Escogitata dal democratico Trasibulo nel lontano 403 avanti cristo, a conclusione della guerra civile vinta contro gli oligarchi, l’amnistia per Luciano Violante è – al contrario – un istituto giuridico tipico dei regimi autoritari, come quello fascista, o ancora non pienamente democratici, come l’Italia post-unitaria.
Tesi che non trova fondamento storico: dopo i massacri e la repressione seguita ai moti del 1848 in Europa, ed ancora di più sulle ceneri della Comune parigina, radicali, socialisti e blanquisti, cioè l’ala più progressista della borghesia e le prime organizzazioni politiche del movimento operaio, si riorganizzarono attorno alla parola d’ordine dell’amnistia, sulla quale fondarono o rifondarono la propria esistenza fino a farne una leva di liberazione più generale negli anni della Terza Repubblica francese. La sinistra politica e sociale ricostruì la propria legittimità grazie alla battaglia per l’amnistia che diverrà per buona parte del Novecento uno dei repertori più utilizzati, un vero e proprio segno identitario anteposto alle politiche repressive dello Stato, all’azione dei suoi bracci secolari: magistratura e forze di polizia. Gli Stati uniti d’America, fedeli allo loro costituzione, misero fine alla guerra civile tra unionisti del Nord e confederali del Sud con un’amnistia. Più recentemente, in Gran Bretagna, il moderatissimo Tony Blair nell’ambito del processo di soluzione politica della questione nord-irlandese ha amnistiato tutti i militanti coinvolti negli scontri armati
di Paolo Persichetti
«Come molte categorie e istituzioni delle democrazie moderne, anche l’amnistia risale alla democrazia ateniese. Nel 403 avanti Cristo, dopo aver abbattuto la sanguinosa oligarchia dei Trenta, il partito democratico vincitore prestò un giuramento in cui si impegnava a «deporre il risentimento» (me mnesikakein, letteralmente «non ricordare i mali, non avere cattivi ricordi») nei confronti dei suoi avversari. Malgrado l’opposizione dei più faziosi, che, come Lisia, esigevano la punizione dei Trenta, il giuramento fu efficace e gli ateniesi non dimenticarono l’accaduto, ma sospesero i loro “cattivi ricordi”, lasciarono cadere il risentimento. Non si trattava tanto, a ben guardare, di memoria e di dimenticanza, quanto di saper distinguere i momenti del loro esercizio».
Giorgio Agamben, il manifesto 23 dicembre 1997
«Il maggior numero di amnistie si è registrato durante il regime fascista: in 22 anni di dittatura ce ne sono state 51». Per Luciano Violante l’amnistia sarebbe dunque un’istituzione giuridica predemocratica. Lo ha detto con una bella faccia tosta durante il meeting di Comunione e Liberazione tenutosi a Rimini come ogni anno in pieno agosto. Erano i giorni in cui imperversava la polemica tra Scalfari e Zagrebelsky, innescata dallo scontro tra Quirinale e procura di Palermo attorno alla vicenda della trattativa tra Stato e Mafia e alle intercettazioni telefoniche nelle quali sono finite le voci del capo dello Stato e di un suo importante collaboratore.
Si rompe il fronte giustizialista
Sceso in difesa di Napolitano, Violante ha denunciato la pericolosità di un blocco politico-editoriale che farebbe capo «al Fatto quotidiano, Grillo e Di Pietro», e che starebbe «reindirizzando il populismo italiano verso un populismo giuridico», intenzionato – sempre secondo le sue parole – a «sostituire la democrazia con il processo penale per questo incita le procure a farsi levatrici di un nuovo ordine».
Populismo giuridico è un termine impreciso e fuorviante rispetto alle definizioni impiegate sull’argomento dalla letteratura scientifica negli ultimi venti anni, dalla pubblicazione nel 1997 del testo di Torbjorn Vallinder e Neal Tate, The Global Expansion of Judicial Power, nel quale si adoperava il termine “giudizializzazione”, ai testi francesi di Antoine Garapon e Dénis Salas che parlavano di “giudiziarizzazione”, paventando un governo dei giudici e una Repubblica penale; lavori ripresi in Italia da Carlo Guarneri sulla democrazia giudiziaria.
