Il retroscena della cattura di Cesare Battisti, l’inchiesta sporca che nessuno vi racconterà mai

Pubblichiamno alcuni estratti del libro “La polizia della storia, la fabbrica delle false notizie nell’affaire Moro”, all’interno del quale si raccontano i retroscena della cattura di Cesare Battisti in Bolivia, la clonazione del telefono del suo avvocato e l’intercettazione dell’intera attività difensiva, condotta dalla digos su mandato della procura milanese, una volta incarcerato in Italia

«L’attività che ha condotto alla cattura di Cesare Battisti – scriveva la Digos in un rapporto del 24 gennaio 2019 – ha avuto inizio il 16 ottobre 2018 con la richiesta di delega alla Procura generale per l’espletamento dell’attività tecnica»(1). Dodici giorni prima della elezione del leader della destra Jair Bolsonaro alla Presidenza della repubblica brasiliana si erano attivate le intercettazioni sulle linee telefoniche in uso a Battisti ma dopo il 31 ottobre queste risultavano silenti. L’irreperibilità ufficiale di Battisti veniva accertata il 13 dicembre 2018, quando funzionari della Polizia italiana si erano recati a San Paolo per prenderlo in consegna dopo che Bolsonaro aveva revocato l’asilo concesso dall’ex Presidente Lula, incarcerato nel frattempo a seguito di una sorta di «golpe giudiziario».

L’informatore
Secondo la Polizia Battisti si era allontanato nel mese di novembre. Ricorrendo a servizi tecnici «esterni» – è scritto sempre nel rapporto – veniva ricostruito il percorso effettuato dall’ultimo telefono cellulare di Battisti. L’informazione decisiva perveniva però attraverso un metodo classico, la delazione: da un account di posta elettronica dal nome estremamente evocativo, «judas3636@gmail.com», martedì 4 dicembre 2018, alle ore 16.32, giungeva all’ufficio visti delle sede diplomatica italiana di La Paz il seguente messaggio: «Buon giorno, potremmo fornire informazioni preziose su una persona che state cercando da molto tempo, ciò che vorremmo sapere è cosa potrebbe guadagnare la persona che prende il rischio di fornire informazioni sulla sua posizione esatta. Stiamo parlando di Cesare Battisti. Buona giornata». Il giorno successivo l’autore del messaggio veniva identificato: viveva a Santa Cruz de la Sierra, dove immediatamente si concentrarono le indagini. Il rapporto citava il nome di un altro cittadino boliviano che pare avesse preso in consegna Battisti al suo ingresso nel paese. Le verifiche accertarono che «Judas» e questo secondo uomo erano in contatto e che insieme avevano raccolto Battisti dalla frontiera brasiliana per condurlo in un hotel di Santa Cruz, dove aveva soggiornato dal 16 novembre al 21 dicembre. «Il 7 gennaio perveniva una segnalazione della Digos di Milano concernente la possibile presenza del ricercato nella città di La Paz», a scriverlo in un secondo rapporto erano la Dcpp e lo Scip(2). Le indagini si spostarono nella capitale boliviana, dove Battisti cercava di ottenere protezione da parte delle autorità attraverso contati con settori politici. Appariva chiaro che il suo ingresso in Bolivia era avvenuto in modo precipitoso senza un’adeguata preparazione con contatti politici di livello. Grazie al controllo di una serie di telefoni intestati a prestanome, l’uso d’informazioni d’intelligence che utilizzavano fonti molto informate e servizi di appostamento in settori precisi della città, la trappola attorno al ricercato si chiudeva inesorabilmente, finché nel pomeriggio del 12 gennaio 2019 veniva riconosciuto in strada da agenti della polizia locale e tratto in arresto.

