Nel corso delle celebrazioni che si sono tenute per il cinquantesimo anniversario della strage in piazza della Loggia abbiamo assistito ad una reciproca assoluzione degli organi dello Stato. La presidente del consiglio Meloni a nome del governo, che non era presente, ha accuratamente evitato di ricordare e condannare la matrice neofascista della bomba esplosa durante il comizio del locale comitato antifascista, mentre il presidente della repubblica Mattarella ha scagionato lo Stato da ogni responsabilità, come ai tempi del regime democristiano di cui l’inquilino del Quirinale è degno erede
La strage di piazza della Loggia avvenuta a Brescia il 28 maggio 1974 durante un comizio del Comitato antifascista locale (8 morti e 102 feriti) si distinse immediatamente dagli episodi stragisti degli anni precedenti (piazza Fontana, Peteano, Gioia Tauro, Questura di Milano) perché l’obiettivo colpito rivelava fin da subito la matrice politica neofascista degli esecutori. Dopo un lungo e travagliato iter giudiziario la Cassazione ha confermato la condanna finale di due ordinovisti: Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, quest’ultimo confidente del Sid di Padova col nome in codice «Tritone». Sono tuttora in corso altri due procedimenti contro gli ordinovisti veronesi Marco Toffaloni, all’epoca minorenne e che avrebbe materialmente deposto l’ordigno, e Roberto Zorzi. Nel novembre del 1973 il movimento politico Ordine nuovo era stato sciolto dal ministro dell’Interno Taviani sulla base della condanna emessa dal tribunale di Roma per ricostituzione del disciolto Partito nazionale fascista. A causa di questo fatto, nel luglio del 1976 Pierluigi Concutelli, capo militare della struttura clandestina di Ordine nuovo, uccise a Roma Vittorio Occorsio, il pubblico ministero che aveva sostenuto l’accusa contro i dirigenti del gruppo neofascista. L’attentato di Brescia come quello successivo sul treno Italicus, nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 all’interno del tunnel Valdisambro (18 morti e 48 feriti), rivendicato da «Ordine nero» in un volantino che parlava di vendetta per la morte di Giancarlo Esposti, un fascista sanbabilino ucciso dai carabinieri sugli altipiani reatini il 30 maggio precedente, erano una chiara rappresaglia contro la messa al bando di Ordine nuovo. Creato nei primi mesi del 1974, Ordine nero aveva raccolto transfughi del disciolto Ordine nuovo, di Avanguardia nazionale e del Fronte nazionale rivoluzionario, struttura prevalentemente toscana. Fu protagonista dell’ultima stagione stragista caratterizzata da un’aperta dichiarazione di guerra contro lo Stato accusato di tradimento verso una esperienza politica, eversiva e golpista, che gli apparati avevano lungamente sostenuto, foraggiato, ispirato e manipolato. Strategia che si distingueva dai precedenti episodi che miravano ad attribuire alla sinistra la paternità degli eccidi con l’obiettivo di scatenare una risposta autoritaria dello Stato.
Le bombe del 1974 , la vendetta di Ordine Nero contro chi li aveva utilizzati e illusi con la strategia della tensione Lungi dall’essere una ulteriore puntata della strategia della tensione questi due sanguinosi attentati, parte di una campagna più ampia avviata nel gennaio del 1974 a Silvi Marina, vicino a Pescara, dove una bomba fallì nel colpire l’ennesimo treno, appaiono piuttosto il segno sanguinoso della sua fine, la conseguenza dell’abbandono precipitoso e rovinoso da parte degli apparati statali che l’avevano utilizzata. Il 9 febbraio un altro ordigno venne ritrovato inesploso su un treno merci diretto da Taranto a Siracusa. A marzo un’esplosione fece saltare una rotaia nei pressi di Vaiano, vicino Prato, dove avrebbe dovuto passare il treno Palatino. La strage mancata fu rivendicata con un volantino di Ordine Nero ritrovato a Lucca. Ad aprile fu colpita la casa del popolo di Moiano, in provincia di Perugia. Nel complesso furono fatti esplodere tra Milano, la Toscana e Savona, oltre una decina di ordigni, culminati nell’attentato compiuto sulla linea ferroviaria di Terontola, il 6 gennaio 1975, a cui segui lo smantellamento del Fronte nazionale rivoluzionario di cui facevano parte Luciano Franci, Mario Tuti, Marco Affatigato, Andrea Brogi e Augusto Cauchi. Gruppo che ebbe contatti anche con Licio Gelli, al quale secondo testimonianze di alcuni pentiti, Cauchi aveva chiesto un finanziamento per la sua attività politica.
La magistratura indaga sui progetti di golpe Tra il 1973 e il 1974 vengono a galla, grazie a diverse inchieste condotte dalla magistratura, una serie di progetti di golpe di segno politico diverso anche se tutti caratterizzati dalla tentativo di scongiurare il «pericolo comunista». Dall’indagine sulla «Rosa dei venti», portata avanti dal giudice istruttore Tamburino, e da cui emergeva traccia della presenza di strutture «parallele» interne agli apparati statali coinvolte nelle attività golpiste e stragiste. Testimone centrale nella ricostruzione di questa rete, siapur tra contraddizioni e reticenze, sarà il generale dell’esercito Amos Spiazzi. In anni più recenti la ricerca storica ha focalizzato meglio quanto avvenuto: accanto alla struttura Nato europea Stay behind, che in Italia aveva preso il nome di Gladio, apparato di difesa «non ortodosso» gerarchicamente dipendente dai comandi Nato, approntato per fare fronte ad una eventuale invasione militare delle truppe de patto di Varsavia e composto essenzialmente da membri della ex brigata Osoppo, partigiani bianchi antifascisti e anticomunisti, di cui si scoprì l’esistenza nella estate del 1990, dopo la vicenda del «piano Solo» venne messa in piedi una seconda struttura che dipendeva gerarchicamente dal ministero della Difesa. Si trattava dei Nuclei per la difesa dello Stato, apparato misto composto da membri selezionati degli uffici informativi dell’esercito, dei Servizi, dei carabinieri e di civili di dichiarata fede neofascista. Tra i membri di questa struttura disciolta nel 1973 vi erano molti ordinovisti. Un’altra inchiesta riguarda il Movimento armato rivoluzionario di Carlo Fumagalli e Gaetano Orlando. Fumagalli era un ex partigiano bianco legato ai Servizi inglesi. Ferocemente anticomunista organizzò una struttura clandestina armata con un forte insediamento in Valtellina, dove realizzò una serie di attentati dinamitardi contro tralicci dell’altra tensione che alimentavano le città e le industrie del Nord Italia. L’intenzione era quella di fronteggiare una eventuale offensiva di piazza o una vittoria elettorale dei comunisti. Nonostante il suo iniziale posizionamento antifascista, Fumagalli non disdegnò l’alleanza con i gruppi ordinovisti in vista di un colpo di stato. L’esperienza più interessante appare tuttavia quella che venne definita il «golpe bianco», portato avanti da Edgardo Sogno, un altro ex partigiano della brigata Franchi, badogliana, liberale e anticomunista. Sogno aveva progettato in pieno agosto 1974 un «golpe liberale», un colpo di mano istituzionale di stampo presidenzialista, sul modello gollista della quinta repubblica francese che forte dell’appoggio dei vertici militari e istituzionali avrebbe dovuto sciogliere il parlamento, liberarsi del ventre molle democristiano ritenuto corrotto e irriformabile, creare un sindacato unico, internare le opposizioni di sinistra e di estrema destra, abolire l’immunità parlamentare e istituire un Tribunale speciale.
Anniversari – A 54 anni di distanza, la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 è ormai un episodio dimenticato nella memoria pubblica. Al suo posto i solenni rituali commemorativi che cadenzano il cerimoniale istituzionale hanno edificato una nuova topolatria che celebra il 9 maggio 1978 per rappresentare il sacrificio versato ai valori legittimi. Quel momento drammatico che ha segnato il destino di una generazione indicando quale fosse il livello di violenza che gli apparati statali erano disposti a mettere in campo pur di impedire ogni cambiamento nel Paese è stato derubricato nella gerarchia degli eventi. Non è un caso se l’iniziale paradigma antifascista che ispirava il progetto costituzionale sia stato soppiantato da un nuovo mito fondativo: il paradigma antiterrorista che ostracizza gli anni 70, il decennio della sovversione sociale
Paolo Persichetti Antifanzine Dicembre 2023
Se nell’estate del 1964 l’obiettivo del cosiddetto «piano Solo», la minaccia golpista ispirata dall’allora presidente della Repubblica Antonio Segni, era quello di esercitare una fortissima pressione sulle forze politiche che stavano dando vita ai governi del primo centro-sinistra, la stagione stragista iniziata cinque anni più tardi prenderà di mira direttamente la rivolta degli studenti del 1968 e le mobilitazioni operaie dell’«autunno caldo».
Le minacce di svolta autoritaria
Si tratta di una prima sostanziale differenza che separa la stagione del secondo dopoguerra, in particolare quella che prende avvio negli anni 60 caratterizzata da una lenta ma progressiva avanzata elettorale delle sinistre, il rafforzamento della opposizione parlamentare sostenitrice della necessità di profonde riforme di struttura, dall’apparizione sul finire del decennio e nei primi anni del successivo di un fortissimo ciclo di lotte sociali da cui scaturisce un nuovo spazio politico anticapitalista e rivoluzionario. Ad essere prese di mira sono queste nuove forme radicali di autonomia sindacale e politica, di autorganizzazione nei posti di lavoro (gruppi di studio operai-tecnici-studenti, comitati unitari di base, assemblee autonome) cresciute attorno alle vertenze per il rinnovo dei contratti, che si aprono nel maggio 1969, per saldarsi con l’attivismo degli studenti politicizzati davanti ai cancelli delle fabbriche dando vita all’«autunno caldo». Un enorme sommovimento di gruppi sociali, di giovani sradicati dalle loro terre d’origine influenzato da una rinnovata cultura politica marxista, dalla stagione delle lotte anticoloniali e dalla controcultura proveniente dagli Stati Uniti.
Il «piano Solo»
Nella prima metà degli anni 60 era bastato agitare la presenza di «piani di contingenza» nei quali si prospettavano misure d’eccezione per la tutela dell’ordine pubblico, come il «piano Solo» appunto, della cui realizzazione era stato incarircato il capo di Stato maggiore dell’esercito, generale dei carabinieri De Lorenzo, e nei quali si prevedeva l’internamento di «enucleandi», ovvero esponenti politici, parlamentari e sindacali della sinistra, il controllo dei punti nevralgici e di comando del Paese attraverso le brigate meccanizzate dei carabinieri che nella estate del 1964, tra la festa del 2 giugno e quella del 150esimo anniversario dell’Arma di metà giugno, erano confluite in massa nella Capitale insieme a reparti speciali e tecnici della comunicazione, per piegare il Partito socialista – dopo le dimissioni del primo governo Moro – e spingerlo durante le trattative per il nuovo esecutivo a un accordo al ribasso con la Democrazia cristiana rinunciando a riforme di struttura più importanti e incisive.
