Se questo è un uomo. Ora provate a dire che il 41 bis non è tortura

Il filmato qui sotto mostra Bernardo Provenzano ripreso dalle telecamere di sorveglianza della sala colloqui 41 bis del carcere di Parma durante l’unica ora mensile di colloquio ammessa con i propri familiari. Le immagini venute in possesso della trasmissione televisiva Servizio Pubblico risalgono al 15 dicembre 2012.
Provenzano è stato arrestato nell’aprile del 2006. Sei anni di 41 bis lo hanno ridotto in questo stato. L’uomo ormai ottantenne appare poco presente a se stesso, incapace di intendere. I suoi movimenti sono rallentati, il suo stato è poco vigile, non riesce ad impugnare correttamente la cornetta del citofono che permette di parlare con i familiari al di là del vetro. Per ogni gesto deve essere sollecitato più volte dal figlio. Ricurvo su se stesso porta un vistoso berretto di lana sul capo perché – dice – «fa freddo». Il figlio si accorge della presenza di un cerotto e gli chiede prima cosa sia successo e poi di togliersi il copricapo. Sulla testa appare il segno evidente di una ferita. Alla richiesta di cosa sia accaduto, Provenzano, articolando le parole con molta difficoltà, risponde di aver preso «Lignate, sì. Dietro i reni». Il figlio gli chiede se sia caduto, Provenzano risponde di sì in modo confuso. Due giorni dopo queste immagini, forse a seguito di una caduta, l’anziano detenuto è rimasto colpito da un’emorragia celebrale. Ricoverato d’urgenza è stato operato. Da allora sembra che abbia molte difficoltà a parlare e sia quasi incapace di intendere e di volere, tanto che per questo è stato escluso da un processo.

Di fronte a queste immagini c’è forse qualcuno che può ancora negare come il 41 bis sia una particolare forma di tortura esercitata attraverso lo strumento della deprivazione sensoriale assoluta?
Attualmente 673 persone (rilevamento del 2011) subiscono questo trattamento di restrizione assoluta, ulteriormente aggravata per quelli tra di loro che si trovano nelle “aree riservate” (circa una ventina).

Nelle scorse settimane il legale della famiglia Provenzano, l’avvocato Rosalba Di Gregorio, ha chiesto la revoca del 41 bis per il suo assitito e la sospensione dell’esecuzione della pena per motivi di salute, ma l’istanza è stata respinta. Dopo l’apparizione di un articolo su Repubblica del 21 maggio, nel quale si faceva riferimento alle presunte percosse subite da Provenzano, il ministro della Giustizia ha chiesto al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di svolgere delle verifiche.

Attorno alle condizioni di salute di Provenzano si è accesa una singolare polemica che, omettendo completamente ogni interrogativo sul senso di un tale regime carcerario praticato su un uomo ridotto ormai ai minimi termini, solleva al contrario il sospetto che dietro le innumerevoli cadute registrate in cella nel corso dell’ultimo anno, in particolare l’ultima che l’ha ridotto in coma, vi sia dell’altro.
Che cosa? L’eventuale tentativo – si lascia intendere – di esercitare pressioni fisiche per impedire ad un Porvenzano ormai allo stremo di collaborare con la giustizia. E’ la tesi in particolare dell’eurodeputata Sonia Alfano, appartenente all’ormai dissolta Italia dei Valori, che nel corso dell’ultimo anno ha realizzato diverse visite al prigioniero. Secondo la parlamentare il peggioramento delle condizioni di salute di Provenzano potrebbe essere collegato al fatto che l’ex boss aveva mostrato interesse per un’eventuale collaborazione con la giustizia che gli avrebbe permesso di ottenere un regime carcerario più morbido del 41bis. Secondo Alfano, Provenzano sarebbe stato “neutralizzato”, ovvero sarebbe stato picchiato fino a rendere impossibile una sua collaborazione. In ragione di ciò, si sostiene in un comunicato diffuso da Servizio Pubblico: «la procura di Palermo ha aperto un’indagine per fare luce sui tanti misteri che ancora una volta avvolgono il super boss dei corleonesi».

