Triaca vive con la moglie ed altri familiari. Mentre alcuni poliziotti restano nell’appartamento, altri conducono il sospettato nel quartiere Monteverde, in via Pio Foà 31, perché, secondo l’ordine del sostituto procuratore generale di Roma, bisogna perquisire anche la tipografia di cui Triaca è titolare dai primi mesi del ’77.
La vicenda della perquisizione – quella che consegnerà Triaca alla storia italiana come “il tipografo delle BR” – è arcinota.
Nella tipografia sono stati stampati molti documenti delle Brigate Rosse ed i poliziotti trovano anche alcune banconote che provengono dal sequestro dell’armatore genovese Pietro Costa, rapimento dal quale le BR hanno ricavato un riscatto di un miliardo e mezzo.
Molto meno noto è quello che accade nelle ore successive.
Nel pomeriggio del 17 maggio, davanti a due funzionari Digos, Riccardo Infelisi e Adelchi Caggiano, Triaca racconta che un fantomatico Giulio delle BR lo ha convinto ad aprire la tipografia e gli ha procurato tutto il denaro servito per avviare l’attività e comprare i macchinari. Sottoscrive il verbale, ma precisa che non ha alcuna intenzione di riconoscere la persona che si è presentata a lui come Giulio. Dunque, è inutile che i poliziotti si presentino con le fotografie.
Alle 18:20, la moglie di Triaca, Anna Maria Gentili, viene dichiarata in stato di fermo, anche se, in verità, a suo carico non esiste alcun elemento che dimostri la sua appartenenza alle BR, ma solo il sospetto, che si rivelerà infondato, che sia stata lei a scrivere una risoluzione BR[1].
Alle 20:30, i poliziotti procedono al fermo di Triaca per partecipazione alla banda armata denominata Brigate Rosse, ma il tipografo di via Foà, quella sera, non arriva a Rebibbia né in altri penitenziari e, inghiottito nella notte romana, riemergerà solo due giorni dopo.
Il 18 maggio, salta fuori una dichiarazione che Triaca ha redatto personalmente, con la macchina da scrivere, negli uffici della Digos.
Il brigatista vuole precisare quanto, in precedenza, ha già detto a voce ai poliziotti e soprattutto che, nella mattinata, ha segnalato alla Digos una abitazione nella quale vivono due brigatisti, Antonio Marini e una donna, Gabriella, che scrive i comunicati BR con una IBM proprio in quell’appartamento.
Il Vice Questore Aggiunto Michele Finocchi aggiunge una sua annotazione sullo stesso foglio scritto da Triaca ed attesta che è stato l’arrestato a scrivere spontaneamente la dichiarazione che lui riceve alle 13:00 di quel 18 maggio.
Esiste un’altra dichiarazione, più succinta, sempre scritta personalmente e firmata dal brigatista.
Accusa Maurizio, cioè Mario Moretti, di aver dato a Gabriella denaro per comprare l’abitazione e conferma che in quella casa si preparano le bozze delle risoluzioni della direzione strategica.
A differenza del primo, su questo secondo foglio non compare alcuna attestazione del funzionario della Digos.
Molte ore prima, alle 5:30 del 18 maggio, in via Palombini 19, i poliziotti hanno già perquisito l’appartamento di Antonio Marini e Gabriella Mariani, nella stessa giornata arrestati per appartenenza alle Brigate Rosse.
Il 18 e il 19 maggio, i Giudici istruttori interrogano Triaca che conferma le accuse già fatte il giorno 17 e ne aggiunge altre.
Il 9 giugno, nel carcere di Rebibbia, Triaca incontra di nuovo il Consigliere Istruttore Achille Gallucci. Il detenuto esordisce usando parole inusuali («Non mi resta che confermare quanto ho dichiarato ai magistrati nei miei interrogatori allorché mi fu contestato il reato di banda armata»), quasi a dare il senso di una sorta di “ineluttabilità” di quello che sta facendo (la confessione e, soprattutto, le accuse ad altre persone) e che, in realtà, nel suo intimo, il tipografo non avrebbe alcuna intenzione di compiere.
Poi, rispondendo ad una domanda del giudice, l’interrogato comincia a prendere le distanze, anche se in maniera non ancora risolutiva, dalle dichiarazioni spontanee del giorno 17 maggio.
Il contenuto dei fogli corrisponde alle sue dichiarazioni, ma lui ricorda di aver scritto sotto dettatura di un poliziotto ed a seguito di domande che gli vengono fatte.
Il 19 giugno, a Rebibbia, Triaca incontra di nuovo il giudice Gallucci e ritratta le sue dichiarazioni perché, così esordisce, dopo essere stato prelevato dal Commissariato di Castro Pretorio e portato in un luogo sconosciuto, gli sono state estorte con la tortura dell’acqua e sale. Spiega di aver dattiloscritto lui, il giorno 18 maggio, nella Questura, le due dichiarazioni spontanee, la prima la mattina, la seconda il pomeriggio e comunica al giudice che non intende più rispondere alle domande.
Il capo dei giudici istruttori romani dispone che una copia del verbale sia trasmessa alla Procura, ma, al tempo stesso, decide immediatamente anche quale sarà il tema che l’istruttoria dovrà sviluppare perché avvisa Triaca che è indiziato del reato di calunnia in danno di imprecisati pubblici ufficiali.
L’indagine, quindi, non dovrà accertare dove il brigatista ha trascorso la notte tra il 17 e il 18 maggio né se ha subito violenze, ma dovrà solo ricercare elementi che possano ulteriormente dimostrare che Triaca ha inventato tutto ed ha accusato persone innocenti.
Per il brigatista, infatti, arrivano il mandato di cattura per il reato di calunnia ed il rinvio a giudizio. Nell’autunno ’78 si celebra il processo di primo grado.
Davanti ai giudici della VIII Sezione del Tribunale di Roma sfilano i funzionari di Polizia (il dirigente della Digos, Domenico Spinella, e poi Michele Finocchi, Adelchi Caggiano e Riccardo Infelisi) che si sono occupati di Enrico Triaca il 17 e il 18 maggio ’78.
Secondo la versione che essi forniscono ai giudici, dopo la perquisizione nella tipografia, Triaca viene condotto direttamente nella caserma della Polizia di Castro Pretorio, ma poi, tra le 16:00 e le 17:00, torna negli uffici Digos per l’interrogatorio. Resta nei locali della Digos durante la notte e la mattina del 18 maggio, dopo aver reso spontanee dichiarazioni ed aver indicato dove si trova l’abitazione di Gabriella Mariani, verso le 6:00 viene affidato agli uomini che gestiscono le camere di sicurezza della Questura di Roma.
Sulle modalità attraverso le quali il tipografo ha redatto le dichiarazioni spontanee, i poliziotti sostengono che ha scritto, contestualmente, i due fogli con la macchina da scrivere e li ha poi consegnati al funzionario Michele Finocchi che, tuttavia, non si è avveduto del secondo foglio dattiloscritto e non vi ha apposto la sua attestazione.
Fallisce ogni tentativo di identificare gli agenti della PS che hanno avuto in custodia il brigatista nelle camere di sicurezza perché, all’epoca, non esistono registri delle loro presenze.
Il 7 novembre ’78, il Tribunale condanna Enrico Triaca alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione perché ha accusato falsamente i poliziotti di averlo torturato per estorcergli le dichiarazioni del 18 maggio ’78.
La condanna diventa irrevocabile nel 1985 e la vicenda scivola nell’oblio per molti anni.
Nella prima parte degli anni ’80, nei processi per fatti di terrorismo, si moltiplicano i casi di denuncia per tortura. Ma se la magistratura, a differenza di quanto è successo al tipografo di via Foà, quasi mai procede per il reato di calunnia, al tempo stesso, immancabilmente, le inchieste non conducono mai ad un accertamento della responsabilità di pubblici funzionari[2].
Poi, il 24 giugno 2007, il giornalista Matteo Indice, su Il secolo XIX di Genova, pubblica un’intervista ad un anonimo ex funzionario di Polizia. Il titolo del pezzo è emblematico: «Così ai tempi delle BR dirigevo i torturatori – Torture per il bene dell’Italia».
Il funzionario è entrato in Polizia alla fine degli anni ’50, ha lavorato in Sicilia e a Napoli, poi al nucleo antiterrorismo di Emilio Santillo e all’UCIGOS. A Napoli intuisce che, per indagare con efficacia sulle organizzazioni terroristiche, la soluzione migliore è mettere insieme poliziotti che si occupano di criminalità comune e quelli che si occupano di “politica”.
Ma non si tratta esattamente di un gruppo di raffinati investigatori!
Racconta al giornalista di essere stato lui ad aver costituito la squadra dei «cinque dell’Ave Maria» che fa il suo esordio, a Napoli, contrastando i NAP-Nuclei Armati Proletari[3] e poi viene utilizzata per altre operazioni antiterrorismo, sino a quella che porta alla liberazione del generale americano James Lee Dozier, a Padova, nel gennaio 1982.
Le parole dell’intervistato sono agghiaccianti : «…ammesso e assolutamente non concesso che ci si debba arrivare, la tortura – se così si può definire – è l’unico modo, soprattutto quando ricevi pressioni per risolvere il caso, costi quel che costi…quelli dell’Ave Maria esistevano, erano miei fedelissimi che sapevano usare tecniche “particolari” di interrogatorio, a dir poco vitali in certi momenti…poi quando l’intelligenza viene definitamente offesa, ci sono i modi forti e a quel punto il sospettato ha l’impressione d’essere in tuo completo dominio. Si vuole parlare di torture, ma io direi che si trattava soprattutto di una messinscena praticata per garantire la sopravvivenza a decine di persone…ero autorizzato e delegato ogni volta a muovermi in questo modo dai miei superiori che riferivano al Capo della Polizia e al Ministro dell’Interno[4]. Ci dicevano che era necessario andare fino in fondo e noi gli risolvevamo i problemi. L’impiego dei miei investigatori non era troppo ricorrente, ma coincideva sempre con i momenti cruciali delle indagini…».
Il poliziotto rivendica di aver interrogato, con i cinque dell’Ave Maria, il brigatista Ennio Di Rocco[5], di aver arrestato Giovanni Senzani proprio grazie alle informazioni fornite da Di Rocco e di essere stato chiamato in Veneto per le indagini sul sequestro Dozier[6].
Non manca un fugace riferimento alla vicenda del maggio ’78: «…il tipografo Enrico Triaca fornì una serie di rivelazioni impressionanti dopo che lo torchiammo…».
L’intervistato, di cui non si conosce ancora il nome, rivela fatti di inaudita gravità.
Negli anni ’70, per combattere il terrorismo, la Polizia di Stato ha creato una struttura clandestina di torturatori (la squadra dell’Ave Maria) che interviene nel momento in cui è necessario estorcere informazioni alla persona arrestata. La squadra al comando del funzionario ha torturato i brigatisti Enrico Triaca ed Ennio Di Rocco ed ha operato in maniera illegale nella imminenza della liberazione del sequestrato Dozier.
L’articolo di Matteo Indice squarcia il velo sulle verità indicibili degli anni in cui lo stato italiano ha contrastato le organizzazioni eversive.
La tortura e l’uso di altri metodi illegali e disumani non sono stati il frutto di iniziative personali ed estemporanee di singoli funzionari né il risultato di attività di settori “deviati” che hanno agito all’insaputa dei vertici.
La squadra dei torturatori ha attuato un piano politico-istituzionale in base al quale si è deciso di “legalizzare” la tortura pur di raggiungere l’obiettivo di disarticolare il nemico.
Salvatore Genova, ex funzionario di Polizia, decide di rivelare i fatti inconfessabili che ha nascosto anche quando è stato coinvolto, nel 1983, nella indagine che il sostituto procuratore di Padova, Vittorio Borraccetti, ha condotto sulle gravissime violenze esercitate dai poliziotti sul brigatista Cesare Di Lenardo[7].
Racconta di essere stato mandato in Veneto, con altri funzionari, durante il sequestro Dozier, per incarico di Gaspare De Francisci, capo dell’UCIGOS. Le direttive ricevute sono quanto mai esplicite: bisogna usare le manieri forti per arrivare, a qualsiasi costo, alla liberazione del generale NATO ed ogni mezzo è consentito perché esiste la copertura dell’autorità politica.
Genova ha visto all’opera De Tormentis e la sua squadra durante le sedute di tortura dei brigatisti Nazareno Mantovani, Elisabetta Arcangeli e Ruggero Volinia, il militante che, infine, indica il covo in cui è tenuto prigioniero il generale statunitense[8].
