L’«amnistia sociale» per tutti quelli (tanti) che criticano il potere

Ci battiamo da anni contro un sistema carcerario fuorilegge, per l’amnistia, l’indulto, insieme a decine di associazioni

Giovanni Russo Spena, il manifesto 12 Settembre 2013

Oggi ci è inibito da larga parte delle sinistre.È inutile precisare,con argomenti e scienza giuridica che Berlusconi non potrebbe fruire delle nostre proposte di amnistia. Ha ragione Bascetta: nel nome del cosiddetto «antiberlusconismo» il merito di ogni questione, ogni principio può essere sacrificato,lasciando campo libero al giustizialismo populista e all’ipertrofia punitiva in un carcere diventato sempre più una struttura classista.
Sento, allora, il dovere di aggiungere la mia modesta testimonianza alle argomentazioni di Pepino, Gianni, Corleone, Gonnella, Romeo. Forse possiamo cogliere l’occasione per squarciare ipocrisie,per aprire, dopo anni di rimozione istituzionale, finalmente, un «dibattito sul diritto penale che vogliamo e sulle modalità di gestione del conflitto sociale». Terreni su cui le sinistre hanno fatto bancarotta e che ritengo, invece, fondativi per la costruzione di una sinistra alternativa. Non sono temi collaterali, da specialisti marginali, così come, ad esempio, non lo è l’organizzazione dei migranti. Ritengo, anzi, che il contesto, con la connessione tra crisi del liberismo, recessione, postdemocrazia (il capitale pretende, e ottiene dalle maggiori forze politiche, una ex democrazia costituzionale) ci induca ad assumere la centralità della campagna per l’«amnistia sociale» (bene illustrata da Romeo sul manifesto qualche giorno fa. Parlo della guerra che il potere ha aperto contro migranti, movimenti, settori sindacali, militanti politici, grumi di resistenza sociale. Vengono applicati spesso, contro ragazze e ragazzi, figure di reato (devastazione,saccheggio) inusuali, che Mussolini pretese per gli oppositori del regime. Correttamente Pepino scrive di un’amnistia che guarda al futuro «perché sia l’anticipazione di un sistema penale diverso che includa i reati che stigmatizzano le persone ma escludendo quelli che destano allarme sociale. Come i reati fiscali». Va combattuto il paradigma impostosi negli anni del «diritto del nemico» (il «nemico migrante clandestino» ne è metafora, per le legislazioni emergenzialiste, ma anche per le ordinanze di tanti sindaci, anche del Pd). Ho vissuto di persona l’amnistia (che Pepino descrive) del’70. Essa da un lato proiettò la sua forza politica sul miglioramento della generale condizione carceraria (è sempre cosi: i provvedimenti di clemenza preparano ed agevolano riforme strutturali), dall’altro lato ricostruì un equilibrio sociale che era stato rotto dalla repressione di stato contro conflitto operaio, agrario, studentesco. Proprio qui siamo ora. Denunce di attivisti sociali, condanne, penalizzazione e carcerizzazione di circa ventimila persone (in quotidiana crescita), colpevoli di lotta di classe, a cui viene impedito il già aspro percorso lavorativo, con applicazione di misure dettate da una logica strisciante, anche negli apparati statali, di «stato di eccezione», di «stato penale» (fogli di via, sorveglianze speciali, ecc.). La Val Susa e tutte le zone di insediamento di discariche, inceneritori, grandi abnormi impianti sono diventate «zone rosse» (a controllo e disciplina militare); e il diritto di resistenza,anche il più aspro, contro la militarizzazione è dentro i principi della legalità internazionale. Le fabbriche in lotta (da Pomigliano alla Irisbus) sono militarmente presidiate. Le lotte per il diritto all’abitare diventano associazioni sovversive. E così via. La guerra giudiziaria contro la critica del potere agita concretamente i mille rivoli carsici nei territori. Con la proposta di «amnistia sociale» ci richiamiamo a diritti costituzionali vissuti, non solo proclamati. Posso permettermi di proporre che anche questo tema sia assunto all’interno dell’importante «via maestra» del 12 ottobre?

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Luciano Muhlbauer, G8 Genova, Marina, Alberto e Gymmi siamo noi

Aveva trascorso in carcere 40 anni della sua vita. E’ morto 2 giorni fa alla Molinette di Torino. Si chiamava Giuseppe Ciulla

8164158303_82022db094_nL’avevo conosciuto al Mammagialla di Viterbo tra il 2003 e il 2004. Veniva dal Penale di Rebibbia da dove era stato allontanato perché considerato indesiderabile. Finire al Mammagialla voleva dire una cosa sola: trovarsi in punizione. La casa circondariale di VIterbo era (e da quanto ne so ancora non è cambiata) un “istituto eminentemente custodiale”, che tradotto vuol dire con un regime detentivo rigido: celle sempre chiuse, poche attività “trattamentali”, accesso a misure alternative e benefici pressoché nullo. Insomma un carcere punitivo dove si sta chiusi e basta.
Ma Giuseppe Ciulla, così si chiamava, per così poco non si scoraggiava affatto. Ne aveva viste di molto peggio nella sua lunga carriera penitenziaria. Il carcere era la sua vita. C’era entrato a 27 anni e fatta eccezione per un breve periodo, circa un anno e mezzo, non era più uscito. Alla fine quasi quarant’anni in tutto. Diciotto di fila la prima volta e poi il resto. Ho letto la notizia della sua morte sul notiziario di Ristretti orizzonti. Da alcuni anni avevo perso le sue tracce. L’ultima volta che gli avevo scritto era in un centro clinico penitenziario, credo a Pavia, ma la lettera mi tornò indietro. Gli avevo mandato copia di una sentenza della Cassazione che poteva essergli utile per la battaglia che conduceva da tempo, vedersi riconosciuta la sospensione della pena per gravi motivi di salute. Era ancora a Viterbo con me quando fu mandato d’urgenza in ospedale. Una grave forma di diabete gli aveva provocato una cardiopatia molto seria. Lo operarono e da allora non si è mai ripreso veramente. Mi scriveva di sentire continuamente forti dolori al petto.
A Viterbo era arrivato a causa delle uova, tre uova tirate al direttore di Rebibbia, mancandolo. Il diabete gli aveva attinto la vista. Ci vedeva poco e dunque mancò il bersaglio. Raccontava ridacchiando che gli ispettori della custodia non gli rimproverarono tanto il suo gesto quanto non aver centrato il bersaglio.
Da ragazzo aveva ottenuto il diploma di perito elettronico, raccontava che per questo aveva dato il suo piccolo contributo durante la rivolta nel carcere di Trani, lui che non c’entrava nulla con i politici ma che aveva incrociato perché all’epoca per ragioni disciplinari era riuscito a farsi differenziare finendo negli speciali. Dalle radio e le televisioni, di cui si era occupato come riparatore in una delle sue prigioni passate, era diventato un appassionato di computer, di hardware soprattutto. Smontava e rimontava, leggeva tonnellate di riviste specializzate. Il suo sogno era quello di assemblare un mega computer. E così un componente alla volta si era fatto inviare a Rebibbia penale, dove il regime detentivo molto liberale lo consentiva, una super macchina. Ma la paranoia che qualcuno potesse metterci le mani dentro lo spinse a congegnare una password invalicabile di 36 caratteri, tra lettere e numeri. Una follia. Ovviamente perse presto l’appunto con la pass, impossibile da ricordare per la sua lunghezza, e così il computer divenne inutilizzabile. Chiese di farlo uscire per inviarlo ad una società specializzata, il che dopo un’estenuante tira e molla burocratico gli venne concesso. Solo che, una volta uscito, il computer non rientrò più. La Direzione non concesse mai l’autorizzazione. Iniziò così una lunga prova di forza con Ciulla che faceva istanze, riempiva domandine senza successo. Nel frattempo la rabbia montava, la convinzione di subire un torto personale anche, una sorta di persecuzione mirata, fino al lancio senza successo delle uova. In poche ore dovette fare il sacco e salire su un blindato direzione Mammagialla, la prigione dei reprobi del Lazio.
Non so perché, non ricordo più, ma era stato chiamato al casellario (il magazzino), forse per dei libri che mi erano arrivati. Il regime Eiv (elevato indice di sorveglianza) a cui ero sottoposto prevedeva un controllo sistematico dei materiali di lettura che ricevevo. Il carcere doveva fotocopiare le copertine, raccoglierle in una cartellina ed inviarle ad un apposito ufficio del Dap che le verificava. Per farne cosa? Stilare il mio profilo ideologico-culturale, controllare l’evoluzione dei miei interessi, oppure farsi le seghe. Con tutti quei testi in francese chissà cosa avranno mai capito?
Una volta in magazzino vidi appesa sulla parete una gabbietta con dentro dei pappagallini. Chiesi di chi fossero.
– Di un ergastolano, mi disse la guardia.
– In questo istituto non possono entrare. Abbiamo avvertito la Lipu che ora verrà a prenderli.
Quei pappagalli erano di Ciulla. Lui era qualche cella prima della mia. Quando capii che i piccoli volatili erano i suoi ci andai a parlare. Iniziò un lungo racconto. Quegli animali erano il suo mondo affettivo. Separato da moglie e figli, non aveva altro. A Rebibbia vivevano liberi nella cella (scusate l’ossimoro), potevano anche uscire dalla finestra, tanto facevano piccoli voli, qualche giro e poi tornavano. Nella sua vita aveva ucciso due volte, la seconda aveva ammazzato la madre. «Quella lì», diceva quando ne parlava senza mai pronunciare il nome. Verso di lei covava ancora un odio profondo, terribile. Era un sentimento che mi turbava. Mi chiedevo quale trauma originario avesse scatenato quel conflitto insieme a tanta avversione. La famiglia l’aveva ripudiato.
Eppure Ciulla sapeva essere affettuoso, leale, quasi un bambino. Un detenuto d’altri tempi, con le sue regole un po’ all’antica anche se all’improvviso il suo umore poteva scurirsi.  Riusciva ad accumulare un risentimento senza fine, un odio profondo che poteva scatenarsi in crisi d’ira senza controllo contro il carcere e tutto ciò che lo rappresentava. Era in eterno conflitto con “l’amministrazione” senza saper elaborare un minimo di strategia efficace. Quella guerra lo teneva in vita. Un probabile disturbo della personalità lo rendeva a quel punto paranoico. Non saprei dire quanto tutto ciò esistesse già prima dell’entrata in carcere o fosse una naturale conseguenza di quel lunghissimo imprigionamento e dei mille soprusi subiti. Chiamato davanti al comandante o al direttore era capace di fare mostra di sferzanti monologhi infarciti di dotte citazioni che studiava nella sua testa per giorni, ripetendoli a memoria.
Con lucida onestà un’educatrice, che aveva preso parte ad un consiglio di disciplina nei suoi confronti, mi raccontò una volta d’aver detto agli altri membri del collegio esterrefatti dal suo show:
– Tutto questo odio l’abbiamo prodotto noi. Questa persona è il risultato dell’istituzione. Un fallimento.
Ciulla era un maestro di ricette carcerarie. Siciliano, si inventava manicaretti carichi di calorie, che certo non facevano bene al suo diabete. Era un mago nel ricucinare la casanza. Per oltre un anno ho mangiato con lui, guardato con stupore dagli altri. Giuseppe si fidava molto di me, ed io riuscivo a calmarlo. Nelle ore di socialità aveva sempre un aneddoto su qualche carcere dove era stato, un racconto su un lontano episodio. Sembrava che non fosse mai stato fuori. Il suo era un mondo dentro.
Anche se la sua vista era menomata, era abilissimo con le mani. Aveva imparato a lavorare la creta. Ma al Mammagialla non era possibile, non era ammesso e quindi faceva oggetti con la pasta di pane che poi dipingeva. Me ne ha regalati diversi. Anche una falce e martello, sì perché il suo cuore era socialista.
Ora Giuseppe se n’è andato. Morto di ergastolo. Penso alla sua solitudine. Avrà forse pensato che anch’io l’ho abbandonato. Un’altro di quelli che non tengono la parola.
Ciao Giuseppe, ci siamo accompagnati per un po’ tra quelle mura.
Speravo riuscissi a resistere per vedere prima o poi alleggerire la tua pena.