Sul corpo di Provenzano si sta giocando uno scontro senza mezzi termini tra chi mostra di utilizzare il 41 bis come una sorta di anticipazione della morte del detenuto, seppellito nei cimiteri per vivi che sono questi particolari reparti carcerari, affinché l’ex capo mafioso porti nella tomba tutti i suoi segreti, e chi utilizza questo regime detentivo come mezzo per estorcere dichiarazioni da utilizzare contro i propri avversari politici. Una bella contesa insomma che mostra come giustizia e legalità non siano altro che arene della contesa politica.

Il 41 bis
imagesQuesto regime detentivo prevede la sospensione di tutte le regole ordinarie previste nell’ordinamento penitenziario. Può essere applicato anche a chi è in attesa di giudizio.
I detenuti in 41 bis possono fare una sola ora di colloquio al mese con parenti strettissimi attraverso un vetro divisorio e con i citofoni. Non potendo cumulare le ore come nelle carceri normali, molti di loro senza mezzi economici finiscono col fare pochissime ore di colloquio nell’arco dell’anno. La telefonata di 10 minuti ai familiari (alternativa al colloquio) è registrata e il familiare deve recarsi, per poterla ricevere, nel carcere più vicino al luogo di residenza. Le ore d’aria sono solo due mentre la socialità è limitata ad un massimo di tre persone individuate dalla Direzione dell’istituto senza possibilità di alcuno scambio tra detenuti (cibo, vestiti, libri…). La corrispondenza è limitata alle persone con cui si fanno i colloqui e sottoposta a censura. Non si possono tenere più di tre libri in cella. Recentemente il ministro della Giustizia Severino con una circolare ha disposto che il numero di tre libri dovesse ritenersi complessivo. In esso andavano inclusi anche quelli lasciati in magazzino, vietando al contempo la possibilità di ricevere giornali, riviste e libri dai familiari e per posta e autorizzandone unicamente l’acquisto tramite la ditta che gestisce il sopravitto e che offre una scelta ridottissima (settimana enigmistica, sorrisi e canzoni ecc. Niente riviste culturali, politiche, di letteratura, scientifiche o specialistiche).
Nelle sezioni con regime 41 bis opera un corpo speciale di polizia penitenziaria – il Gom (Gruppo operativo mobile) – che può stabilire norme particolari per questo tipo di sezioni. Alla sospensione dei diritti voluta dal Ministero si possono perciò aggiungere divieti particolari e specifici come la possibilità di avere con sé solo un numero limitatissimo di indumenti, calzini, fogli di carta, biro, ecc.

Gli imputati rinchiusi in regime di 41 bis sono esclusi dai processi. Non vengono più condotti nelle apposite gabbie predisposte nelle aule bunker dei tribunali ma portati in stanze, ricavate all’interno delle carceri, collegate in videoconferenza con i tribunali dove sono presenti soltanto giudici e avvocati. Viene così azzerato il diritto alla difesa.

Le aree riservate
Nelle carceri di Parma, Ascoli Piceno, Terni, Tolmezzo, Novara, Viterbo, L’Aquila e Spoleto, sono state allestite delle aree riservate, un 41 bis ancora più ristrettivo.

Attualmente tre prigionieri politici sono sottoposti a questo regime detentivo:
Nadia Desdemona Lioce (a L’Aquila)
Marco Mezzasalma (a Parma)
Roberto Morandi (a Terni)

Domani a Parma si terra una corteo nazionale contro il carcere e il 41 bis

25mag13carcereSul resoconto del corteo di Parma potete leggere qui

Approfondimenti
Cronache carcerarie

41 bis
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Carcere, gli spettri del 41 bis

 

Pianosa, l’isola-carcere dei pestaggi, luogo di sadismo contro i detenuti

Prima di brigatisti e mafiosi, ospitò l’anarchico Passannante e il socialista Sandro Pertini. In settimana si decide se ridestinarla nuovamente a prigione