È il giornalista Fulvio Bufi de Il Corriere della Sera[9] a rivelare, finalmente, il nome del professor De Tormentis. Si tratta del pugliese Nicola Ciocia, ex funzionario di Polizia, poi, dal 1984, avvocato del foro napoletano. A Bufi dice di essere «fascista mussoliniano» e così illustra i suoi metodi: «Bisogna avere stomaco per ottenere risultati con un interrogatorio. E bisogna far sentire l’interrogato sotto il tuo assoluto dominio…la lotta al terrorismo non si poteva fare con il codice penale in mano…però non è vero che quei sistemi, quelle pratiche sono sempre efficaci». Come nel caso di Triaca: «Lui non ha parlato, quindi quei metodi non sempre funzionano».
Il tipografo brigatista decide di rivolgersi alla magistratura per ottenere la revisione della sentenza di condanna per il reato di calunnia.
Nel 2013, la Corte di Appello di Perugia accoglie la richiesta del condannato e cancella la sentenza[10]. Triaca non ha commesso alcuna calunnia perché è stato realmente torturato.
I giudici scrivono parole inequivocabili: «…un funzionario all’epoca inquadrato nell’UCIGOS e rispondente al nome di Nicola Ciocia, dopo aver sperimentato pratiche di waterboarding nei confronti di criminalità comune, le utilizzò all’epoca del terrorismo nei confronti di alcuni soggetti arrestati, al fine di sottoporre costoro ad una pressione psicologica che avrebbe dovuto indebolirne la resistenza e indurli a parlare. In più occasioni tali pratiche furono utilizzate nelle fasi del sequestro Dozier e…propiziarono la liberazione del generale….Può dirsi acclarato che lo stesso funzionario, conosciuto con il nomignolo di professor De Tormentis (a quanto pare affibbiato dal Vice Questore Improta) fu chiamato a sottoporre alla pratica del waterboarding anche Enrico Triaca che, del resto, il 19 giugno aveva narrato di essere stato sottoposto ad un trattamento esattamente corrispondente a quel tipo di pratica speciale, a base di acqua e sale con naso tappato».
Nella seconda metà degli anni ‘70, i terroristi di stato argentini praticano la tortura in modo sistematico e generalizzato nei confronti degli oppositori. Nell’apprendimento dei metodi della «guerra controrivoluzionaria», sono gli allievi più brillanti dei militari francesi che hanno usate queste pratiche (la sinistra sequenza secuestro-tortura-desaparición) durante la guerra in Indocina e poi, soprattutto, in Algeria, nella lotta contro il Fronte di Liberazione Nazionale che lotta per l’indipendenza del paese africano[11].
La sociologa argentina Pilar Calveiro[12], nel fondamentale libro Poder y desaparición, analizza il rapporto che si instaura tra carnefice e vittima, quel meccanismo che il professor De Tormentis ha esaltato come il momento nel quale il prigioniero percepisce che si trova sotto il completo dominio del suo aguzzino: «…la tortura, strumento per “strappare” la confessione, strumento per eccellenza per produrre la verità che ci si aspetta dal prigioniero, criterio di verità per fare in modo che il soggetto si “spezzi”…la utilizzazione di tormenti aveva una funzione principale: ottenere informazioni operativamente utili…la nudità del prigioniero e il cappuccio che nascondeva il volto aumentavano il senso di impotenza però, al tempo stesso, esprimevano la volontà di rendere trasparente l’essere umano, violare la sua intimità – impadronirsi del suo segreto – vederlo senza che egli possa vedere…I torturatori non vedono il volto della vittima; tormentano corpi senza volto; castigano sovversivi, non essere umani. C’è qui una negazione della umanità della vittima che è duplice: di fronte a sé stessa e di fronte a coloro che la tormentano».
[1] Nel corso di una intervista realizzata da Enrico Porsia per il video-reportage J’accuse-Torture di Stato, Triaca racconta che, mentre viene torturato, per ottenere il suo completo annientamento, i poliziotti gli dicono che riserveranno lo stesso trattamento alla moglie.
[2] Tra i tanti casi di quel periodo, emblematico è quello del militante delle BR-Partito Comunista Combattente, Alessandro Padula. Arrestato il 14 novembre ’82, circa dieci giorni dopo si presenta nell’aula ove si sta svolgendo il processo Moro 1 e denuncia di essere stato torturato da uomini della Digos che hanno anche impedito che potesse presenziare alle udienze precedenti poiché preoccupati di cancellare le tracce lasciate dalle sevizie sul suo corpo.
[3] Il nappista Alberto Buonoconto, arrestato l’8 ottobre 1975, denuncia al Pubblico Ministero di essere stato lungamente seviziato nelle stanze della Questura di Napoli. Accusa, tra gli altri, un funzionario della Squadra Politica mentre, sul conto di Nicola Ciocia, dice di non essere certo della sua presenza durante la seduta di tortura. Buonoconto si suicida, nella sua casa napoletana, il 20 dicembre 1980.
[4] Nel 1982, il Capo della Polizia è Giovanni Coronas e Virginio Rognoni è il Ministro dell’Interno
[5] Ennio Di Rocco, militante delle BR-Partito Guerriglia, viene arrestato a Roma il 4 gennaio 1982. Quando il PM Domenico Sica lo interroga, il brigatista si dichiara prigioniero politico e racconta che la sera dell’arresto è stato condotto nella caserma di Castro Pretorio e lungamente torturato per tre giorni da persone incappucciate, anche con il metodo dell’acqua e sale. Cede alle torture e rivela fatti che riguardano la propria organizzazione. Considerato un traditore, viene ucciso, a luglio di quello stesso anno, nel carcere di Trani.
[6] Il generale James Lee Dozier presta servizio, a Verona, presso il Comando NATO delle Forze Terresti del Sud Europa. Sequestrato il 17 dicembre 1981 da un nucleo delle BR-Partito Comunista Combattente, viene liberato il 28 gennaio 1982, a Padova, con una operazione dei NOCS della Polizia di Stato.
[7] Nel 1983, non esiste nel nostro codice penale il reato di tortura che sarà introdotto solo nel 2017. I giudici del Tribunale di Padova, con la sentenza di primo grado del 15 luglio ’83, condannano i poliziotti dei NOCS (ma non Salvatore Genova che, nel frattempo, è diventato parlamentare del PSDI) per il reato di abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 cod. penale), punito con una pena blanda.
[8] La docu-serie Sky Original Il sequestro Dozier – Un’operazione perfetta offre la ricostruzione più documentata sulle vicende segrete che accadono durante le indagini e sull’uso della tortura.
[9] L’articolo di Fulvio Bufi dal titolo “Sono io l’uomo della squadra speciale anti BR” è stato pubblicato su “Il Corriere della Sera” il 10 febbraio 2012
[10] La sentenza della Corte di Appello di Perugia, Pres. Ricciarelli, viene emessa il 15 ottobre 2013.
[11] La giornalista Marie-Monique Robin, nel documentario Squadroni della morte. La scuola francese, racconta che furono gli ufficiali francesi a insegnare ai militari argentini le tecniche più raffinate della tortura e che questi ultimi frequentarono specifici corsi nella prestigiosa Ecole militaire a Parigi.
[12] Militante montonera, Pilar Calveiro viene sequestrata, da un gruppo di militari dell’Aeronautica, il 7 maggio ‘77 e tenuta prigioniera in tre centri clandestini di detenzione per circa un anno e mezzo. In seguito, è stata in esilio, prima in Spagna, poi in Messico.
Il ciclo di lotte operaie iniziato nel 1969 non investì solo i distretti industriali del Nord, città fabbriche come Torino, Milano o Genova, ma ebbe un respiro nazionale investendo anche città come Roma cresciuta a dismisura nelle sue sterminate periferie sotto la spinta della migrazione interna. Le tradizionali lotte dei lavoratori edili, che avevano segnato la sua vita politica e sociale negli anni del dopoguerra, cominciavano ad essere accompagnate dai movimenti di lotta per la casa, da crescenti occupazioni di immobili di proprietà dei grandi imprenditori edili che avevano messo al sacco l’agro romano e dai ceti operai delle aziende della zona sud-est della città. Nei giorni del natale 1971 un violento assalto della polizia aveva tentato di impedire l’apertura di un enorme tendone in piazza di Spagna, nel centro ricco della città, per chiedere solidarietà e aiuto economico alle famiglie dei lavoratori in lotta di aziende come la Coca Cola, le Camicerie Cagli, le Cartiere Tiburtine, la Pantanella, l’Aereostatica, il Lanificio Luciani, oltre alla Fatme, Voxson e Autovox. Una realtà che l’urbanista Italo Insolera descriveva in questo modo nel suo Roma moderna: «Le tute degli operai sono comparse in città in lunghi e frequenti cortei che hanno portato nel paesaggio impiegatizio le parole “sciopero”, “occupazione”. Nomi di prodotti industriali – Fatme, Autovox – sono diventati nomi di problemi che la città ignorava. […] Nel 1968 nei vari baraccamenti e borghetti risultavano abitare 62.351 persone in 16.506 nuclei familiari. Dall’estate del ’69 i baraccati hanno occupato metodicamente palazzi in demolizione in vari quartieri della città e nuovi edifici ancora disabitati nella periferia, dando contemporaneamente fuoco alle baracche per sottolineare la volontà di rottura con il passato. Poi sono stati sloggiati dalla polizia – in genere all’alba, quando non solo dormono i baraccati, ma anche i cittadini “per bene”, i fotografi, i giornalisti, e i camion targati Ps, con sopra le povere masserizie, non rischiano di intralciare il traffico – e altre baracche sono sorte».I presìdi davanti ai posti di lavoro per svolgere assemblee, rafforzare gli scioperi o mantenere alto lo stato di agitazione sono parte del repertorio d’azione storico della working class. Strumenti antichi di lotta operaia, democrazia in azione o forme di «contropotere» che hanno incontrato sempre la dura repressione delle forze di polizia schierata in difesa degli interessi padronali. Sul finire degli anni Sessanta i settori più progressivi di una magistratura sociologicamente rinnovata dai nuovi concorsi che avevano permesso l’ingresso di ceti sociali un tempo esclusi e per questo più sensibili alle idee di rinnovamento, rivolsero un’attenzione diversa ai conflitti del lavoro. Una giurisprudenza innovativa interpretò questi fermenti ancorandoli ad alcuni dettami costituzionali rimasti inattivi. Il divario tra costituzione materiale e costituzione formale tendeva così a restringersi, anzi in molte parti del Paese la prima sopravanzava di gran lunga la seconda. Il clima mutò bruscamente alla fine degli anni 70 quando sotto la pressione dell’emergenza antiterrorismo gli strumenti della democrazia operaia persero legittimità e all’idea di sindacato conflittuale si sostituì il sindacato concertativo. La profonda ristrutturazione produttiva modificò i rapporti sociali e politici a cui seguì una giurisprudenza restaurativa ispirata al nuovo paradigma economico ultraliberale. La conseguenza fu una violenta criminalizzazione degli strumenti di lotta operaia. La vicenda dei 61 operai Fiat licenziati per ragioni politiche nell’ottobre 1979, 40 della Mirafiori, 13 di Rivalta e 8 della Lancia di Chivasso, accusati di «violenze fisiche e minacce», fece da battistrada.Una situazione analoga si ripresenta oggi nel comparto della logistica, uno dei settori strategici del capitalismo attuale dove vigono forme di lavoro neoschiavile: sfruttamento intensivo della forza lavoro, in prevalenza straniera, unitamente a condizioni contrattuali precarie, un uso sistematico degli straordinari con orari che toccano le 12-13 ore senza periodi di riposo, la presenza di intimidazioni, minacce, abusi verso i lavoratori, violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene. Una giungla dove l’organizzazione del lavoro è costituita da pseudocooperative sottoposte al dominio degli algoritmi dei grandi hub dell’ecommerce, appalti e subappalti, forme di caporalato, interinali, mancanza di diritti sindacali, bassi salari. Per tentare di porre freno a questa situazione di oppressione e sfruttamento alcune sigle del sindacalismo di base hanno organizzato i lavoratori innescando cicli di lotte molto conflittuali per migliorare le loro condizioni di vita e tutelare i loro diritti politici e sindacali. Una fortissima repressione antisindacale si è abbattuta su di loro. Nel 2013, Adil Belakhdim, un delegato sindacale del SiCobas, è stato travolto da un camion nel corso di un presidio davanti ai cancelli del centro di distribuzione della Lidl a Biandrate, in provincia di Novara. Nel luglio del 2021, la procura di Piacenza ha fatto arrestare sei sindacalisti dell’Usb e del SiCobas: tra i capi di imputazione c’erano «le attività di picchettaggio illegale all’esterno degli stabilimenti». Secondo la procura le forme di lotta sindacale impiegate nel corso delle vertenze altro non erano che strumenti di «coercizione e ricatto», le rivendicazioni una mera «attività estorsiva» e l’organizzazione sindacale una «associazione per delinquere». L’iniziativa anche se poi ridimensionata dal tribunale segnala la forte regressione della giurisprudenza sul lavoro sul tema degli scioperi, ormai nella stragrande maggioranza dei casi i picchetti vengono considerati forme di violenza privata. Addirittura in una recente sentenza un giudice ha ritenuto che anche nel settore privato lo sciopero debba essere preannunciato a questura e controparte.