(fonte Ristretti orizzonti)
Ergastolano di 67 anni muore a Torino: da inizio anno sono deceduti 8 detenuti ultra 65enni
Giuseppe Ciulla, che stava scontando l’ergastolo nel carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino, è morto nel pomeriggio di venerdì 18 maggio scorso nel Repartino Detenuti dell’Ospedale “Molinette”, dove era stato trasportato a seguito dell’aggravamento delle patologie di cui soffriva.
Con il decesso di Giuseppe Ciulla salgono a 71 i detenuti che hanno perso la vita da inizio anno (21 per suicidio, 32 per malattia e 18 per cause “da accertare). Otto di loro avevano più di 65 anni e 5 avevano superato i 70 anni, limite oltre il quale è possibile scontare la pena in detenzione domiciliare presso la propria abitazione, o presso un luogo di cura, come previsto dalla Legge n. 251 del 5 dicembre 2005 (cosiddetta “ex-Cirielli”, o anche “Salva Previti”).
Nonostante la suddetta norma sia in vigore da oltre 7 anni, 31 dicembre 2012 gli ultrasettantenni presenti nelle carceri italiane risultavano ben 587, mentre i detenuti con un’età compresa tra i 60 ed i 70 anni erano 2.489.
L’attuale situazione carceraria, caratterizzata in molti Istituti di Pena da sovraffollamento, condizioni igieniche ed ambientali degradate, carenze dell’assistenza sanitaria e insufficiente presenza di Personale penitenziario, per i detenuti anziani rappresenta una vera e propria condanna a “morire di carcere”.

Detenuti ultra 65enni morti nelle carceri italiane da inizio anno 

Cognome

Nome

Età

Data morte

Causa

Carcere

Ciulla Giuseppe

67 anni

18-mag-13

Malattia Torino
G. Pierino

73 anni

8-mag-13

Malattia Teramo
Bombaker Sliman

78 anni

2-mag-13

Malattia San Vittore (Mi)
De Deker Jacques

66 anni

31-mar-13

Malattia Sassari
Iaria Giovanni

65 anni

12-feb-13

Malattia Asti
Pasquini Francesco

77 anni

3-feb-13

Suicidio Lanciano (Ch)
Finotto Savino

70 anni

20-gen-13

Malattia Udine
Paradiso Michele

76 anni

19-gen-13

Malattia Vibo Valentia


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«La malafede di quei detenuti che abusano dei loro diritti», i pensierini del direttore di un carcere italiano

Prefazione di PierPaolo D’Andria, all’epoca direttore della Casa Circondariale di Viterbo-Mammagialla al libro di padre Alfredo Cento

I Cappellani del carcere di Viterbo (1885-2005)  a cura del GAVAC 2006

[…]

Non v’è dubbio che, nella società italiana, grazie al maggiore grado di istruzione dei cittadini ed alle spinte normative degli ultimi decenni, i destinatari delle norme di diritto sostanziale e processuale [tradotto vuole dire: quelli che incorrono in sanzioni penali o, più in generale, hanno a che fare con l’amministrazione giudiziaria, definiti anche “utenti” nei documenti interni prodotti dai professionisti della correzione] siano più consapevoli degli strumenti che la legge mette a loro disposizione per far valere la tutela dei propri interessi individuali e collettivi[1].

Anche l’ambiente interno al carcere, quale microcosmo in grado di rispecchiare i mutamenti della società, vede oggi un diverso atteggiamento del detenuto rispetto all’Amministrazione penitenziaria. I ristretti [tradotto: i carcerati] hanno piena certezza che lo stato di detenzione, in via cautelare o penale, non comporta affatto una capitis deminutio. Essi [i fedigrafi] sono ben consapevoli, non solo dei diritti che l’Ordinamento penitenziario ed il suo Regolamento di esecuzione prevedono in capo all’utenza, ma anche degli strumenti che le medesime fonti attribuiscono al detenuto per far valere le proprie posizioni giuridiche soggettive davanti alla competente autorità giudiziaria[2].

Tale evoluzione va considerata più obbiettiva e imparziale dell’esecuzione penitenziaria. Tuttavia, in un Paese che  si contraddistingue per la storica vocazione ad oscillare fra l’estremo dell’attribuzione allo Stato di “poteri forti” (si pensi alle periodiche “legislazioni dell’emergenza”) e l’estremo opposto del così detto “iper-garantismo”, non va sottovalutato il rischio di “cortocircuiti” causati dalla straripante attenzione ad ogni in-put proveniente dai soggetti ristretti in carcere. È innegabile, infatti, che, accanto alle “giuste rivendicazioni”, possano proliferare atteggiamenti vittimistici e vendicativi di soggetti in mala fede che, mal tollerando la dura esperienza della carcerazione preventiva o espiativa, non abbiano alcuna remora a sfogare la proprie frustrazioni attraverso l’inoltro di lettere-denuncia, di querele o di reclami alle autorità competenti.

Poiché dette autorità sono obbligate ad esercitare l’azione penale o ad attivare il proprio potere di controllo sul sistema carcerario, v’è il serio rischio che le risorse umane degli istituti siano chiamate a svolgere una sorta di “superlavoro indotto” (consistente, dal punto di vista tecnico, nell’effettuazione di verifiche mirate, nella redazione di verbali, nella trasmissione di lettere di chiarimenti, nella comunicazione di dati, ecc.).

Vero è che, alla prova della mala fede degli autori di false accuse o di doglianze prive di reale fondamento, il sistema penitenziario potrebbe agire, a sua volta, con gli strumenti repressivi previsti dalla normativa (dall’elevazione di rapporto disciplinare alla querela per diffamazione o alla denuncia per calunnia). Ma è altrettanto vero che tali reazioni, spesso destinate a scontrarsi con il menefreghismo di chi non ha nulla da perdere (si pensi ad un ergastolano sottoposto al 41-bis o alla stragrande maggioranza degli extracomunitari che sperimentano la frustrazione del carcere senza speranza, cioè senza accesso ai benefici esterni), non possono in alcun modo compensare la perdita di tempo e il dispendio di energie correlati a tali fenomeni degenerativi.

Le odierne difficoltà del pianeta carcere, sempre più oberato dalla complessità dei problemi delle categorie di detenuti da gestire e sempre più penalizzato dai tagli annui delle risorse finanziarie, impongono che il tempo e le energie degli operatori, a tutti i livelli, siano diretti verso la soluzione delle molteplici criticità per migliorare le condizioni di vita intra moenia e l’efficacia dei percorsi individualizzati di trattamento. Il sistema penitenziario, nell’attuale momento storico, non può permettersi il “cortocircuito” appena descritto. Nessuno nega la ingiustizia di una amministrazione penitenziaria insensibile o disattenta alla tutela dei diritti dell’utenza. Ben vengano gli interventi normativi e sociali a garanzia di tali diritti. Ma è altrettanto intollerabile la ingiustizia di un “iper-garantismo” che costringa le strutture periferiche ad essere sempre più assorbite ad un contenzioso senza fine, motivato dalla insoddisfazione a dell’acredine di determinate frange di detenuti piuttosto che da una reale esigenza di tutela di interessi violati.

Più che mai nella gestione dei quotidiani problemi che affliggono gli istituti di prevenzione e di pena, vale il monito di Seneca: “nessuno, che abbia cagionato perdita di tempo agli altri, pensa di essere debitore di qualcosa, mentre è questo l’unico bene che l’uomo non può restituire, neppure con tutta la sua buona volontà”.


[1] Basti pensare al grande movimento di riforma della Pubblica Amministrazione. L’attuazione del principio di “trasparenza dell’azione amministrativa” (attraverso l’obbligo di motivazione degli atti da parte della P.A. o del diritto di accesso ai documenti amministrativi e di attivazione del responsabile dell’iter burocratico ad opera dell’avente interesse), l’affermazione del principio del “giusto procedimento” (che consente al cittadino di poter far valere le proprie ragioni, in contraddittorio con la P.A., durante la fase precedente l’emanazione del provvedimento finale), a tacere di varie altre innovazioni, ribaltano il tradizionale rapporto fra cittadino e potere esecutivo basato sulla passiva soggezione del primo nei riguardi del secondo. Anche la riforma del processo penale, attraverso il passaggio dal rito inquisitorio a quello accusatorio, tende a pareggiare, nell’ambito delle indagini preliminari e della dialettica dibattimentale, le posizioni dell’imputato e del pubblico ministero (basti pensare, in chiave di maggiore garanzia  di tale equilibrio, alle profonde innovazioni in materia di indagini difensive).