La Digos clona il telefono dell’avvocato
Nel mese di gennaio, mentre si stringeva il cerchio attorno al latitante, la Digos milanese lavorava sul telefono di un suo familiare italiano da lui più volte contattato. Dopo l’iniziale intercettazione della linea telefonica, come da prassi erano stati chiesti al gestore i tabulati con il traffico pregresso. Infine il telefonino era stato clonato, una tecnica che consente di poter leggere da remoto tutte le conversazioni via social che sfuggono alle normali intercettazioni della linea telefonica. Dall’analisi del traffico degli ultimi due anni, trattenuti per legge, emergevano dei contatti tra me e il familiare risalenti all’ottobre del 2017, quando Battisti era stato fermato vicino alla frontiera boliviana e arrestato con l’accusa di esportazione della valuta che aveva con sé. Avevo sentito questa persona per consigliarle di prendere un avvocato ed essere pronta al peggio, nel caso Battisti fosse stato ricondotto in Italia, come sembrava in quel momento. Quando mi chiese aiuto per trovare un legale la misi in contatto con l’avvocato Davide Steccanella, mio amico, che si era reso disponibile a prenderne la difesa nella malaugurata ipotesi di una sua estradizione. Le passai anche il numero del Garante nazionale dei detenuti, perché immaginavo – vista la mia personale esperienza dopo la riconsegna all’Italia nel 2002 – che il trattamento penitenziario riservatogli sarebbe stato dei peggiori. Non avevo tutti i torti, visto quel che poi è accaduto una volta ricondotto in Italia. Avevo conosciuto Battisti a Parigi, anche se non c’era tra noi una frequentazione personale. Ci incontravamo con altri rifugiati più che altro in situazioni di «crisi», quando c’erano discussioni politiche sul da farsi. Avevo invece seguito tutte le vertenze estradizionali, la sua e quella di Marina Petrella, perché ne scrivevo, sia quando ero in carcere che in semilibertà, in particolare quando iniziai a lavorare presso il quotidiano «Liberazione». Al giornale mi avevano affidato anche questo incarico: ho scritto più di settanta articoli sulle vicende dell’esilio, delle estradizioni e della cosiddetta dottrina Mitterrand. Sono stato il primo a intervistare in Italia Tarso Genro, il Ministro della Giustizia brasiliano che aveva concesso la prima forma di asilo a Battisti, e che tutti denigravano senza nemmeno ascoltare le sue argomentazioni(3). Sono bastati questi pochi contatti telefonici con alcuni familiari di Battisti per indurre la Digos ambrosiana a ritenere che io fossi a capo di un «rete» che forniva sostegno ai latitanti sparpagliati in mezzo mondo, una sorta di nuovo «Soccorso rosso internazionale», e l’avvocato Steccanella gestisse dall’Italia la latitanza di Battisti fornendogli contatti in loco. Nella richiesta di acquisizione del traffico telefonico pregresso e delle tracce lasciate dai cellulari e schede trovate addosso a Battisti, datata 28 gennaio 2019, venivamo descritti in questo modo: «si tratta di soggetti che almeno dall’ottobre 2018 avevano costantemente seguito e coadiuvato la latitanza di Battisti con informazioni logistiche, consentendogli di trovare ospitalità e mezzi di trasporto, tramite conoscenti, in terra sudamericana ovvero reperire e utilizzare strumenti di comunicazione idonei a mantenere la rete di contatti in una sorta di “cordone sanitario” della propria latitanza». Il 10 gennaio 2019 la Procura generale dispose la clonazione del telefono dell’avvocato Steccanella con l’obiettivo di poter «reperire ulteriori e più circostanziati elementi utili alla esatta localizzazione del latitante», avvalendosi di una giovane società del settore, la BitCorp, che nel preventivo di spesa (500 euro al giorno) forniva chiarimenti sulle modalità di clonazione, ottenuta effettuando: «una serie di “interrogazioni” ai webservice che servono le applicazioni all’interno del sistema che prendiamo come obiettivo. […] In tale modo si è in grado di ricevere in tempo reale ogni flusso di traffico dati generato o transitato attraverso il dispositivo target, in quanto gli stessi webservice ci riconoscono quali legittimi destinatari del flusso»(4). Di questa clonazione l’avvocato Steccanella è venuto a sapere soltanto nel 2021 quando, dopo aver esaminato il fascicolo, l’ho informato personalmente. La clonazione del cellulare dell’avvocato Steccanella è uno – non il solo – degli episodi più sconcertanti e paradossali di questa inchiesta, poiché era avvenuta quando le stesse indagini avevano accertato che Battisti si era avvalso di contatti locali, dimostratisi del tutto inaffidabili, persino estranei a circoli politici. Molto probabilmente la scelta di indirizzare l’inchiesta verso «complici italiani» rispondeva a input politico-ministeriali e a una sorta di effetto doping che la cattura di Battisti aveva suscitato negli apparati di polizia e nella Procura milanese. Una sorta di rottura dei freni inibitori che aveva lasciato via libera alle pulsioni più paranoiche e alla voglia di regolare i conti con quei pochi che in Italia avevano sempre sostenuto pubblicamente le battaglie contro le estradizioni degli esuli degli anni Settanta.