Dall’Unità del 28 luglio 1971 Il diritto al picchettaggio Fausto Tarsitano Contro le lotte ingaggiate dai lavoratori romani per la difesa del posto di lavoro e la conquista di più umane condizioni di vita vi è stato in queste ultime settimane un massiccio e brutale intervento di ingenti forze di polizia e di carabinieri. L’ondata di violenze s’è dapprima abbattuta contro i picchetti costituiti dagli operai davanti agli ingressi della filiale della Fiat di Viale Manzoni, ha poi investito i picchetti delle commesse dei grandi magazzini davanti alle sedi di Standa e di Upim e non ha risparmiato quelli degli alberghieri. L’aggressione ed il pestaggio sono stati ripetuti contro una pacifica manifestazione degli operai della Pantanella che si stava svolgendo davanti al Parlamento ed in altre città italiane. Tutti questi episodi ed altri consimili stanno ad indicare che è in atto nel paese un grave attacco al diritto di riunione e di sciopero che si manifesta anche attraverso la aggressione poliziesca ai picchetti operai, come se essi non fossero consentiti e protetti dal nostro ordinamento giuridico. La migliore giurisprudenza ha già da tempo riconosciuto che il diritto di sciopero non può essere ridotto alla semplice possibilità di astenersi dal lavoro. Quel diritto, perché non rimanga svuotato del tutto nella sua essenza di arma sindacale, deve accompagnarli alla facoltà di coordinare una somma di comportamenti omogenei per fare acquisire allo sciopero stesso quella efficacia e quella capacità di pressione che ne costituiscono l’ineliminabile presupposto. I lavoratori devono dunque poter organizzare l’astensione e constatare che essa verrà attuata da tutti i compagni o almeno da una parte apprezzabile di essi anche perché la singola defezione può essere interpretata come un indebito rifiuto dell’attività lavorativa suscettibile di gravi ritorsioni. L’insegnamento che viene dalla stessa magistratura, quando essa giudica in aderenza ai principi costituzionali, ha perciò spesso sottolineato che le decisioni operaie, i modi per attuarle non posso non essere stabiliti se non nel luogo di naturale convegno delle maestranze, cioè nelle sedi sindacali o davanti i cancelli delle fabbriche, dove è consentito dalla legge di scoraggiare l’ingresso di eventuali crumiri. Nessun funzionario di polizia può sostenere che siffatti indirizzi giurisprudenziali siano rimasti isolati: il pretore di Pinerolo infatti ha affermato «che è lecito in occasione di uno sciopero, formando una barriera umana, fermare un pullman sul quale si trovano impiegati ed operai che si recano al lavoro, al fine di consentire loro di rendersi conto della riuscita dello sciopero e di decidere insieme agli altri lavoratori rima di entrare nello stabilimento, se aderire o meno allo sciopero. Pertanto, non è legalmente dato l’ordine di desistere dal formare tale barriera». La Corte di assise di Foggia ha precisato che «il persuadere gli altri lavoratori ad astenersi dal lavoro costituisce il mezzo migliore per l’esercizio del diritto di sciopero e pertanto non solo non costituisce reato ma è un diritto garantito dalla Costituzione». E di recente il Tribunale di Catanzaro ha avvertito che e il picchettaggio non può non rientrare nello esercizio del diritto di sciopero. rappresentandosi come uno dei tanti mezzi con cui si realizza e sì articola l’astensione collettiva dal lavoro e risolvendosi in una azione di persuasione svolta da scioperanti e sindacalisti davanti agli ingressi della sede di lavoro ed intesa appunto ad ottenere che tutti i lavoratori partecipino alla fase più critica della dinamica della normativa sindacale». Un potere dello Stato, la magistratura, in attuazione dei principi costituzionali, considera quindi il picchettaggio un diritto dei lavoratori. La polizia invece impiega i suoi reparti per disperdere i picchetti, procede al fermo o all’arresto degli attivisti sindacali che li hanno promossi e li persegue penalmente. A nulla serve che lo stesso presidente della Corte Costituzionale proclami la legittimità di quelle forme di lotta e intervenga per affermarne la necessità. «Al fondo e nelle arterie della Costituzione — scrive Giuseppe Branca — vi è una grande sete di giustizia sociale. Ora, la giustizia sociale non si può attuare tutta in una volta». Una parte è attuata dalla stessa Costituzione, una parte è affidata al legislatore ordinario, parte infine devono realizzarla gli stessi lavoratori». E’ facile dimostrare che i dirigenti delle forze di polizia in tutti questi anni hanno assunto nei confronti delle lotte operaie e contadine un atteggiamento del tutto opposto. Le giuste rivendicazioni dei lavoratori e le agitazioni che ne sono derivate sono state infatti considerate momenti di gran turbamento dell’ordine pubblico, della pace sociale, dell’ondine economico. Avola rimane l’esempio più recente di una pratica repressiva sciagurata. Ma oggi, anche per merito dell’azione del nostro Partito sempre più larga, va facendosi tra le forze politiche e sindacali l’esigenza di un vasto dibattito nel Parlamento e nel Paese su questioni così scottanti. Una polizia non assoggettata agli indirizzi repressivi e antipopolari, rispettosa delle norme costituzionali, che persegua i grandi ideali e gli obiettivi di fondo che la legge fondamentale propone di raggiungere all’intera collettività è quanto chiediamo noi comunisti. Chi invece come l’on. Restivo si adopera solo per rafforzarne la capacità di aggressione ai diritti dei lavoratori e per tutelare direttamente o indirettamente il privilegio economico, non soltanto continua a separarla dal resto della nazione ma fallisce lo scopo della repressione del crimine cui la polizia si dice destinata.
Dopo il referendum del 1974 che confermò la legge sul divorzio, osteggiato dalla Dc e dal Msi, arrivò anche il nuovo diritto famigliare che migliorò la vita di milioni di donne ed eliminò la discriminazione nei confronti dei bambini nati fuori dal matrimonio. A questo salto di civiltà, oggi patrimonio comune, si oppose ferocemente la destra, la stessa che oggi governa questo paese. Una destra che si è emancipata malgrado se stessa, grazie ad una legislazione sui diritti che aveva sempre osteggiato. Bisogna ricordarsene soprattutto oggi che altre forme di relazioni tra persone si sono affermate, dando vita a famiglie omoparentali che nuovamente la destra osteggia in nome di una visione della famiglia che pochi decenni prima combatteva. La famiglia «naturale» di cui la destra favoleggia oggi altro non è che la famiglia nata con la legge del 1975.
Il 19 maggio 1975 il parlamento approva il nuovo diritto di famiglia, una legge che ha cambiato profondamente la vita delle donne italiane e quella delle bambine e dei bambini nati da rapporti extraconiugali, considerati per questo illegittimi. Nuovi figli di coppie separate che non potevano essere riconosciuti o peggio figli della «colpa», nati da un adulterio, celati, nascosti, marchiati. Kant in una pagina della Metafisica dei costumi, dove affronta il regime giuridico della famiglia, del matrimonio e della donna, scrive pagine terribili sui figli nati da adulterio, paragonati a merce avariata che subdolamente si infiltra nella società corrompendola. Un male da tenere fuori della vita civile e giuridica. Dei minus habens, semplicemente «bastardi» nel linguaggio popolare e le loro madri delle poco di buono. Quello che oggi nelle grandi metropoli occidentali viene vissuto come un segno distintivo di emancipazione, la famiglia monoparentale, fino a pochi decenni fa era uno stigma sociale che segnava profondamente la vita delle «ragazze madri», giovani donne senza compagno, abbandonate o che avevano allacciato rapporti con uomini sposati. Guardate con disapprovazione, poste sotto tutela, rischiavano di perdere i figli da un momento all’altro, sottratti e rinchiusi in istituti dove si allevavano neonati illegittimi o abbandonati, i brefotrofi. Chi scrive è stato uno di quei bambini «illegittimi» divenuti improvvisamente «naturali» col nuovo diritto di famiglia. Avevo 13 anni e la definizione «naturale» per molto tempo ancora ha suscitato in me un certo divertimento, l’illegittimo infatti sembrava d’improvviso divenuto più genuino e vero del figlio regolare anche se la nuova legge, che assicurava «ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale», non eliminava tutte le differenze. La riforma giungeva al termine dopo un iter molto travagliato lungo nove anni. Un contributo notevole al suo compimento era venuto del referendum dell’anno precedente che aveva confermato la legge sul divorzio. La sconfitta delle istanze reazionarie del fronte «clerico-fascista», come veniva definito all’epoca, aveva liberato energie trasformatrici. La rivoluzione entrava in famiglia, spariva la plurimillenaria figura del pater familias tramandata dal diritto romano, un arcano giuridico del patriarcato. Venivano modificati gli articoli del codice civile del 1942, adeguandoli al dettato costituzionale, in particolare all’articolo 29 secondo il quale «il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi». La moglie non seguiva più la condizione civile del marito, assumendone il cognome con l’obbligo di accompagnarlo ovunque questi crede opportuno di fissare la sua residenza», come recitava l’art. 144 del codice civile e non perdeva più la cittadinanza se sposava uno straniero. Vale la pena sottolineare, perché la memoria non è mai neutra, che a questo salto di civiltà, oggi patrimonio comune, si oppose ferocemente la destra, la stessa che oggi governa questo paese. Una destra che si è emancipata malgrado se stessa, grazie ad una legislazione sui diritti che aveva sempre osteggiato. Bisogna ricordarsene soprattutto oggi che altre forme di relazioni tra persone si sono affermate, dando vita a famiglie omoparentali che nuovamente la destra osteggia in nome di una visione della famiglia che pochi decenni prima combatteva. La famiglia «naturale» di cui la destra favoleggia oggi altro non è che la famiglia nata con la legge del 1975.
Nel 1968 Giorgio Amendola pubblicò un audace volumetto dal titolo, La classe operaia italiana, nel quale il leader storico dell’ala destra del Pci azzardava una singolare analisi del ceto operaio criticando la linea del suo partito e del sindacato, accusata di privilegiare quella minoranza di classe operaia che lavorava nelle grandi fabbriche, dimenticando il grosso dei lavoratori impiegati nella piccola e media impresa. Secondo Amendola occorreva ribaltare tutta la linea allora prevalente nei tre grandi sindacati italiani e anche nei partiti della sinistra. Singolare posizione che sembrava non riuscire a cogliere le dinamiche politiche del conflitto sociale. Furono proprio le lotte condotte nei grandi aggregati industriali a strappare alcune decisive conquiste, all’interno del contratto nazionale, di cui beneficiò soprattutto chi lavorava nelle piccole e medie imprese prive della forza contrattuale e politica delle grandi fabbriche. Conquiste, non solo salariali ma soprattutto contrattuali, capaci di intervenire sui ritmi, gli organici, gli straordinari, i lavori nocivi, la mensa, le 150 ore, gli aumenti uguali per tutti.