La stagione delle bombe
Nel 1969 a farsi sentire non saranno più le minacce di golpe, l’«intentona», come venne definita nella pubblicistica per distinguerla dal «pronunciamento» o da un «golpe» vero e proprio, o il «tintinnar di sciabole», secondo l’espressione utilizzata dal socialista Pietro Nenni, ma le bombe fatte esplodere con una strategia iniziale ben precisa: quella della false flag, ovvero con l’obiettivo di attribuirne la paternità ai gruppi della estrema sinistra secondo un copione consolidato che trae origine da alcuni principi militari codificati nei manuali della «guerra rivoluzionaria», la controguerriglia o guerra non ortodossa, oggi si direbbe «ibrida». Teorizzata nei manuali di alcuni ufficiali francesi che l’avevano sperimentata in Indocina, per poi impiegarla nella guerra d’Algeria ed esportarla nei regimi dittatoriali sudamericani, questa nuova dottrina, diffusa negli ambienti della destra europea da Yves Guérin-Serac, capitano dell’arme française in Indocina e in Algeria, militante dell’Oas, l’Organizzazione armata segreta che si oppose all’indipendenza algerina e dichiarò guerra a De Gaulle, fu discussa nel maggio del 1965 in un convegno sulla guerra rivoluzionaria promosso dall’Istituto Alberto Pollio, emanazione dell’ufficio Relazioni economiche industriali del Sifar, che si tenne a Roma all’hotel Parco dei Principi, radunando il gotha del neofascismo italiano ed esponenti dei Servizi poi coinvolti nella stagione delle bombe e delle stragi. I gruppi neofascisti, infiltrati, manipolati o conniventi con strutture importanti degli apparati dello Stato e delle sedi Nato presenti in Nord Italia (il Comando delle forze terrestri alleate del sud Europa, Ftase, di Verona), deponevano bombe sul territorio nazionale (solo nel 1969 la cellula padovana di Ordine nuovo ne piazzò una ventina, tra esplose e inesplose) mentre polizia e carabinieri indirizzavano immediatamente le indagini verso i gruppi anarchici o le formazioni della nuova sinistra extraparlamentare. E’ una lista lunghissima che inizia molto probabilmente con le due bombe inesplose trovate davanti alla Rinascente di Milano nell’agosto e poi nel dicembre del 1968 per proseguire il 25 aprile con l’esplosione davanti alla fiera campionaria e alla stazione centrale di due ordigni a bassa intensità, «bombe carta» destinate a fare danni e suscitare terrore senza uccidere. Le prime indagini per mano della commissario Luigi Calabresi imboccarono subito la pista anarchica. Tra l’8 e il 9 agosto esploderanno altri 8 congegni esplosivi molto simili sui treni delle vacanze presso le stazioni di Chiari, Grisignano, Caserta, Aviano, Pescara, Pescina, Mira e ancora Milano stazione centrale e Venezia santa Lucia, altre due restarono inesplose, con un bilancio finale di 10 feriti. Bombe inesplose per problemi tecnici vennero ritrovate il 21 maggio e il 19 agosto davanti la Corte di cassazione e la procura generale della repubblica di Roma, il 24 luglio all’interno del tribunale di Milano e il 28 ottobre davanti alcuni edifici giudiziari di Torino. La scia proseguirà fino alla tragico pomeriggio del 12 dicembre dove nel giro di 53 minuti esploderanno tre bombe a Roma: la prima in una sede della banca nazionale del lavoro, la seconda a piazza Venezia e la terza all’Altare della patria, senza fare morti. Una bomba inesplosa venne trovata in piazza della Scala a Milano mentre un altro ordigno, stavolta molto potente, confezionato per uccidere, esplose all’interno della banca nazionale dell’agricoltura, in piazza Fontana, causando 17 morti e 88 feriti.
12 dicembre 1969, la strage dimenticata
Sul piano giudiziario e storico è ormai accertato che dietro quegli ordigni c’era la cellula padovana di Ordine nuovo che faceva capo a Franco Freda e Giovanni Ventura. Una struttura infiltrata dal Sid, sigla dei Servizi segreti dell’epoca. La loro responsabilità giudiziaria nella strage più cruenta, quella di piazza Fontana è stata fissata in modo definitivo soltanto nel 2005, in una sentenza di Cassazione dopo una lunga serie di pronunciamenti contraddittori e all’esito di nuove indagini e acquisizioni documentali e testimoniali. Ma nel 2005 Ventura era morto e Freda, protetto dal ne bis in idem poiché assolto in via definitiva in precedenza, non si è visto comminare alcuna sanzione penale. Per la lunga scia di attentati invece i due furono condannati fin dal primo grado a 15 anni di reclusione. Giudici e storici non hanno ancora trovato una risposta soddisfacente sulle ragioni che portarono i due nazifascisti a decidere la strage interrompendo la lunga serie di attentati più o meno dimostrativi realizzati prima del 12 dicembre. Intelligence e servizi di polizia erano al corrente dei progetti e delle azioni dinamitarde realizzate della cellule ordinoviste. La lunga serie di attentati con bombe a basso potenziale era funzionale alla creazione di un clima di tensione e paura nel Paese che, secondo i suoi ideatori e ispiratori, avrebbe dovuto suscitare una domanda d’ordine, l’introduzione da parte del governo di misure d’eccezione, una svolta autoritaria che avrebbe allineato l’Italia alle dittature portoghese e spagnola e al golpe dei colonnelli greci del 1967, oltre a consentire la repressione delle forze della sinistra estrema su cui veniva fatta ricadere la responsabilità concreta e morale delle bombe e la messa in mora delle organizzazioni ufficiali del movimento operaio. Si è ipotizzato che l’insofferenza e la frustrazione verso l’indecisione delle autorità di governo democristiane nel varare un giro di vite autoritario avrebbe spinto la cellula ordinovista a inalzare autonomamente il livello di violenza passando alla strage. In ogni caso gli apparati statali erano talmente compromessi che dovettero correre ai ripari: l’intera struttura dell’Ufficio affari riservati, l’intelligence della polizia, si precipitò nella questura di Milano per depistare fin da subito le indagini indirizzando l’inchiesta verso gli ambienti anarchici. Una forzatura violenta della verità che costò la vita a Giuseppe Pinelli, il ferroviere anarchico fermato dal commissario Calabresi, trattenuto e interrogato illegalmente in questura per giorni e fatto precipitare dalla finestra degli uffici della polizia politica
Dall’antifascismo all’antiterrorismo
A distanza di 45 anni, quella che viene ritenuta la madre di tutte le stragi, un momento drammatico di svolta che ha segnato il destino di una generazione di giovani militanti e che indicava chiaramente quale fosse il livello di violenza che gli apparati statali erano disposti a mettere in campo pur di impedire ogni cambiamento nel Paese, è ormai un episodio dimenticato nella memoria pubblica. Al suo posto i solenni rituali commemorativi che cadenzano il cerimoniale istituzionale hanno edificato una nuova topolatria che celebra il 9 maggio 1978 per rappresentare il sacrificio versato ai valori legittimi. Non è un caso se l’iniziale paradigma antifascista che ispirava il progetto costituzionale sia stato soppiantato da un nuovo mito fondativo: il paradigma antiterrorista che ostracizza gli anni 70, il decennio della sovversione sociale e delle lotta armata di sinistra.
1970, il golpe rientrato
Il cosiddetto «golpe Borghese», ideato da Junior Valerio Borghese, già capo della decima Mas di stanza a La Spezia durante la Repubblica sociale mussoliniana e fondatore nel dopoguerra del Fronte Nazionale, venne avviato nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 (ingresso nell’armeria del ministero dell’Interno) ma poi fermato dallo stesso perché – si ipotizza – fossero venuti meno gli appoggi promessi. Questo golpe mancato appare direttamente connesso con la stagione delle bombe del 1969 di cui probabilmente voleva essere il corollario. E’ bene sottolineare che all’inizio del decennio Settanta ai settori industriali più avanzati, come la Fiat e Pirelli, non giovava affatto una svolta politica autoritaria ma piuttosto una situazione di crescita keynesiana con politiche economiche concertate con l’opposizione politica. Insomma i progetti golpisti non erano graditi, molto più interessante per gli interessi industriali apparirà il progetto di «compromesso storico» avanzato dal segretario del Pci, Enrico Berlinguer, tre anni dopo.
Strategie della tensione e rappresaglie fasciste senza una regia unica
La lunga stagione delle bombe, delle stragi, dei tentati golpe e degli organismi paralleli è passata alla storia sotto il nome di «strategia della tensione». Definizione che alcuni studiosi riconducono a un articolo apparso subito dopo la strage di piazza Fontana sull’Observer. Secondo altri, in realtà, prendeva origine da una frase di Aldo Moro sulla «strategia dell’attenzione», rivolta all’opposizione e pronunciata durante il congresso della Democrazia cristiana il 29 giugno del 1969, rivisitata durante i comizi dell’estrema sinistra dopo la strage. Nonostante l’indubbio successo e l’efficacia della definizione che ha ispirato una intensa pubblicistica e una convinzione ideologica ampiamente diffusa, la nozione ha sempre presentato numerose criticità accentuate con l’approfondimento delle conoscenze storiche. Oltretutto, col passar dei decenni, si è rafforzata l’interpretazione dietrologica del concetto fino ad estremizzarne la periodizzazione cronologica: estesa agli albori della Repubblica, con la strage di Portella delle ginestre avvenuta nel 1947 in Sicilia per mano degli uomini di Salvatore Giuliano, fino alle bombe mafiose del 1992-93 passando per la strage alla stazione di Bologna dell’agosto 1980. Una narrazione «consolatoria» che riscrive il primo cinquantennio repubblicano sotto il segno di un unico disegno criminale dominato da forze occulte, poteri invisibili, complotti, minacce e crimini eversivi che avrebbero ostacolato la compiuta maturazione democratica del Paese. Lettura destinata a giustificare, in particolare, l’insuccesso della strategia politica attuata dal Pci nel corso degli anni 70 e successivamente l’avvento della stagione commerciale e politica berlusconiana. Una lettura storicamente infondata poiché gli eventi citati non hanno le stesse caratteristiche, non rispondono a una medesima strategia, non sono coordinati tra loro, hanno attori diversi e si svolgono in fasi storiche e politiche molto differenti. Se la strage di piazza Fontana e le bombe del 1969 hanno molti elementi in comune con la strage di Peteano del maggio 1972 (autobomba che provocò la morte di tre carabinieri attirati in una trappola), i successivi eventi stragisti presentano aspetti diversi. Per Piazza Fontana e Peteano, realizzate entrambe da cellule odinoviste, le indagini si indirizzarono subito contro anarchici e Lotta continua coprendo i veri autori degli attentati, le cui attività erano ben note ai Servizi e alla forze di polizia.
La strage di Gioia Tauro del luglio 1970 appare invece un episodio legato al contesto della rivolta di Reggio Calabria, egemonizzata dall’estrema destra. L’attentato che danneggiò la linea ferroviaria dove sfrecciava la Freccia del sud, provocando 6 morti e 77 feriti, e che vide il coinvolgimento di tre esponenti di Avanguardia nazionale, fu seguito da una intensa campagna di attentati dinamitardi. Ben 44, avvenuti tra il luglio 1970 e il l’ottobre 1972, contro le infrastrutture della rete ferroviaria.