«L’intercettazione dell’attività difensiva»
Quando, il 14 gennaio, Battisti nominò come suo legale di fiducia l’avvocato Steccanella, che da quattro giorni aveva il telefono clonato, nella Procura di Milano deve esserci stato grande imbarazzo e forse anche qualcosa di più. Con il passaggio formale dell’inchiesta dalla Procura generale, che aveva esaurito la propria competenza con la cattura del latitante e la notifica del provvedimento di esecuzione pena, la direzione delle indagini perveniva nelle mani del Coordinatore della sezione distrettuale antiterrorismo, Alberto Nobili, che apriva una inchiesta per identificare i «complici italiani della latitanza di Battisti», ipotizzando il reato di «assistenza ad appartenenti ad associazione sovversiva» (270 ter). Evaso dal carcere di Frosinone il 4 ottobre del 1981, Cesare Battisti era stato lontano dall’Italia trentotto anni: approdato inizialmente in Francia, si era trasferito in Messico per ritornare a Parigi nel 1990, nel 2004 fuggire di nuovo in Brasile e infine nel 2018 approdare per pochi settimane in Bolivia. Nonostante avesse vissuto buona parte della propria esistenza tra Nord Europa e Centro-Sud America, secondo la Digos e la Procura di Milano i complici della sua libertà, quelli che lo avrebbero appoggiato per decenni, stavano in Italia, anzi stavano nelle carceri italiane. Mentre Battisti era in Francia e in Brasile, dal 2002 al 2014 mi trovavo in un cella italiana a da lì – secondo la Digos milanese – l’avrei appoggiato, senza aver mai conosciuto altri paesi fuorché l’Italia e la Francia, senza parlare una parola di portoghese e spagnolo e saper nulla del Sud America, trovandogli rifugio e contati in Brasile e Bolivia. Appena la Procura prese in mano le redini della nuova inchiesta fece «omissare» dall’indagine i risultati della clonazione effettuata sul telefono dell’avvocato Steccanella e il 24 gennaio 2019 dispose «con precedenza assoluta» l’intercettazione e localizzazione delle utenze del mio intero nucleo familiare e dei familiari di Battisti, che si protrarrà fino al maggio successivo. L’ avvocato Steccanella si era gettato anima e corpo in questa nuova impresa, nel frattempo Battisti era stato rinchiuso nel carcere di Oristano dove, col pretesto dei sei mesi di isolamento diurno previsti nella sentenza di condanna (una pena accessoria eredità dell’epoca fascista), era stata aperta un’ala solo per lui. Di fatto gli era stata costruita attorno una piccola sezione di 41 bis abusivo, nonostante l’ordinamento non consentisse questo regime detentivo per la sua fascia di reato. Non ero per nulla stupito di questo trattamento: nel corso delle conversazioni telefoniche che scambiavo col mio amico avvocato spiegavo che ai rifugiati ricondotti in Italia veniva fatta scontare una pena supplementare, che non stava scritta da nessuna parte, il «reato di esilio». Gli raccontavo la mia esperienza, la condizione di «trofeo della repubblica» sul quale si erano sfogati decenni di frustrazioni suscitate nei vertici delle forze di polizia e della magistratura dal rifiuto delle estradizioni e dalla politica di Mitterrand. Gli ricordavo quel povero magistrato bolognese che durante un interrogatorio mi disse che la Francia da decenni tramava contro la democrazia italiana fornendo riparo agli esuli degli anni Settanta e per questo aveva trasformato Parigi in un «santuario della lotta armata». Era la fine del 2002, e mentre in Parlamento si legiferava sulla stabilizzazione normativa del 41 bis, mi avevano già condotto in isolamento a Marino del Tronto, penitenziario di massima sicurezza dove era presente un importante reparto con regime 41 bis. Se non fosse stato per l’ostinata battaglia di una pattuglia di parlamentari garantisti le nuove norme mi avrebbero spedito sotto quel regime detentivo per il resto della pena.
Il rientro di Battisti in Italia era avvolto da un vuoto giuridico: la Bolivia non lo aveva estradato e la procedura di espulsione non era stata rispettata. E siccome il vuoto in diritto non può esistere, l’unico titolo giuridico che faceva testo era il provvedimento di estradizione brasiliano a cui si ancorava l’accordo bilaterale sulla commutazione della pena dall’ergastolo a trent’anni, concluso dal Ministro della Giustizia Andrea Orlando con l’omologo brasiliano il 7 ottobre 2017. Accordo che aveva sbloccato l’estradizione. Intanto Digos e Polizia di prevenzione ascoltavano le nostre conversazioni telefoniche che riferivano al Pm. Per tutti quei mesi l’intera strategia difensiva costruita dall’avvocato Steccanella è stata intercettata permettendo alla Procura di conoscerla in anticipo ed entrare nei segreti della difesa. Ricorrendo agli strumenti dell’indagine difensiva, l’avvocato Steccanella ottenne dal Ministero della Giustizia copia dell’accordo di commutazione della pena pubblicato dall’«Adnkronos» il 7 maggio 2019, ma le sue richieste davanti alla Corte d’appello di Milano non ottennero successo anche se i giudici sottolinearono che i reati di Battisti non impedivano l’accesso ai benefici di legge.