Paolo Persichetti
Liberazione 8 novembre 2009

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Anche se l’intenzione di riaprire il super carcere di Pianosa sembra per il momento rientrata, di fronte alla ferma opposizione della ministra dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, la proposta avanzata dal guardasigilli Angelino Alfano suona come un sinistro presagio. Il governo ha brutte intenzioni se è vero che con grande disinvoltura tenta di rimettere in funzione una delle più brutali carceri speciali che l’Italia abbia conosciuto. Roba da far impallidire persino Guantanamo e Abu Ghraib. Da circa un decennio, l’isola è diventata un parco ambientale di alto valore naturalistico. Nel 1997 è stato trasferito l’ultimo detenuto rinchiuso nel reparto 41 bis, e dall’anno successivo a presidiare la vecchia struttura sono rimasti solo una sparuta pattuglia di agenti di polizia penitenziaria e alcuni detenuti semiliberi, provenienti dalla vicina casa di reclusione di Porto Azzurro, sull’isola d’Elba, che si occupano dei terreni agricoli. Aperta nel 1858 dal Granducato di Toscana, fu solo nei primi anni del Regno unificato d’Italia che la colonia penale agricola della Pianosa assunse la struttura attuale. Nello stesso periodo vennero create delle succursali nelle isole limitrofe dell’arcipelago toscano, alla Gorgona e sull’isola di Montecristo. Quest’ultimo insediamento fu però abbandonato nel 1880. Negli anni successivi e fino al 1965, l’isola divenne un reclusorio per detenuti ammalati di tubercolosi. Ma la casa penale della Pianosa si è guadagnata anche la fama di carcere per detenuti politici. Nelle sue famigerate celle sono passati l’anarchico Giovanni Passannante, che nel 1878 tentò di accoltellare Umberto I, e durante il fascismo il socialista Sandro Pertini. Ma fu nel maggio 1977 che, insieme alla sezione “Fornelli” dell’Asinara, la diramazione “Agrippa” della Pianosa conquistò un posto centrale nel circuito delle carceri di “massima sicurezza”, ideato dal generale dei carabinieri Carlo Albero Dalla Chiesa. Nel giro di due giorni, grazie anche all’utilizzo di grandi elicotteri bimotori da trasporto truppe Chinook, i reparti dell’Arma trasferirono 600 prigionieri. Un decreto interministeriale, oltre ad attribuire poteri eccezionali a Dalla Chiesa, sospendeva le norme vigenti in materia di appalti e concessioni edilizie (qualcosa di simile è stato chiesto dall’attuale capo del Dap, Franco Ionta). Furono edificate sezioni di massima sicurezza, oltre alle già citate sezioni Fornelli e Agrippa, anche sull’isola di Favignana e nelle carceri di Cuneo, Fossombrone, Trani, Novara, Termini Imerese, Nuoro, Palmi, Messina. Un enorme giro di miliardi da cui scaturirono anni dopo inchieste giudiziarie sulle famose “carceri d’oro”. In un documento fatto pervenire all’esterno, i primi prigionieri politici rinchiusi a Pianosa descrivevano così il luogo: «si tratta di un’isola-carcere, nel senso che la totalità del suo territorio – circa 12 km quadrati – è adibito a istituto di pena. L’isola consta di 4 diramazioni indipendenti. 4 carceri nel carcere. La più grande di esse, chiamata “Agrippa”, dopo aver subito una completa ristrutturazione è divenuta un vero monumento al sadismo repressivo dello Stato borghese». Pianta a forma di quadrilatero, doppio muro di cinta sormontato da filo spinato e un numero sproporzionato di fari. All’interno, celle molto piccole con arredo cementato al pavimento e alle pareti, «mura dipinte con colori speciali che provocano menomazioni visive e disturbi psichici; aria ridotta a mezz’ora la mattina e mezz’ora il pomeriggio, in piccoli cortili. Non più di sei per volta». All’arrivo – scrivono sempre i detenuti – si viene «sottoposti a un brutale pestaggio, dimostrazione del potere assoluto della direzione carceraria». Testimonianze del genere si moltiplicarono negli anni successivi. Il 31 marzo 1981, all’interno della sezione Agrippa avvenne uno delle più brutali violenze della storia carceraria. In una dichiarazione resa pubblica dai familiari, tenuti lontani dall’isola per 15 giorni, si informava che 70 detenuti della sezione speciale erano stati rinchiusi in isolamento dopo essere stati denudati e bastonati e i loro effetti personali distrutti. Ancora nel 1992, quando sull’onda della nuova emergenza antimafia il braccio di massima sicurezza accolse detenuti accusati di appartenere alla criminalità organizzata, i racconti non si discostavano da quanto accaduto negli anni precedenti. «Un litro d’acqua da bere al giorno, 200 grammi di vitto con dentro cicche di sigarette e pezzettini di vetro. La domenica è il giorno più sicuro per consumare la cena, all’apparenza si presenta senza scorie, diversamente dal pranzo dove si trova sia nella pasta che nel secondo un po’ di tutto, tra sputi, cicche, carta, plastica, vetro, preservativi e spaghi» (cf. Il Carcere speciale, sensibili alle foglie 2006). Nel 1993 un rapporto di Amnesty International raccolse le testimonianze denunciando le brutalità subite dai reclusi della sezione Agrippa.