La bomba alla questura e l’enigma Bertoli
Nel maggio del 1973 Gianfranco Bertoli, un personaggio dalla storia indecifrabile e dalla personalità borderline, lanciò una bomba a mano all’interno della questura di Milano durante la cerimonia di commemorazione del commissario Calabresi, ucciso l’anno precedente in un agguato mai rivendicato ma dalla magistratura attributo a distanza di decenni a una struttura coperta di Lotta continua. L’attentato mirava alla vita del ministro dell’Interno Mariano Rumor, che era sul posto per scoprire un busto dedicato alla memoria del funzionario di polizia, solo che alcune defaillances personali di Bertoli gli impedirono di centrare per tempo il bersaglio. L’ordigno, una bomba ananas a frammentazione, fece comunque 4 morti e 52 feriti. Bertoli ha sempre rivendicato la sua militanza anarchica, identità che mantenne coerentemente nei lunghi decenni di carcere collaborando persino con alcune riviste libertarie e intrattenendo una lunga corrispondenza con il teorico dell’anarcoinsurrezionalismo Alfredo Maria Bonanno. Prima di lanciare la bomba, l’anarchico o presunto tale aveva soggiornato in un kibbutz israeliano anche se il collaboratore di giustizia Carlo Digilio, ordinovista componente della rete veneta di informatori dei servizi segreti americani (nome in codice «Erodoto»), riferì in una fase successiva che a ospitarlo e armarlo erano stati alcuni membri di Ordine nuovo che lo avevano utilizzato per vendicarsi di Rumor, a cui rimproveravano di non aveva dichiarato lo stato di emergenza quando era presidente del consiglio. Una versione che tuttavia non resse alle verifiche giudiziarie. Negli anni cinquanta Bertoli era stato anche un confidente del Sifar all’interno del Pci (nome in codice «Negro»). Attività che non durò molto a causa della bassa qualità delle informazioni da lui fornite. Ancora oggi non è chiaro chi sia stato veramente Bertoli: un anarchico scapestrato che voleva vendicare la morte di Pinelli o un borderline manipolato dagli ordinovisti? Poco precedente a quello di Bertoli è il tentativo di attentato sulla linea ferroviaria Genova-Roma, realizzato il 7 aprile del 1973 dal neofascista Nico Azzi che rimase ferito mentre preparava un ordigno esplosivo nel gabinetto del treno dopo essersi fatto notare dai passeggeri con una copia di Lotta continua in mano. Azzi era un militante della Fenice, un circolo milanese di orientamento ordinovista che faceva capo a Giancarlo Rognoni
Le stragi del 1974, una vendetta per lo scioglimento di Ordine nuovo
La strage di piazza della Loggia avvenuta a Brescia il 28 maggio 1974 durante un comizio del Comitato antifascista locale (8 morti e 102 feriti) si distinse immediatamente dai precedenti episodi perché l’obiettivo colpito rivelava fin da subito la matrice politica neofascista degli esecutori. Dopo un lungo e travagliato iter giudiziario la Cassazione ha confermato la condanna finale di due ordinovisti: Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, quest’ultimo confidente del Sid di Padova col nome in codice «Tritone». Sono tuttora in corso altri due procedimenti contro gli ordinovisti veronesi Marco Toffaloni, all’epoca minorenne e che avrebbe materialmente deposto l’ordigno, e Roberto Zorzi. Nel novembre del 1973 il movimento politico Ordine nuovo era stato sciolto dal ministro dell’Interno Taviani sulla base della condanna emessa dal tribunale di Roma per ricostituzione del disciolto Partito nazionale fascista. A causa di questo fatto, nel luglio del 1976 Pierluigi Concutelli, capo militare della struttura clandestina di Ordine nuovo, uccise a Roma Vittorio Occorsio, il pubblico ministero che aveva sostenuto l’accusa contro i dirigenti del gruppo neofascista. L’attentato di Brescia come quello successivo sul treno Italicus, nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 all’interno del tunnel Valdisambro (18 morti e 48 feriti), rivendicato da «Ordine nero» in un volantino che parlava di vendetta per la morte di Giancarlo Esposti, un fascista sanbabilino ucciso dai carabinieri sugli altipiani reatini il 30 maggio precedente, erano una chiara rappresaglia contro la messa al bando di Ordine nuovo.
Creato nei primi mesi del 1974, Ordine nero raccoglieva transfughi del disciolto Ordine nuovo, di Avanguardia nazionale e del Fronte nazionale rivoluzionario, struttura prevalentemente toscana. Fu protagonista dell’ultima stagione stragista caratterizzata da un’aperta dichiarazione di guerra contro lo Stato accusato di tradimento verso una esperienza politica, eversiva e golpista, che gli apparati avevano lungamente sostenuto, foraggiato, ispirato e manipolato. Nulla a che vedere dunque con i precedenti episodi che miravano ad attribuire alla sinistra la paternità degli eccidi con l’obiettivo di scatenare una risposta autoritaria dello Stato.
Ordine Nero e le bombe del 1974 Lungi dall’essere una ulteriore puntata della strategia della tensione questi due sanguinosi attentati, parte di una campagna più ampia avviata nel gennaio del 1974 a Silvi Marina, vicino a Pescara, dove una bomba fallì nel colpire l’ennesimo treno, appaiono piuttosto il segno sanguinoso della sua fine, la conseguenza dell’abbandono precipitoso e rovinoso da parte degli apparati statali che l’avevano utilizzata. Il 9 febbraio un altro ordigno venne ritrovato inesploso su un treno merci diretto da Taranto a Siracusa. A marzo un’esplosione fece saltare una rotaia nei pressi di Vaiano, vicino Prato, dove avrebbe dovuto passare il treno Palatino. La strage mancata fu rivendicata con un volantino di Ordine Nero ritrovato a Lucca. Ad aprile fu colpita la casa del popolo di Moiano, in provincia di Perugia. Nel complesso furono fatti esplodere tra Milano, la Toscana e Savona, oltre una decina di ordigni, culminati nell’attentato compiuto sulla linea ferroviaria di Terontola, il 6 gennaio 1975, a cui segui lo smantellamento del Fronte nazionale rivoluzionario di cui facevano parte Luciano Franci, Mario Tuti, Marco Affatigato, Andrea Brogi e Augusto Cauchi. Gruppo che ebbe contatti anche con Licio Gelli, al quale, secondo testimonianze di alcuni pentiti, Cauchi aveva chiesto un finanziamento per la sua attività politica. La magistratura indaga sui progetti di golpe
Tra il 1973 e il 1974 vengono a galla, grazie a diverse inchieste condotte dalla magistratura, una serie di progetti di golpe di segno politico diverso anche se tutti caratterizzati dalla tentativo di scongiurare il «pericolo comunista». Non è possibile approfondire in questa sede una questa materia dagli intrecci estremamente complessi, ci limitiamo ad accennare brevemente alla indagine sulla «Rosa dei venti», portata avanti dal giudice istruttore Tamburino, e da cui emergeva traccia della presenza di strutture «parallele» interne agli apparati statali coinvolte nelle attività golpiste e stragiste. Testimone centrale nella ricostruzione di questa rete, siapur tra contraddizioni e reticenze, sarà il generale dell’esercito Amos Spiazzi. In anni più recenti la ricerca storica ha focalizzato meglio quanto avvenuto: accanto alla struttura Nato europea Stay behind, che in Italia aveva preso il nome di Gladio, apparato di difesa «non ortodosso» gerarchicamente dipendente dai comandi Nato, approntato per fare fronte ad una eventuale invasione militare delle truppe de patto di Varsavia e composto essenzialmente da membri della ex brigata Osoppo, partigiani bianchi antifascisti e anticomunisti, di cui si scoprì l’esistenza nella estate del 1990, dopo la vicenda del «piano Solo» venne messa in piedi una seconda struttura che dipendeva gerarchicamente dal ministero della Difesa. Si trattava dei Nuclei per la difesa dello Stato, apparato misto composto da membri selezionati degli uffici informativi dell’esercito, dei Servizi, dei carabinieri e di civili di dichiarata fede neofascista. Tra i membri di questa struttura disciolta nel 1973 vi erano molti ordinovisti. Un’altra inchiesta riguarda il Movimento armato rivoluzionario di Carlo Fumagalli e Gaetano Orlando. Fumagalli era un ex partigiano bianco legato ai Servizi inglesi. Ferocemente anticomunista organizzò una struttura clandestina armata con un forte insediamento in Valtellina, dove realizzò una serie di attentati dinamitardi contro tralicci dell’alta tensione che alimentavano le città e le industrie del Nord Italia. L’intenzione era quella di fronteggiare una eventuale offensiva di piazza o una vittoria elettorale dei comunisti. Nonostante il suo iniziale posizionamento antifascista, Fumagalli non disdegnò l’alleanza con i gruppi ordinovisti in vista di un colpo di stato. L’esperienza più interessante appare tuttavia quella che venne definita il «golpe bianco», portato avanti da Edgardo Sogno, un altro ex partigiano della brigata Franchi, badogliana, liberale e anticomunista. Sogno aveva progettato in pieno agosto 1974 un «golpe liberale», un colpo di mano istituzionale di stampo presidenzialista, sul modello gollista della quinta repubblica francese che forte dell’appoggio dei vertici militari e istituzionali avrebbe dovuto sciogliere il parlamento, liberarsi del ventre molle democristiano ritenuto corrotto e irriformabile, creare un sindacato unico, internare le opposizioni di sinistra e di estrema destra, abolire l’immunità parlamentare e istituire un Tribunale speciale.
Agosto 1980, stazione di Bologna, una strage in cerca di movente
Sentenze e pubblicistica iscrivono la strage alla stazione centrale di Bologna del 2 agosto 1980, che fece 85 (forse 86) morti, e 200 feriti, come l’ultimo episodio della strategia della tensione anche se nell’ultima sentenza, quella di primo grado contro l’ex avanguardista Paolo Bellini, ritenuto insieme a Fioravanti, Mambro e Cavallini, appartenuti ai Nar, uno dei responsabili della strage, sulla scorta di un’ampia pubblicistica complottista si sostiene che la strategia della tensione sia proseguita fino alla stragi di mafia del 1992-93. In realtà nessuna delle tante sentenze è mai riuscita a indicare chiaramente un movente certo e convincente, tanto che solo nelle ultime motivazioni dei verdetti pronunciati contro Cavallini e Bellini ci si addentra sull’argomento, identificando come mandante la P2 di Licio Gelli, nel frattempo defunto, che avrebbe agito per rafforzare la propria capacità ricattatoria all’interno di equilibri occulti di potere. Una ipotesi tra le tante, per altro completamente sganciata dalle logiche della strategia della tensione enunciate in passato. Nel 1980 la situazione internazionale stava rapidamente mutando: nel maggio dell’anno prima in Inghilterra era salita al governo la tory Margaret Teatcher, un anticipo della cosiddetta controrivoluzione neoliberale che si imporrà definitivamente con l’insediamento alla Casa Bianca del conservatore repubblicano Ronald Reagan. In Italia il clima politico e sociale era profondamente mutato rispetto ai primi anni 70. Si era avviata la stagione del riflusso, il compromesso storico era stato sconfitto, il Pci aveva avviato il suo declino elettorale, il movimento operaio e gli altri movimenti sociali erano sulla difensiva, in forte difficoltà sotto i colpi delle profonde ristrutturazioni del sistema produttivo. L’estrema sinistra in crisi. Non esisteva più il «pericolo comunista» che aveva ispirato la stagione stragista dei primi anni 70. Nella seconda metà del decennio il Pci aveva dato ampia prova di moderatismo, aveva sorretto le istituzioni di fronte all’offensiva della sinistra armata con molto più impegno di altre forze politiche. Non vi erano più ragioni per ricorrere ad una strage di tale portata, la più grande in Europa prima di quella di Madrid del 2004, provocata da Al Quaeda. Anche se sappiamo che gli attentatori non avevano previsto conseguenze così catastrofiche dovute alla presenza di un treno sul primo binario che respinse l’onda d’urto facendo crollare l’edificio dove era situata la sala d’attesa di seconda classe. Per questo motivo si è anche guardato a eventuali ragioni internazionali, come la vicenda di Ustica o il posizionamento dell’Italia nel Mediterraneo. L’aporia giudiziaria rappresentata dall’assenza di un movente valido ha facilitato l’offensiva giornalistica della destra che ha tirato in ballo la cosiddetta «pista palestinese». Ipotesi di comodo, smentita dalla recente desecretazione del carteggio Sismi-Olp, agitata dalla destra con l’intento di riscrivere il paradigma delle stragi e liberare i fascisti e i loro eredi politici dalle responsabilità avute nella precedente stagione delle bombe e dei massacri. Questo tentativo di strumentalizzazione tuttavia non esime dal porsi le giuste domande sul reale movente di quel massacro.