Note
1/ Questura di Milano, Digos, «Riepilogo attività delegata che ha condotto alla cattura del latitante Battisti Cesare» a firma Vice Ispettore Ivan Pavesi, Vice Questore Cristina Villa, 24 gennaio 2019.
2/ Direzione centrale della Polizia di prevenzione e Servizio per la cooperazione internazionale della polizia, «Relazione di servizio», a firma Giuseppe Codispoti, Emilio Russo, Sandro Chiatto, 23 gennaio 2019.
3/ P. Persichetti, Caso Battisti, parla Tarso Genro: «Anni Settanta in Italia, giustizia d’eccezione non fascismo», «Liberazione», 11 ottobre 2009, anche in, https://insorgenze.net/2009/11/12/caso-battisti-parla-tarso-genro-%c2%abanni-70-in-italia-giustizia-d%e2%80%99eccezione-non-fascismo%c2%bb/; e ancora in, P. Persichetti, «Battisti, Genro: L’italia si è dimostrata autoritaria e arrogante», «Liberazione», 14 novembre 2009, in https://insorgenze.net/2009/11/14/battisti-genro-litalia-e-stata-autoritaria-e-arrogante/.
4/ BitCorp, «Offerta per servizio di intercettazione telematica ibrida e localizzazione su dispositivi mobili», Milano, 8 gennaio 2019.

L’autodafé de Cesare Battisti

Paru dans lundimatin#185, le 2 avril 2019

 

ITALY-CRIME-POLITICS-HISTORY-BATTISTI

/ AFP / Alberto PIZZOLI

Durant l’inquisition espagnole, se tenaient de solennelles cérémonies publiques au cours desquelles on donnait lecture des jugements de condamnation et on célébrait les abjurations. Y participaient juges, fonctionnaires, ordres religieux, condamnés et public rassemblé sur une place où était érigé une estrade. L’issue de ces autodafés pouvaient être heureuse ou malheureuse, et dans le pire des cas le fait d’avoir sauvé son âme obligeait le coupable à remercier ses propres bourreaux.

L’autodafé de Cesare Battisti s’est tenu, comme il convient en ces temps ultramodernes et postdémocratiques, dans une salle de tribunal de Milan devant un public de journalistes et de télévisions. Il y avait les juges mais il manquait le coupable qui était passé aux aveux dans la prison d’Oristano deux jours plus tôt. Pour Battisti, le supplice public avait déjà eu lieu le jour de son arrivée en Italie. Dans les procès acutels, le coupable entre seulement nominativement dans le tribunal parce que son lieu prédestiné est la prison, bien avant la condamnation, d’où il peut se connecter – s’il le souhaite – par vidéoconférence. Une présence virtuelle résiduelle pour empêcher qu’on crie à l’abolition définitive des droits de la défense. Pour Battisti, les choses ont été encore plus simples : durant le procès, il n’était pas présent, on l’a condamné au maximum de la peine et 40 ans plus tard, il a avoué au fond de ce puits de 3 mètres sur 4 qu’est sa cellule isolée dans la prison d’Oristano. Ainsi s’est refermé le cercle de la justice !C’est ce qu’a écrit pour Repubblica, avec une grande satisfaction, le procureur Armando Spataro, responsable à la fin des années 70, de l’enquête contre les PAC, groupe dans lequel militait Battisti, d’après lequel il serait faux « que le système judiciaire ne soit pas en mesure de garantir les droits des accusés de terrorisme », au point que « le système italien est étudié comme un modèle vers lequel tendre ». Cette dernière affirmation est sans doute vraie : la « leçon italienne », en fait, a été un laboratoire qui a enseigné au monde comment constitutionnaliser l’urgence, en transformant en règle générale ce qui n’était jusque-là la suspension de la norme dans un espace et un temps donné. Discours repris aussi dans Libération, par Laurent Joffrin qui, sans réussir à éviter une prose percluse d’incessants oxymores, a reconnu à la démocratie italienne d’avoir « traversé l’épreuve sans renoncer, en substance, aux principes de l’Etat de droit.(…) Les membres des groupes terroristes ont été poursuivis avec énergie, mais condamnés la plupart du temps au terme de procès en bonne et due forme ». En réalité, à côté du maintien des « formes », c’est précisément la « substance » de l’Etat de droit qui a subi des modifications. S’il est vrai qu’on n’a pas créé de juridictions spéciales, et que les procès, même devenus « maxi-procès », ont été conduits devant des cours d’assises normales, il est tout aussi vrai que celles-ci ont invoqué des lois spéciales, des exceptions procédurales, des critères de faveurs et de différentiation : en somme un vaste arsenal d’exception qui a doublé les peines, étendue de manière démesurée la notion de complicité jusqu’à des formules elliptiques comme celle de « complicité morale ou psychique », inexistantes dans les autres codes européens, et à plusieurs reprises condamnées par les tribunaux français, multiplié les détentions préventives, renversé la charge de la preuve, érigé la parole intéressées des repentis en fondement des accusations. Sans oublier les tortures du professeur De Tormentis, désormais reconnues même par les tribunaux. Mais l’oxymore à la fin renverse la prose du directeur der Libération qui ajoute : « La « guerre » déclenchée là-bas par les activistes d’extrême gauche s’appuyait sur une analyse en partie juste, mais au bout du compte fausse, de la démocratie en Italie. »