[2] A parte lo strumento della querela o della denuncia alla Procura della  Repubblica a tutela da eventuali abusi del personale e di altri compagni di detenzione, pensiamo al reclamo contro il provvedimento di sorveglianza particolare (art. 14-ter della Legge n. 354/75), al  reclamo al magistrato di sorveglianza ex art. 35 o ex art. 69 della Legge ult. cit., al reclamo al tribunale di sorveglianza contro il decreto applicativo del regime speciale ex art. 41-bis, co. 2, Legge ult. cit. Per quanto osservabile nella quotidiana gestione del carcere, è improprio ritenere che i detenuti siano alla totale mercé di un “potere leviatanico” libero di amministrare a proprio piacimento l’esecuzione della carcerazione preventiva o della  pena. Non è trascurabile che, accanto alla magistratura di sorveglianza quale tradizionale organo di vigilanza dell’esecuzione penitenziaria, si collochino enti specificatamente preposti a tutelare le posizioni giuridiche dell’utenza (basti citare, da qualche anno a questa parte, il “Garante regionale per i diritti dei detenuti”).

Partire dall’abolizione dell’ergastolo per fermare l’escalation della società penale

Oggi è ancora difficile far capire che se si rischia da 1 a… 20 anni per una quantità “non giusta” di possesso di cannabis, è perché c’è ancora l’ergastolo. Insomma l’ergastolo suscita una sorta di effetto traino che giustifica e sospinge verso l’alto il resto delle pene comminate. Adotta il logo della campagna Liberi dallergastolo

di Vincenzo Guagliardo

336-280L’abolizione dell’ergastolo venne evocata alcuni anni fa dal post-fascista Gianfranco Fini. L’uscita inconsueta dell’allora leader di An non ebbe però una grande eco e nel frattempo lui stesso l’ha dimenticata, essendo poi diventato democratico tout court.
Ciò tuttavia dimostra in qualche modo che una tale richiesta può giungere da orizzonti politico-culturali diversi: per esempio può affacciarsi come il risultato di una domanda di maggiore efficienza della giustizia penale o, al contrario, come necessità di una sua radicale rimessa in discussione, oppure può semplicemente scaturire da ragioni umanitarie.
In realtà l’ergastolo si è affermato come un sostituto della pena di morte. Non nasce da ragioni umanitarie ma, come per tutte le altre pene detentive, venne introdotto per ragioni di efficienza. Nel Settecento le torture e le esecuzioni, troppe volte promesse, improvvisamente cessarono: ormai erano… troppa carne al fuoco. Perciò non facevano più paura, diceva Beccaria. La detenzione invece avrebbe garantito una pena certa poiché finalmente realizzabile, quindi avrebbe svolto una funzione deterrente; e l’ergastolo avrebbe fatto più paura di una incerta promessa di morte. Avrebbe assegnato al condannato una sorte peggiore della morte. L’ergastolo è nato dunque come nuova “pena capitale”.
E siccome anche nel regno delle pene, come in quello delle nazioni, se non cambiano le cose nella “capitale”, cioè al centro, è poi difficile cambiarle nelle sue province, ecco che questo ignorato centro determina complessi meccanismi che diventano resistenze e boomerang quando si vuole ritoccare il sistema a partire da qualche punto periferico. L’Europa se n’è accorta e in gran parte ne ha preso atto, non attuando più di fatto o abrogando il “fine pena mai” (o meglio “fine pena: 99-99-9999”, come è scritto nei sistemi informatici dell’amministrazione penitenziaria).

L’Italia ancora no. Con i suoi 1415 condannati, l’ergastolo consente di non mettere in discussione aspetti scomodi del passato e di coprire gli interessi presenti che vi si sono costruiti sopra. La presenza di queste persone offre la possibilità di mostrare la faccia severa dello Stato per meglio nasconderne un’altra. Gli ergastolani sono i capri espiatori di un sistema che premia e garantisce una relativa impunità (spesso scandalosa) a un numero sempre maggiore di collaboratori di giustizia, i cosiddetti “pentiti”, e/o ai “colletti bianchi” che, per fare il loro consueto lavoro, né possono, né sanno più, né vogliono distinguere il lecito dall’illegale. D’altra parte gli stessi premi dati prima ai pentiti e le facilitazioni concesse poi ai colletti bianchi, sono venute a far parte di un più vasto sistema di trattamento di natura premiale riservato dalla legge penitenziaria a tutti i detenuti.
Quella premiale è una macchina che trae storicamente origine dalla volontà di non discutere in sede culturale e politica degli aspri conflitti politico-sociali degli anni Settanta, e che i “vincitori” affidarono a 25 mila casi giudiziari di cui rimangono “testimoni” ancora oggi poco più di una cinquantina di ergastolani. Questo sistema divenne legge penitenziaria nel 1986 col nome del senatore Gozzini che ne fu il relatore. Alcuni, in modo troppo affrettato, vi hanno subito visto un primo passo “oltre la pena”. Ma dopo vent’anni questo grande progresso che allora si annunciava come l’alternativa alla pena tradizionale si è mostrato solo un modo per affiancarla. In realtà il sistema penale ha esteso le sue propaggini fuori dal carcere. È aumentato in modo esponenziale il numero di coloro che dipendono da esso anche in stato non detentivo ed è raddoppiato il numero dei reclusi non solo prima ma anche dopo che intervenisse l’indulto.

La pena cosiddetta alternativa, in realtà premiale, ha soltanto aumentato la pervasività del potere giudiziario all’interno della società, incrementando l’area penale esterna al carcere. Si è creato così un “eccesso di presenza penale” che molti cominciano a lamentare. Nel frattempo i fautori della tolleranza zero ne hanno ridotto la portata applicativa con una legge che esclude i recidivi (la ex Cirielli), ossia almeno il 70% dei rei… Invece di rivedere i tetti massimali di pena si è preferito aumentarle. Si sono moltiplicati i fatti che costituiscono reato allargando le competenze del diritto penale, salvo diluire le punizioni caso per caso in modo discrezionale.
Si è così venuta a creare una situazione analoga a quella analizzata da Beccaria nel Settecento. Da un lato si difendeva all’epoca la ferocia delle pene (tortura, morte) e si puniva sempre di più su tutto; dall’altro, non potendo più attuarle, si ricorreva a quelle che erano le misure “sostitutive” dell’epoca: deportazioni, esilii…
Il rimedio altro non fu che un’estremizzazione del male finché non s’inceppò a causa della sopravvenuta impossibilità di deportare e realizzare pubbliche esecuzioni, diventate motivo d’indignazione popolare invece che di spettacolo gratuito per folle forcaiole. È così che si fece strada allora l’idea del penitenziario, della reclusione come pena principale e dell’ergastolo come nuova forma di pena capitale.

Oggi è ancora difficile far capire che se si rischia da 1 a… 20 anni per una quantità “non giusta” di possesso di cannabis, è perché c’è ancora l’ergastolo. Insomma l’ergastolo suscita una sorta di effetto traino che giustifica e sospinge verso l’alto il resto delle pene comminate. Il rischio dunque è quello di una esplosione ingovernabile dell’intero sistema penitenziario. Ormai è popolare volere più ergastoli per un alto numero di persone e per una grande varietà di reati, in una spirale che, per le sue motivazioni di fondo, potrebbe trovare pieno sfogo solo nel ritorno della pena di morte.
E di “ritorno” bisogna infatti parlare, cioè di tensione al ritorno verso un’arcaica barbarie precedente alla stessa funzione dello Stato moderno e a ciò che, pur con tutti i suoi limiti, nell’ultimo quarto di millennio è stato definito comunemente “civiltà”.
Quale che sia la prospettiva da cui si guarda al pianeta carcere, quella dei difensori-riformatori del sistema penale o quella abolizionista, la sparizione dell’ergastolo dovrebbe esser vista come un possibile e necessario punto di convergenza. Altrimenti sarà la forza dei fatti a porre tragicamente la questione.

In Inghilterra, nell’Ottocento, l’eccessivo sovraffollamento provocò malattie mortali e contagiose che dal carcere si trasmisero fuori, passando ai giudici per il tramite di un’aula giudiziaria dove gli imputati dovevano essere processati, e da lì alla città…
Non possiamo sapere cosa succederà questa volta…

Link
Liberidallergastolo.wordpress.com
Parte la campagna 99/99/9999 liberi dall’ergastolo
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Perpetuité

Carcere e sanzioni disciplinari, un aggiornamento e poi basta

Da alcuni giorni arrivano da più parti preoccupate richieste di notizie sulla mia situazione dopo il post del 5 novembre (vedi qui) nel quale raccontavo dei possibili rischi di sanzioni disciplinari per quanto era accaduto il sabato precedente, 3 novembre, durante un surreale incontro con la Direttrice del reparto semiliberi di Rebibbia reclusione.
L’assenza di informazioni aggiornate sulla vicenda e il prolungato silenzio del blog, dovuto a diverse ragioni (sovraccarico di impegni e semi-vita familiare che ho dedicato più del solito a mio figlio), hanno creato un po’ di allarme.
Mi scuso innanzitutto con i compagni, gli amici e i lettori che ringrazio per l’attenzione e la premura dimostratami.
Corro subito ai ripari cercando di spiegare per sommi capi cosa è successo nel frattempo.