L’intervista – Giovanni De Luna, Storico, autore di La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli
«Lo spazio pubblico – spiega Giovanni De Luna – è colonizzato dal lutto e dal dolore. La centralità delle vittime alimenta una fortissima carica rivendicativa, un’inesausta richiesta di risarcimento e di riparazione. E poi ancora la soffocante presenza delle emozioni: odio, vendetta, perdono, pietà, compassione». Dopo l’analisi proposta alcuni anni fa da Enzo Traverso in Passato, modi d’impiego, sul peso che la nuova centralità vittimaria ha assunto nel discorso storiografico, Giovanni De Luna approfondisce lo sguardo critico sul fenomeno adeguandolo al contesto italiano.
Per una genealogia italiana del paradigma vittimario
Il paradigma vittimario tracima ampiamente la questione storiografica, la sua diromppenza ha stravolto l’intero modo di funzionamento dell’impianto giudiziario ed è divenuta centrale anche nei nuovi modelli di affermazione politica come il populismo penale. Per restare, però, ad una genealogia italiana della “centralità delle vittime” nel discorso pubblico, a nostro avviso occorre fare un passo indietro. Prima che si affermasse oltre Oceano come aspetto decisivo del populismo penale, e che arrivasse in Europa sull’onda del neoliberismo, della destrutturazione dello Stato Keynesiano, della privatizzazione sempre più estesa dello spazio sociale, in Italia era stato il partito comunista a salire sul cavallo di battaglia del vittimismo in funzione “antiterrorista”. Il patrocinio legale offerto dai legali ufficiali del pci alle parti civili nei maxi-processi contro la lotta armata, la retorica costruita sulla stampa e gli organi di comunicazione influenzati dal partito di Berlinguer, hanno gettato le prime basi ideologiche del discorso vittimario.
Il secondo passaggio, tra la fine degli anni 80 e buona parte dei 90, fu gestito invece dal partito editorial-finanziario di Repubblica. Fu Eugenio Scalfari a promuovere le “vittime del terrorismo” a nuovi arbitri della politica in funzione antiamnistia. Vennero gettate allora le basi del successivo processo di “privatizzazione della giustizia”, negli ultimi tempi rifiutato nettamente da una minoranza di familiari delle vittime (vedi la battaglia condotta da Sabina Rossa). Un processo che condusse la magistratura, dopo la funzione di supplenza antiterrorista svolta per conto del sistema politico, ad adossare ai familiari l’ultima supplenza, questa svolta in materia di conclusione dell’esecuzione penale con l’introduzione del rito della richiesta di perdono come requisito necessario alla concessione delle liberazioni condizionali per i prigionieri politici.
Paolo Persichetti Liberazione 8 maggio 2011
Un profluvio di leggi memoriali ha accompagnato l’avvio del nuovo secolo. Ne parliamo con Giovanni De Luna, autore di un volume fresco di stampa,La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, Feltrinelli. Dal luglio 2000 al novembre 2009 il parlamento italiano ha istituito tra i nuovi riti pubblici della nazione un gran numero di “giornate della memoria”. Si è partiti nel 2000 con la giornata dedicata al ricordo dei deportati nei campi di concentramento e di sterminio nazisti. La data prescelta è caduta sul 27 gennaio, giorno dell’apertura dei cancelli di Auschwitz da parte dell’armata rossa, anziché sul 16 ottobre, quando i nazisti rastrellarono il ghetto di Roma. Ricordare è selezionare, spiegano gli storici che hanno lavorato sulle memorie pubbliche. Non a caso Marc Bloch invitava a diffidare del presente quando si proietta sul passato. Declinare la data del 16 ottobre, sottolinea Giovanni De Luna, «voleva dire assumersi la responsabilità italiana della Shoa, perché senza la repubblica di Salò, la complicità delle Ferrovie italiane, dell’infrastruttura italiana, quei mille ebrei romani non sarebbero finiti ad Auschwitz». E così ogni 27 gennaio va in scena il rito dell’autoassoluzione, la stigmatizzazione di un male tanto assoluto quanto poco circostanziato, per nulla storicizzato. Le scolaresche d’Italia ricordano per meglio dimenticare. «La Francia dopo un acceso dibattito, ha scelto il luglio del 1944, quando vi fu la deportazione del “Vel d’hiv”, proprio perché con quella data intendeva assumere la sua parte di responsabilità nella Shoa». Un ragionamento analogo potrebbe essere svolto per ogni altra giornata prescelta, come quella del 10 febbraio in memoria delle vittime delle foibe, o del 9 novembre che ricorda la caduta del muro di Berlino, fino alla scelta del 9 maggio, giorno in cui venne ucciso Aldo Moro, come giornata dedicata al ricordo delle vittime del terrorismo, al posto del 12 dicembre, data della prima grande strage di Stato avvenuta 9 anni prima. In questo caso ricordare diventa rovesciare. La memoria vittimaria si è dunque imposta come il paradigma centrale delle narrazioni pubbliche e dei riti ufficiali.
Professore, quali sono state le tappe di questa trasformazione? «Quando 20 anni fa è crollata la prima Repubblica i partiti che hanno ereditato il potere politico sono stati chiamati a rifondare non solo il sistema politico ma anche quella che possiamo definire la “religione civile”. Questo tentativo è fallito. All’inizio si provò ad affiancare la memoria di Salò alla memoria della Resistenza con il famoso discorso d’insediamento alla presidenza della Camera pronunciato da Luciano Violante nel 1996. Si cercò di allargare lo spazio pubblico in cui chiamare i cittadini a riconoscersi all’interno di una cittadinanza condivisa attraverso l’inclusione della memoria di Salò.
Perché questo progetto fallisce? Perché si rivela sterile, impossibile da portare avanti. A quel punto lì si sceglie di riorganizzare le fila di un discorso sulla religione civile a partire dalla memoria delle vittime. Questa dimensione diventa straripante: c’è la Shoa, le vittime delle foibe, le vittime del terrorismo, le vittime della mafia… Ma anche questa soluzione si rivela molto fragile perché la memoria delle vittime è una memoria carica di sentimenti, è una memoria risarcitoria, rivendicativa, una memoria non pacificata soprattutto in un Paese come il nostro in cui molte delle vittime aspettano ancora giustizia e verità per l’assenza di istituzioni virtuose in grado di rasserenare e raccogliere questa memoria. L’idea di aver puntato prima sulla memoria condivisa e poi sulla memoria vittimaria, è una idea che si è rivelata fragile. La memoria vittimaria è una memoria insufficiente, non può servire a recintare uno spazio pubblico.
Questa tendenza spesso viene descritta come un processo generale. Certo, si tratta di una tempesta memoriale che l’Italia condivide con l’Europa occidentale, con gli Stati uniti. Siamo di fronte ad uno scenario complessivo che rinvia al modo con cui lo Stato nazione è stato svuotato dall’alto dai flussi della globalizzazione e dal basso dai particolarismi, dai localismi che si sono affermati. In Italia questa crisi dello Stato potente ha coinciso anche con la crisi del sistema politico, in più la nostra religione civile è stata sempre molto fragile, priva di tradizione accettata e conclamata. Nella religione civile dello Stato liberale non si riconoscevano i socialisti, i comunisti ma neanche i cattolici. Tuttavia la classe dirigente liberale si era assunta la responsabilità di indicare nel culto della dinastia dei Savoia, nei padri della patria del Risorgimento, dei paletti che potessero delimitare spazio pubblico. Il fascismo, a sua volta, si è assunto fin troppo la funzione di indicare una religione civile legata al culto del Duce, alla militarizzazione del Paese, certo escludendo gli antifascisti, escludendo gli ebrei. La stessa Italia della prima Repubblica, almeno a partire dagli anni 70 in poi, intorno all’antifascismo, al patto costituzionale, indicava dei nuovi paletti che delimitavano lo spazio pubblico della condivisione, seppure contestati dall’estrema sinistra e dai fascisti di Salò. La classe politica della seconda Repubblica questa responsabilità non se l’è assunta perché non ha nessun rapporto con il passato, con la memoria. La Lega ha inventato un passato fantasmatico di ritualità celtico-pagana che non ha nessuna radice reale. Forza italia e Pdl non hanno un passato, sono culture usa e getta senza storia. Gli ex del Pci o del Msi hanno un passato ingombrante che preferiscono dimenticare. Nel sistema politico attuale l’interesse verso il passato, verso la memoria, verso una ritualità celebrativa si è totalmente disciplinata a vantaggio del mercato. L’unico agente che oggi perimetra appartenenze e ritualità. Esemplare è stata la discussione sulla data del 17 marzo o sul primo maggio. L’unica cosa che interessava era sapere se i negozi dovessero restare aperti o chiusi, quanta percentuale di pil si rischiava di perdere introducendo un nuovo festivo. insomma una dimensione puramente mercantile che poi è la religione civile oggi egemone.
Professore però qui sembra di finire come nella canzone “Contessa”. Ma il nostro compito non era stato sempre quello di decostruire qualsiasi religione, comprese quelle civili? In fondo altro non è che un uso pubblico della storia? C’è un dibattito fortissimo attorno a questo termine, me ne rendo conto. Quando uso questo concetto mi riferisco ad una cosa storicamente definita: ovvero tutto quello che riguarda ritualità, simboli, cerimonie che in qualche modo rendono uno Stato nazionale non soltanto un apparato burocratico-amministrativo ma qualcosa che abbia anche dei valori da trasmettere. Uno Stato capace di perimetrale i luoghi della memoria e in qualche modo di legittimare i programmi scolastici, di legittimare i musei, di legittimare tutta la dimensione della ritualità pubblica in cui la politica moderna si è riconosciuta quando ha dovuto prendere le distanze dall’ancien régime, da una visione confessionale della religione civile. Questo spazio è tutto quello che disintegra i vecchi caratteri del “tengo famiglia, mi faccio i fatti miei”, un qualcosa che sia spirito civico, spirito comunitario, spirito di appartenenza.
Nel suo libro valorizza molto il ruolo di supplenza della presidenza della Repubblica. Non le sembra però che questa autorità, ed in particolare l’interpretazione che ne da Napolitano, sia totalmente interna al paradigma vittimario come dimostra il particolare impegno profuso nella giornata del 9 maggio? Il paradigma vittimario è egemone in tutto il mondo, difficile che possa sottrarsene il Quirinale. Anche gli ambienti più sensibili ai temi della lotta sociale ormai sono totalmente assorbiti da questo paradigma. Si pensi alla battaglia che fanno i ragazzi di “Libera”, l’associazione di don Ciotti. La giornata del 21 marzo, quella che loro propongono per le vittime della mafia, perché non è semplicemente la giornata della lotta contro la mafia? Non serve la testimonianza delle vittime per rendere credibile la lotta alla mafia. Eppure è così. Questo fatto mostra una subalternità culturale alla centralità delle vittime. Nel caso della presidenza della repubblica mi sembra che questa subalternità sia temperata. Si tratta dell’unica istituzione che pur restando all’interno di questa deriva culturale si preoccupa di recintare un territorio di valori, sferzando la classe politica a creare un nuovo pantheon in cui riconoscersi senza appiattirsi sulla dimensione vittimaria. Merito sia di Ciampi che di Napolitano.