Al di là del neologismo imperfetto, la denuncia di Violante è apparsa molto forte e soprattutto sorprendente nella bocca di un esponente politico da sempre ritenuto il maggiore rappresentante del partito dei giudici, l’anello di congiunzione con le procure d’assalto insieme al blocco editorial-finanziario capeggiato da Carlo De Benedetti, il teorico di un sostanzialismo giuridico che vede nell’azione penale, nel protagonismo giudiziario, lo strumento principe dell’azione politica.
La rottura è forte anche perché ha messo fine a sodalizi antichi come il legame storico intrecciato con Giancarlo Caselli (oggi firma di punta del Fatto quotidiano) negli anni della guerra giudiziaria alla sovversione sociale e alla lotta armata per il comunismo nelle fabbriche, rinsaldata negli anni dell’antimafia quando Violante divenne presidente della commissione parlamentare (1992-1994) e Caselli procuratore della repubblica di Palermo (1993-1999) ed insieme condussero una manovra a tenaglia contro Andreotti e i suoi legami mafiosi, sponsorizzando la “banda del bacio” con i fedeli fgliocci Ingroia e Scarpinato a tentare in tutti i modi di provare la veridicità delle parole del pentito Di Maggio sul bacio d’iniziazione mafiosa che Riina avrebbe dato ad Andreotti. Anche questa finita in un plateale fallimento.
A questo punto è normale chiedersi se questa sortita sia la prova che qualcosa è veramente cambiato nella cultura politico-giuridica di Violante, ora che anche egli grida alle malefatte del giustizialismo. La risposta fornita contro l’amnistia, e soprattutto l’argomento prescelto, sembrano dirci di no anche se è vero che da circa un decennio il vecchio responsabile della sezione problemi dello Stato del Pci ha gradualmente elaborato una presa di distanze dalla stagione dell’interventismo giudiziario più sfrenato, priva tuttavia di qualsiasi accenno autocritico.
Il Frankenstein giustizialista non da più retta al suo inventore
Più che una rottura con la filosofia giustizial-emergenzialista, costruita attorno al mito della forza emancipatrice dell’intervento penale, quella di Violante appare solo un’azione di contrasto, un’opposizione tattica verso un fenomeno, il populismo giustizialista – di cui lui e il suo partito hanno perso da diverso tempo il controllo, dopo averlo lungamente accarezzato e sospinto negli anni in cui serviva a fare campagna contro Berlusconi.
Violante è consapevole che la dinamica politica avviata da Tangentopoli si è rivelata nel tempo un disastro per le sorti del suo schieramento politico, non solo perché ha favorito il fronte avverso consentendo il lungo regno berlusconiano ma soprattutto perché ha traghettato la società verso i lidi di un qualunquismo forcaiolo che come una valanga si abbatte ormai senza più alcuna distinzione sul ceto politico, fino a travolgere il deus ex machina del governo Monti.
Le amnistie del perido post-unitario e del Fascismo
Che il periodo repubblicano abbia dato luogo, come dice Violante, ad un minor numero di atti di clemenza è vero solo in parte. Una più durevole stabilità politica interna e internazionale (non ci sono state guerre, solo guerriglie, in Europa) e l’introduzione del voto parlamentare (per giunta divenuto ancora più restrittivo negli ultimi 20 anni, grazie proprio ad una sua iniziativa parlamentare), al posto della semplice volontà del monarca o del governo, hanno reso più laborioso il varo delle clemenze. Almeno 230 sono state quelle censite tra il 1861 e il 1943. Varate per fare fronte ad una lunga fase storica caratterizzata da periodi controversi: prima le violente repressioni post-unitarie, il brigantaggio, le rivolte agrarie, i moti popolari, le persecuzioni di anarchici e socialisti in un Paese dove la rappresentanza parlamentare restava censitaria. Successivamente due conflitti mondiali, il ciclo rivoluzionario degli anni 20 e l’avvento violento del Fascismo, che una volta stabilizzato ha fatto ricorso a numerose amnistie autolegittimanti contro gli oppositori politici, mantenendoli tuttavia sotto un rigido controllo poliziesco in luoghi di confino, spesso isole lontane.