La contestazione disciplinare
Col senno del poi posso dire che la decisione di raccontare subito quanto accaduto il mattino di quel sabato è stata una scelta lungimirante. Il lunedì successivo (5 novembre), infatti, al rientro serale in carcere l’ispettore di turno mi ha informato della presenza di una contestazione disciplinare mossa a mio carico dalla Direttrice di reparto protagonista dell’episodio.
Il testo, molto lungo e scritto a mano sul registro delle udienze, era di difficile lettura. Al suo interno si forniva un resoconto incompleto e non corrispondente allo svolgimento dei fatti avvenuti, soprattutto si delineava un profilo disciplinare della mia condotta verbale etichettata come «irrispettosa e offensiva».
Nel testo, che sembrava uscito da una pièce di Ionesco, la responsabile di reparto mi attribuiva frasi prive di senso, frutto di palesi equivoci tipici di chi non ha la capacità di ascoltare, come il fatto che io avessi sostenuto di possedere un “contratto di lavoro trimestrale” mentre avevo inutilmente tentato di spiegare che la mia retribuzione era «a cadenza trimestrale».
Nemmeno uno come Totò nei suoi mirabolanti “quiproquo” con Peppino de Filippo era mai arrivato a tanto.
Il testo della contestazione seppure carico di stizza furiosa aveva comunque del sublime, era qualcosa che toccava i vertici del teatro dell’assurdo. Ma purtroppo per me, come per tutti quelli che vivono questi episodi nel quotidiano del carcere, quella non era una messa in scena ma il realismo carnevalesco della punizione.

La Direzione archivia tutto
Preso atto delle contestazioni ho redatto delle note difensive inviate alla Direzione. A quel punto, secondo quanto previsto dalle norme dell’ordinamento e del regolamento penitenziario che regolano i procedimenti disciplinari, entro 10 giorni dalla contestazione avrebbe dovuto svolgersi un’azione disciplinare nel corso della quale si sarebbero dovuti valutare fondatezza ed eventuale portata dei fatti contestati, per poi decidere se erogare, o meno, una sanzione.
In quei giorni di attesa una domanda dominava su tutte le altre: chi sarebbe venuto a presiedere l’azione disciplinare?
La stessa responsabile di reparto, nella tripla veste di accusa, giudice e presunta parte lesa – eventualità ammessa dall’ordinamento penitenziario – oppure, molto più opportunamente, un altro dirigente d’Istituto?
Il dilemma è rimasto tale perché allo scadere dei 10 giorni non è accaduto nulla.
Con molta saggezza chi è gerarchicamente al di sopra della funzionaria che dirige il reparto Semiliberi ha deciso altrimenti, ritenendo evidentemente infondati i rilievi mossi.

La storia poteva dirsi conclusa qui. E invece no, il veleno è sempre nella coda, ci insegna madre natura.

La nota al magistrato in cui si segnalano «atteggiamenti di arroganza, offesa e di insofferenza nei confronti della Istituzione»
Il 23 novembre mi viene notificato il rigetto di una licenza, di una sola giornata, che avevo chiesto nel fratempo per stare insieme a mia madre il giorno del suo settantasettesimo compleanno.
Leggendolo con attenzione ho scoperto che il rifiuto aveva valore di sanzione per l’episodio del 3 novembre.
Il provvedimento negativo era desunto da una nota proveniente dal carcere (la fonte non è indicata) allegata alla domanda di licenza, protocollata n° 17159/12, inviata il 7 novembre 2012, dunque due giorni dopo la contestazione disciplinare senza esito, nella quale si riferisce dell’arrivo di una «comunicazione circa comportamenti posti in essere dal Persichetti in data 5/11/12 [c’è un errore di data, Ndr] nei confronti della dottoressa Trapazzo, consistiti in atteggiamenti di arroganza, offesa e di insofferenza nei confronti della Istituzione e della singola persona».
Si riportano anche due frasi virgolettate che dovrebbero rappresenare la prova della condotta verbale incriminata. Frasi che però risultano indecifrabili.
Questo provvedimento di rigetto è ancora oggetto di ricorso presso l’ufficio del magistrato, dunque evito di entrare troppo nei dettagli. Il problema evidentemente non è il giorno di licenza rifiutato ma il merito di una sanzione erogata in assenza, non solo di infrazione disciplinare, ma addirittura della procedura prevista per valutarne il fondamento, dunque per un fatto nullo e non avvenuto. “Il fatto non sussiste” è la formula di rito in uso in questo caso.

Rigetto licenza copia

Così vanno le cose. L’espediente, il ricorso ad una “comunicazione” inviata al magistrato aggirando addirittura le stesse procedure disciplinari, per altro già poco garantiste nei confronti dei detenuti, è l’artificio che può permettere di erogare sanzioni senza alcuna verifica sui fatti, sulla loro sussistenza reale, senza accertamento delle prove, sulla pura base del principio di autorità: in questo caso la parola di una Direttrice di reparto; come a dire che i fatti non esistono ma solo le parole di chi ha l’autorità di pronunciarle.

Quando la stessa Direttrice voleva sindacare il contenuto degli articoli scritti per Liberazione
Ad onor del vero non è la prima volta che mi trovo di fronte ad una cosa del genere. Già nel febbraio del 2011 la stessa dirigente, che da poco aveva assunto le nuove funzioni di responsabile della semilibertà, aveva fatto ricorso al medesimo espediente.
All’epoca il contenzioso riguardava la richiesta di copia degli articoli indicati nella denuncia-querela avanzata contro di me da Roberto Saviano (vedi qui).
Articoli ritenuti – a detta della nuova responsabile di reparto – fondamentali per una compiuta valutazione dell’osservazione trattamentale. E perché non valutare anche le lezioni che tenevo all’università di Paris 8?
Lasciamo correre il manifesto profilo di incostituzionalità di una pretesa del genere. Un fatto di una abnormità gigantesca passato sotto silenzio.
Qualcosa di analogo mi era già accaduto al Mammagialla di Viterbo alcuni anni prima, quando il  magistrato di sorveglianza del posto si oppose ai permessi di uscita per un mio libro, Esilio e castigo, (vedi qui). All’epoca la vicenda finì sui giornali (vedi qui).
Tuttavia nel febbraio 2011 l’oggetto del contendere non poteva nemmeno essere una discussione del genere. In quel momento, infatti, non ero nemmeno a conoscenza del contenuto della querela e quindi degli articoli denunciati (in procura nonostante le ripetute richieste hanno sempre opposto il segreto istruttorio), poiché mi era stato notificato un semplice verbale di elezione di domicilio – di cui avevo fornito copia alla Direzione – nel quale si indicava unicamente il numero di protocollo del procedimento senza altre informazioni.
Per giunta la richiesta della responsabile di reparto (se è vero che gli articoli dovevano essere analizzati per redigere l’osservazione scientifica della personalità) aveva una tale portata formale che non era possibile indicare dei testi prima di averne ricevuto comunicazione ufficiale da parte della procura.
A ben vedere, dunque, è alla procura che la Direttrice avrebbe dovuto rivolgere la sua richiesta, non certo a me.
Di fronte ad una tale oggettiva impossibilità, trattandosi in ogni caso di articoli diffusi nello spazio pubblico, consigliai la Direttrice – al fine di consentirle di soddisfare la sua curiosità – di recarsi sul sito web di Liberazione, dove allora lavoravo, e cliccare il mio nome per avere completa visione di tutti i miei testi.

Sapete quale fu il risultato?
Il suggerimento venne recepito come un rifiuto di «rapportarsi correttamente con l’Amministrazione».
L’episodio, oltre ad essere prontamente segnalato all’ufficio di sorveglianza con la solita comunicazione semiclandestina,

«Il 02.03.2011 il Persichetti, durante un colloquio col Direttore di Reparto riguardante proprio tale vicenda [querela da parte di Roberto Saviano Ndr], è stato invitato a produrre gli articoli relativi alla querelle, al fine di avere un quadro della situazione; ha percepito come atteggiamento “censorio” la richiesta formulatagli dal dirigente e per tutta risposta gli ha detto chiaramente che gli scritti sono liberamente accessibili su internet e che non vedeva la necessità di doverli produrre lui. Si è pertanto ritenuto di dover informare dell’accaduto e dell’atteggiamento tenuto dal semilibero il Sig. Magistrato di Sorveglianza».

venne poi abbondantemente sviluppato nella relazione di sintesi con la quale si dissuase il magistrato dal concedermi l’affidamento in prova ai servizi sociali, avendo io l’abitudine (cito questo passo da antologia):

«La forma mentis del Persichetti lo conduce ad avere talora, un atteggiamento “paritario” (anche se tale aggettivo rischia di acquisire una valenza negativa) nei confronti di un’Amministrazione verso la quale, comunque, egli deve rispondere del proprio comportamento e non trattare da pari: il tutto, ovviamente, nel rispetto del diritti della persona.Talora però nel soggetto pare vi sia una difficoltà a rendersi conto che, a differenza di quanto accade in un rapporto tra persone fisiche, rapportarsi con l’Amministrazione richiede una diversa “dialettica”, fatta – anche obtorto collo – di una puntuale esecuzione delle direttive o anche, delle sole indicazioni fornite dalla stessa e dai suoi operatori».

A questo punto credo di avervi detto più o meno tutto. No, dimenticavo. Il racconto di quanto accaduto il 3 novembre fatto su questo blog è poi finito sulla pagina online de Gli Altri, settimanale dove lavoro. Da qui è rimbalzato sulla rassegna giornaliera di Ristretti orizzonti e così non è sfuggito alla attenzione di Rita Bernardini, parlamentare radicale attentissima alle questioni carcerarie e che esercita con grande energia e cura il potere di sindacato ispettivo nelle carceri che la funzione di deputato gli consente. La Bernardini ne ha così fatto l’oggetto di una interrogazione scritta (qui), anche se nel testo depositato mancano i riferimenti agli ultimi fatti.

Adesso vi ho detto veramente tutto. Consentitemi di non ritornarci più sopra, accada quel che accada, di tanta meschinità ne ho la palle piene.
In tutti questi anni di carcere mi è capitato di redigere centinaia e centinaia di note difensive e ricorsi per i miei malcapitati compagni di detenzione che dovevano misurarsi con episodi simili. Di queste storie oggi ho la nausea.
La vita è altrove. La mia poi è semi, metà, mezza… Se ci saranno altre puntate, e per esperienza vi posso dire che ve ne saranno delle altre perché questa storia non finisce certo qui, spero che verrano altri a scriverne. Io passo volentieri il testimone.

Ciao a tutti.

Paolo Persichetti

Link utili per approfondire
Davide Steccanella: il diritto del detenuto non deve essere a discrezione
Se nei prossimi giorni questo blog diventerà muto ora sapete perché
Vedrete questo logo per molto tempo ancora

Paolo Granzotto e il funzionario giuridico-pedagogico di Rebibbia
Kafka e il magistrato di sorveglianza di Viterbo
Permessi all’ex Br? No, se non abiura

La polizia del pensiero – Alain Brossat
Saviano e il brigatista

Se nei prossimi giorni questo blog diventerà muto, ora sapete perché!