Non le sembra che la centralità del discorso vittimario sia in Italia anche una conseguenza del ruolo preponderante assunto dalla magistratura nella scena politica e sociale? Una conseguenza di quella che gli specialisti hanno definito “giudiziarizzazione”? Per me è l’era del testimone quella all’interno del quale il paradigma vittimario diventa l’approdo. Certo il testimone comincia in un’aula giudiziaria, quella del processo ad Adolf Eichmann all’inizio degli anni 60, però coinvolge tutti. Anche noi storici, non soli i giudici, siamo dentro questa sorta di grande giudiziarizzazione della storia. Si tratta di una temperie culturale dell’Occidente. Tra l’altro anche questa dimensione va storicizzata: agli inizi l’era del testimone è dinamica, irrompe nella storia e ne rivivifica anche i metodi, i percorsi di ricerca, perché ridà voce ai protagonisti, agli emarginati. La storia orale nasce lì. E’ una storia che non guarda più al potere ma alle classi subalterne. La stessa memoria familiare delle vittime negli anni 80, almeno in Italia era totalmente declinata verso l’interesse pubblico. La verità e la giustizia, per cui lottavano negli anni 80 i familiari delle vittime di Ustica, non sono dei patrimoni privati ma delle virtù pubbliche propedeutiche alla democrazia. Il paradigma vittimario va storicizzato individuandone le varie fasi. Oggi è certamente egemone un altro aspetto meno legato alle virtù pubbliche e che ha assunto delle caratteristiche puramente recriminatorie, ma nella sua evoluzione non è sempre stato così.
“Revisionismo” – se non ricordo male – è termine che attiene alla vulgata marxista-leninista ed è volto a denunciare e ad inchiodare coloro che si opponevano al dogma stalinista per cui il pensiero di Marx costituiva la premessa teorica e, l’opera di Lenin l’unica attuazione pratica possibile.
Detto questo, trovo quanto meno singolare che una o più persone, che si firmano “alcuni anarchici”, titolino “Piazza Fontana: revisionismi di Stato e revisionisti di movimento” quello che si rivela essere solo un cumulo di banalità, spesso in aperta contraddizione le une con le altre, al fine di accusare di malafede Oreste Scalzone. Avrebbe avuto il torto – dicono – nel corso di un’intervista a “RadioCane” di argomentare circa l’inconsistenza dell’espressione – messa in bocca a Pinelli nella ballata omonima – per cui “un compagno non può averlo fatto” (riferito alla collocazione di una bomba presso una banca) e – di più – avrebbe rincarato la dose chiedendo cosa cazzo vorrebbe dire, sempre riferendosi alla stessa ballata, “anarchia non vuol dire bombe, ma giustizia nella libertà”!!??
Già, la procedura – perché di procedura si tratta – sembra proprio voler svolgere l’intento di preservare quell’aura di innocenza sacrale che DEVE continuare a soffondersi intorno a tutti i puri, sempre vittime innocenti, ecc. ecc.
Per far professione di “anarchia”, i suddetti non si risparmiano circa l’elencare tutti quei nomi (da Paolo Schicchi ad Émile Henry scritto con l’accento giusto) che conferiscono loro l’autorità e il diritto di poter parlare di quello di cui intendono parlare: che Oreste è solo un finto libertario, e di anarchia non può parlare! Di quegli anni dicono poco, solo un accenno al fatto che gli anarchici – a dire di Scalzone – erano succubi del piano politico di Lotta Continua, contro la quale in realtà sarebbero diretti i veri strali dell’ex-leader di Potere Operaio.
E allora, forse, sarebbe davvero il caso di riaprire la discussione su quegli anni. E senza le infamie delle accuse di “portaordini di Toni Negri” e, peggio, di connivenza con la strage di Primavalle.
Sarebbe il caso di affrontare – adesso che la maggior parte dei reati è prescritta – la discutibilità di un’azione politica, da una parte ciecamente e follemente innocentista a tutti i costi, e dall’altra assurdamente giustizialista.
Il candore di un Pinelli (tacendo del fatto che all’appuntamento con la morte, ci andò di sua volontà, senza mandato), da una parte, la campagna personalizzata contro Calabresi (come se non fosse vero che il responsabile era lo Stato, e non uno qualsiasi dei suoi servi), dall’altra.
Sarebbe forse il caso di parlare di come allora, e per almeno quattro anni, il movimento anarchico abbia asservito ogni sua attività all’esigenza di dimostrare la propria totale estraneità a qualsivoglia azione che puzzasse minimamente di violenza. Se parliamo di canzoni, allora dobbiamo dire come fossero banditi i versi di “Nel fosco fin del secolo morente” che parlavano di “schianto redentore della dinamite”!
Sarebbe il caso di parlare di questo e di altro, comprese le bassezze che intridono anche la storia di quegli “anarchici e del loro movimento anarchico”, che “lo zombi Scalzone” si sarebbe permesso di criticare!
Libri – Il nemico inconfessabile. Sovversione sociale, lotta armata e stato di emergenza in Italia dagli anni Settanta a oggi, Odradek 1999
di Paolo Persichetti e Oreste Scalzone
1. Il processo Sofri è il risultato di un inusitato errore giudiziario? Oppure la prova ennesima di un modello giudiziario, di un nuovo paradigma indiziario che è presente nella società italiana ormai da un ventennio? Il primo omicidio politico di sinistra in Italia è stato l’attentato al commissario Calabresi. Un’azione che anticipa di quattro anni la decisione delle Br di «alzare il tiro» (1976).(1) L’attentato Calabresi impedisce di separare la storia degli anni 70 in due momenti distinti e, inamovibile come una montagna, è li a ricordare che a praticare livelli illegali e armati non c’erano solo i gruppi dichiaratisi combattenti fin dall’inizio. Per questo motivo Ovidio Bompressi(2), Giorgio Pietrostefani e Adriano Sofri sono gli ostaggi della cattiva coscienza di un’intellighenzia di sinistra che ha condotto fino al parossismo l’occultamento di una parte della storia degli anni 70. Sacrificati sull’altare di una innocenza assoluta, necessaria al bisogno d’innocenza di altri, sono vittime della linea di difesa scelta, e dell’arroganza della campagna di sostegno condotta in loro favore.
2. Poco dopo la sentenza definitiva della Cassazione(3) e l’incarcerazione di Bompressi e Sofri (Pietrostefani stava preparando il suo rientro dalla Francia)(4), l’italianista Jacqueline Risset invitava gli intellettuali francesi a intervenire sul caso Sofri. Nel suo articolo citava il giudice di Cassazione, Alfonso Malinconico, il quale aveva invitato a esaminare il caso Sofri «con molta attenzione», perché «situato socialmente e storicamente in una visione che non ha niente a che vedere con quella dei magistrati». Nel tentativo di delucidare il contesto in cui si era svolto, nel 1972, l’omicidio del commissario Calabresi, per il quale Sofri è stato condannato, Risset ricordava la «strategia della tensione»(5). Nessuna parola era impiegata per descrivere la dimensione radicale e l’estensione dei movimenti sociali di quel periodo, nelle fabbriche (occupazione della Fiat), nei quartieri popolari delle grandi città. Tuttavia, Lotta continua, all’inizio degli anni 70, era tra i protagonisti di queste lotte. Nessun cenno, inoltre, sull’uso generalizzato e sistematico che dei pentiti è stato e viene fatto, nella quasi totalità delle inchieste e dei processi, e sul modello giudiziario d’eccezione, di cui lo stesso Sofri ha finito per essere un’ulteriore vittima. La breve ricostruzione fatta da Risset gettava un’ombra che faceva apparire il caso Sofri come il risultato di una macchinazione: ultimo soprassalto di qualche rete residuale dei servizi segreti della prima Repubblica, paradossalmente presentata come alleata di quella stessa magistratura che l’ha affondata a colpi d’inchieste anticorruzione.
3. Lo storico Carlo Ginzburg, nel suo libro(6) sull’argomento, non esclude completamente l’ipotesi del complotto, ma in assenza di prove si attiene all’errore giudiziario, poiché non vuole avanzare «sul terreno delle congetture». Come egli stesso ammette: «Per parlare di dolo (che in questo caso implicherebbe anche, necessariamente, un complotto), ci vogliono delle prove irrefutabili. Io non ne ho».(7) “Insostenibile” però non vuole dire “impensabile”. E nel libro vi è ben più che un’allusione all’ipotesi del complotto, tant’è che Ginzburg stesso riferisce del dissenso che sul tema ha con Adriano Sofri.(8) Il complotto, la «teoria dei complotti», è per Ginzburg un modello ontologico valido seppur solo a certe condizioni.(9) Dimostrando efficacemente le «inquietanti coincidenze» del processo Sofri con i procedimenti dell’inquisizione, anch’egli rifiuta di trarre delle più ampie conclusioni sul sistema giudiziario dell’emergenza. Le frequentazioni con le «radici del paradigma indiziario» non lo hanno reso avvertito del fatto che un procedimento può essere l’indizio di un sistema ben più ampio. Per Ginzburg il solo «processo alle streghe» dell’Italia moderna è quello Sofri.(10)
4. Ma tra le differenti caratteristiche che distinguono l’attività dello storico da quella del giudice vi è l’analisi del «contesto», ovvero la presa in considerazione della dimensione storico-sociale da cui la ricerca storica non può in alcun momento prescindere, a differenza dell’attività giudiziaria che si occupa prioritariamente dell’azione individuale, cercando di definirne le singole responsabilità e i relativi risvolti penali, e solo secondariamente – in modo del tutto discrezionale – della dimensione storico-sociale (con strumenti di conoscenza e comprensione che restano largamente inadeguati). Perché, dunque, questa ossessiva reductio ad unum dell’intera impalcatura politico-giudiziaria che ha dato luogo al processo e alla condanna di Sofri e compagni? Perché questa volontà di circoscrivere la vicenda del processo Sofri alla dimensione del semplice errore giudiziario? Perché altrove il lavoro di analisi dei meccanismi dell’inquisizione del Cinquecento e del Seicento porta Ginzburg a non soffermarsi di fronte alle sole implicazioni metodologiche ma a indagare oltre, per ricercarne le implicazioni politiche, le complesse e profonde interrelazioni con la dimensione delle mentalità, per arrivare così a descrivere i meccanismi di una struttura che agisce come sistema e che svolge una decisiva funzione di controllo e repressione sociale? Sarebbe esatto considerare l’inquisizione come la semplice addizione di un gran numero di processi a streghe, maghi ed eretici impenitenti? Una somma incredibile di errori giudiziari che traversarono due secoli e diversi paesi d’Europa senza legami l’uno con l’altro? Sarebbe giusto considerare questa dimensione spaziale e temporale comune come un fatto puramente accidentale? Tutte le ricerche degli storici in materia, oltre che quelle pregiate di Ginzburg(11), mostrano il contrario. Allora, perché di fronte a un fatto come il processo Sofri, uno storico così avvertito viene meno, in modo tanto palese, al rigore del suo mestiere? Alla fine del suo libro, Ginzburg, districandosi tra storici e giudici che cercano la prova delle streghe, arriva soltanto a scoprire l’esistenza degli angeli. Angeli speciali che hanno sorvolato la storia degli anni 70.