Le amnistie nei due momenti della fase repubblicana
Dopo il 1944 i provvedimenti di clemenza sono stati in tutto 34: solo due negli ultimi 22 anni, ben 32 nel primo quarantennio della Repubblica. 18, tra il 1944 e il 1953, hanno sanato i postumi penali del conflitto bellico e della guerra civile; 3 amnistie-indulto sono intervenute negli anni 60 per chiudere l’epoca bellica e riequilibrare la repressione contro moti cittadini e lotte agrarie. Ancora 3 amnistie hanno affrontato il Sessanttotto e il successivo “Autunno caldo”. Altre 5 piccole amnistie, di cui 2 per reati tributari, sono state varate tra il ‘78 e l’86, poi c’è stato il provvedimento del 1990 concepito per compensare le disparità di trattamento tra vecchio e nuovo regime processuale provocate dal nuovo codice di procedura penale. Infine più nulla fino all’indultino del 2003 e all’indulto del 2006, varati per affrontare il sovraffollamento carcerario.
Non è vero dunque che il periodo repubblicano abbia fatto a meno della clemenza che la dottrina giuridica concepisce come uno strumento della politica penale in grado di calmierare gli eccessi repressivi o il perdurare oltre ogni ragione della punizione.
I provvedimenti di amnistia e indulto concessi dopo il 1943
| Regio decreto 5 aprile 1944, n. 96. Amnistia e indulto per reati comuni, militari e annonari |
| Decreto Luogotenente 26 ottobre 1944, n. 17. Concessione di amnistia e indulto per reati in materia finanziaria |
| Decreto Lgt. 8 giugno 1945. Applicazione degli articoli 1 e 2 del Regio Decreto 5 aprile 1944, n. 96, nei territori liberati dopo il 4 aprile 1944 |
| Decreto Lgt. 17 novembre 1945, n. 719. Amnistia per reati politici antifascisti. |
| Decreto Lgt. 29 marzo 1946, n. 132. Amnistia e condono per reati militari |
| Decreto Lgt. 29 marzo 1946, n. 133. Indulto per alcuni reati di mancato conferimento degli ammassi |
| Decreto Presidenziale 22 giugno 1946, n. 4. Amnistia e indulto per reati comuni, politici e militari |
| Decreto Presidenziale 27 giugno 1946, n. 25. Amnistia per reati finanziari |
| Decreto legislativo 18 gennaio 1947, n. 244. Estensione dell’amnistia, dell’indulto e della grazia ai condannati in territori attualmente sottratti all’Amministrazione italiana |
| Decreto C.P.S. 1 marzo 1947, n. 92. Amnistia e indulto per reati militari in occasione del giuramento alla Repubblica delle Forze Armate |
| Decreto C.P.S. 8 maggio 1947, n. 460. Amnistia e indulto per reati riguardo ai quali vi è stata una sospensione del procedimento o della esecuzione per causa di guerra |
| Decreto C.P.S. 25 giugno 1947, n. 513. Amnistia e indulto per reati commessi in relazione con vertenze agrarie |
| Decreto Presidente della Repubblica 9 febbraio 1948, n. 138. Amnistia per reati finanziari |
| D.P.R. 28 febbraio 1948, n. 138. Amnistia per reati finanziari |
| D.P.R. 27 dicembre 1948, n. 1464. Concessione di amnistia e indulto in materia di detenzione abusiva di armi |
| D.P.R. 26 agosto 1949, n. 602. Concessione di amnistia e indulto per reati elettorali |
| D.P.R. 23 dicembre 1949, n. 929. Concessione di amnistia e condono in materia annonaria |
| D.P.R. 23 dicembre 1949, n. 930. Concessione di indulto |
| D.P.R. 19 dicembre 1953, n. 922. Concessione di amnistia e indulto |
| D.P.R. 11 luglio 1959, n. 460. Concessione di amnistia e indulto |