Una tranquilla giornata di semilibertà

Sabato 3 novembre, oggi non si esce alle 7.00. C’è una lista di 15 persone convocate dalla direttrice di reparto. Poco dopo le  8.00 cominciano le udienze. Si sentono delle grida femminili uscire dall’ufficio. Uno alla volta escono i detenuti, i volti sono scuri, alcuni allucinati.
–  Ma chi è questa? Ma chi ce l’ha mannata?
Poco dopo le 10.00 tocca a me. Entro e vengo invitato a sedere. Esito prima di farlo. La direttrice è furibonda, si vede da lontano. Tuttavia all’inizio prova ad usare un tono tranquillo.
–  Risulta un ritardo nei pagamenti dei suoi stipendi, l’ultima mensilità è di agosto.
Me l’aspettavo una domanda del genere perché aveva fatto la stessa osservazione ad altri. Vuoi vedere che non sa nemmeno che i miei pagamenti sono trimestrali? Mi ero detto. Glielo spiego e tutto si risolverà facilmente. Povero illuso!
–  Dottoressa, il calendario delle mie retribuzioni è in perfetta regola. Come prevede il contratto, i compensi corrisposti dal mio datore di lavoro hanno cadenza trimestrale. A settembre è stato pagato il trimestre estivo. Il prossimo saldo è previsto a dicembre.

Che errore madornale! Senza saperlo ho pronunciato la parola indicibile: “contratto”. Cosa sarà mai un contratto? Questo oscuro oggetto dalla natura ormai sempre più evanescente.
La responsabile di reparto assume subito un’aria infastidita.
–  Ma non è regolare, non è indicato nel programma di trattamento.
–  Non so che dirle dottoressa, ma il contenuto del programma viene redatto dalla Direzione in coordinamento con il magistrato di sorveglianza. La cadenza dei pagamenti non è mai stata specificata in un nessuno dei miei programmi di trattamento, si tratta di un’informazione che è contenuta nel contratto a cui il programma rinvia.

A questo punto la direttrice obietta seccata di non aver trovato traccia del mio contratto da nessuna parte, lasciando intendere che è colpa mia perché non lo avrei mai depositato. Abbastanza sconcertato da questa replica, ma tuttavia sempre con un tono garbato, le faccio presente che nel mese di maggio ho presentato un nuovo contratto di lavoro, stipulato con una nuova testata dopo la definitiva chiusura della precedente, accompagnandolo con una richiesta di variazione del programma, il tutto in doppia copia come da prassi, con relativo modello 393 (la domandina) allegato e che tutto ciò ha dato luogo alle verifiche del caso, per giunta con un grosso ritardo e l’intervento risolutore dell’avvocato. La notifica del nuovo programma richiesto a fine maggio è pervenuta solo ad inizio luglio. Verifiche – aggiungo – che hanno coinvolto l’assistente sociale dell’Uepe, venuta sul nuovo posto di lavoro, e  la successiva valutazione della Direzione e del magistrato di sorveglianza.
Davanti alla mia replica, la direttrice si mostra sorpresa. La sua reazione mi fa capire che non è al corrente del cambiamento di datore di lavoro, dell’esistenza del nuovo programma e persino del contenuto dei miei precedenti contratti, nonostante diriga il reparto ormai da più di due anni, tant’è che mi chiede:
–  Perché ha un contratto a tempo determinato?
– Ho sempre e solo avuto contratti del genere, scritture private rinnovate annualmente e che ho sempre consegnato in copia a questa Direzione. I pagamenti previsti erano sempre trimestrali. Salvo ritardi.
–  Allora si sarebbero dovuti rinnovare anche i programmi di trattamento ad ogni scadenza di contratto!

Posto che probabilmente ciò accade solo se vi è un cambiamento di datore di lavoro o di mansioni, o di altre variazioni qualsiasi; ma se il rinnovo consiste in un prolungamento del precedente rapporto lavorativo, senza cambiamenti, vi è da supporre che il programma resti invariato. In ogni caso una tale questione non riguarda il detenuto ma le scelte della Direzione, che se non lo ha fatto avrà avuto le sue buone ragioni. Infatti rispondo:
–  Sarà pure così dottoressa, ma cosa c’entriamo noi detenuti? A me competeva soltanto depositare i rinnovi contrattuali e l’ho fatto.
–  Mi dimostri che lo ha fatto allora!
–  Come sarebbe a dire, “mi dimostri che lo ha fatto”? Vuole forse insinuare che mi è stata concessa la semilibertà senza contratto di lavoro, che da oltre 4 anni sono in situazione irregolare, a questo punto con l’avallo di ben due magistrati di sorveglianza che si sono succeduti nel frattempo e della Direzione che l’ha preceduta?
–  No, è lei che insinua che l’Amministrazione ha perso i suoi contratti.

La direttrice prende in mano un vecchio programma di trattamento, forse il penultimo, e inizia a leggere il dispositivo iniziale:
–  «Per svolgere attività lavorativa… offerta le cui modalità sono riportate nel corpo dell’ordinanza di concessione della misura». Ah, ah, vede, qui si parla di una “offerta”. I detenuti ottengono la semilibertà sulla base di una offerta di lavoro che è altra cosa da un contratto vero e proprio, che poi non portano mai.
–  Continua ad insinuare che non ho un contratto, dottoressa? Ma lo sa che concessa la misura della semilibertà, nel maggio 2008, arrivato in questo carcere sono rimasto chiuso una settimana in attesa che fosse materialmente consegnato alla Direzione il contratto (che per quel che mi riguarda era già in corso dal gennaio 2008, quando ero ancora chiuso al Nuovo complesso)? Se i miei contratti non li trovate è un problema vostro, mica mio!

L’atmosfera è ormai irrimediabilmente compromessa. La direttrice urla, sovrappone nevroticamente le domande, non ascolta le risposte, sbraita frasi scomposte. Testimone della scena è un Ispettore che nel frattempo ha aperto un cassetto e da un fascicolo tira fuori il nuovo programma. Mostra di essere perfettamente al corrente di tutto, perché ricorda il passaggio dalla vecchia redazione, che ha chiuso, alla nuova. E’ imbarazzato per la situazione, con gli occhi mi suggerisce, quasi mi prega, di non reagire. Sussurra di non rispondere. Ma la direttrice insiste, usa un’aria di sfida. Non è la prima volta. Quando è in difficoltà provoca.
–  Che fa si scalda? Come mai è così nervoso? C’è qualcosa che non va? Non è in grado di dimostrare che ha i contratti? Ce li porti, se li ha!
–  A casa ho la collezione, dottoressa. Sono sommerso da carte burocratiche, copie di fax, mobilità, licenze. Posso dimostrare quello che voglio, ma siete voi che dovete ritrovare quelle carte, altrimenti devo cominciare a preoccuparmi se qui dentro spariscono documenti ufficiali.
–  Sta forse accusando l’Amministrazione?
–  Veramente, dottoressa, è lei che accusa me di essere un truffatore, e questa è una cosa irricevibile. Lei non può farlo.

E sì, ho commesso l’irreparabile senza nemmeno accorgermene. Quello che ai suoi occhi appare il crimine peggiore, la lesa maestà. Una volta l’ha pure scritto: «La sua forma mentis lo conduce ad avere talora, un atteggiamento “paritario” (anche se tale aggettivo rischia di acquisire una valenza negativa) nei confronti di un’Amministrazione verso la quale, comunque, egli deve rispondere del proprio comportamento e non trattare da pari: il tutto, ovviamente, nel rispetto del diritti della persona. Talora però nel soggetto pare vi sia una difficoltà a rendersi conto che, a differenza di quanto accade in un rapporto tra persone fisiche, rapportarsi con l’Amministrazione richiede una diversa “dialettica”, fatta – anche obtorto collo – di una puntuale esecuzione delle direttive o anche, delle sole indicazioni fornite dalla stessa e dai suoi operatori».

Insomma dovevo fare pippa, abbassare lo sguardo, mettere giù le orecchie, prenderla per il culo come fanno gli altri, riconoscere di essere in torto, ammettere di avere truffato l’Amministrazione, due magistrati di sorveglianza, l’assistente sociale dell’Uepe, la Direzione del carcere, l’area trattamentale, la custodia, la polizia. Tutti presi per i fondelli. Tutti a credere da più di quattro anni che avevo un contratto di lavoro. E pure l’ufficio delle imposte. Fregati tutti. E a quel punto con la coda fra le gambe invocare perdono, intrecciare le dita come Fantozzi davanti al direttore megagalattico seduto su una poltrona di pelle umana nel suo ufficio all’ultimo piano.
Ammetto la mia ingenuità. Ci sono cascato! Ho continuato a pensare che non si potesse negare l’evidenza che esiste un principio di realtà. Ma l’evidenza non conta di fronte all’autorità che si ritiene infallibile. Così la direttrice è sbottata.
–  Come si permette, non può rivolgersi a me in questo modo. Vada fuori di qui!

Beh, se nei prossimi giorni questo blog diventerà muto, ora sapete perché.

Link
Carcere e sanzioni disciplinari, un aggiornamento e poi basta
Chi sono? Ma chi ho da esse? un servaggio!

Vauro Senesi, tu pensi che i carcerati sono degli stupratori sei della stessa pasta di Fiorito

Guardare e vedere a volte sono cose diverse. Tutti noi guardiamo ma non sempre vediamo la stessa cosa. Per esempio, questa vignetta di Vauro Senesi che ha inaugurato stamani la sua collaborazione con il Fatto quotidiano, l’organo del partito giustizalista italiano, i manettari per farla breve, dopo aver lasciato di corsa il manifesto come i topi che fuggono dalla nave che affonda.
Vauro ora è nel suo ambiente naturale, come già lo era con Anno zero; da anni le sue vignette grondano questo tipo di risentimento da sotterraneo di questura.
Cosa vedete voi in questa vignetta?
Io intanto non vedo la porta. Sarà che in cella ci rientro ogni sera e dunque ho l’occhio abituato. Mi chiedo perché le celle di Vauro non hanno quasi mai il blindo. L’ho notato spesso nei suoi disegni sul carcere. Chi vi è dentro sembra murato come la monaca di Monza. I suoi interni carcerari sono claustrofobici.
So che qualcuno, magari venendogli in soccorso, potrebbe obiettare che la porta è dal lato del disegnatore che da lì ci rappresenta quel che accade dentro. Il punto di vista del secondino, insomma. Cosa che non mi sembra molto onorevole per Vauro.
La realtà carceraria è diversa: le finestre sono situate di fronte alla porta blindata per consentire alla custodia di controllare con un semplice sguardo gettato dallo spioncino che le sbarre siano sempre integre. Come vedete nelle celle di Vauro invece c’è il muro. Manca la porta. Direte che ciò riguarda l’inconscio di Vauro. Un inconscio che però si fa pubblico nelle sue vignette e mette a nudo la sua essenza.