L’egualitarismo C’è un aspetto che mandava Amendola su tutte le furie, ma non solo, perché si trattava di una cultura consolidata nel sindacato degli anni 50 e 60 e nei dirigenti del Pci, ovvero l’egualitarismo. Una rivendicazione che spiazzava le gerarchie sindacali ma soprattutto scardinava il sistema disciplinare della fabbrica, strumento di potere di “capi” e “capetti” con il loro sistema di premi, ricatti, compensi e punizioni. Rivendicazione politica innanzitutto, strumento di libertà dentro le officine. Dove nasceva l’ostilità storica di Amendola verso il protagonismo dei ceti operai? Probabilmente dalla sua originaria formazione culturale, dalle origini alto borghesi, da una visione elitaria della politica che attribuiva al partito comunista una funzione pedagogica delle masse, che andavano guidate, dotate di una rigida morale da perseguire, gerarchizzate. Per Amendola il partito comunista doveva portare a termine quella rivoluzione borghese che il partito liberale del padre non era stato in grado di compiere. La sua classe operaia ideale era fatta di uomini pronti ad accettare l’egemonia e la tutela del partito, disposti a riconoscere la funzione maieutica a quei capi capaci di trasformarli da plebe in operai consapevoli. Ubbidienti e pronti e stringere la cintola per fare i sacrifici necessari al paese al posto di quella borghesia inesistente (sic!) e dimostrarsi così classe nazionale, ceto di governo.
La rude razza pagana Quando sul finire degli anni sessanta una «rude razza pagana» rifiutò questi vecchi schemi e ruppe con la cultura delle commissioni interne imponendo i delegati “senza tessera”, esprimendo un altissimo grado di autonomia politica, Amendola intravide in questo protagonismo operaio, espressione per altro di una mutata sociologia di classe e di una nuova forma di capitalismo, un nemico insidioso da contrastare, da domare in tutte le forme e maniere. L’ex segretario della Fiom e poi della Cgil Bruno Trentin, in una conversazione con Vittorio Foa e Andrea Ranieri (La libertà e il lavoro, volume curato da Michele Magno), spiegò il lungo dissenso che lo oppose ad Amendola. Quando vennero gli anni in cui si cominciava a discutere delle trasformazioni del capitalismo – racconta Trentin – Amendola «era su una linea pauperistica, di un Gramsci assolutamente mal letto». Per Amendola era la classe operaia che doveva fare la rivoluzione borghese, «perché c’è una società senza borghesia o con una borghesia stracciona che non è in grado di fare niente». Una linea – continua Trentin – a cui sfuggivano le trasformazioni reali del nostro capitalismo». Lui arrivò a ridicolizzare su Rinascita – prosegue sempre Trentin – «la mia proposta di organizzare i disoccupati nelle lotte per il lavoro, e quasi a criminalizzare certe posizioni del sindacato nei confronti dei quadri. Noi ponevamo il problema della loro conquista politica, e lui sosteneva che erano un ceto a sé. Beh, la mia convinzione è che lui era un liberale ma non un democratico. All’interno del partito, e nella sua concezione generale del rapporto tra democrazia e sviluppo economico. Il dissenso con lui si sviluppò su molti terreni. Lui era convinto che l’unità sindacale riguardasse solo la Uil e non la Cisl, che considerava un nemico. La possibilità di dialogo con i cattolici era un problema di rapporto con le gerarchie religiose, non con un sindacato. Rimase su questo coerente fino in fondo; non capiva quella realtà complessa che era la Cisl. In una riunione di partito a Frattocchie, si schierò insieme a Novella contro i consigli dei delegati irridendo a questa esperienza. Diceva che avremmo fatto un centinaio di consigli contro migliaia di commissioni interne: successe esattamente l’opposto. Ma l’attacco fu molto aspro perché fare eleggere dei delegati su scheda bianca, voleva dire, a suo parere, delegittimare il partito e la sua possibilità di presenza nei luoghi di lavoro».
Manifesto antioperaio Dopo la sconfitta dell’esperienza del compromesso storico e la prima flessione elettorale del Pci del giugno 1979, invece di ragionare sulla posizione suicidaria tenuta dal gruppo dirigente durante il sequestro Moro, temendo un ritorno all’opposizione del partito Amendola puntò il dito contro una linea – a suo dire – troppo morbida tenuta nelle fabbriche verso l’irruenza operaia, le «rivendicazioni di democrazia diretta», le pratiche di lotta non ortodosse, il contrasto troppo debole verso la violenza operaia, il proliferare di un rivendicazionismo corporativo e contraddittorio. Rimproverava al Pci «di non avere criticato apertamente, fin dal primo momento» l’estremismo in fabbrica, «per una accettazione supina dell’autonomia sindacale e per non estraniarsi dai cosiddetti movimenti, abdicando alla funzione che è propria del Pci di diventare forza egemone della classe operaia italiana e del popolo». Dopo il licenziamento dei sessantuno delegati di Fiat Mirafiori, accusati di violenza in fabbrica, esperimento pilota che aprì la strada l’anno successivo al licenziamento di massa di 23 mila operai, in un articolo apparso su Rinascita del 7 novembre 1979, considerato a giusto titolo il suo testamento politico e ritenuto, non ha torto, dai suoi critici un manifesto del termidoro antioperaio, Amendola mise all’indice la cultura neomarxista sorta all’inizio degli anni sessanta. Una requisitoria contro i Quaderni rossi («che restringevano all’interno della fabbrica lo scontro di classe e considerava come democraticismo ogni tentativo di allargamento del fronte con le riforme di struttura»), i Quaderni piacentini e Potere operaio, responsabili dei «tentativi di elaborazione teorica che formarono il terreno di coltura dell’estremismo, nell’incontro con l’estremismo di origine cattolica, allevato nel laboratorio della facoltà di sociologia dell’università di Trento», esperienze che avrebbero portato «alla cosiddetta “autonomia” ed infine al terrorismo». Fenomeni che il Pci non avrebbe contrasto a sufficienza, nonostante il rastrellamento del 7 aprile precedente, le carceri speciali, l’uso degli infiltrati del Pci concordato con il generale Dalla Chiesa. Un’accusa infondata alla luce di quanto poi i lavori storici hanno dimostrato ma soprattutto la prova di una cultura politica timorosa della partecipazione dal basso. Una cosa è sicura, non sarà certo inseguendo l’insegnamento di Amendola che si potranno fondare le basi di una nuova sinistra.
«Operazione venti», era questo il nome in codice del patto segreto tra intelligence italiana e Mossad stipulato nel 1975. Il capocentro a Beirut Giovannone aveva il compito di raccogliere informazioni per conto del servizio israeliano sui dispositivi militari di Libano, Siria, Iraq e Egitto. Una sorta di contrappeso all’accordo riservato raggiunto tempo prima con l’Olp. Questi documenti, presenti nell’ultimo versamento depositato in aprile presso l’Archivio centrale dello Stato precisano meglio quello che fu il cosiddetto «lodo Moro»: una linea di politica estera parallela che prevedeva una serie di accordi informali e riservati con i vari attori del teatro mediorientale. Vennero coinvolti Stati come Israele e organizzazioni politiche che incarnavano forme di Stato nascente, come l’Olp, ma anche altre formazioni minori che vedremo più avanti, con l’obiettivo di smilitarizzare lo scontro e ripoliticizzare il conflitto mediorientale.
Paolo Persichetti, l’Unità 16 giugno 2023
Nel 1975 Italia e Israele stipularono un lodo segreto con lo scopo di rafforzare la sicurezza dei confini dello Stato ebraico prevenendo eventuali attacchi militari nei suoi confronti. Si tratta dell’ultima clamorosa novità venuta fuori dalla seconda tranche dell’incartamento Sismi-Olp versato lo scorso 19 aprile 2023 presso l’Archivio centrale dello Stato. Il Servizio segreto militare, grazie agli ottimi rapporti intrecciati con le maggiori organizzazioni palestinesi e alla rete di informatori messa in piedi in Medioriente, aveva il compito di raccogliere informazioni sui dispositivi militari di alcuni paesi arabi, in particolare Libano, Siria, Iraq e Egitto. Notizie che poi avrebbe trasmesso al Mossad. Una sorta di contrappeso all’accordo riservato raggiunto tempo prima con l’Olp e che aveva come obiettivo la messa in sicurezza del territorio italiano e dei suoi interessi oltre i confini nazionali evitando che l’Italia fosse travolta dal conflitto israelo-palestinese, come era già accaduto in più circostanze. In cambio, le autorità italiane avrebbero fornito sostegno internazionale e riconoscimento politico all’attività dell’Olp. Del lodo Israele, definito in codice «Operazione Venti», si trova una prima traccia in una dichiarazione inviata al Cesis dal generale Silvio Di Napoli il 19 settembre 1985 (doc. 192). Questo documento, il cui contenuto è confermato da una lettera dell’Ammiraglio Fulvio Marini, Direttore del Sismi, al Presidente del consiglio Bettino Craxi e al Cesis, del 1 ottobre 1985 (doc. 193), consente di precisare meglio quello che fu il cosiddetto «lodo Moro»: una linea di politica estera parallela che prevedeva una serie di accordi informali e riservati con i vari attori del teatro mediorientale. Vennero coinvolti Stati come Israele e organizzazioni politiche che incarnavano forme di Stato nascente, come l’Olp, ma anche altre formazioni minori che vedremo più avanti, con l’obiettivo di smilitarizzare lo scontro e ripoliticizzare il conflitto mediorientale.
1975-1985 dieci anni di diplomazia parallela Questo secondo versamento, più voluminoso di quello depositato lo scorso anno, conta 429 fogli, pari a 163 documenti, anche se quelli indicizzati sono in realtà 193. Ne mancano all’appello 30, solo in parte compensati dai precedenti 32 che smentivano clamorosamente la narrazione tossica diffusa dalla destra su un presunto ruolo palestinese nella strage di Bologna: si veda in proposito l’approfondita analisi svolta da chi scrive insieme a Paolo Morando su Insorgenze.net(1,2, 3, 4). Considerando i doppioni (ne abbiamo contati tre) e i sei documenti mancanti all’appello, nel complesso gli studiosi hanno a disposizione un bacino di 186 documenti che sul piano cronologico si integrano perfettamente coprendo circa un decennio, dal 21 novembre 1975 al 3 ottobre 1985. Non ci sono le informative utili a comprendere il periodo di formazione della politica dei lodi, se è vero – come riferisce Giovannone nel suo interrogatorio del 20 giugno 1984 (doc. 191) davanti al pm Giancarlo Armati – che su mandato del Sismi nel 1972 allacciò rapporti con i vertici palestinesi «disponibili a intavolare un dialogo». Manca ancora un nucleo documentale di almeno tre anni molto importante per capire come lo Stato italiano ha costruito questa diplomazia parallela, il cui attore principale in loco non era l’ambasciatore ma il capocentro del Sismi a Beirut.
Vicenda Toni-De Palo Un paio di dispacci accennano di sfuggita alla vicenda dei due giornalisti, Italo Toni e Gabriella De Palo, scomparsi in Libano nel settembre del 1980. Anche se molto più interessanti sono le dichiarazioni del colonnello Giovannone rese davanti al magistrato che indagava sulla loro scomparsa e nelle quali riferisce di un flusso di informative inviate dall’ambasciatore italiano a Beirut, D’Andrea, che seguiva personalmente le indagini. Dispacci intercettati da Giovannone per conto del Sismi. Documenti, non presenti in questo versamento, nonostante le rassicurazioni della presidente del consiglio Giorgia Meloni, ma che dovrebbero trovarsi presso l’archivio del ministero degli Esteri e, almeno quelli intercettati, presso l’archivio dell’Aise che ha ereditato le carte del Sismi.
Abu Nidal e la messa in sicurezza dell’Olp Un altro tema rilevante riguarda la figura di Abu Nidal, ovvero Sabri Khalil al-Banna, l’esponente palestinese che fu rappresentante dell’Olp al Cairo. Brillante, ambizioso, profondo conoscitore della situazione egiziana, prima della sua rottura con i vertici di Fatah a causa della svolta «moderata» impressa da Arafat, fu individuato da Giovannone come una potenziale fonte da arruolare per ottenere informazioni di prima mano. Le carte raccontano dei primi contatti con Nidal, forse addirittura una sua iniziale collaborazione col Sismi, e poi la lunga caccia condotta in stretta collaborazione con l’Olp per prevenire i suoi attacchi in Europa e in Italia e mettere in sicurezza la sede diplomatica palestinese a Roma e i suoi esponenti.