| D.P.R. 24 gennaio 1963, n. 5. Concessione di amnistia e indulto |
| D.P.R. 4 giugno 1966, n. 332. Concessione di amnistia e indulto |
| D.P.R. 25 ottobre 1968, n. 1084. Concessione di amnistia e indulto |
| D.P.R. 22 maggio 1970, n. 283. Concessione di amnistia e indulto |
| D.P.R. 22 dicembre 1973, n. 834. Concessione di amnistia in materia di reati finanziari |
| D.P.R. 4 agosto 1978, n. 413. Concessione di amnistia e indulto |
| D.P.R. 18 dicembre 1981, n. 744. Concessione di amnistia e indulto |
| D.P.R. 9 agosto 1982, n. 525. Concessione di amnistia per reati tributari |
| D.P.R. 22 febbraio 1983, n. 43. Concessione di amnistia per reati tributari |
| D.P.R. 16 dicembre 1986, n. 865. Concessione di amnistia e indulto |
| D.P.R. 12 aprile 1990, n. 75. Concessione di amnistia |
| D.P.R. 22 dicembre 1990, n. 394. Concessione di indulto |
| Legge n. 207, 3 agosto 2003. Concessione del cosiddetto “indultino” |
| Legge n. 241, 31 luglio 2006. Concessione di indulto. |
Un’invenzione della democrazia ateniese
D’altronde la prima amnistia di cui si ha notizia è concessa dal democratico ateniese Trasibulo nel 403 avanti cristo. Dopo aver abbattuto la sanguinosa oligarchia dei Trenta, il partito democratico vincitore prestò un giuramento in cui si impegnava a «deporre il risentimento» (me mnesikakein, letteralmente «non ricordare i mali, non avere cattivi ricordi») nei confronti dei suoi avversari.
«Secondo me, amnistia è la parola più bella del linguaggio umano», faceva dire Victor Hugo a Gauvin, il personaggio che in Quattre-vingt-treize si oppone al giacobino Cimourdain e al vandeano Lantenac.
Solo pochi decenni fa l’amnistia era considerata una parola di sinistra. Nata con la democrazia ateniese era parte del repertorio delle forze che si dicevano democratiche. Fin dalle origini aveva animato le battaglie di libertà del movimento operaio. Convogliava un’idea di società tollerante e progressiva, conteneva una domanda di giustizia moderatrice consapevole dell’importanza che il ricorso a strumenti di correzione politica della fermezza penale, ispirati a quella mitezza tratta dalle vecchie massime latine che richiamano prudenza ed equità nell’applicazione della legge, svolgeva una funzione riparatrice delle ingiustizie.
Cosa è accaduto nel frattempo?
La finzione che presuppone il gioco democratico moderno, ovvero quel volersi proporre come il compimento stesso della politica, il grado più elevato della sua capacità inclusiva, si è trasformato in una gabbia totalitaria incapace di concepire l’altro da sè. Evocare l’amnistia equivarrebbe a voler riconoscere la persistenza di conflitti di fondo, la presenza di una disarmonia politica, ma la democrazia concepita come stadio finale della storia non lo accetta e così depolicizza il conflitto e criminalizza il nemico interno.
La soluzione starebbe nell’abbandono di quest’ipocrisia accettando l’idea del conflitto, unica residua possibilità di calare di nuovo l’idea di democrazia tra le rughe della storia, consentendo di recuperare quei necessari strumenti di ripoliticizzazione delle controversie, dopo aver affrontato fasi traumatiche di scontro. Una bestemmia per gli attuali regimi che si vogliono democratici inchiodati ad un insanabile paradosso: ribadire la figura del nemico irriconciliabile nel momento in cui vorrebbero affermarsi come un modello di superamento dell’inimicizia politica.