En 1990, ce fut la magistrature française et non pas la doctrine Mitterrand qui déclara Battisti inextradable

Ce qu’on raconte dans la presse italo-française n’est pas vrai : Battisti ne s’est pas toujours déclaré innocent. En 1990, quand il fut visé par une première demande d’extradition provenant de l’Italie, la magistrature française considéra comme irrecevable la requête italienne parce que son procès conclu sur une condamnation, s’était tenu par contumace. A la différence de l’Italie, quand en France un accusé a été condamné en son absence, il a le droit à un nouveau procès une fois revenu à disposition de la justice. Ce fut donc la cour d’appel de Paris qui déclara Battisti inextradable. Décision juridique qui renforçait la politique d’asile de fait résumée dans la formule « doctrine Mitterrand ».Pendant 23 ans, du moment de sa fuite de l’Italie jusqu’à sa seconde arrestation en 2004, réalisée en violation du principe de l’autorité de la chose jugée, Battisti n’avait jamais recouru à la stratégie innocentiste. Le changement survint quand, sous la pression de certains milieux intellectuels et éditoriaux français qui l’avaient adopté, il décida de s’éloigner du cabinet De Félice-Terrel, qui avait historiquement défendu une grande partie des exilés italiens.

La campagne innocentiste

Présentée comme un changement radical après sa libération en mars 2004, la décision soudaine et brutale de faire recours à la catégorie de l’innocence fut assumée dès le début aux dépens de ses compagnons de destin, comme pour souligner que la distance intervenue avec sa vieille communauté serait devenue une valeur ajoutée. Les autres réfugiés furent accusés de l’avoir mis sous pression, carrément bâillonné, le tout sans épargner les jugements dénigrants à l’égard des autres formations politiques armées des années 70 différentes de celles de son petit groupe d’appartenance. Tandis que ses vieux avocats et compagnons d’exil le mettaient en garde, devant le risque que représentait ce choix, en lui rappelant que la procédure d’extradition n’était pas une anticipation du jugement du procès, ni un dernier degré du procès, mais une instance juridique où les requêtes provenant d’Italie étaient évaluées en fonction de leur conformité aux normes internationales et internes, certains de ses soutiens laissaient entendre que la défense nécessaire n’avait pas été développée auparavant parce qu’elle aurait pu « nuire à la protection collective accordée sans distinction des actes commis », à la « petite communauté des réfugiés italiens, protégée pendant plus de 20 ans par la parole de la France » (Le Monde du 23 novembre 2004). En plus d’insinuer, devant l’opinion publique, que la communauté des exilés était une communauté de « coupables » qui empêchaient l’unique « innocent » de se défendre, on leur attribuait un rôle de censeurs jusqu’à dépeindre les exilés comme une bande de cyniques inquisiteurs qui lançaient des excommunications.L’offensive médiatique massive menée par de nombreux et éminents défenseurs de son innocence revint à offrir des prétextes inespérés et des appuis objectifs aux partisans de l’urgence judiciaires, la plupart du temps avec des arguments inadaptés, superficiels et caricaturaux, alors même que le parquet antiterroriste italien n’avait que des arguments mystificateurs de la réalité historique et des vicissitudes judiciaires de ces années-là (rappelons que Spataro lui-même, contredisant le jugement, soutint longtemps que Battisti était directement impliqué dans dans l’assassinat de Torregiani.)