Osservate la differenza con la vignetta che ha fatto ieri di Giannelli sul Corriere della sera. La porta c’è, si tratta del cancello che è addirittura socchiuso. Non solo ma il borghese Giannelli è riuscito raccontare in un tratto di matita il dramma del sovraffollamento giocando sull’obesità del “nuovo giunto”. L’ingresso in cella di un volgare ciccione, rapace arraffatore del sottogoverno missino, para-post e sempre fascista, non rallegra nessuno, viene solo a pesare su una situazione già insostenibile. Bisogna farsi tutti più stretti. Eppoi quardate le facce, è un caleidoscopio della situazione carceraria. Ci sono proprio tutti.

Che altro vedete poi? Io vedo due brutti ceffi, la parodia del detenuto, il luogo comune più abietto sulla popolazione carcerata che possa esistere. Mi si dirà: ma come, non vedi Fiorito, quel pappone, quel ciccione di merda, l’emblema della casta famelica? Sapete che c’è, che Fiorito stava in piazza Navona – come lui ha dichiarato – a tirare le monetine a Craxi che usciva dal Raphael. La sua vicenda mi sembra che chiuda il cerchio di quella buffonata che è stata Tangentopoli, la “rivoluzione di velluto”,“ Mani pulite” come l’hanno chiamata.
Non c’è peggior impostore di un moralista, diceva qualcuno. I Fiorito sono gli homines novi della catarsi rigeneratrice dell’etica che agitava il cappio in parlamento. Gli amichetti di Travaglio, insomma. Perché tutto ciò dovrebbe allora scandalizzarmi o stupirmi? Suvvia qualche chiarimento ce lo dovrebbero dare tutti quelli che hanno agitato per più decenni la via giudiziaria e penale come soluzione di tutti i probemi. Ecco il risultato. Se lo meritano.

Wonder Woman

In realtà l’alterego femminile di Batman è Catwoman

Dunque, dicevo che vedo la rappresentazione più abietta del detenuto con quella battuta su Batman-Fiorito a cui viene chiesto di trasformarsi in Wonderwoman (ma che razza di fumetti da ceto medio frustrato leggeva da ragazzino Vauro?) e porgere il posteriore all’inculatore di cella che sta aspettando un paio di chiappe fresche. C’era bisogno di una rappresentazione del genere per esprimere il disprezzo umano, politico e civile nei confronti di uno come Fiorito?
A me sembra che nella vignetta ad essere disprezzato e umiliato è il popolo rinchiuso, rappresentato come una massa di strupratori. Questa è filosofia da teppa, roba da SA, da Sturmabteilung naziste.
Io faccio parte di quel popolo. Vivo nel carcere non mi ricordo pià da quanti anni, 13 o 14 ora non vado a guardare, non ho tempo. Me ne sono fatti 11 di esilio. Ho 50 anni, ne avevo 25 quando tutto è cominciato.
Vauro non è nuovo ad imprese del genere. Due anni fa se ne uscì con una vignetta che descriveva i manifestanti del 14 ottobre come una truppa di infiltrati (vedi qui sotto). La sua parabola ricorda quella di Forattini (senza il suo genio però), il progressivo inacidirsi della vis comica che alla fine diventa rancido risentimento, vomito reazionario.
Non so cosa pensate voi, ma una cosa del genere ad un tipo così non la permetto.
Dico solo una cosa, speriamo di incontrarci in piazza, quando potrò andarci liberamente, o la mattina davanti a Rebibbia…

Link utili
Di Pietro e l’Idv da dieci anni sono le stampelle di Berlusconi
Congresso Idv, i giustizilisti lanciano un’opa su ciò che resta della sinistra radicale

Avviso per il popolo viola: cambiate giornale il Secolo d’Italia fa gli auguri al Fatto quotidiano
Sgom, Diliberto la tua rabbia sarà la nostra gioia
Sgommiamo Oliviero Diliberto dalla scena politica

La domandina

Anche il carcere ha la sua interfaccia. A pensarci bene è davvero sorprendente che un’istituzione che ha meccanismi tanto farraginosi e vetusti poi funzioni come una cibermacchina. Stiamo parlando del “modulo 393” dell’amministrazione penitenziaria, senza il quale il carcere si bloccherebbe. Modulo 393? In realtà il suo vero nome è domandina.
Parliamo di uno stampato che viene consegnato ai detenuti per comunicare con l’amministrazione. Per intenderci, chi vuole chiedere o rappresentare qualcosa al direttore, al magistrato, oppure al dottore, o magari all’educatrice, all’assistente sociale, all’ispettore di reparto, o ancora vuole acquistare prodotti nella lista del sopravitto, o vuole telefonare, rivolgersi alla matricola, vedere un volontario, parlare con il prete, recuperare un oggetto al casellario, o ancora chiedere i moduli dei telegrammi per poi spedirli, fare la telefonata alla famiglia, non basta che scriva una lettera o compili i moduli appositi: spesa, telefonate, eccetera, eccetera (ne esiste un’infinta panoplia). Deve accompagnare tali richieste o comunicazioni con la domandina, il modulo chiave, il passe-partout con il quale, in sostanza, si chiede di poter chiedere.
La burocrazia si esprime con un linguaggio simbolico che dice cose molto chiare. In carcere poter chiedere non è un diritto ma una concessione, un premio, come la carota da rosicchiare. Fino al 2000 al posto dell’attuale “Il sottoscritto ……. richiede” si poteva leggere “Il sottoscritto ……. prega”, formula a cui la quasi totalità dei detenuti aggiungeva “la signoria vostra”. Solo i prigionieri politici e pochi altri si rifiutavano barrando quell’umiliante pretesa. Questa è la costituzione materiale della prigione, il suo codice genetico, poi, solo poi e molto dopo, viene la costituzione, l’ordinamento e il regolamento penitenziario stampati in bella copia. Basta che manchino le domandine e non si può chiedere più nulla. Capita l’antifona! E’ molto facile staccare la spina.
E sia chiaro, non basta chiedere una volta. L’atto deve essere ripetuto continuamente. Quale è il fine di tutto ciò?
Intanto suscitare una situazione d’indeterminatezza continua. Nulla è mai veramente acquisito, tutto resta sempre incerto. Ogni risposta dipende dal responsabile di turno, dal suo umore, dalle sue inclinazioni, dalla sua economia libidinale, dal livello di sadismo che lo soddisfa.
Il detenuto è così privato d’ogni autonomia e capacità di autodeterminazione. Scrive in proposito Salvatore Verde (Massima sicurezza, Odradek 2002): il processo di sorveglianza che la domandina innesca trasforma l’originario desiderio in una istanza ridotta alla dicotomia sì/no, cioè al linguaggio binario che infantilisce la comunicazione piegandola all’esercizio del principio di autorità. E’ da ciò che deriva il diminutivo DOMANDINA, così simile a frittatina, passeggiatina, gelatino, parole che suscitano in tanti di noi ancora un fremito bambinesco. «In fondo, io sono come una madre per voi», mi disse una volta una direttrice.
Senza offesa dottoressa, ma in tal caso preferisco restare orfano!

Sullo stesso tema
Cronache carcerarie

«No, Nils Christie non ha rinnegato l’abolizionismo». Si apre la discussione dopo le critiche mosse da Vincenzo Guagliardo al libro, appena tradotto in Italia, del criminologo norvegese

Discussioni – Dopo la recensione critica di Vincenzo Guagliardo al libro di Nils Christie (da poco tradotto dalle edizioni Colibrì), apparsa su questo blog col titolo evocativo, «La rivoluzione abolizionista e il rinnegato Christie», si è aperta una interessante discussione. Tommaso Spazzali risponde agli attacchhi difendendo le ragioni del libro. Il dibattito è aperto.

di Tommaso Spazzali
luglio 2012

Leggo sul blog Insorgenze la recensione di Vincenzo Guagliardo a, Una modica quantità di crimine, di Nils Christie, ed. Colibrì – 2012, e provo, per come ne sono capace, a proporre qualche riflessione.
A differenza di alcuni suoi lavori precedenti, si pensi ad Abolire le pene?: il paradosso del sistema penale, ed. Gruppo Abele, 1985, o a il Il business penitenziario. La via occidentale al gulag, Eleuthera, 1996, questo testo di Nils Christie prova ad allargare il campo d’osservazione dedicando la sua attenzione al sistema di relazioni che sottende la cultura della pena. Se altrove l’oggetto era costituito dai dispositivi di repressione e controllo e alla loro funzione in relazione alla sfera politica o economica, qui si allarga il campo e lo sguardo si posa su coloro i quali permettono, perché tollerano, quando non giustificano o addirittura invocano, l’uso del diritto penale come strumento per la risoluzione dei conflitti. Il ragionamento parte dalla rappresentazione spettacolare e, direbbero i classici, sovrastrutturale, del lato visibile della pena. Si parte quindi dal concetto di crimine che altro non è che il moderno sermone nella teologia del controllo sociale. Il crimine, che supporta e giustifica l’esistenza della pena (la pena del Diritto, quella inflitta a freddo, con astratto, superiore, scientifico distacco) appoggiandosi su un’innata tendenza per l’espiazione (altrui) dei peccati (propri) e, dico io, basandosi sull’altrettanto umana necessità di rispondere alla domanda “con chi sto?” segnando un confine rispetto a cui posizionare sé e gli altri attorno a sé.
Il libro di cui si parla, cioè, non tratta, se non di riflesso, di espiazione o di vittime ma affronta il sistema di (dis)valori che contribuiscono all’adesione volontaria alla servitù del sistema penale da parte di chi – solo – potrebbe opporvisi con successo. Il punto di vista non è di quello che descrive e analizza il fenomeno inserito in un contesto ma che guarda prima di tutto proprio il contesto, cercando di capire in che momento la coscienza si acceca e accetta di delegare all’anonima (ma quantomai concreta) mano della punizione la risoluzione dei propri conflitti. La riflessione è tesa a cercare delle soluzioni, o quantomeno delle direzioni, non si tratta di cambiare la nostra coscienza ma di considerare gli elementi di una rappresentazione diversa della realtà da cui ricavare una forma superiore di conoscenza, con cui, se sarà dato il caso, anche la ritualità dell’espiazione potrà forse essere superata.