5. La ragione la si ritrova nella scelta differenzialista che si iscrive dentro una lunga polemica sull’interpretazione e la legittimità delle anime politiche e culturali protagoniste del 68, nel tentativo di affermare una sorta di “qualità”, di “essenza”, di “specificità intrinseca”, che avrebbe fatto di Lotta continua una formazione oggettivamente incompatibile con la violenza politica e l’omicidio, in un contesto storico dove altri a sinistra, al contrario, hanno riconosciuto o rivendicato questo tipo di compatibilità. Tra i molti sostenitori di questa tesi vi sono Jean-Luis Fournel et Jean-Claude Zancarini, che in un articolo uscito su Les Temps Modernes,(12) si preoccupano degli effetti storiografici che il processo Sofri provoca nell’interpretazione delle vicende degli anni 70. Essi denunciano l’amalgama tra «terrorismo rosso» e «i gruppi radicali e contestatari, nati negli anni della rivolta studentesca del 67-68, oltre che l’accostamento con le lotte operaie dell’autunno caldo, del 1969». Ancora una volta si ripropone una lettura che separa l’origine delle formazioni sovversive dai movimenti sociali dei primi anni 70, riprodotti in forma caricaturale come fenomeni legalitari e pacifici. «Attribuendo a Lotta continua la responsabilità del primo omicidio politico dell’estrema sinistra – scrivono – si può giustificare la tesi degli “opposti estremismi” e spostare al 1972 il processo di costituzione del “terrorismo rosso”».(13) Ciò avvantaggerebbe «tutti coloro che vorrebbero cancellare le responsabilità dell’estrema destra e di una parte dell’apparato dello Stato in quella che fu chiamata la “strategia della tensione”».(14) Come si può già intuire, gli autori non vanno molto lontano e ripropongono la ritrita tesi del complotto, che vede i responsabili dell’attentato Calabresi situati negli ambienti dello stragismo e dei servizi deviati. A sostegno di questa loro tesi, essi affermano di poter escludere che «nella situazione politica italiana di quegli anni [primi anni 70] Lotta continua (come tutte le altre organizzazioni di estrema sinistra, anche quelle che da allora praticarono una pedagogia del passaggio alla lotta armata) possa aver potuto prendere la decisione di realizzare un assassinio politico». Argomento che costringe i due autori a rappresentare le stesse Br come una formazione «che allora non si considerava un gruppo armato clandestino», che «le Br dei primi anni 70 non dovevano forzatamente dare luogo a un gruppo armato clandestino che, dopo aver abbattuto Moro, si lancia in una fuga in avanti che le conduce a “colpire il cuore dello Stato”». Incidentalmente, per necessità logica, essi sono costretti a smentire il loro assunto iniziale e riportare le Br nell’alveo delle formazioni di estrema sinistra e non vedere in esse qualcosa di dissimile ed esterno ai gruppi politici che nascevano in quegli anni. Ma resta il mistero della morte di Calabresi, e qui, Fournel e Zancarini, dopo aver evocato «l’impossibilità di escludere l’ipotesi teorica dell’azione isolata di alcuni militanti di estrema sinistra», ci fanno comprendere che la vera pista da seguire, come in un bel giallo pieno di spie, doppiogiochisti, denaro sporco, commerci illeciti, mafiosi e politici corrotti, è quella di «un’azione dell’estrema destra per liberarsi di un commissario scomodo che indagava sui traffici d’armi». Ci spiegano inoltre che l’unica analogia possibile tra il processo Sofri e l’inchiesta 7 aprile (presa come emblema dei processi degli «anni di piombo») è l’utilizzo della «prova logica» a scapito delle prove fattuali. «Ma il paragone si ferma qui. La congiuntura politica nel 1972 […] non è la stessa di quella del 1979, quando, dopo il rapimento e l’assassinio di Moro, una parte dei militanti dell’estrema sinistra ha fatto la scelta della lotta armata contro lo Stato». Dovremmo intendere, dall’ambiguità di questa frase, una giustificazione del prevalere della «prova logica» su quella «fattuale», consentita dall’introduzione della giustizia d’eccezione? In ogni caso, Fournel e Zancarini fanno male a dimenticare che Bompressi, Pietrostefani e Sofri sono stati inquisiti nell’88, in un’epoca in cui la legislazione speciale, il ricorso al pentitismo, la giustizia d’emergenza, erano una prassi ben rodata da oltre un decennio. Non è forse questa l’analogia decisiva da considerare come una delle ragioni fondamentali delle successive condanne? O anche il sottoporre a critica la giustizia d’eccezione comporta un rischio di amalgama con la sovversione armata di sinistra?
6. Anche il premio Nobel Dario Fo, che ha scritto una commedia sulla vicenda(15), si è lanciato con tutte le sue forze in favore della tesi del complotto di servizi e fascisti, attribuito a dei giudici in realtà clerico-demo-sinistri (ex catto-comunisti), come Borrelli e D’Ambrosio, capi del «pool di mani pulite». Tutto ciò senza mai essersi reso conto della flagrante contraddizione che rappresenta il fatto di continuare a colmarli, altrove, di lodi per i loro meriti nella campagna anticorruzione. Questa rodomontesca entrata in scena, che ha portato fino al parossismo tutti i sofismi diffusi su questo caso giudiziario, si è rivelata un boomerang per lo stesso Sofri, alla stregua di una medicina che uccide il malato. Il presidente della Repubblica Scalfaro si è precipitato a rifiutare la grazia a Sofri e ai suoi coimputati, mentre un brillante editorialista lanciava l’allarme, titolando un suo articolo con una ironia glaciale: «Salvate Sofri da Dario Fo».(16) L’allusione al complotto, iscritta in una lettura fatta di pura dietrologia, non aiuta la comprensione di ciò che è accaduto in Italia durante gli anni 70 e ancora meno dell’attuale persistere delle sue conseguenze giudiziarie. Un complotto? Dopo 16 anni? Per vendicarsi di cosa e contro chi? Un gruppo sociale, i quadri e la struttura dirigente di Lotta continua, che nel 1976, dopo lo scioglimento dell’organizzazione (sotto la spinta della radicalizzazione e della militarizzazione del movimento del 77 che si avvicinava), ha iniziato la sua lunga marcia verso l’assimilazione nell’élite sociale (soprattutto dei media e della politica)? Molti dei vecchi aderenti a Lotta continua, dopo aver rotto con l’estremismo, sul modello dei nouveaux philosophes (scoperta dell’ideologia della «fine delle ideologie» e abitudine a fare l’autocritica degli altri), hanno stabilito, in questi ultimi quindici anni, una rete di relazioni trasversali, che ha permesso loro di frequentare senza problemi il potere, quale che fosse la maggioranza dominante, e di restare in permanenza con tutti i vincitori del momento. Gli anni 80, sulla scia del neoyuppismo ultraliberale, furono il momento degli uomini della stagione craxiana, all’ombra del potente impero mediatico di Berlusconi;(17) nella seconda metà degli anni 90, cavalcando l’ondata giustizialista, è venuto il turno dell’Ulivo e del Pds-Ds. Questo valzer ha attraversato indenne il terremoto politico-istituzionale delle inchieste sulla corruzione. Parlare di «complotto» in queste condizioni è piuttosto di cattivo gusto e assomiglia troppo allo scenario di un giallo scritto male.
7. Altri intellettuali sono intervenuti: tra questi il semiologo Umberto Eco, che nella rivista MicroMega, ha parlato di un «nuovo affare Dreyfus»(18), oppure lo scrittore Antonio Tabucchi, che ha indirizzato una lettera aperta al prigioniero Adriano Sofri(19), in risposta alla provocazione rivolta dallo stesso Eco (agli altri intellettuali) di «restarsene silenziosi quando non servono a niente». Un precedente scontro con Alberto Arbasino(20) aveva anticipato i contenuti di questa nuova polemica. Arbasino se la prendeva con gli intellettuali francesi che avevano manifestato contro l’obbligo di denunciare i sans-papiers(21), e con i pochi intellettuali italiani che, a dire il vero in modo molto più blando e sparso, avevano preso le parti dei rifugiati albanesi.(22) Tabucchi allora aveva difeso il ruolo dell’intellettuale presente al suo tempo; da qui la scelta a effetto di rivolgersi a un altro intellettuale, questa volta imprigionato, per parlare – malgrado le buone intenzioni – solo d’intellettuali, realizzando una paradossale caricatura di un impegno incapace di manifestarsi all’esterno di una cerchia ristretta e separata, intenta solo a polemizzare. Ritratto di uno specchio di narcisi che parlano di loro, tra loro. Tutti questi intellettuali hanno avuto come unica preoccupazione il fatto d’isolare il caso Sofri dagli avvenimenti storici degli anni 70, presentandolo come un ingiusto accidente giudiziario, senza mai mettere in causa il sistema della giustizia d’eccezione costituitasi come procedura ordinaria del sistema giudiziario.
8. In questo panorama di prese di posizione, tra intellettuali accreditati, Franco Fortini è stato il solo – poco dopo la messa in stato d’accusa di Sofri nel 1988 – ad avere criticato, in un articolo pubblicato dal Manifesto(23), questa ipocrisia generale. Una «congiura»(24) fondata su un arrogante pregiudizio d’innocenza assoluta e metafisica, che concerne – ben al di là dell’innocenza specifica sui fatti rimproverati a Sofri e ai suoi compagni – la perfetta e implacabile innocenza intellettuale e morale di tutta l’intellighenzia di sinistra. In realtà, quell’ambiente intellettuale che negli anni 70 ha vissuto in promiscuità con un certo fervore rivoluzionario, dietro l’icona immacolata di Sofri ha cercato di mostrare la propria innocenza e intoccabilità. Sofri è diventato obbligatoriamente l’angelo(25) che dietro le sue grandi ali deve nascondere la cattiva coscienza dell’epoca. La visione riduttiva del caso Sofri contiene l’occultamento di una parte decisiva della storia degli anni 70, del conflitto durissimo che ha opposto lo Stato e il padronato alla radicalità sovversiva dei movimenti sociali rimasti soli all’opposizione. Un occultamento che conduce direttamente alla falsificazione storica e facilita la rimozione di un passato scomodo per molti. Come ricordava Joyce Lussu, molti tra gli intellettuali e i vecchi dirigenti dell’estrema sinistra, che «la sera della morte di Calabresi avevano stappato lo champagne»,(26) cercano oggi attraverso questa rimozione una autoassoluzione post festum. Nel novembre 1980, sull’Espresso, Franco Piperno(27) scriveva: «la verità è che l’omicidio di Calabresi è l’inizio del terrorismo di sinistra in Italia», e aggiungeva: «interrogarsi radicalmente, riconoscere gli errori, rimettere tutto in discussione è operazione dolorosa ma saggia. Niente è più pericoloso che la tentazione di fare come se niente fosse accaduto. La verità, diceva Trotzki, conviene onorarla non per moralismo, ma per intelligenza: perché lascia nei fatti tracce multiple e indelebili, sicché occultarla diventa impresa che ingoia tutto, e alla fine ci si ritrova nella necessità di occultare perfino se stessi, la propria storia […] Il salto da vittime a carnefici è anche un salto culturale che lascia senza fiato; perché, al di là dell’identità personale dei terroristi che avevano sparato, la responsabilità politica di quella morte era interamente addebitabile al movimento extraparlamentare, non v’erano dubbi su questo».
9. Corollario di questo occultamento è l’incapacità di vedere negli effetti perversi del prolungamento dell’«emergenza» in Italia, la causa dell’affare Sofri. Parlare di errore giudiziario come di una fatalità del destino, o peggio, di un complotto e rifiutarsi di guardare la fabbrica che produce questi errori giudiziari, per paura di una pericolosa contaminazione con i gruppi sovversivi nel nome di una «incompatibilità culturale» della generazione di Lotta continua con gli «anni di piombo», non è stata finora una strategia di difesa molto efficace. Spostare il dibattito sulla «dimensione culturale», come è stato fatto nella campagna per la difesa di Sofri, significa accettare di esser giudicati sugli stati di coscienza piuttosto che sull’esistenza di prove. Non solo, ma questa posizione non sta in piedi storicamente, sia per il commento che il giornale Lotta continua diede dell’attentato Calabresi: «un atto nel quale gli sfruttati riconoscono la loro volontà di giustizia»;(28) che per gli avvenimenti successivi, i quali hanno dimostrato come molti militanti provenienti da Lotta continua abbiano dato vita a dei gruppi armati, come i Nap (Nuclei armati proletari), Prima linea, o siano entrati nelle Br. Se gli imputati avessero riconosciuto quello che era il clima politico del tempo, piuttosto che trincerarsi dietro un ipocrita «ma quando mai!», se avessero ricostruito quell’universo desiderante di decine di migliaia di militanti dell’estrema sinistra, che non avrebbe versato una lacrima per la morte di un qualunque Calabresi, dopo la strage di piazza Fontana e soprattutto dopo la morte dell’anarchico Pinelli,(29) l’argomento della plausibilità, della verosimiglianza di un atto, che sul piano storico valeva per almeno duecentomila persone che avevano sognato quel gesto, per alcune centinaia di dirigenti dei gruppi extraparlamentari, sul piano giudiziario sarebbe rimasto un puro argomento tipologico, fondato sulla teoria del «tipo d’autore».