Bibliografia utile
Amedeo Santosuosso e Floriana Colao, Politici e Amnistia, Tecniche di rinuncia alla pena per i reati politici dall’Unità ad oggi, Bertani editore, Verona 1986, pp. 278
Stéphan Gacon, L’Amnistie, Seuil, Paris 2002, pp. 424
L’Amnistia Togliatti, Mimmo Franzinelli, Mondadori, Milano 2006, pp. 392
Une histoire politique de l’amnistie, a cura di Sophie Wahnich Puf, Parigi, aprile 2007, pp. 263
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inevitabilmente, abbassa la soglia della paura nel momento in cui sottopone i cittadini americani a una pressione sempre più forte. Le conseguenze dell’ascesa della questione criminale a uno status del genere sono state enormi: che si individui il valore della democrazia americana nelle sue caratteristiche di libertà o di uguaglianza, il governo attraverso la criminalità ha prodotto effetti negativi. In primo luogo, il massiccio dirottamento di risorse fiscali e amministrative verso il sistema di giustizia criminale – a livello statale e federale – ha configurato una trasformazione efficacemente descritta come transizione dallo “stato sociale” allo “stato penale”. Il risultato non è stato un governo più leggero, ma un esecutivo più autoritario, un potere legislativo più inerte e un sistema giudiziario più difensivo di quanto sia mai stato imputato allo stesso stato sociale. Inoltre, la parte di popolazione sotto custodia penale per aver commesso reati è cresciuta al di là di ogni legge storica. Alla fine del XX secolo, un numero senza precedenti di americani era confinato in prigioni statali o di contea, in centri di detenzione e luoghi di custodia all’interno delle scuole. La declinazione razziale di questa incarcerazione ha visibilmente invertito aspetti chiave della rivoluzione dei diritti civili. Per la prima volta dall’abolizione della schiavitù, un gruppo definito di americani vive, su basi più o meno permanenti, in una condizione giuridica di non-libertà – in virtù di una singola condanna all’ergastolo, di ripetute incarcerazioni, oppure delle conseguenze di lungo termine di una condanna penale; non solo, ma tra questi una sconcertante percentuale discende dagli schiavi liberati. Governare questa porzione di popolazione attraverso il sistema penale non ha garantito quelle condizioni di sicurezza che
potrebbero ispirare un maggiore investimento delle inner cities (cinture urbane, Ndr), ma, al contrario, ha ulteriormente stigmatizzato comunità già assediate dalla concentrazione della povertà. Come è prevedibile, sono i poveri, sovrarappresentati in entrambi i gruppi, a condividere questo destino; ma anche la vita quotidiana delle famiglie middle class è stata trasformata, non tanto dalla criminalità in sé, quanto dalla “paura della criminalità”. Nelle famiglie appartenenti alla middle class, decisioni quali dove vivere, dove lavorare e dove mandare a scuola i figli sono prese sempre più spesso in base al rischio percepito di criminalità. Nella misura in cui le istituzioni che sono al servizio della middle class si concentrano sulla gestione della paura della criminalità, la nostra nei confronti degli altri e quella degli altri nei nostri confronti, gli effetti si moltiplicano. Il punto non è che la middle class sia più colpita dal governo attraverso la criminalità di quanto lo siano i poveri; piuttosto, è considerare tanto il sistema di giustizia penale incentrato sulla comunità povere quanto il settore privato degli ambienti securizzati middle class alla stregua di specifiche modalità di classe, tra loro interagenti, del governo attraverso la criminalità. Tanto l’emergere delle gated communities (complessi residenziali chiusi all’accesso dei non residenti, Ndr) quanto il moltiplicarsi di smisurati Suv (sport utility vehicles) riflettono la priorità accordata dalle famiglie middle class alla sicurezza e al mantenimento della distanza, contro un rischio di criminalità associato ai poveri urbani. Ma come i critici dello sprawl (progressiva estensione delle città oltre il perimetro urbano, Ndr) hanno iniziato a documentare, un’insistenza così pesante sulla fortificazione rende queste comunità ancora più dipendenti da una polizia aggressiva e dallo stato penale per la tutela delle norme di civiltà. Infatti, il nuovo ambiente securizzato tende ad alimentare alcune routine circoscritte, ma quando si presentano situazioni inedite, esso tende a creare ciò che gli economisti chiamano (in modo appropriato, nel nostro caso) “dilemma del prigioniero”: vale a dire un gioco in cui i giocatori non possono collaborare, e possono avere la meglio solo se si fanno predatori per primi. L’ultimo che resta fuori perde (anche se sta tornando al suo Suv o nella sua gated community). In un ambiente di questo tipo, è lecito aspettarsi che querele e procedimenti penali intervengano sempre più a ristabilire il controllo sociale in assenza di fiducia.