Il ragionamento parte da un apparente lontano: la conoscenza

Dare denaro a dei ragazzi potrebbe presto portare alla cessazione della loro attività di costruttori. Inoltre io conosco solo un metodo altrettanto efficace per far cessare, persino per prevenire, questa loro attività. Quella di insegnar loro come farla…[pag. 53]

lo sviluppo nel mercato della società contemporanea

I Paesi del Terzo Mondo, con tutto il loro sottosviluppo, si organizzano spesso lasciando un posto per ogni persona, qualcosa di utile da fare per tutti. Ora, mentre queste società divengono nazioni di produttori e consumatori, un gran numero dei loro abitanti si trova nella condizione di perdere la piena partecipazione a quelle attività che sono considerate le uniche importanti: le attività di produzione e consumo [pag. 45]

il lavoro

In inglese, a differenza del norvegese, si ha la possibilità di distinguere tra labour e work. Labour indica un pesante fardello; la parola è storicamente connessa con la tortura. Work ha il senso di un’opera, è strettamente connesso con la creazione, col creare un’opera d’arte. Per questo atto di creazione, il denaro è una minaccia. L’opera – work – non diventa cioè una ricompensa in sé. Diventa uno strumento per qualcos’altro, e quindi si converte in labour [pag. 48]

la costruzione del nemico interno

Le immagini del nemico sono elementi importanti nella preparazione della guerra. Concetti con un elevato valore d’uso nel rapporto che istituiamo sono quelli di Mafia e di Crimine organizzato. La loro straordinaria mancanza di precisione ne fa degli slogan applicabili a forze negative d’ogni genere. Si tratta di parole utili in una guerra combattuta da uno Stato opportunamente indebolito. [pag. 75]

il denaro

Gli studenti ascoltano increduli se io parlo del conto comune, di tutto il denaro messo in un’unica cassa, e di come, attingendovi, tutti possono spendere secondo necessità. Non è possibile. Ciò può portare soltanto ad abusi o a discussioni interne senza fine su come usare il denaro. La mia risposta è: provate a discutere questo argomento con dei lavoratori molto anziani. Così anziani da non parlare di sicurezza sociale, bensì di sykekasse, termine che indica letteralmente la piccola cassa in cui regolarmente mettevano una piccola parte del loro salario nelle settimane in cui avevano avuto la buona fortuna di riceverne uno. Era da questa cassa che prendevano del denaro, se il loro fisico non poteva più sopportare la fatica.[pag. 47]

e così via…

Si parla cioè della potenziale zona grigia, considerando che quanto le relazioni tra le persone si fanno rare e distanti tanto più diminuisce la nostra conoscenza delle cose e aumenta la richiesta di regole che mai potranno corrispondere alla realtà.
Si parla dell’esercizio del giudizio, utile a definire dei noi artificiosi e basato su conoscenze astratte dal loro contesto concreto. È facile posizionarsi sulla base di ciò che è lecito o non è lecito fare, definendo la propria collocazione sociale sulla base della propria avversione o continuità con l’atto illegittimo. Tanto facile quanto inutile, naturalmente, ma è cosa che se mai la si scopre è sempre troppo tardi.

Le donne alla fontana e le tavole della legge sono l’esempio. [pag. 119]

La tesi, che rimanda sia a Zygmunt Bauman che a Ivan Illich, è che tanto più è ricco un substrato di relazioni tanto più è improbabile l’insorgere di entità astratte come quelle de ‘il criminale’. «Nella mia vita non ho mai incontrato un mostro», dice Christie, e l’accento va posto sulla parola incontrato, perché i mostri ci sono, e sono tali, solo fino a che non li incontri, sono come i Troll:

I Troll norvegesi hanno un punto peculiare di vulnerabilità. La loro vita è messa a repentaglio dal sole. Quando il primo barlume della luce del sole li trova, si spezzano o si trasformano in pietra.
Questa è la spiegazione delle tante, strane formazioni pietrose che potete trovare camminando sulle montagne norvegesi.
Le immagini di mostri sono difficili da mantenere, se arrivate a conoscerli. E per arrivarci va bene sia una conoscenza scientifica sia una ordinaria. Quando capiamo qualcosa di più del comportamento delle persone, in particolare, quando (ammesso che ne siamo capaci) vediamo noi stessi nel comportamento degli altri, allora i mostri si dissolvono.
[pag. 88]

Non è che ciò che Christie chiama ‘il fatto non desiderato’ debba essere dato in pasto a ‘esperti’ sociologi o medici, che operano per il ‘reinserimento’ e che così fungono da catena di congiunzione tra la ‘devianza’ e la ‘società’ dei ‘normali’ ma, piuttosto, questo deve essere restituito alle relazioni dirette, prive di tecnicismi, per esserne interessato e tornare a risultare interessante. Ciò che nascondiamo sotto il termine crimine è disequilibrio e potenziale conflitto, e negare il conflitto significa privarsi di una formidabile fonte di conoscenza sulle persone e sulle cose. Liberare il conflitto significa conoscere e agire, al contrario etichettarlo e volerlo dominare implica l’accettazione di un sistema di potere, statico ed autoritario.

Questo fino a quanto è possibile…

e qui arriviamo al passaggio più delicato e difficile, destinato a suscitare malumori – ma si spera anche utili discussioni e confronti -, l’abbandono dell’opzione abolizionista. A mio parere in questo caso la tesi che l’ipotesi di abolizione totale del sistema penale non sia praticabile è una conseguenza dell’aver voluto considerare prima i soggetti ‘agenti’ che l’essenza del sistema penale e la funzione dello stesso. Questi soggetti sono gli stessi che dovrebbero assumere in prima persona il compito di liberarsi della pena, in un sistema orizzontale di relazioni e non per imposizione dall’alto, perché solo il sistema orizzontale della comunicazione fa sparire il Troll, libera il conflitto e apre le porte alla conoscenza e al cambiamento. Mi limito, in questo caso, a citare la prima ragione adotta dall’autore:

Il più radicale tra loro [gli abolizionisti] vorrebbe eliminare completamente il diritto penale e la punizione formale. Ma esistono diversi problemi di fondo rispetto a questa posizione, nel caso in cui venga seguita sino all’estremo.
Il primo riguarda la preoccupazione per coloro che non desiderano partecipare a un processo di riconciliazione o volto a raggiungere un possibile accordo…
[pag. 125]

Quindi, dice Christie, innanzitutto non ne siamo capaci, non abbiamo gli strumenti, e, aggiungo io, non è detto che li avremo mai come, al contrario, potremmo scoprire averli domani. È un principio a tendere il cui limite oggi non è zero ma che, privato della smania della vendetta, inserito in un quadro di relazioni orizzontali e multi-istituzionali, potrebbe risultare una scelta (infelice) necessaria, almeno temporaneamente. Non si tratta di trovare il capro più cattivo da rinchiudere per buttare poi la chiave ma di scegliere di volta in volta la soluzione più indicata in un quadro di relazioni diverso da quanto imposto dal sistema di valori come quello in cui ci troviamo ora dove sembra che tutto si possa (e si debba) solo comprare o vendere e dove piuttosto che capire si preferisce giudicare. In fondo la “commissione per la Verità e la Riconciliazione” istituita in Sud Africa alla caduta del regime di apartheid ha funzionato più o meno in questo modo: accettare un percorso di mediazione ed evitare l’iter del processo penale era una libera scelta aperta a chiunque, che dava vita ad un confronto al termine del quale la commissione stessa stabiliva se la funzione mediatoria era andata a buon fine o meno. La commissione, nei casi in cui riconosceva concluso positivamente per tutte le parti il percorso di riconciliazione, aveva facoltà di archiviare il caso e concedere una amnistia. Non è una rivoluzione ma rispetto ai processi di Norimberga e alle Corti Internazionali di Giustizia il salto è enorme.

Nell’ottavo capitolo Christie sembra parlare ai suoi ‘colleghi’, lo stile è diverso, forse il brano viene da altrove. A loro dice ‘la nostra politica del crimine deve essere quella di chiudere le prigioni non di aprirne di nuove come usa fare adesso’.
Speriamo che qualcuno lo segua.