L’exil brésilien

Après que le gouvernement français eut concédé l’extradition et qu’il se fut réfugié au Brésil, l’affaire Battisti se poursuivit sur deux trajectoires : tandis que la campagne publique réitérait la ligne innocentiste, l’affrontement juridique devant le tribunal suprême fédéral et au niveau politique se centra sur l’urgence judiciaire qui avait caractérisé les enquêtes et les procès en Italie, et sur la peine de la perpétuité, sanction absente du code pénal brésilien, jusqu’au refus de l’extradition par le président Lula au terme de son mandat, le 31 décembre 2010.Une fois Delma Roussef, successeuse de Lula à la présidence, destituée, et après le coup d’Etat judiciaire du duo Moro-Bolsonaro, le premier procureur et le second candidat présidentiel, qui s’est concrétisé par l’arrestation de Lula, le destin de Battisti paraissait scellé. Arrêté, après s’être réfugié en Bolivie, il a été conduit en Italie dans le plus total vide juridique, par un pur acte de force, sans mesure régulière d’expulsion du pays, comme en témoigne le fait qu’il a été initialement pris en charge par la police brésilienne et ensuite arrêté sur la passerelle de l’avion qui devait le ramener à Sao Paulo, pour être remis à une équipe italienne arrivée en toute hâte sur les lieux. Artifice mis au point pour empêcher l’application de la clause de commutation de la peine de perpétuité à une peine de 30 ans, sur laquelle l’Italie et le Brésil s’étaient mis d’accord en octobre 2017, et indiquée dans la mesure d’extradition signée par le président Michel Temer, qui avait succédé à Dilma Roussef.

Extraordinary rendition et réclusion spéciale

Après l’arrivée en Italie et l’obscène cérémonie de Ciampino, Battisti a été soumis à un régime de détention extraordinaire qui va bien au-delà de la peine de six mois d’isolement diurne prévue par le jugement. Isolement que la cour d’Assises de Milan, entre temps, n’a pas retenu comme prescrit, malgré l’évidence des décennies passées, parce que – selon ses mots – l’imprescribilité de la perpétuité se « reflète » sur le segment de peine autonome de l’isolement diurne qui, rappelons-le, n’est pas une modalité d’exécution de la détention, mais une peine supplémentaire. Bien que les délits qui lui sont attribués n’entrent pas dans le cadre de ceux impliquant ce régime, Battisti est enfermé dans une cellule d’une section de la prison d’Oristano aménagée pour lui et dont il restera l’hôte unique une fois la période d’isolement diurne terminée. Une sorte de « zone réservée du 41bis » (régime spécial d’isolement total réservé aux mafieux et à quelques « terroristes » NdT) , réalisée en contournant les normes de l’organisation pénitentiaire. Un régime de détention conçu pour extorquer des déclarations au même titre que le 41bis officiel et qui a poussé Battisti à avouer des crimes sans avoir jamais pris part à son propre procès.

Les aveux

Dans le système judiciaire italien, la notion de culpabilité a été renversée par l’imposant arsenal législatif des récompenses. Le discriminant essentiel est devenu de fait le comportement du prévenu, la démonstration de sa soumission, le degré de repentir ou de collaboration. A égalité de délit et de responsabilité pénale, sont rendus des jugements et des traitements pénitentiaires très différents. La logique des récompenses a modifié les frontières de la culpabilité et de l’innocence. On peut être coupable et récompensé, innocent et puni. Ce que l’on est compte plus que ce qui a été fait. Battisti, malheureusement, n’a pas eu la force de se battre contre cette situation.