10. Luigi Bobbio scrive nella sua storia di Lotta continua(30) della «svolta militarista di Rimini» del 1972. Il 4 marzo 1972, l’esecutivo milanese di Lc commentò positivamente il sequestro, avvenuto il giorno precedente, di Hidalgo Macchiarini, responsabile del personale Fiat, a opera delle Br. Nel 1971, l’allora Lotta continua settimanale inaugura la rubrica «I dannati della terra», con l’obiettivo di promuovere le lotte carcerarie. Attorno a questa esperienza si coagulano le forze che daranno vita, dopo il 1973, ai Nap.(31) Il 29 ottobre 1974, muoiono nel corso di un esproprio in una banca a Firenze Luca Mantini e Giuseppe Romeo, ex militanti di Lc divenuti nappisti. Lotta continua concluse la sua esperienza organizzativa al congresso di Rimini, tenutosi dal 31 ottobre al 5 novembre 1976, a causa delle lacerazioni profonde e delle istanze pressanti provenienti dal suo interno verso la lotta armata. Il problema della violenza politica fu in quel frangente la reale posta in gioco. Un indizio che può fornire l’idea di quella che era la temperatura al suolo è dato dal dibattito che si sviluppò sulle pagine dei Quaderni piacentini tra il 1972 e il 1973, ripreso sull’Espresso del 5 settembre 1996, pagine 73-74. Sul n. 47 datato luglio 1972, comparve un articolo intitolato «Contro il terrorismo» firmato da un certo Giancarlo Abbiati (presentato come «militante della sinistra rivoluzionaria»), pseudonimo sotto il quale si nascondeva l’identità di Luciano Pero, dirigente milanese di Lc ed esponente della linea moderata e legalista. Nel successivo n. 48-49, datato gennaio 1973, apparve la risposta inviata da un «compagno di Lotta continua» che si firmava Marcello Manconi, pseudonimo di Luigi Manconi, oggi senatore e portavoce dei Verdi. Riportiamo qui alcuni estratti dello scritto ripresi dall’Espresso che a sua volta cita parti della versione sintetizzata da Luigi Bobbio nel suo Lotta continua. Storia di un’organizzazione rivoluzionaria. Manconi scriveva: «L’uso del terrore e l’azione partigiana come forma organizzata e armata sono strumenti insostituibili della lotta di classe quando ne rispettano le esigenze […] Il terrorismo o è una degenerazione di questi strumenti (laddove violi queste condizioni) o è la risposta scorretta a una domanda corretta». Respingendo le critiche mosse alla posizione assunta da Lotta continua sull’attentato Calabresi, che partivano «da un presupposto indimostrato che l’omicidio politico appartenga al purgatorio premarxista», Manconi sosteneva ancora che «l’azione partigiana non è certo l’arma decisiva per l’emancipazione delle masse dal dominio capitalistico, così come l’azione armata clandestina non è certo la forma decisiva della lotta di classe nella fase che noi attraversiamo». Ma «l’arsenale del movimento rivoluzionario» spiegava «è ricco e duttile […] La violenza d’avanguardia è stata ed è puramente e semplicemente una necessità materiale, e non una compiaciuta scelta morale. Essa contribuisce a dare al programma proletario la certezza e la concretezza della sua realizzabilità […] Il proletariato […] non può fare a meno, per non restare schiacciato, in uno scontro che inevitabilmente procede verso la guerra di classe, di avere dei propri reparti avanzati che gli consentano di affrontare il nemico su ogni terreno […] A ogni fase dello scontro fra le classi corrisponde un grado specifico di violenza esercitata dalle masse, ed è questo che impone anche alle avanguardie l’esercizio di una quota determinata di violenza organizzata e diretta». Molti militanti del servizio d’ordine e della componente operaia si ritroveranno nei gruppi combattenti, soprattutto nel «mucchio selvaggio» di Prima Linea, altri nelle Br e ancora in altri gruppi. Renato Curcio, nel suo libro-intervista A viso aperto racconta, senza mai essere stato smentito, la storia di un incontro richiesto da alcuni esponenti di Lotta continua alle Br: «Nel 71, quando avevamo cominciato da poco le nostre azioni contro i capi reparto della Pirelli e della Sit-Siemens, diversi compagni di Lotta continua – che era allora il gruppo più attivo nelle fabbriche di Milano – si avvicinarono a noi e alcuni di loro entrarono nella nostra organizzazione. Un travaso che preoccupò non poco i dirigenti della formazione extraparlamentare. Al punto che a un certo momento, ci domandarono un incontro […] Mi vidi con due loro dirigenti, Giorgio Pietrostefani, responsabile del servizio d’ordine, e Ettore Camuffo, un compagno di Trento che avevo conosciuto all’epoca dell’università. Volevano sondare la possibilità di un’eventuale ipotesi di “fusione”. O più esattamente, la nostra disponibilità a integrarci nel loro gruppo. Lotta continua è un’organizzazione politica forte a livello nazionale, mi dissero in sostanza, mentre le Br sono un gruppuscolo senza grandi possibilità di sviluppo. Venite con noi e fate quello che sapete fare meglio: organizzate il nostro servizio d’ordine. Ci proponevano, in pratica, di diventare il loro “braccio armato”». Offerta assai maldestra che le Br rifiutarono bruscamente. (32)
11. Lo scrittore Erri De Luca, ex responsabile per la città di Roma del servizio d’ordine di Lotta continua e accusato di reati connessi, poi caduti in prescrizione, nel processo per la morte del commissario Calabresi, ha fatto sentire la sua voce discordante rivolgendosi a Ovidio Bompressi, in uno scambio di lettere pubblicate su MicroMega e riprese in parte dal Corriere della Sera, con il titolo «Tutti noi potevamo uccidere Calabresi».(33) De Luca sottolinea di parlare in difesa di Bompressi e non «degli altri due, imputati di essere due padrini, mandanti con le mani in tasca»; e più in là aggiunge: «La linea del “ma quando mai?”, la linea dei trasecolati, era buona per i mandanti che così non si dichiaravano dirigenti di un’organizzazione compatibile con un omicidio, ma non era buona per te, perché ti isolava dal mucchio di tutti noi, da cui eri stato estratto come nostro esempio […] Quella difesa ti metteva in croce. Tagliava il tuo legame col mucchio in cambio della rispettabilità di tutti i non imputati. Così fu scelto e tu hai acconsentito: per rispetto dei capi di allora, per tua dannata modestia, per tuo bisogno di sentirti ancora parte di quella comunità, dodici anni dopo che si era sciolta […]. Il mio chiodo era che si doveva ammettere l’evidenza che quell’accusa era compatibile con ognuno di noi, con la febbre da insorti che avevamo. Ma a dire questo, qualcuno e molti che nel frattempo avevano addomesticato il loro passato a sbronza di stagione sarebbero arrossiti, sarebbero stati in difficoltà sulle sedie imbottite che si erano intanto procurati. Compatibili con un omicidio: che guaio per la carriera […]. Lascia che ti condannino, Ovidio, che la tua vita si inchiodi sulla loro porta, sulla loro vendetta di esecutori di una rappresaglia […]. Tu sei estraneo all’accusatore e all’accusa, ma non sei innocente. Dal lancio della prima pietra non siamo stati più innocenti […]. E, non c’è più tempo né voglia di un’altra inutile linea di difesa, ma fai ancora in tempo a non sentirti solo, perché non lo sei. Tutte le persone che furono quella comunità e che poi ebbero esilio nell’Italia degli anni Ottanta, hanno te per orgoglio e per sipario sugli anni migliori della loro vita. E questa lettera io voglio lasciarla aperta perché la leggano loro, quelli che non hanno più avuto voglia di parlare: perché, la sottoscrivano o la straccino, ti facciano avere il loro: “come te anch’io”».
12. Nello sforzo di riscrittura e angelicazione della storia politica di Lotta continua vi è stata una riuscita operazione di captatio benevolentiae nei confronti del sistema politico. A partire dal 1976, Lc è divenuta il grande «convertito collettivo», il «pentito sociale» contro la sovversione e la lotta armata.(34) Una riscrittura mistificata di una parte del passato, dove demoni e cattivi stavano tutti da una parte, sembrava sufficiente per non sentirsi implicati nella spirale della giustizia d’eccezione. Ma così non è stato. La generazione degli ex dirigenti di Lc si è trovata in qualche modo in contropiede per aver pensato di averla scampata con l’emergenza. Credevano che essa avrebbe riguardato sempre e solo gli altri. Se ne sentivano al riparo. Avevano fatto della differenziazione una carta di rispettabilità. Un passato rimosso li ha recuperati.