L’«Operazione Aquila» Il grosso del carteggio è una integrazione dei dispacci e degli appunti sulla vicenda del sequestro dei due lanciamissili del Fplp a Ortona nel novembre del 1979 e l’arresto dei tre autonomi romani e del palestinese Abu Anzeh Saleh. Le nuove carte arricchiscono i passaggi dell’inchiesta inizialmente condotta dal Sismi per comprendere la natura dei fatti e verificare la veridicità della versione palestinese, quindi la laboriosa trattativa che ne seguì e la realizzazione di una seconda operazione speciale, l’«operazione Aquila», finalizzata alla scarcerazione di Saleh. Documentazione che conferma il fitto intreccio intessuto dal Sismi e che vede il coinvolgimento diretto degli avvocati degli imputati ma soprattutto la scansione temporale della trattativa con l’Fplp dettata dai passaggi processuali. Quello che ne esce fuori è una quadro arricchito da numerose altre conferme che ribadisce, senza possibilità di appello, l’assoluta estraneità dei palestinesi nella vicenda dell’attentato alla stazione di Bologna e il naufragio della operazione di intossicazione messa in piedi dalla destra da oltre un decennio.
Gli Armeni e il lodo Cossiga In questa ultima tornata di documenti si parla anche del lodo armeno, messo a punto sempre dal Sismi con l’Asala, l’organizzazione armata segreta armena – grazie alla supervisione decisiva dell’Olp – per prevenire eventuali suoi attacchi contro gli interessi turchi presenti sul suolo italiano e contro sedi diplomatiche o aziende italiane estere. Nell’aprile del 1980 – scrive il generale Ninetto Lugaresi, allora capo del Sismi, in una lettera al ministro dell’Interno Scalfaro del 19 agosto 1983 (doc. 189) – «allo scopo di bloccare le azioni terroristiche armene contro l’Italia, sono stati presi contatti tramite l’Olp, con l’Asala, conclusi nel dicembre dello stesso anno». Le date sono significative poiché l’accordo venne stipulato sotto la presidenza del consiglio Cossiga nello stesso arco di tempo in cui avvenne la strage di Bologna. Si tratta di una ulteriore prova, indiretta e logica, della assoluta assenza di sospetti da parte del Sismi e delle autorità politiche italiane nei confronti dei palestinesi, in caso contrario difficilmente sarebbe stata riposta tanta fiducia verso i palestinesi, addirittura incaricandoli di una missione volta a prevenire rischi per la sicurezza interna dell’Italia. L’Asala, in realtà, non aveva commesso grosse azioni contro l’Italia, solo l’incendio di un magazzino della Mondadori per rappresaglia nei confronti di una intervista poco apprezzata uscita su Panorama. Gli attentati più gravi vennero realizzati a Parigi nel 1981, con l’attacco all’ambasciata turca, e nel luglio 1983 con l’assalto all’aeroporto di Orly. Episodio che spiega il ritorno di attenzione da parte del Sismi diretto da Lugaresi e la messa a punto del lodo stipulato tre anni prima. Anche in Francia si attivò un’azione politica simile da parte delle autorità che avviarono una trattativa segreta per accogliere e ricondurre su canali politici le rivendicazioni del gruppo armeno. La vicenda è raccontata da Louis Joinet, il consigliere giuridico di Mitterrand, che fu uno degli artefici principali di questa trattativa, nel suo libro Mes raisons d’Etat, La Découverte, 2013.
Il lodo Israele Sia il colonnello Giovannone che il generale Di Napoli, avevano opposto il «segreto di Stato» davanti ai magistrati che li avevano interrogati tra il 1984 e il 1985, segreto poi confermato dal presidente del consiglio Bettino Craxi. In una informativa inviata al Cesis, del 19 settembre 1985 (doc. 192), Di Napoli spiegava il contenuto delle «operazioni speciali» di cui era stato a conoscenza nel periodo tra il 30 aprile 1979 e l’11 ottobre dello stesso anno. Si trattava – scrisse al Cesis – della «Operazione Venti condotta dal col. Giovannone di concerto con l’allora Direttore del Servizio, gen. Santovito, finalizzata ad acquisire notizie politico-economiche e militari (con specifica attenzione ai dispositivi militari) a riguardo del Libano, della Siria, dell’Iraq ed Egitto. Tali notizie venivano raccolte a favore del Servizio Israeliano (Mossad) nell’ambito di un particolare rapporto di collaborazione». Il 3 ottobre successivo in una informativa diretta alla presidenza del consiglio, l’Ammiraglio Marini, nuovo capo del Sismi aggiungeva, «Nel 1975 dopo la guerra del Kippur fu concordato con il Servizio israeliano un accordo di collaborazione in campo intelligence finalizzato alla raccolta di dati prevalentemente militari nei paesi circondanti Israele. In detto accordo venivano individuati prevalentemente gli “indizi di attacco” che avrebbero potuto segnalare una operazione militare congiunta di sorpresa contro Israele creando una situazione analoga a quanto avvenuto prima della Yom Kippur. Detta operazione fu chiamata “Operazione Venti”». Attività che nel 1985 – precisava Martini alla luce della mutata situazione internazionale dopo gli accordi di Camp David – era «limitata alla sola Siria».
Cosa è stato il berlusconismo? Come è riuscito ad imporre la sua egemonia? «Goffamente astuto, furbescamente ingenuo, balordamente sublime, superstizione calcolata, farsa poetica, anacronismo genialmente sciocco, buffonata della storia mondiale, geroglifico inesplicabile», l’apparente inconsistenza del personaggio berlusconiano si è rivelato in realtà un suo punto di forza: «Appunto perché non era nulla, egli poteva significare tutto», come capitò di scrivere a Marx a proposito di un altro «uomo della provvidenza», ed essere così reinventato da ogni ceto sociale o individuo a propria immagine e somiglianza
Paolo Persichetti, l’Unità 13 giugno 2023
Fin dal momento della sua entrata diretta in politica, nel lontano 1994, il dispositivo Berlusconi ha agito come un grande diversivo, un potentissimo magnete capace di captare su di sé passioni contrapposte. Una sorta d’incantesimo che ha permesso al padrone della televisione commerciale di collocarsi da subito al centro della scena scompaginando gli schieramenti, rimescolando le carte, sparigliando il tavolo da gioco. Forse solo riconoscendo questa sua irresistibile capacità illusionistica si può riuscire a spiegare anche l’essenza contraddittoria, quella combinazione di contrari che è l’antiberlusconismo. Solo in questo modo si riesce a comprendere perché personaggi della destra storica, come Indro Montanelli o populisti di destra come Antonio Di Pietro siano diventati dei paladini del popolo della sinistra, oppure un damerino reazionario come Marco Travaglio abbia potuto ispirare prima le correnti giustizialiste della sinistra, dai girotondi al popolo viola, e poi i Cinque stelle. Sicuramente Berlusconi ha saputo intercettare e interpretare a modo suo quel nuovo spirito del capitalismo descritto da Luc Boltansky e Éve Chiappello in un volume pubblicato da Gallimard nel 2000 e arrivato in Italia solo nel 2014 con Mimesis. Versione italiana di quella nuova etica della valorizzazione del capitale che, secondo i due sociologi, dopo l’originaria fase puritana e la successiva età della programmazione e della razionalità fordista, ha trovato nuova fonte d’ispirazione e legittimazione in una parte delle critiche rivolte al modo di produzione capitalista durante la contestazione degli anni Settanta. La critica al taylorismo fordista, all’alienazione seriale del lavoro, ai rapporti di società rigidi e gerarchizzati e alla società dello spettacolo, sono state assorbite e metabolizzate fino a fare della creatività e della flessibilità i tratti salienti del nuovo sistema dell’economia dei flussi, del valore aggiunto, del lavoro immateriale incamerato nel prodotto finito. Inventiva, piacere e pazzia – sempre secondo l’analisi di Boltansky e Chiappello – sono diventati ingredienti del successo capitalista molto più dei costipati valori del lavoro, della preghiera e del risparmio che ispiravano gli albori del capitalismo ma anche quella sorta di calvinismo del valore lavoro di cui era intriso il togliattismo. Se l’immaginazione non è mai arrivata al potere, sicuramente ha trovato posto in piazza Affari. Dimostrazione della capacità dinamica e innovativa dell’«imprenditoria deviante», secondo una categoria forgiata dalla sociologia criminale. L’ambivalenza del comportamento berlusconiano, condotta all’interno e all’esterno dell’ordine stabilito, ha permesso di condurre esperimenti, d’esplorare possibilità anche illegittime. Risorsa necessaria affinché l’iniziativa economica innovativa potesse avere luogo. In questo modo l’uomo di Arcore ha mantenuto «una distinta leggerezza che ha consentito alle sue imprese, in maniera weberiana, di levarsi al di là del bene e del male», come ha scritto Vincenzo Ruggiero in, Crimini dell’immaginazione. Devianza e letteratura, il Saggiatore, Milano 2005. Il patron della pubblicità con le sue televisioni è stato il volto italiano di questa rivoluzione del capitale. Con la sua abilità nel produrre ideologia è riuscito a sintetizzare anche interessi e spinte sociali diverse ma accomunate da un’ipertrofica rapacità individualista. Venditore di sogni e d’illusioni, spacciatore di marche, dealer di un mondo ridotto al dominio del logo e delle sue imitazioni. Divenuto sistema-mondo, occupata la società, a Berlusconi mancava solo la politica. Non la politica vera. Quella l’aveva sempre fatta, come una volta vantò in una intervista. La sua rete commerciale non era altro che un partito di tipo leninista. L’unico rimasto. Il partito dei professionisti della pubblicità. Una struttura di quadri selezionati, radicati nel territorio e nei distretti economici, con rapporti diffusi e alleanze con le corporazioni, le organizzazioni di categoria e gli imprenditori legali e illegali. Un vero modello d’organizzazione bolscevica della borghesia. Ed difatti, alla fine del 1993, in pochi mesi riuscì a farne la struttura portante di Forza Italia per lanciare l’attacco alla cittadella della politica-istituzionale, all’occupazione della macchina statale. Grazie ad una scientifica attività lobbistica e alle protezioni ottenute da settori influenti della politica, più che alla capacità di stare sul mercato, ha potuto costruire negli anni Ottanta la sua posizione dominante nel settore delle televisioni commerciali e della raccolta pubblicitaria. Ma a spianare la strada al suo ingresso diretto nel mondo dei palazzi romani è stato il tracollo del sistema politico dei partiti provocato dalle inchieste giudiziarie. Quando sulle ceneri della Prima Repubblica rivaleggiavano ormai forme contrapposte di populismo, Berlusconi è riuscito a sconvolgere la scena politica del paese sradicando la tradizione dei partiti di massa già in crisi e imponendo il proprio modello anche ai suoi avversari. In grado di miscelare elementi elitari e plebiscitari, premoderni e ipermoderni, quello berlusconiano è apparso un modello di populismo dove vecchio e nuovo s’integravano. Sorretto dal ritorno all’affermazione della leadership carismatica e provvidenziale, nella quale il potere patrimoniale sostituisce la vecchia legittimità paternalista-patriarcale, il paradigma berlusconiano ha accompagnato l’elogio dell’imprenditorialità diffusa dentro la quale riescono a convivere anche forme arcaiche e bestiali di taylorismo. Il sogno e l’inganno di milioni di piccole imprese, nuova configurazione di un rapporto lavorativo che occulta dietro il mito dell’imprenditorialità individuale le gerarchie di un nuovo modello di sfruttamento. Illusione di un facile accesso al ceto medio e all’arricchimento personale modellato con i valori profusi dalle televisioni commerciali, tra gossip, cronaca nera, veline e reality show. Esaltazione retorica e sognatrice dell’autoaffermazione individuale, della proprietà (tanto più quando questa è insignificante e si riduce ad un’abitazione o un’automobile acquistata contraendo mutui bancari pluridecennali o alla conversione dei propri risparmi in bond e partecipazioni in titoli finanziari). Ideologia che riesce a far convivere con un mirabile gioco di prestigio temi legati alla riscoperta dei valori morali, come patria, famiglia e presunta etica della vita (ostilità verso l’aborto e l’uso delle staminali), insieme ad una sorta di sfrenato “edonismo proprietario”, di ’68 dei padroni (il “bunga bunga”). «Goffamente astuto, furbescamente ingenuo, balordamente sublime, superstizione calcolata, farsa poetica, anacronismo genialmente sciocco, buffonata della storia mondiale, geroglifico inesplicabile», l’apparente inconsistenza del personaggio berlusconiano si è rivelato in realtà un suo punto di forza: «Appunto perché non era nulla, egli poteva significare tutto», come capitò di scrivere a Marx a proposito di un altro «uomo della provvidenza», ed essere così reinventato da ogni ceto sociale o individuo a propria immagine e somiglianza. Tutto ciò come è stato possibile? Quando la società dei lavoratori e dei cittadini volontari è messa fuori gioco, ha risposto Mario Tronti: «la politica diventa il monopolio dei magistrati, dei grandi comunicatori, della finanza, delle lobby, dei salotti. Cessa di essere la sede in cui i progetti di società si affrontano e confrontano e diventa il luogo dell’indifferenza, uno spazio indistinto dove l’apparenza prevale sul contenuto, l’estetica s’impone sulla sostanza». Per questo l’antiberlusconismo giustizialista non solo si è rivelato inefficace ma si è addirittura dimostrato dannoso riverberandosi unicamente come riflesso subalterno del suo acerrimo nemico spianando la strada al governo della destra fascista.