L’autodafé di Cesare Battisti

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Durante l’Inquisizione spagnola si tenevano delle solenni cerimonie pubbliche nel corso delle quali si dava lettura delle sentenze di condanna e si celebravano le abiure. Vi partecipavano i giudici, i funzionari, gli ordini religiosi, i rei e il pubblico radunato in una piazza dove era stato eretto un palco. Gli esiti di questi autodafé potevano essere fausti o infausti, ed anche nel caso peggiore l’aver avuto salva l’anima obbligava il colpevole a dover ringraziare i propri carnefici.
L’autodafé di Cesare Battisti si è tenuto, come si conviene in tempi ultramoderni e di postdemocrazia, in una sala del tribunale di Milano davanti ad un pubblico di giornalisti e televisioni. C’erano i giudici ma mancava il reo che aveva reso confessione nel carcere di Oristano due giorni prima. Per Battisti il supplizio pubblico era già avvenuto al momento del suo arrivo in Italia. Nei processi attuali il reo entra solo nominalmente in tribunale poiché il suo luogo predestinato è la prigione, ben prima della condanna, da dove può collegarsi – se ritiene – in videoconferenza. Una residua presenza virtuale per impedire che si possa gridare alla cancellazione definitiva dei diritti della difesa. Per Battisti le cose sono state ancora più semplici: durante il processo non era presente, lo hanno condannato al massimo della pena e quarant’anni dopo ha confessato dal fondo di quel pozzo di 3 metri per 4 che è la sua cella isolata del carcere di Oristano. Così il cerchio della giustizia si è chiuso!
Lo ha scritto per Repubblica, con grande soddisfazione, il procuratore Armando Spataro, titolare alla fine degli anni 70 dell’inchiesta contro i Pac, gruppo nel quale militava Battisti, secondo cui sarebbe falso «che il sistema giudiziario non sia stato in grado di garantire i diritti degli accusati di terrorismo», tanto che «il sistema italiano è studiato come modello verso cui tendere». Quest’ultima affermazione è senza dubbio vera: la «lezione italiana», infatti, è stata un laboratorio che ha insegnato al mondo come costituzionalizzare l’eccezione, rendendola regola permanente e non più sospensione nello spazio e nel tempo della norma.
Discorso questo, ripreso anche da Laurent Joffrin, su Libération, che senza riuscire ad evitare una prosa accidentata da ossimori continui ha riconosciuto alla democrazia italiana di aver «traversato la prova senza rinunciare, nella sostanza, ai principi dello Stato di diritto. Gli appartenenti alle formazioni terroristiche sono stati perseguiti con energia, ma condannati nella gran parte dei casi alla fine di processi condotti secondo le regole». In realtà, a fronte di mantenimento delle «forme» è proprio la «sostanza» dello Stato di diritto che ha subito delle modifiche. Se è vero che non sono state introdotte giurisdizioni speciali, ma i processi, seppur divenuti “maxi”, sono stati condotti dalle normali corti d’Assise, è altresì vero che queste si sono avvalse di leggi speciali, eccezioni procedurali, criteri premiali e differenziali: insomma un ampio arsenale d’eccezione che ha raddoppiato le pene, esteso a dismisura l’uso del concorso fino a formule ellittiche come quello «morale o psichico», inesistente negli altri codici europei, e ripetutamente censurato dalle Chambres francesi, moltiplicato la custodia preventiva, capovolto l’onere della prova, eretto la parola remunerata dei pentiti a fondamento delle accuse. Senza dimenticare le torture del professor De Tormentis, ormai accertate anche dai tribunali. Ma l’ossimoro alla fine travolge la prosa del direttore di Libération che aggiunge: «La “guerra” innescata dagli attivisti dell’estrema sinistra si fondava su un’analisi giusta, ma alla fine dei conti falsa, della democrazia in Italia».

Nel 1990 fu la magistratura francese non la dottrina Mitterrand a dichiarare inestradabile Battisti
Non è vero quel che si racconta sulla stampa italo-francese: Battisti non si è dichiarato sempre innocente. Nel 1990, quando fu oggetto della prima domanda di estradizione proveniente dall’Italia, la magistratura francese ritenne irricevibile la richiesta italiana poiché il processo e la condanna nei suoi confronti, come di altri suoi coimputati, si erano tenuti in contumacia. A differenza dell’Italia, quando in Francia un imputato è stato condannato in sua assenza ha diritto ad essere riprocessato una volta presente. Fu dunque la corte d’appello di Parigi a ritenere inestradabile Battisti. Decisione giuridica che rafforzava la politica di asilo di fatto riassunta nella formula della «dottrina Mitterrand».
Per 23 anni, dal momento della sua fuga dall’Italia fino al suo secondo arresto del 2004, realizzato in violazione del ne bis in idem, Battisti non aveva mai fatto ricorso alla strategia innocentista. La svolta avviene quando, sotto la pressione di alcuni ambienti intellettuali e editoriali francesi che lo avevano adottato, decise di mollare lo studio legale De Félice-Terrel, che aveva storicamente difeso gran parte dei fuoriusciti italiani.

La campagna innocentista
Presentata come una radicale svolta dopo la scarcerazione del marzo 2004, la decisione repentina e brutale di fare ricorso alla categoria dell’innocenza venne assunta fin da subito a discapito dei suoi compagni di destino, quasi a sottolineare che la distanza frapposta con la sua vecchia comunità fosse d’improvviso divenuta un valore aggiunto. Il resto dei fuoriusciti fu accusato di averlo condizionato, addirittura imbavagliato, il tutto senza risparmiare giudizi denigratori nei confronti di altre formazioni politiche armate degli anni Settanta diverse dal suo piccolo gruppo d’appartenenza. Mentre i suoi vecchi legali e compagni di esilio lo mettevano sull’avviso, di fronte al rischio che rappresentava quella scelta, ricordandogli che la procedura d’estradizione non era un’anticipazione del giudizio processuale, né un ulteriore grado del processo, ma una sede giuridica dove le richieste provenienti dall’Italia venivano valutate sotto il profilo della conformità con le norme internazionali e interne, alcuni suoi sostenitori lasciavano intendere che la difesa di merito non era stata intrapresa in precedenza perché avrebbe potuto «nuocere alla protezione collettiva accordata senza distinzione degli atti commessi», alla «piccola comunità dei rifugiati italiani, protetta da oltre vent’anni dalla parola della Francia» (Le Monde del 23 novembre 2004). Oltre a insinuare, di fronte all’opinione pubblica, che quella dei fuoriusciti fosse una comunità di “colpevoli” che impedivano all’unico “innocente” di difendersi, veniva attribuito loro un ruolo censorio fino a designare i fuoriusciti come una combriccola di cinici inquisitori che lanciavano scomuniche.
Anche la massiccia offensiva mediatica condotta dai molti e autorevoli sostenitori della sua innocenza in punto di fatto offrì pretesti insperati e sponde oggettive ai sostenitori dell’emergenza giudiziaria, il più delle volte con argomenti impropri, superficiali e caricaturali, nonostante le procure antiterrorismo avessero solo argomenti mistificatori della realtà storica e delle vicissitudini giudiziarie di quegli anni (ricordiamo come lo stesso Spataro, contraddicendo la stesse sentenze, sostenne per lungo tempo che Battisti fosse direttamente coinvolto nell’uccisione di Torregiani).