ricorrente

Link
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Cronache carcerarie

La morte di Blefari Melazzi e le carceri italiane
Ignorata la disponibilita offerta da un gruppo di detenute che si offrì di assistere la Blefari. I magistrati puntavano al pentimento
Induzione al pentimento
Suicidio Blefari Melazzi: l’uso della malattia come strumento di indagine

Neoliberismo e populismo penale

Postfazione a Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale, di Angela Davis, Minimum Fax 2009

di Guido Caldiron e Paolo Persichetti


«L’aria era impregnata del fumo pungente del diesel e dell’odore di spazzatura marcia. La marmaglia dei prigionieri, più di metà neri o chicanos, era incolonnata per due, sei per catena, e ciascun gruppo riempiva un autobus: sembravano dei millepiedi umani. Dappertutto c’erano vicesceriffi in uniforme stirata alla perfezione. A ogni autobus erano stati assegnati tre vice, mentre gli altri stavano a guardare con le grosse 357 Magnum Python che penzolavano dalle mani. Alcuni poi accarezzavano dei fucili a canne mozze. Nonostante il puzzo, molti degli uomini respiravano a fondo, perché di aria fresca nella prigione senza finestre non ne entrava, e avevano già passato tre ore dentro celle di sicurezza di quattro metri per quattro, in gruppi di cinquanta ciascuna. Dietro di loro, gli affidabili della prigione stavano già spazzando le gabbie pronte per la seconda infornata del giorno».

Edward Bunker, Animal Factor


9788875212018g
Nella storia di Angela Davis, come in quella di tanti altri afroamericani, il carcere occupa un posto centrale. Intorno al carcere ruota la sua vita di militante e di intellettuale. Del carcere e del suo «superamento» ci parla in questo libro. Anche se, ci spiega, «il carcere è considerato talmente “naturale” che è estremamente difficile immaginare che si possa farne a meno». Il dibattito e il confronto hanno però prodotto importanti modifiche al senso comune su temi altrettanto delicati. «Molti sono già giunti alla conclusione che la pena di morte è una forma antiquata di punizione che viola i principi basilari dei diritti umani», sottolinea Davis, prima di aggiungere: «Penso che sia venuto il momento di incoraggiare un dibattito analogo sul carcere».
Nelle due parti di cui si compone questo libro, il saggio di Angela Davis intitolato Il carcere è obsoleto? e l’intervista con Eduardo Mendieta, Per una democrazia dell’abolizione. Oltre l’impero, il carcere e la tortura, la dimensione del carcere è affrontata da un punto di vista storico, sociologico e politico. Si parla degli Stati Uniti, delle loro galere e della parte della popolazione americana che vi è reclusa, in maggioranza i membri delle «minoranze», neri e latinos. Si parla però anche di una «via carceraria alla questione sociale», del tentativo di chiudere in cella l’eccedenza costante di forza lavoro che cresce ogni giorno di più nell’economia del precariato e della disoccupazione. Si parla, infine, del carcere come strumento di controllo, insieme ad altri, di un mondo dominato e governato a partire da paura e insicurezza. Una storia americana che è sempre di più anche una storia mondiale: un elemento chiave di quella globalizzazione del populismo che si è candidata da tempo a governo dell’intero pianeta.
Per accompagnare le analisi di Angela Davis abbiamo scelto così di ricostruire la genesi, da quest’altra parte dell’Atlantico, di un fenomeno che trova nel carcere e nella trasformazione del significato stesso della Giustizia le sue maggiori caratteristiche. Un fenomeno che è stato riassunto nella formula di «populismo penale» e che ha conosciuto uno sviluppo costante nel nostro paese, e nell’intera Europa, nel corso degli ultimi decenni.