ll 19 marzo 2002 Marco Biagi, giuslavorista consulente del governo Berlusconi, era stato ucciso da quelle che la stampa chiamava «nuove Brigate rosse». Alcune sue lettere email, rese pubbliche nelle settimane successive alla sua morte, avevano suscitato fortissimo imbarazzo tra le forze politiche di governo e d’opposizione. In quei messaggi premonitori, il consulente del governo denunciava la sospensione delle misure di vigilanza e tutela della sua persona e indicava con nome e cognome colui che riteneva il maggiore responsabile del clima di minaccia nei suoi confronti. Parole che, nel giugno 2002, fecero deflagrare il milieu politico, gettando scompiglio nell’intero establishment istituzionale. Ferocissime furono le polemiche accompagnate da reciproche e sanguinose accuse. In quel clima rovente, da ultima spiaggia, dove erano ammessi colpi bassi d’ogni tipo, si verificò l’incredibile gaffe che travolse il ministro degli interni Scajola. Questi, in un colloquio informale con alcuni giornalisti durante un viaggio ufficiale a Cipro (29 giugno 2002), aveva definito Biagi un «rompicoglioni». La frase, divulgata dalla stampa, obbligò il ministro a rassegnare le dimissioni, mentre l’apertura di un’inchiesta giudiziaria sulla mancata scorta di polizia, metteva sotto schiaffo i vertici della polizia di prevenzione (ex ucigos) e della questura bolognese. Il discredito e lo smacco regnavano nelle stanze del Viminale già tramortito dalle vicende genovesi del G8. E’ in quel torbido contesto di grave crisi politica e di forte pregiudizio istituzionale che prese forma l’idea di un coup de théatre risolutore. Un gioco di prestigio, un effetto illusionistico, un trompe l’oeil che potesse risollevare le sorti delle istituzioni (e di alcune poltrone), saldando dietro una ritrovata unità emergenziale maggioranza e opposizione, ridando nel contempo lustro e smalto agli investigatori e alla magistratura. Occorreva insomma, subito un colpevole. Un responsabile di sostituzione cui far indossare gli abiti del reo. Un vero capro espiatorio attorno al quale celebrare la catarsi della ritrovata unità nazionale e del trionfo delle istituzioni, il festino di una baldanzosa e tronfia maggioranza che potesse finalmente levare i calici al cielo. Come poi avvenne in una delle dimore estive del premier in Costa Smeralda tra una barzelletta del Cavaliere e una sonata d’Apicella. L’episodio viene così raccontato in una cronaca apparsa sulla Repubblica del 26 agosto 2002:
«La notizia arriva sabato sera a cena, nella villa del premier, e c’è tanta soddisfazione che parte anche un accenno di applauso al tavolo in cui accanto a Berlusconi siedono il ministro Pisanu, il ministro Stanca, con relative consorti, fra il portavoce Bonaiuti, la moglie e la mamma del Cavaliere. Il capo della polizia telefona al titolare del Viminale, e Pisanu dà in diretta l’annuncio: arrestato il brigatista Persichetti, latitante per l’omicidio Giorgieri. La cena a Villa Certosa, che poi si trasformerà in un vertice sulla sicurezza quando Pisanu e Berlusconi si appartano, diventa così un’occasione per festeggiare il successo delle forze di polizia Soddisfazione che si allarga poi alla pattuglia di una decina di fedelissimi che, attorno alle 23, si presentano a Punta Lada per unirsi alla compagnia: il capo dei deputati europei di Forza Italia Tajani, il vicecapogruppo alla Camera Cicchitto, il responsabile giustizia Gargani, il sottosegretario Viceconte. Per chiudere in bellezza spunta anche la chitarra di Mariano Apicella, musica e canzoni fino a mezzanotte e mezza. Ministro degli Interni escluso: “sono stonato e non ho mai cantato nella mia vita, salvo quando il parroco del mio paese mi scelse per il coro ma solo perché ero arrivato primo al corso di catechismo”.»
Estratto da Esilio e castigo, retroscena di una estradizione, La città del sole 2005
di Pino Narducci, presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia Questione giustizia, 9 giugno 2023 Rivista trimestrale di Magistratura democratica
La vicenda del testimone mendace Alessandro Marini, la fonte primigenia di tutte le dietrologie su via Fani, la moto Honda e l’invenzione degli spari contro il parabrezza del suo Boxer, le venticinque condanne per un tentato omicidio mai avvenuto,approdano sulla rivista di Magistratura democratica
Le ricerche di una moto Honda blue con due brigatisti a bordo iniziano, attraverso le comunicazioni della Sala Operativa della Questura di Roma, non più tardi delle 9:10, quando è appena terminata l’operazione militare delle BR che, in via Fani, conduce al sequestro di Aldo Moro e all’uccisione di tutti gli uomini della sua scorta. Gli inquirenti ritroveranno, abbandonate in via Licinio Calvo, le tre auto usate dal gruppo brigatista in fuga. Tuttavia, la moto non salta fuori e non sarà rinvenuta nemmeno nelle settimane successive, mentre il sequestro si consuma nell’appartamento di via Montalcini. Parallela a questa scorre un’altra vicenda, non meno importante e che anzi si intreccia, come una matassa quasi inestricabile, a quella della Honda e alla identificazione dei suoi due passeggeri. È la storia non di una moto di grossa cilindrata, ma di un motorino, anche abbastanza malmesso, un ciclomotore Boxer verde con parabrezza in plastica, nel marzo ‘78 di proprietà del più importante e longevo testimone dell’agguato di via Fani, Alessandro Marini. I primi ad accorrere sul luogo ove è stata appena trucidata la scorta di Moro, verso le 9:05, sono i poliziotti Marco Di Berardino e Nunzio Sapuppo, componenti dell’autoradio Monte Mario. Quando scendono dall’auto di servizio, Marini si avvicina ai due agenti e fornisce le primissime, rudimentali, informazioni su quello che è appena accaduto. Sinteticamente, racconta di aver visto una moto Honda blue seguire il gruppo dei brigatisti che si è dileguato lungo via Stresa in direzione di piazza Monte Gaudio. I primi ad accorrere sul luogo ove è stata appena trucidata la scorta di Moro, verso le 9:05, sono i poliziotti Marco Di Berardino e Nunzio Sapuppo, componenti dell’autoradio Monte Mario. Quando scendono dall’auto di servizio, Marini si avvicina ai due agenti e fornisce le primissime, rudimentali, informazioni su quello che è appena accaduto. Sinteticamente, racconta di aver visto una moto Honda blue seguire il gruppo dei brigatisti che si è dileguato lungo via Stresa in direzione di piazza Monte Gaudio.
Già alle 10:15, trascorsa solo un’ora dal sequestro Moro, Marini viene sentito dagli uomini della Digos romana. Racconta di aver visto la scena in cui l’on. Aldo Moro viene prelevato dalla Fiat 130, su cui stava viaggiando, per essere messo all’interno di una Fiat 132 (l’auto è quella condotta da Bruno Seghetti e sulla stessa salgono Mario Moretti, Raffaele Fiore e il sequestrato) che si allontana, poi, su via Stresa in direzione Primavalle-Montemario. Il veicolo è seguito da una Honda di grossa cilindrata di colore bleu, a bordo della quale ci sono due individui. Quello seduto sul sedile posteriore, con un passamontagna scuro calato sul viso, esplode vari colpi di mitra nella sua direzione, praticamente ad altezza d’uomo, ma lui non viene colpito. Poi il tiratore, proprio all’incrocio di via Fani con via Stresa, perde il caricatore che resta a terra. Il teste descrive i due soggetti che hanno attentato alla sua vita: se quello seduto sul sellino posteriore ha il passamontagna, Marini, invece, ha visto distintamente il conducente. Ha 20-22 anni, è molto magro, il viso lungo e le guance scavate, insomma somiglia molto all’attore Eduardo De Filippo. Trascorre un mese circa e, il 5 aprile ‘78, Marini fornisce una nuova versione al Pubblico Ministero di Roma. Questa volta, nel suo racconto, il passamontagna scuro “passa” dal volto del passeggero a quello del conducente e così il “sosia” di De Filippo diventa il brigatista seduto sul sellino posteriore. Poi, aggiunge un particolare di non poco conto che non ha riferito la mattina del 16 marzo. Specifica che, quando il passeggero esplode la raffica di mitra, un proiettile colpisce il parabrezza del suo motorino. Così, nel volgere di appena 21 giorni, tra il 16 marzo e il 5 aprile, la ondivaga progressione narrativa di Marini ha il seguente andamento: 1) il conducente, a volto scoperto, è il sosia di De Filippo mentre il passeggero calza un passamontagna; 2) mi correggo, il conducente ha il passamontagna mentre il passeggero è a volto scoperto ed è lui il sosia di De Filippo; 3) il passeggero esplode contro di me una raffica di mitra, ma i proiettili non mi colpiscono; 4) mi correggo, un proiettile esploso dal mitra colpisce il parabrezza del mio motorino. Due mesi dopo, Alessandro Marini viene convocato dal Giudice Istruttore e, in maniera sbalorditiva, racconta che gli è rimasta impressa solo la immagine del conducente della moto Honda, un individuo sui 20-22 anni con il viso lungo e le guance scavate. A distanza di tre mesi dai fatti di via Fani, il teste torna sui propri passi ed anzi, all’insegna del motto “un passo avanti e due indietro”, smentendo seccamente la dichiarazione resa appena due mesi prima, colloca di nuovo «il brigatista con il volto di Eduardo de Filippo» alla guida della moto. Nel settembre ‘78, modifica di nuovo la propria narrazione. Al Giudice riferisce di aver visto bene i terroristi a volto scoperto, tranne quello che è alla guida della Honda bleu. Il passeggero della moto spara alcuni colpi di arma da fuoco ed uno di essi colpisce la parte superiore del parabrezza, rompendolo. Marini informa il Giudice che, a casa, conserva i frammenti del parabrezza. Ma se Marini, come lui racconta, ha visto il volto di tutti i brigatisti presenti in via Fani, ad eccezione di quello di colui che guida la moto, in realtà implicitamente dichiara che quest’ultimo indossa il passamontagna! La Digos procede al sequestro di due frammenti del parabrezza del ciclomotore Boxer. In questa occasione, Marini è puntiglioso nel precisare che i terroristi hanno colpito il parabrezza del motorino mandandolo in pezzi. Nel gennaio ’79, di nuovo convocato dal Giudice Istruttore, Marini conferma che il parabrezza viene colpito dalla raffica esplosa dal passeggero della Honda. Sostiene di aver ricevuto minacce telefoniche e rifiuta di sottoscrivere il verbale. Infine, depone nel corso del processo Moro 1 davanti la Corte di Assise di Roma. I giudici riportano fedelmente la sua deposizione nella sentenza di primo grado: «…Al di là dell’incrocio, fermi sull’angolo di Via Fani, c’erano quattro individui indossanti una divisa bicolore, ed esattamente giacca bleu e pantaloni grigi, con berretto. Per terra, a fianco di costoro, una grossa borsa nera. Dall’altro lato della strada si trovavano tre autovetture. Dalla Fiat 128 targata CD uscirono l’autista e la persona che gli sedeva accanto e, avvicinatosi alla macchina dell’on. Moro, scaricarono le loro pistole lunghe sull’autista e sul carabiniere accanto. Contemporaneamente i quattro vestiti da aviatori aprirono il fuoco violentemente. Dall’Alfa Romeo di scorta uscì fuori un uomo con la pistola in mano: contro quest’ultimo continuarono a sparare due individui che, oltre a quelli vestiti da aviatori, erano in borghese ed avevano quasi contemporaneamente già aperto il fuoco. In conclusione sino ad ora operarono otto persone, tutti maschi. Poi arrivò, quasi comparendo dal nulla, una Fiat 132 bleu, seguita da una Fiat 128 chiara: dalla Fiat 132 scura uscirono due uomini che, calmissimi, si avvicinarono alla macchina di Moro e lo tirarono fuori dalla portiera posteriore sinistra. L’onorevole era in uno stato di abulia, inerme e non mi pare che fosse in alcun modo ferito. Lo caricarono sul sedile posteriore e si allontanarono per Via Stresa andando a sinistra. Nella 128 bianca che tallonava la 132 vi erano altri due individui. Fino ad ora di tutte le dodici persone nessuna era mascherata. In quel frangente mi accorsi di una moto Honda di colore bleu di grossa cilindrata sulla quale erano due individui, il primo dei quali era coperto da un passamontagna scuro e quello dietro che teneva un mitra di piccole dimensioni nella mano sinistra, sparò alcuni colpi nella mia direzione, tanto che un proiettile colpiva il parabrezza del mio motorino. Il mitra si inceppò, cadde un caricatore che finì a terra quasi all’angolo tra Via Fani e Via Stresa davanti al bar Olivetti. Mi colpì il fatto che l’uomo che teneva il mitra sulla moto, pur essendo giovane, somigliava in maniera impressionante a Eduardo De Filippo». La circostanza raccontata da Marini è incontestabilmente vera. In via Fani un mitra si inceppa ed un caricatore perso da un brigatista viene effettivamente rinvenuto sul luogo del delitto. Se si osservano le foto scattate durante la fase del sopralluogo, è ben visibile, sulla pavimentazione stradale, un caricatore accanto ad un berretto da aviere. Tuttavia, non è quello perso dall’equipaggio della Honda. Si tratta del caricatore del mitra M12 usato dal brigatista Raffaele Fiore durante l’azione. Fiore, però, non è a bordo di una moto, ma, vestito da aviere, è posizionato in via Fani, dietro le fioriere del bar Olivetti, accanto a Morucci, Gallinari e Bonisoli. Il suo ruolo consiste nell’esplodere colpi di arma da fuoco contro i componenti della scorta dell’on. Moro, ed il suo mitra si inceppa, per due volte.