NOTE 1– L’8 giugno 1976, il giudice Francesco Coco e la sua scorta subiscono un attentato mortale a Genova. 2– Nell’aprile 1998, Ovidio Bompressi ha ottenuto la sospensione della condanna per motivi di salute. 3– 22 gennaio 1997. 4– In alcune interviste rilasciate nei giorni immediatamente precedenti alla sua decisione di rientrare, Pietrostefani si era lasciato andare ad alcune dichiarazioni piuttosto infelici: «chi fugge è colpevole». Allora, l’editorialista Giorgio Bocca, forse perché scrive su Repubblica, si è preso per Platone e non ha esitato a scrivere l’apologia di un “novello Socrate” che rinuncia alla fuga, per bere la cicuta. Ma Socrate non è fuggito di fronte alla condanna perché sottraendosi a essa pensava di confermare la sua colpevolezza, al contrario, con la forza drammatica del suo gesto sacrificale auspicava un cambiamento della legge ingiusta. Non voleva singolarizzare il suo dramma personale, ma, con lo scandalo di quel suo gesto, sottomettendosi al principio della legge, voleva spingere il paradosso fino a un punto estremo che portasse gli ateniesi a cambiare quella legge ingiusta. Ma nel rientro di Pietrostefani non vi è stato nulla della nobiltà tragica del dialogo con Critone. L’imponente fronte massmediatico e le larghe simpatie nel ceto politico istituzionale in favore dei tre condannati hanno, al contrario, accentuato alcuni loro toni arroganti e di sfida fino al delirio di potenza, all’azzardo pockeristico miserabilmente sbriciolatosi nei mesi successivi di fronte ai cancelli della prigione rimasti chiusi. Pietrostefani non ha mosso parola contro la legislazione sui pentiti, ha parlato per sé mettendo in dubbio soltanto il valore delle dichiarazioni di Marino e dimenticando il resto ha aggiunto: «chi scappa è un crumiro». Allora il Critone si è rivelato un cretino. Che vuol dire «crumiro»? Lavoratore che rifiuta di scioperare o accetta di lavorare in luogo degli scioperanti. Il crumiro abbassa il potere di ricatto dello sciopero, la sua forza collettiva. Se uno della banda del cavalcavia avesse rifiutato di lanciare pietre sarebbe stato un crumiro? Nel caso ipotetico in cui il monte pena, all’uopo di essere individuale, fosse stato collettivo, cioè cumulato sulle spalle dei soli imputati detenuti, allora non rientrare sarebbe stata una forma di crumiraggio. In tal caso, Pietrostefani sottraendosi avrebbe lasciato soli i suoi due compagni a scontare i complessivi sessanta anni di reclusione divisi per due e non per tre, cioè trenta a testa. Ma così non è, e rientrando nessuno dei suoi due compagni vede la sua pena ridotta. Venti anni ciascuno erano e venti anni restano. Se no, perché non fare un appello agli altri ex-Lc, affinché si presentino tutti davanti alle porte del carcere, così quei 21.900 giorni ripartiti per tutti quanti diventerebbero un giorno o un’ora a testa? E comunque, se il dibattito si sposta sul costituirsi o sottrarsi: il senatore a vita Giulio Andreotti non si è dato latitante, dunque solo per questo ne dovremmo dedurre che è innocente! Mentre Mazzini, Pertini, i fratelli Rosselli, Bertolt Brecht, sono stati tutti dei crumiri. 5– Definita come uno strumento usato dalla «classe dirigente dell’epoca con la complicità dei servizi segreti, degli estremisti di destra e di poteri occulti di diversa origine, con delle alleanze internazionali segrete». Risset aggiungeva che «non esisteva allora uno Stato neutrale, ma un “governo invisibile” (secondo l’espressione di Norberto Bobbio) più forte del governo ufficiale», Le Monde, 29 gennaio 1997. 6– Le juge et l’historien, Paris, Verdier, 1997, trad. dall’edizione italiana, Einaudi, 1991, con una nuova prefazione dell’autore. 7– Ibidem, cap. XVII, p. 101. 8– Nella Memoria presentata ai giudici e pubblicata dall’editore Sellerio sotto lo stesso titolo, Adriano Sofri scrive a p. 139: «Bisogna stare attenti alla teoria del complotto perché offusca l’intelligenza, e sfocia spesso in una spiegazione comoda». 9– Le juge et l’historien, op. cit.; trad. italiana, 1991, cap. XIV, pp. 64-68. 10– Un episodio per tutti: al Salon du Livre di Parigi, presentando l’uscita del suo libro, Carlo Ginzburg ha risposto a Toni Negri (il quale faceva notare di avere anch’egli «subito un processo alle streghe»), che non c’era ragione di comparare i due casi, poiché «Sofri era veramente innocente e Negri colpevole». Per quello specchio distorto della realtà che è la «verità giudiziaria» i due sono colpevoli allo stesso modo, ma Ginzburg frequentando l’universo delle streghe ha appreso l’arte magica che permette, a lui solo, di essere partecipe dei segreti della «verità storica». 11– Carlo ginzburg, «Traces. Racines d’un paradigme indiciaire» (1979), Mythes, emblèmes, traces: morphologie et histoire, tr. fr. M. Aymard et al., Paris, Flammarion, 1989, p.139-180; «Prove e possibilità», prefazione ed. italiana di N. Zemon Davis, Il ritorno di Martin Guerre, Torino, 1984; «Montrer et citer», Le Débat, n° 56 (settembre-ottobre 1989), pp. 43-54. 12– “Des historiens peu prudents, l’enjeu historiographique de l’affaire Bompressi, Pietrostefani, Sofri”, Les Temps Modernes, n. 586, nov.-dec. 1997. 13– Perché tanta paura? È storia largamente assodata che il discorso combattente e il processo di costituzione dei primi gruppi armati abbia avuto inizio ben avanti il 1972. 14– Per paura che la «strategia della tensione» venga giustificata a posteriori come reazione alla presenza della lotta armata di sinistra – in questa variante gauchista della riscrittura della storia –, si pretende di dimostrare che la lotta armata sia nata come reazione alla «strategia della tensione». A parte Giangiacomo Feltrinelli, che aveva costituito i Gruppi armati partigiani (Gap) per prevenire l’approssimarsi del rischio di un golpe, la propaganda armata delle Br, l’attività combattente dei Nap o la concezione insurrezionalista di gruppi interni all’area di potere Operaio, offrivano al contrario una visione completamente offensiva e non reattiva della sovversione. Propaganda armata e altre tendenze militari si svilupparono a prescindere dalla «strategia della tensione» e dalle stragi. Esse avevano tutt’al più svolto un ruolo sul piano della ragione etica dei singoli militanti, resi consapevoli del livello elevato di scontro militare imposto dallo Stato e che faceva della vita umana, ancor più che in passato, carne da macello. I movimenti sociali dell’«autunno caldo» e gli scioperi operai erano ampiamente sufficienti a quei settori atlantici, interni ed esterni all’apparato statale, per scatenare la strategia del terrore contro le moltitudini. 15– Dario Fo, Liberate Marino. Marino è innocente, Torino, Einaudi, 1998. Leonardo Marino è il pentito che accusa Sofri. 16– Francesco merlo, Corriere della Sera, 27 ottobre 1997. 17– Negli anni 80, Silvio Berlusconi era stato il mecenate di Reporter, giornale che ha vissuto lo spazio di un mattino. Il suo direttore era Enrico Deaglio, già alla guida del giornale Lotta continua, oggi direttore di Diario, settimanale lanciato come inserto dell’Unità, ex giornale del Pci-Pds. Adriano Sofri (che ha collaborato anch’egli a Reporter) è stato uno stretto consigliere di Claudio Martelli, delfino di Craxi e cambusiere del psi. Al momento dell’apertura dell’inchiesta e del provvisorio arresto di Sofri, Bompressi e Pietrostefani, Martelli cumulava le cariche di vicesegretario del Psi, di vice primo ministro e di guardasigilli. Più tardi anch’egli è stato implicato e inquisito in numerose inchieste di «mani pulite». 18– Se le parole hanno un senso (chi meglio di Umberto Eco può saperlo?), richiamare l’affare Dreyfus conduce a evocare inevitabilmente qualche cosa che va oltre il semplice errore giudiziario. Attorno all’affare Dreyfus si è costituito in Francia l’antisemitismo moderno, un paradigma storico che ha condotto ad Auschwitz. Pretendere, come fa Eco, ma anche altri come Giuliano Ferrara, che il processo Sofri contenga un paradigma della stessa forza dell’affare Dreyfus, dovrebbe portare quantomeno a denunciare le aberrazioni del sistema dello stato d’emergenza in Italia. Conseguenza che Eco, e gli altri, evitano accuratamente di trarre. 19– La gastrite de Platon, Mille et Une Nuits, Paris, 1997. 20– Alberto Arbasino, sofisticato scrittore, modello d’intellettuale cortigiano, un po’ dandy, sempre infastidito dai rumori e forse dagli odori provenienti dalla vita reale delle moltitudini, che arrivano talvolta fin nei salotti dei piani alti del Palazzo. 21– Immigrati clandestini, dunque senza documenti. 22– In occasione della manifetazione tenutasi a Parigi il 22 febbraio 1997 contro le leggi Debré-Pasqua-Méhaignerie. L’articolo di Arbasino è apparso su Repubblica del 15 marzo 1997. Tabucchi risponde il 1° aprile 1997 sul Corriere della Sera (“Intellettuali copritevi, ora piovono pietre”), Arbasino replica su Repubblica e Corriere della Sera, il 2 e 3 aprile 1997 (“Ma non chiedeteci anche la predica”). Tabucchi risponde ancora una volta sempre sul Corriere della Sera con un lungo articolo (“L’albanese sono io”), il 7 aprile 1997. 23– Il Manifesto dell’agosto 1988. Si veda anche Oreste scalzone nella sua “Lettera aperta a Adriano Sofri”, pubblicata dal Mattino, nell’agosto 1988; e l’intervista al settimanale L’Espresso, del settembre 1988, intitolata: “È anche colpa mia”. Altri testi di riflessione sono stati pubblicati, nel corso degli anni successivi, dal giornale Tempi supplementari. Nel 1997, diverse interviste sull’argomento sono apparse nel Corriere della Sera. 24– Jean Baudrillard, “La congiura degli imbecilli”, in Libération del 7 maggio 1997, definisce in questo modo l’attuale dimensione culturale della sinistra: «mentre la destra incarnava i valori morali, e la sinistra al contrario una certa esigenza storica e politica contraddittoria, oggi, quest’ultima, spogliata di ogni energia politica, è diventata una pura giurisdizione morale, incarnazione dei valori universali, campione del regno della Virtù e detentrice dei valori museali del Bene e del Vero, giurisdizione che può chiedere dei conti a tutti senza dovere rendere conto a nessuno». 25– Fino a ora è stato solo l’agnello sacrificale. 26– Letteralmente: «sabré le champagne», in Libération, 7 febbraio 1997. 27– Fisico, leader del ’68, fondatore con Negri e Scalzone di Potere operaio, nel 1969, condannato ad alcuni anni di prigione durante gli anni 80. 28– Lotta continua, del 18 maggio 1972. 29– 15 dicembre 1969, Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, muore cadendo da una finestra dell’ufficio del commissario Luigi Calabresi, situata al quarto piano della questura di Milano. Egli era illegalmente detenuto e interrogato da tre giorni. La versione ufficiale parla di suicidio dovuto alla disperazione a causa delle prove schiaccianti contro di lui nell’attentato di Piazza Fontana. L’episodio suscita un’enorme emozione. Lotta continua, insieme alla gran parte della sinistra extraparlamentare, è persuasa che Pinelli sia rimasto vittima di un interrogatorio violento e che il suo suicidio sia una messa in scena. Dopo un lungo iter l’inchiesta è chiusa nell’ottobre 1975 dal giudice Gerardo D’Ambrosio, che esclude l’omicidio e il suicidio e introduce la tesi del «malore attivo». 30– Luigi bobbio, Lotta continua. Storia di un’organizzazione rivoluzionaria, Savelli, Roma, 1979. Nel documento preparatorio al III convegno nazionale di Lc, 1-3 aprile 1972 era scritto: «È necessario preparare il movimento a uno scontro generalizzato, che ha come avversario lo Stato e come strumento l’esercizio della violenza rivoluzionaria, di massa e d’avanguardia». 31– «Dopo la svolta del 1973, in cui Lotta continua rifiutò ogni prospettiva di uscita dalla legalità, molti militanti abbandonarono quella organizzazione. È di questo periodo la formazione delle prime aggregazioni, a Firenze (nel collettivo J. Jackson), e a Napoli, dei militanti che daranno vita ai Nuclei Armati Proletari, organizzazione particolarmente interessata ai movimenti dei soggetti sociali maggiormente emarginati: proletari prigionieri, proletariato marginale e del Sud», in Progetto Memoria. La mappa perduta, cit. 32– Renato curcio, A visage découvert, Lieu Commun, Paris, 1993, “Calabresi tu sera suicidé”, pp. 99-100; A viso aperto, Milano, Mondadori, 1993, intervistato da Mario Scialoja. Contrariamente a quanto venne raccontato negli anni successivi, le br erano molto corteggiate. Lo stesso Toni Negri, dopo la rottura di Potere Operaio e la fine dell’occupazione di Mirafiori, nel 1973, aprì un confronto politico con le br che sfociò nella realizzazione in comune della rivista Controinformazione (si leggano le risposte di Toni Negri a Sergio Zavoli in Id., La notte della Repubblica, Mondadori, Milano, 1992, pp. 262-263). 33– Corriere della Sera, del 14 maggio 1996. 34– Argomento che è stato suggerito in filigrana in un articolo di Luigi Bobbio su Repubblica e poi in una intervista a Carlo Panella sul Corriere della Sera del 18 febbraio 1997.