migranti e richiedenti asilo. D’altro canto, con la crescente interdipendenza tra paesi e popoli, e con la coabitazione ‘coatta’ tra questi ultimi, la presenza dell’altro si rende visibile e finisce per creare insicurezza. Ecco un paradosso. L’insicurezza creata dai mercati riguarda tutti, o per lo meno le maggioranze, in termini di paura rispetto al futuro, vulnerabilità nei confronti del datore di lavoro, impotenza verso i processi decisionali. Ma una simile paura, che Bakhtin definirebbe ‘cosmica’, rivolta com’è a un potere inafferrabile e debordante, viene tradotta in sgomento indirizzato a minoranze visibili. Se lo Stato non può più difenderci dall’economnia, se non è più in grado di guidarla ma solo di obberdirle, allora dovrà difenderci da altre fonti di insicurezza. A uno Stato snello, che rinuncia alle tradizionali funzioni protettive, si chiede allora l’essenziale: la difesa del proprio corpo e dei propri possedimenti, anziché la difesa da un’economia che li minaccia. Il populismo penale è legato allo snellimento dello Stato e alla domanda crescente di difesa personale anziché sociale. Il termine populismo, d’altro canto, va riferito al risentimento di gruppi che si credono trascurati o abbandonati dall’autorità. Questo risentimento, però, si traduce in ostilità verso altri gruppi o individui ritenuti complici della condizione di abbandono avvertita. Il populismo non aspira al sostegno dell’opinione pubblica in generale, ma solo di quel settore della società che si crede sfavorito e danneggiato dalla presenza e dalle attività di altri gruppi. Questi ultimi, ritenuti immeritevoli di quanto posseggono, vengono indicati come responsabli dell’emarginazione di chi non vuole far altro che condurre un’esistenza ordinaria e silenziosa. Michael Howard, ministro britannico conservatore, in una dichiarazione rilasciata nel 1993, espresse con chiarezza questo pensiero: la maggioranza silenziosa è diventata rumorosa, perché il sistema della giustizia criminale fa ormai troppo per i criminali e troppo poco per la protezione del pubblico. Secondo una definizione comune, sono populisti i politici che concepiscono politiche penali punitive le quali sembrano rispecchiare gli umori popolari. Il populismo penale che si diffonde oggi, in realtà, nasconde altro. Assistiamo allo spettacolo dell’affluenza privata e dello squallore pubblico. Avvertiamo che i legami sociali si indeboliscono e sappiamo che solo questi legami possono contribuire, almeno parzialmente, a ostacolare gli appetiti individuali
eccessivi. La paura dell’altro, in questo contesto, è paura del tipo di sistema che abbiamo creato, è consapevolezza che sappiamo rispondere al crimine, ma non siamo in grado di rispondere alle sue cause. In una situazione di ineguaglianza crescente, con una polarizzazione della ricchezza che torna a livelli ottocenteschi, si teme che il crimine sia destinato a diffondersi e ad assumere i connotati della disperazione. Si teme l’ineguaglianza, non il crimine. Il populismo penale, infine, può avere una propria funzione latente. Se la severità penale, nei primi decenni della rivoluzione industriale, intendeva disciplinare le orde di spossessati al lavoro di fabbrica, nell’epoca corrente una simile severità può educare chi conduce vita precaria ad accettare la propria insicurezza e interiorizzare il proprio scarso valore sociale e umano. La pena, allora, contribuirà alla riduzione delle aspettative, convincendo chi ne è colpito della propria inutilità. Il populismo penale, in breve, è il compagno ideale della crescita economica, basata spesso sulla produzione dell’inutile che rende alcuni gruppi di esseri umani inutili. Ho detto in apertura che, nell’esaminare i paesi individualmente, si notano differenze non secondarie. Guardando all’Italia, ad esempio, credo che il populismo penale si avvalga di uno sfondo culturale e politico davvero singolare. Con una vita pubblica ormai priva di qualsiasi missione etica, e un’élite che moltiplica le manifestazioni della propria illegalità, il populismo non è il trasferimento in politica del risentimento popolare o delle intuizioni che vengono dalla strada, ma è l’insulto, l’aggressione, la depredazione che alcuni temono di poter subire per strada.