Link
(Vincenzo Guagliardo) – La rivoluzione abolizionista e il rinnegato Christie
Guagliardo, “Punizioni e premi, la funzione ambigua della rieducazione”
Guagliardo, “Logica premiale e logica vittimaria ispirano la nuova filosofia penale”
A dieci anni di distanza torna nelle librerie “Di sconfitta in sconfitta” di Vincenzo Guagliardo

(Vincenzo Guagliardo) – Christian G. De Vito, Camosci e girachiavi
(Vincenzo Guagliardo) – Angela Davis, Aboliamo le prigioni
Vincenzo Ruggiero, L’abolizionismo penale è possibile ora e qui

Sprigionare la società

Desincarcerer la société
Neoliberismo e populismo penale

La rivoluzione abolizionista e il rinnegato Christie

Libri – Una recensione al libro di Nils Christie, Una modica quantità di crimine, Edizioni Colibrì, Milano 2012 (Ed. or.: A Suitable Amount of Crime, Routledge, London 2004)

di Vinceno Guagliardo

Uno dei padri fondatori delle teorie per l’abolizione del sistema penale, il norvegese Nils Christie, si è recentemente ricreduto e sostiene ora un diritto penale minimalista: «una modica quantità di crimine» si intitola il suo libro in italiano (ma la traduzione più letterale per suitable non sarebbe “modica”, bensì “sostenibile”).
Definisce il minimalismo «una posizione vicina a quella abolizionista, ma che accetta in certi casi l’inevitabilità della punizione». A suo parere: «Tanto gli abolizionisti quanto i minimalisti assumono gli atti indesiderati come punto di partenza, non come crimini, e si chiedono come questi atti debbano essere trattati». A questo punto egli può perciò vedere il minimalismo non più solo come la corrente moderata del pensiero penalista contro l’eccesso di diritto penale, ma anche come la versione moderata… dell’abolizionismo. E anzi, la pena, se minima, e con relativo contorno di discussioni non solo aridamente “tecniche” (cioè giuridiche e quindi riduttive), ma affiancata dai contributi di altri professionisti (quali sociologi, psicologi, criminologi, mediatori eccetera) che trasformano il caso in ricca “narrazione”, la pena – dicevo – diventa cosa completamente diversa: «Assumendo come punto di partenza l’intera sequenza di eventi che conducono all’atto indesiderato, la punizione diventa una, ma solo una, tra diverse opzioni. Permettere che l’analisi discenda dai con­flitti, piuttosto che dal crimine, apre a una prospettiva liberatoria. Significa che noi non siamo rinchiusi in una ‘necessità penale’, ma siamo liberi di scegliere».
Personalmente, diversamente da Christie, non ho mai avuto troppi problemi ad accettare per certi fattacci l’uso della parola “crimini”. Si può sempre discutere del particolare conflitto chiamato “crimine” secondo le proprie visioni, l’epoca, il paese ecc. Ma devo aggiungere che non ho mai assunto il crimine come punto di partenza del ragionamento, bensì proprio l’idea di pena, massima o minima, considerandola il primo problema e non l’ultima soluzione. La pena non è mai la riposta adeguata al crimine per la sua soluzione; si limita a fabbricarlo, e aiuta a insorgere il fattaccio. Bisogna trovare la lunga via per un’altra filosofia della sanzione rispetto a questa che, ipocritamente, barbaramente e miracolisticamente, infliggendo sofferenza legale, pretende di spiritualizzare chi soffre e renderlo santo. E’ proprio la pena, in quanto tale, a negare il conflitto in sé, non la mancanza di professionisti delle scienze umane da porre in tribunale accanto ai giudici, agli accusatori, agli avvocati, alla polizia, ai carcerieri, ai giuristi, ai legislatori, alle università… I giudici non sono ciechi, hanno un compito vincolante: quello di erogare sofferenza legale.
Partendo dal crimine invece che dalla pena, Christie ragiona da criminologo invece di ridiscutere criticamente il “punto di partenza” della sua professione. Il ruolo dei criminologi (e dunque di se stesso) è così definito da Christie: «professionisti nel campo della devianza e del controllo». Giusto. Il loro compito è, giustamente: «… vergogna e reinserimento. Sono due concetti centrali nell’attività di controllo della devianza: le tue azioni erano deplorevoli, cattive, sbagliate. Dobbiamo dirtelo: vergognati! Ma per il resto tu sei OK. Smettila di agire in modo sba­gliato, torna a casa e noi uccideremo l’agnello, faremo un grande pranzo per festeggiare il tuo ritorno».
E se non si trattasse solo di tornare a casa – come premio – pentendosi?
Ma date queste premesse, ecco che di fronte a quei casi (minimi!) in cui la punizione sarebbe inevitabile e non già un’illusione che nulla risolve e dai tragici effetti, diventa inevitabile anche pensare addirittura che: «Per queste situazioni e per queste persone abbiamo le istituzioni penali come un tesoro nella società». Non solo “nella” società, ma anche “per”: «Finché coloro che sono considerati come devianti estremi o come fondamentalmente criminali a causa del loro comportamento sono pochi, il processo e la punizione possono aumentare la coesione della società nel suo complesso. Con una piccola popolazione carce­raria è possibile pensare alla devianza come a una eccezione».
Insomma, se non ci sono, bisognerebbe inventarseli, questi quattro gatti, in nome della coesione sociale. Ed è in questo contesto esaltante che: «Come ha di recente affermato Patricia Rawlinson, i criminologi devono diventare la Greenpeace dei sistemi sociali!» In un mondo ormai ideale perché «La punizione dovrebbe quindi essere l’ultima opzione, non la prima».
E va bene, il reo, vergognandosi, deve “soggettivizzare la pena”, come dice il linguaggio giuridico d’oggi, e così saremmo a posto. Ma chi può decidere la quantità minima di delitto sostenibile che (a parte l’inevitabile sofferenza dei quattro gatti all’interno del “tesoro”) rafforzerebbe la “coesione sociale”? Chi ha questo potere? E può mai esistere?

Il sistema penale (dalla criminologia alla reclusione) da sempre funziona come una cellula malata che si moltiplica automaticamente e fuori da ogni controllo. E’ l’esperimento in vitro che a seconda delle circostanze storiche esterne ad esso – nelle società – si trova sempre pronto all’uso, si dilata, o restringe, invade nuovi campi, può diventare lager o imprimere la sua logica punitiva anche fuori dalla reclusione. Uno strumento prezioso per dirottare l’attenzione da altri sguardi possibili della realtà, pur di mantenere quella coesione sociale che non metta in discussione l’esistente. Una morale. Ma anche un inganno, un’illusione, e oggi un pericolo per tutti e non soltanto per i soliti noti. Peccato che la scoperta di Christie tale non sia: il sistema penale nasce come centro morale della pretesa coesione sociale, e peccato che i quattro gatti non bastino mai. E’ per questo che l’abolizionismo non è, come crede ora il convertito Christie (finalmente uscito da tante ambiguità e carenze che lo contraddistinguevano anche in passato), una speranza irrealistica, un’utopia alla quale affiancare il suo presunto realismo per andare avanti, ma una politica concreta e immediata della disillusione che si rivolge anzitutto alle vittime. In modo semplice e magistrale il defunto Louk Hulsman non diceva al reo “vergognati e ti reinseriamo”, ma si rivolgeva alla vittima, dicendole: Che tu voglia vendetta va bene, ma guarda che di fatto il diritto penale ti darà solo illusioni, mentre in un diritto civile avresti molto da guadagnare, persino sul piano della vendetta, anche se magari non tanto quanto desideri.
In parole povere, l’abolizionismo non è una nuova criminologia ma una politica attiva nel presente che ci liberi gradualmente e, in prospettiva, secondo i tempi indefinibili di una nuova coscienza collettiva, dalla cultura della colpa, con precisi criteri orientativi. E’ cioè evidente che già nell’immediato presente le sue proposte o le sue lotte si differenziano dal nuovo Christie. Qualche esempio. Secondo Christie:
«Almeno in Russia pare evidente, fatta eccezione per i più anziani dissidenti politici, lo sviluppo di un sistema estremamente stratificato che immobilizza i perdenti al punto più basso. A causa delle migliori condizioni materiali, delle maggiori possibilità di individualizzazione del trattamento e del più elevato numero di guardie per ogni carcerato, forse va diversamente nella maggior parte delle prigioni statunitensi, anche se numerosi rapporti sulle guerre tra gang rivelano che le autorità penitenziarie sono ben lungi dall’avere un completo controllo».
«…basandomi sulle osservazioni fatte in Paesi che somigliano a Cuba, potrei almeno sugge­rire quali sono le linee di sviluppo consuete dei grandi sistemi penitenziari: con un tale numero di prigionieri e con un sistema che cresce rapidamente, le prigioni saranno ovviamente grandi e sovraffollate. Avranno relativamente poche guardie carcerarie. Questo significa che saranno gli stessi prigionieri a gestire la vita interna delle prigioni. Ciò condurrà allo sviluppo di un sistema gerarchico tra i reclusi. In cima avremo un re, circondato dalla sua corte. Un gruppo di criminali al suo servizio controllerà i prigionieri di rango più basso. Quindi ci sarà un gran numero di prigionieri di livello ancora inferiore. E al fondo troveremo gli intoccabili, quelli relegati ai compiti servili, che fanno alla fine da prostitute per quanti detengono la posizione migliore fra i prigionieri. Viene creato un sistema di casta all’interno delle carceri, un sistema che è in netto contrasto con quanto Cuba si sforza di creare per la società nel suo insieme».

L’armamentario proposto è il solito che ha portato all’attuale espansione totalitaria del sistema penale: più trattamento individualizzato (per la soggettivizazione della pena), più guardie per ogni carcerato, più controllo contro le forme di auto-organizzazione dei detenuti… Ad ogni “più” di Christie, si tratta semplicemente di contrapporre un “meno”. Egli ignora che le vecchie gerarchie interne ai carcerati erano funzionali all’interno del vecchio sistema penale e non ai reclusi, e che proprio con le misure che egli propone, esse vengono ormai sostituite dov’è possibile dalle stratificazioni trattamentali create dalle nuove équipe previste dal diritto premiale in un modo ritenuto meno rozzo e più efficace. Quello che è sempre mancato a Christie è ogni attenzione ai modi in cui la pena si raffina insidiosamente per meglio estendersi fino al ritorno dei tribunali della coscienza dei tempi dell’Inquisizione, nel quadro di una “società terapeutica” dove la dignità umana scompare e gli individui dovrebbero ridursi a pazienti da curare, dove l’unica pratica che prevale è lo scatenamento del principio vittimario. Il premio non diminuisce il diritto penale, ma lo potenzia contro ogni diritto tout court. Nel mondo italiano e anglosassone questo processo ha fatto passi giganteschi.
Uscito dall’ambiguità Christie lancia un appello perché trovi un nuovo ruolo il criminologo che non ha mai smesso di essere: «Uscite dalla torre d’avorio, dicono tanti. Ma noi ne siamo già fuori. Lasciateci rientrare, potrebbe essere la mia risposta. Come minimo, lasciateci anche avere la torre d’avorio. Non possiamo limitarci ad abitarla, ma la distanza è necessaria per cogliere la prospettiva nella sua interezza».
Più potere: la Greenpeace criminologica è in realtà un panzer. In difesa delle torri d’avorio.

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“No, Nils Christie non ha rinnegato l’abolizionismo”. Si apre la discussione dopo le critiche di Vincenzo Guagliardo al libro del criminologo norvegese
Guagliardo, “Punizioni e premi, la funzione ambigua della rieducazione”
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