Marini, però, non è l’unico teste oculare dell’agguato.
Giorgio Pellegrini, dopo aver sentito colpi di arma da fuoco, esce sul terrazzo ed assiste alla sparatoria. Agli inquirenti offre questo racconto: «…Mentre i citati individui erano nel crocevia sopra riferito ed uno di essi sparava, ho visto una persona, che non so descrivere, a bordo di una motoretta, mi pare una moto vespa, percorrere l’ultimo tratto di via Stresa in direzione del citato crocevia. L’uomo che era alla guida, vista la scena davanti a sè, si è fermato, ha buttato la moto per terra ed è fuggito. Dalla posizione in cui io mi trovavo non posso dire se abbia proseguito a piedi, se sia ritornato sui suoi passi o si sia nascosto nelle vicinanze». §Appare realmente difficile ipotizzare che la persona che, atterrita, butta la moto a terra e fugge, senza peraltro che nessuno abbia sparato contro di lui, sia diversa da quella che corrisponde al teste Alessandro Marini. Giovanni Intrevado, giovanissimo poliziotto del Reparto Celere, fuori dal servizio, arriva con la propria Fiat 500 all’intersezione di via Fani con via Stresa proprio nel momento in cui i brigatisti stanno sparando contro le auto della scorta di Moro. Barbara Balzerani – che svolge le mansioni di “cancelletto” inferiore per impedire che l’operazione possa essere intralciata dal passaggio casuale di estranei – gli punta contro il mitra Skorpion che ha nelle mani e gli intima di fermarsi. Intrevado osserva la scena del prelevamento di Moro e la fase della fuga delle auto dei brigatisti. Si trova, quasi esattamente, nello stesso posto in cui dovrebbe trovarsi Marini, ma il testimone non fa mai cenno alcuno ad una persona a bordo di un motorino contro la quale vengono esplosi colpi di mitra. Solo dopo, quando si avvicina ai corpi del maresciallo Leonardi e dell’agente Iozzino, passa accanto a lui, a bassa velocità, una moto di grossa cilindrata di marca giapponese, con due giovani a bordo, a volto scoperto, che infine si dirige verso via Stresa. Alcuni anni dopo, Intrevado precisa che, tra i due giovani della moto, era posizionato un mitra. Ma il racconto del giovane poliziotto, che ricorda il passaggio di un mezzo di grossa cilindrata, non collima affatto con quello di Marini: la moto non è presente durante la fase dell’agguato, ma compare sulla scena solo quando l’azione di fuoco è già terminata.
I giudici che, nel marzo 1985, scrivono la sentenza di appello del processo Moro 1 e bis non esitano ad esprimono perplessità sulla testimonianza di Marini: «…Invero, per quanto riguarda il numero, solo il teste Marini parla di un numero di persone superiore a nove. Ma, la versione fornita dal predetto teste appare essere più una ricostruzione “a posteriori” del fatto. Se egli fosse stato presente all’intero svolgimento della vicenda – come afferma – sarebbe stato notato da qualcun altro dei testi. Tutti gli altri testimoni, invece, riferiscono ognuno o un momento o parte del fatto, e le loro testimonianze, collegate, offrono una ricostruzione dell’azione che, nel numero dei partecipanti e nelle modalità di svolgimento, corrisponde di più a quella data da Morucci». Tra il 1983 e il 1994, vengono pronunciate le sentenze di condanna definitive nei confronti di ventiquattro persone responsabili, a vario titolo, di concorso nel tentato omicidio di Alessandro Marini. Ma la definitività delle sentenze non significa affatto la fine delle dichiarazioni del testimone che anzi, dal 1994 al 2015, fornisce altre importanti informazioni sulla propria vicenda, di fatto facendo in modo che, progressivamente, la verità giudiziaria cominci a discostarsi, sempre più sensibilmente, dalla verità storica. Proprio nel ‘94, fornisce una clamorosa nuova versione dei fatti di cui è stato, al tempo stesso, vittima e protagonista ben 15 anni prima. Dopo aver osservato i due frammenti del parabrezza del suo motorino, Marini ricorda che, nei giorni precedenti il 16 marzo ’78, il mezzo è caduto dal cavalletto ed il parabrezza si è incrinato. Prima di sostituirlo, ha messo dello scotch per tenerlo unito. Però, in via Fani, il parabrezza si infrange cadendo a terra e si divide in due pezzi. Venti anni dopo, nel maggio 2014, torna a sedersi davanti ad un magistrato per riferire testualmente: «L’uomo che era alla guida della moto indossava un passamontagna, l’uomo che si trovava dietro, quello che sparò verso di me, era a volto scoperto e somigliava ad Eduardo de Filippo». Effettuando una ennesima torsione narrativa, il teste sconfessa le sue precedenti dichiarazioni e sostiene che il conducente della Honda indossa il passamontagna mentre il brigatista seduto dietro è quello che somiglia a Eduardo De Filippo.
Questa, però, non è ancora l’ultima dichiarazione di Marini.
Il 16 marzo 1978, in via Fani angolo via Stresa, vengono scattate, non solo ad opera degli inquirenti, centinaia di fotografie ed effettuate riprese filmate dei luoghi dell’agguato brigatista. A partire dagli anni ’90, foto e filmati vengono pubblicati in decine di siti web. Alcuni studiosi della vicenda Moro fanno così una singolare scoperta. In diverse immagini di via Fani e di via Stresa, è possibile vedere nitidamente un motorino con il parabrezza attraversato da una vistosa fascia di scotch di colore marrone. Il parabrezza è integro ed è attraversato in diagonale dalla fascia di scotch marrone. In tutte le immagini, il ciclomotore Boxer è parcheggiato sul marciapiede, in corrispondenza della insegna “Snack Bar-Tavola Calda” del bar Olivetti, tra un’auto Alfa sud di colore giallo (si accerterà che si tratta dell’auto con la quale Domenico Spinella, dirigente la DIGOS romana, è arrivato in via Fani) ed una volante della Polizia di Stato. Nel giugno 2015, nel corso di una audizione, lo storico Marco Clementi – autore di rigorosi saggi sulla vicenda Moro e sulla storia delle BR – consegna ai parlamentari della Commissione Moro proprio una di queste foto. Anche il procuratore aggiunto della Repubblica di Roma, Franco Ionta, ha occasione di esprimere le proprie convinzioni ai parlamentari e, a proposito del Marini, di manifestare sfiducia sulla affidabilità del teste: «…si, che sosteneva che gli avessero sparato con una mitraglietta; prima diceva che a sparare fosse stato il passeggero e poi diceva che fosse stato il conducente della moto. La mia sensazione…deriva dalla sedimentazione di tuto questo lavoro pluridecennale che ho fatto al riguardo sulle metodiche di funzionamento delle BR, su come facevano le inchieste e su come facevano gli attentati. Io ho maturato la convinzione che una presenza spuria rispetto a che aveva organizzato l’agguato di via Fani sia proprio incompatibile con lo schema di funzionamento delle BR…». La Commissione parlamentare affida al Servizio della Polizia Scientifica il compito di ricostruire la dinamica dell’agguato di via Fani. Federico Boffi, dirigente del Servizio, espone le conclusioni dell’attività svolta. Quando passa a valutare le dichiarazioni dei principali testimoni, segnala che l’osservazione del teste Marini «non è del tutto coerente con i dati in nostro possesso. La presenza di un’altra persona che esplode dei colpi qui per noi non è compatibile». Boffi è ancor più preciso: «la moto può essere passata, ma non ha lasciato per noi tracce evidenti. Per noi, per la ricostruzione della dinamica, è impossibile posizionare questa motocicletta. Rispetto alle traiettorie che abbiamo determinato non c’è alcuna traiettoria che potrebbe essere compatibile con dei colpi esplosi da un veicolo in movimento rispetto alle posizioni che abbiamo già identificato». Ed ancora: «…tutte le armi utilizzate hanno espulsioni verso destra. Se la moto, come sembra, anzi come è, si muoveva in direzione di via Stresa venendo da via del forte Trionfale, l’espulsione dei bossoli a destra li avrebbe dovuti mandare verso le autovetture ferme, se dalla moto avessero sparato in direzione di Marini. In realtà i bossoli…appartengono a queste sei armi…se un’arma è stata utilizzata sulla moto, doveva essere una di queste sei, perché non ci sono bossoli estranei…». Se ancora residuano dubbi, a questo punto molto pochi in verità, questi vengono fugati proprio dal testimone che compare davanti ai parlamentari della Commissione di inchiesta. La relazione della Commissione, approvata il 10 dicembre 2015, contiene ampi riferimenti alla testimonianza: «…Ad Alessandro Marini sono state mostrate alcune immagini estrapolate da un video dell’epoca, che raffigurano un motociclo verde, modello Boxer, con il parabrezza tenuto unito con dello scotch posto trasversalmente, con una guaina copri gambe di colore grigio, parcheggiato in via Fani, sul marciapiedi, all’altezza del bar Olivetti, accanto a un’Alfa sud e a una volante. Marini, osservando le fotografie, ha riconosciuto senza esitare il proprio motoveicolo e ha affermato che sicuramente lo scotch era stato applicato da lui prima del 16 marzo 1978, come aveva già affermato in occasione di dichiarazioni rese il 17 maggio 1994 dinanzi al pubblico ministero Antonio Marini. Alessandro Marini ha aggiunto di ricordare che il 16 marzo, di ritorno dalla Questura dove era stato portato per rendere dichiarazioni, nel riprendere il motociclo si era accorto che mancava il pezzo superiore del parabrezza che era tenuto dallo scotch e di aver perciò ritenuto che fosse stato colpito da proiettili». La relazione poi prosegue: «…Per il fatto che quel giorno l’ho trovato senza un pezzo di parabrezza, io ho ritenuto che fosse stato colpito dalla raffica esplosa nella mia direzione dalla moto che seguiva l’auto dove era stato caricato l’onorevole Moro. Non ho ricordo della frantumazione del parabrezza durante la raffica; evidentemente quando poi ho ripreso il motorino e poiché mancava un pezzo di parabrezza ho collegato tale circostanza al ricordo della raffica. Tali considerazioni le faccio solo ora e non le ho fatte in passato perché non avevo mai avuto modo di vedere le immagini fotografiche mostratemi oggi, da cui si nota che il parabrezza appare nella sua completezza, seppur con lo scotch…».