L’esilio brasiliano
Rifugiatosi in Brasile, dopo che il governo francese aveva concesso l’estradizione, l’affaire Battisti proseguì su due binari: mentre la campagna pubblica reiterava la linea innocentista, lo scontro giuridico davanti al Tribunale supremo federale e in sede politica si incentrò sull’emergenza giudiziaria che aveva contraddistinto le inchieste e i processi in Italia e sulla pena dell’ergastolo, sanzione assente nel codice penale brasiliano, fino al rifiuto dell’estradizione firmato dal presidente Lula alla scadenza de suo mandato, il 31 dicembre 2010.
Una volta spodestata Dijlma Roussef, succeduta a Lula alla presidenza del Brasile, e dopo il golpe giudiziario del duo Moro-Bolsonaro, il primo procuratore e il secondo candidato presidenziale, concretizzatosi con l’arresto dello stesso Lula, il destino di Battisti appariva segnato. Arrestato, dopo essere riparato in Bolivia, è stato condotto in Italia nel più totale vuoto giuridico, con un puro atto di forza, senza una regolare misura di espulsione da quel Paese, come testimonia il fatto che fu inizialmente preso in consegna dalla polizia brasiliana e successivamente fermato sulle scalette dell’aereo che doveva ricondurlo a São Paulo, per essere consegnato ad una squadra italiana giunta in tutta fretta sul posto. Artificio congegnato per impedire l’applicazione della clausola di commutazione della pena dell’ergastolo a 30 anni, concordata con l’Italia nell’ottobre 2017, e indicata nel provvedimento di estradizione firmato dal presidente Michel Temer, succeduto a Dijlma Roussef.

Consegna straordinaria e reclusione speciale
Giunto in Italia, dopo l’oscena cerimonia di Ciampino Battisti è stato sottoposto ad un regime detentivo straordinario che esula dalla stessa pena dell’isolamento diurno di sei mesi previsto in sentenza. Isolamento che la corte d’Assise di Milano, nel frattempo, non ha ritenuto prescritto, nonostante l’evidenza dei decenni trascorsi, perché – a suo dire – l’imprescrittibilità dell’ergastolo «si riverbera» sul segmento di pena autonoma dell’isolamento diurno, che – ricordiamo – non è una modalità di esecuzione della detenzione ma è ulteriore pena a tutti gli effetti.
Nonostante le sue imputazioni non rientrino per ragioni cronologiche nella fascia dei reati ostativi, Battisti è rinchiuso in una cella all’interno di una sezione del carcere di Oristano adibita per lui e di cui resterà l’unico ospite una volta terminato il periodo di isolamento diurno. Una sorta di “area riservata del 41 bis” del tutto abusiva, realizzata aggirando le norme dell’ordinamento penitenziario. Un regime detentivo concepito per estorcere dichiarazioni al pari del 41 bis ufficiale e che ha spinto Battisti a confessare dei reati senza aver mai preso parte al proprio processo.

La confessione
Nel sistema giudiziario italiano la nozione di colpa è stata stravolta dall’imponente arsenale legislativo premiale. Il discrimine essenziale è divenuto infatti il comportamento tenuto dal reo, la sua prova di sottomissione, il grado di ravvedimento o collaborazione. A parità di reato e responsabilità penale vengono emesse sentenze e offerti trattamenti penitenziari molto diversi. La logica della premialità ha modificato i confini della colpa e dell’innocenza. Si può esser colpevoli e premiati, innocenti e puniti. Conta più ciò che si è di quel che si è fatto. Battisti, purtroppo, non ha avuto la forza di battersi contro questa situazione.

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