La deposizione all’organismo presieduto dall’On. Fioroni, chiude, in maniera definitiva, l’infinita vicenda del testimone Marini. Se il parabrezza del ciclomotore – come dimostrano in maniera inoppugnabile le fotografie – nelle ore successive alla consumazione dei fatti terribili accaduti in via Fani intorno alle 9:02 del 16 marzo 1978 è ancora tenuto insieme con lo scotch, cioè è ancora integro, esattamente come quando Marini era uscito di casa, è impossibile sostenere che qualcuno, seduto su una Honda, abbia esploso una raffica di mitra contro il testimone. La deposizione alla Commissione Moro segna l’epilogo di una vicenda, iniziata alle 10:15 del 16 marzo ’78, e poi dipanatasi per ben 37 anni! La deposizione alla Commissione Moro segna l’epilogo di una vicenda, iniziata alle 10:15 del 16 marzo ’78, e poi dipanatasi per ben 37 anni! Un arco temporale smisuratamente ampio, qualcosa che, prendendo in prestito la celebre definizione che del ‘900 ha dato il grande storico inglese Eric Hobsbawm, potremmo definire il “secolo breve” della testimonianza più lunga e controversa della storia giudiziaria italiana.
E l’epilogo non sembra essere particolarmente brillante per il suo protagonista.
Archivio – L’incredibile percorso di riscatto di un giovane fascista romano degli anni 50. Oltre ad essere un impressionante scandaglio antropologico del mondo dei «fasci», il volume è la testimonianza incredibile di un percorso di liberazione dal culto della sopraffazione, dai miti superomisti, razziali e nazionalisti verso un approdo libertario e marxista. L’esperienza umana, politica e culturale di Giulio Salierno ci insegna una verità poco di moda: quello che conta è il punto d’approdo, il percorso. Un tragitto laico privo di pietismo, di perdonismo, di pentitismo. Salierno supera il proprio passato attraverso l’esercizio della critica, una critica radicale. Strumento per nulla apprezzato oggi, anzi osteggiato, ritenuto pericolosamente sovversivo. E se dunque la domanda giusta non è «da dove vieni» ma «dove vai», è su quel dove vai che dobbiamo soffermarci, perché non tutte le direzioni si equivalgono
Quella di Giulio Salierno è una storia fuori margine, come d’altronde recita il titolo di uno dei suoi libri, Fuori margine. Testimonianze di ladri, prostitute, rapinatori, camorristi, uscito nel 1971. Giovane fascista, fanatico e violento, cresciuto nella sezione del Movimento sociale italiano di Colle oppio, la formazione politica che raccolse nel dopoguerra i nostalgici del regime mussoliniano, Salierno è un destinato: brillante (giovanissimo ha già incarichi di responsabilità), determinato, interpreta con un fervore febbrile l’antropologia del revanscismo fascista dopo la sconfitta del 1945. Gli stralci della intervista che qui pubblichiamo, apparsa sull’Europeo e ripresi dall’Unità nel 1973, anticipano di pochi anni i contenuti di uno dei suoi volumi più importanti, Autobiografia di un picchiatore fascista, apparso nel 1976 per Einaudi. Vera e propria etnografia della destra romana, tra sezioni missine che non consideravano conclusa la guerra persa nel 1945, palestre di boxe come l’«Indomita» e la «Bertola», campi paramilitari, traffici di armi e esplosivi, attentati, agguati squadristi contro le sezioni comuniste di Garbatella e Cinecittà, violenza sadica, connivenze con apparati dello Stato travasati nella Repubblica direttamente dal ventennio, incontri con Pino Rauti, Julius Evola e Giorgio Almirante, segretario del partito neofascista fino al 1987, salvato da un’amnistia per il suo coinvolgimento nella latitanza in Spagna di Carlo Cicuttini, responsabile insieme a Vincenzo Vinciguerra della strage di Peteano. E una ossessione: uccidere Walter Audisio, il comandante partigiano, divenuto nel frattempo parlamentare comunista, responsabile della esecuzione di Benito Mussolini e Claretta Petacci. Fargli «un buco nella testa – scrive Sergio Luzzato nella nuova edizione pubblicata da minimum fax nel 2008 – con un foro di ingresso in cui si potesse infilare il dito mignolo e un’altro d’uscita in cui si potesse ficcare il pugno», era una idea che corrispondeva esattamente alla mentalità del neofascismo giovanile della Roma dei primi anni 50. «I ragazzi come Salierno» – spiega ancora Luzzato – sapevano come fare: «bastava appostarsi fra la Nomentana e la Salaria, caricare il fucile automatico e sparare contro l’onorevole Audisio. Bastava vendicare il Duce». Oltre ad essere un impressionante scandaglio antropologico del mondo dei «fasci», il volume è la testimonianza incredibile di un percorso di liberazione dal culto della sopraffazione, dai miti superomisti, razziali e nazionalisti verso un approdo libertario e marxista. Coinvolto in un omicidio nel corso di una rapina finita male, nel 1953 Salierno deve fuggire assieme al suo complice dopo una lettera anonima fatta pervenire alla polizia da ambienti missini che volevano scaricarlo. Arrivato a Lione si arruola nella Legione straniera, ma una volta giunto in Algeria viene riconosciuto da un poliziotto italiano che era sulle sue tracce e arrestato. L’ingresso nel carcere di Sidi-Bel-Abbès, le condizioni bestiali di detenzione vissute in quel luogo, lo portano a conoscere la realtà dei prigionieri politici algerini che combattono per l’indipendenza tra sevizie e torture. Inizia qui il suo percorso di ripensamento. Solidarizza con i giovani militanti algerini e una volta estradato in Italia abiura il fascismo, scopre Gramsci e la letteratura marxista, studia sociologia tra mille difficoltà in un carcere che non riconosceva il diritto allo studio. E’ il primo detenuto del dopoguerra a laurearsi. Nel 1968 ottiene la grazia dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat per «motivi di studio». Collabora con Umberto Terracini e Franco Basaglia. Nel 1971 pubblica insieme ad Aldo Ricci, Il carcere in Italia, rimasto uno dei classici della saggistica sul tema. Gli istituti asilari (il carcere, i manicomi, gli ospedali, la scuola, la polizia e l’esercito), sono per Salierno uno specchio della società borghese. Alla domanda «Chi va in carcere e perché?», risponde che non a caso la condizione sociale, il grado di istruzione, la collocazione professionale, la provenienza geografica, la derivazione familiare, sono una sorta di condanna aprioristica e senza appello che la società «emette nei confronti delle classi subalterne, emarginandole nei ghetti della miseria e della degradazione culturale e morale ancor prima che negli istituti di pena». L’esperienza umana, politica e culturale di Giulio Salierno ci insegna una verità poco di moda: quello che conta è il punto d’approdo, il percorso. Un tragitto laico privo di pietismo, di perdonismo, di pentitismo. Salierno supera il proprio passato attraverso l’esercizio della critica, una critica radicale. Strumento per nulla apprezzato oggi, anzi osteggiato, ritenuto pericolosamente sovversivo. E se dunque la domanda giusta non è «da dove vieni» ma «dove vai», è su quel dove vai che dobbiamo soffermarci, perché non tutte le direzioni si equivalgono.
l’Unità, venerdì 1 giugno 1973 «Imparavamo ad usare le armi sotto la guida di uno o due istruttori missini»
«Ero pieno di armi. Oltre cinque pistole, un fucile, numerose bombe a mano, avevo un Thompson calibro 45 che sparava quaranta colpi. Me l’’aveva dato un altro attivista. Gia allora tutti gli attivisti missini avevano armi». Sono frasi di Giulio Salierno rilasciate in una lunga intervista al settimanale L’Europeo. Oggi simpatizzante di un gruppo della cosiddetta sinistra extraparlamentare, Salierno a sedici anni e mezzo era già vicesegretario giovanile del Msi. A diciassette segretario giovanile e delegato al congresso come dirigente della «Giovane Italia». A diciassette e mezzo era commissario politico per cinque sezioni. A diciotto (nel 1953), venne scelto per ammazzare il compagno Walter Audisio, il leggendario colonnello «Valerio». Una carriera fulminea, costruita giorno per giorno nelle sezioni del partito neofascista e sopratutto nei campi paramilitari già allora organizzati per sovvertire l’ordinamento democratico della Repubblica. Su questi campi paramilitari, sull’addestramento alla violenza, sulla tecnica della provocazione, Salierno racconta vicende e tecniche, illustra i metodi organizzativi neofascisti, più volte denunciati dalle forze politiche democratiche – dal nostro Partito innanzi tutto – e di cui ha avuto occasione di occuparsi anche la magistratura. E’, quella riportata dal settimanale, un’ennesima importante testimonianza resa da chi ha personalmente vissuto una simile esperienza. «Imparavamo ad usare le armi in campagna – dice l’intervistato –, soprattutto durante la stagione di caccia. Non costituiva un problema: bastava smontare il fucile o la mitragliatrice e uscire da Roma. Io l’ho fatto una enormità di volte, e nessuno mi ha mai arrestato. Una volta per Capodanno ho perfino sparato in città, col mitra. Nessuno mi ha detto nulla. Altri si addestravano nei campeggi organizzati dal partito. Non che i campeggi fossero veri campi di addestramento militare. intendiamoci. Dal momento che si trovavano sotto la giurisdizione del partito, l’uso delle armi v’era ufficialmente proibito. Però c’era sempre un istruttore o due che portavano un mitra o un fucile o un paio di rivoltelle e così, oltre allo spirito guerresco, nei capeggi si assorbiva l’abitudine a usare il mitra, il fucile, la rivoltella. Non ci vedevamo nulla di male. Perché avremmo dovuto vederci qualcosa di male? Se consideri la violenza come tecnica politica, come ideologia politica, addirittura come filosofia, sparare ha lo stesso valore che fare a pugni. Insomma una bomba non i più una bomba, un attentato non è più un attentato, una strage non e più una strage». Quando Salierno faceva queste cose, il Msi indossava il doppiopetto di Arturo Michelini. Almirante, il «massacratore di partigiani», era – all’interno del partito neofascista – «il teorico della linea dura». «E’ arduo dimostrare che una strage è stata voluta al vertice del Msi – dice ancora Salierno –. Magari è stata suggerita da un dirigente, si, ma prenderlo in castagna i quasi impossibile perché tra l’esecutore materiale e lui non c’è mai un filo diretto. Il filo è una catena dove ciascun anello e rappresentato da attivisti fidatissimi, cioè i duri, che costituiscono la struttura paramilitare all’interno del Msi. Non solo: l’attentato fascista dev’essere sempre fatto in modo da lasciare il dubbio che l’autore sia un rosso. Noi dicevamo addirittura che l’attentato perfetto è quello che si fa “teleguidando” il rosso: cioè inducendo il rosso a farlo lo per te. Per esempio attraverso un agente provocatore». Le cose dette con tanta chiarezza da Salierno sembrano storia di questi giorni. Ricordano Piazza Fontana, gli attentati ai treni operai, l’attentato al direttissimo Torino-Roma, le bombe di Piazza Tricolore che uccisero l’agente Marino, la strage davanti alla Questura di Milano. Episodi tragici della trama nera, sui quali sta indagando al magistratura, per i quali sono stati chiamati in causa dirigenti nazionali del Msi. Nella stessa Intervista, come abbiamo accennato all’inizio, Giulio Salierno rivela un altro episodio gravissimo, sul quale è bene che la magistratura faccia piena luce aprendo un’inchiesta. «Ad un certo punto – dice Salierno – fu deciso di giustiziare Walter Audisio». Del progetto si era già parlato nel 1948 e venne ripreso nel 1953 «in seguito ad una osservazione del generalissimo Franco». «Un gruppo di dirigenti del Msi – continua l’intervistato – s’era recato in Spagna ed era stato ricevuto da Franco. Nel corso del colloquio Franco aveva chiesto: “Com’e che i fascisti italiani non hanno ancora eliminato Walter Audisio. detto colonnello Valerlo?”». E più avanti: «Per arrivare a ciò ci voleva una cosa sola: un giustiziere pronto ad uscire dal partito qualche mese prima e poi disposto a rivelare il suo nome dicendosi fiero del gesto. Il giustiziere prescelto fui io. Uscii dal partito, dunque, e immediatamente dopo ebbe inizio lo studio dell’attentato». II compagno «Valerio» fu pedinato dagli attivisti del Msi e fu deciso che sarebbe stato ucciso davanti casa. «Un piano perfetto – dice Salierno –. Mi ci preparai con lo scrupolo di un vero killer ed in pochi mesi fui pronto». […]