Per affrontare questo tema si deve prendere le mosse da una constatazione: al centro del dibattito e dell’azione politica si va imponendo negli ultimi anni il tema della «criminalità». Un vero e proprio strumento di «governo attraverso la paura», secondo la formula utilizzata dal sociologo dell’Università di Berkeley Jonathan Simon. Descrivendo in particolare il caso americano ne Il governo della paura, Simon ha spiegato che «le conseguenze dell’ascesa della questione criminale a uno status del genere sono state enormi: che si individui il valore della democrazia americana nelle sue caratteristiche di libertà o di uguaglianza, il governo attraverso la criminalità ha prodotto effetti negativi. In primo luogo, il massiccio dirottamento di risorse fiscali e amministrative verso il sistema di giustizia criminale – a livello statale e federale – ha configurato una trasformazione efficacemente descritta come transizione dallo “stato sociale” allo “stato penale”. Il risultato non è stato un governo più leggero, ma un esecutivo più autoritario, un potere legislativo più inerte e un sistema giudiziario più difensivo di quanto sia mai stato imputato allo stesso stato sociale».
Il quadro è allarmante: non riuscendo più a far vivere la speranza, le politiche di governo hanno fatto dell’angoscia una risorsa, nutrendo la psicologia sociale con gli impulsi più bui dell’animo umano. All’origine di questa terribile «innovazione» sembra esserci il consolidamento del sistema di produzione postfordista e del corrispondente modello politico neoliberale. Da una forma di capitalismo che cercava d’ottimizzare le sue prestazioni attraverso politiche che incrementavano l’impiego e utilizzavano la capacità d’acquisto dei salari per accrescere la domanda, si è passati a un modello che ha fatto – perlomeno fino all’attuale crisi economica internazionale – della precarizzazione della vita e della speculazione finanziaria la sua fondamentale fonte di profitto, ingenerando un nuovo tipo di società dominato dall’esclusione, dalla collocazione forzata nell’armata del precariato diffuso, dallo sfruttamento intensivo dei settori più marginali della forza lavoro. Siamo perciò di fronte a una società dove l’umanità è percepita come un’eccedenza sociale, economica e politica. Sovrannumeri di cui il potere intende liberarsi per alleggerire il ciclo produttivo, ripulire le città, rispedire nei luoghi di provenienza i migranti, fare piazza pulita di questuanti, posteggiatori e lavavetri, occupanti di case sfitte e writers, senza mancare d’escogitare stratagemmi istituzionali e sistemi elettorali che grazie al maggioritario rendono superflue ampie porzioni di voto popolare, riservando la scelta del governo a nuclei sempre più ridotti di cittadini influenti, espressione dei ceti forti. Il tutto declinato attraverso il linguaggio della messa al bando, della difesa della società e della neutralizzazione del male. Una società dove s’indeboliscono i legami sociali, viene meno ogni capacità inclusiva e prevale un dispositivo predatorio, una sorta di legge della giungla che conforma tutti i rapporti sociali ridisegnando una nuova dimensione ideologica a cui si è dato il nome di «populismo penale».
Una «cultura del controllo» risultato della costante tensione tra ideologia neoliberale del libero mercato e autoritarismo morale neoconservatore, dove il conflitto non trova più uno sbocco: privo di progettualità esprime solo rabbia, rivalsa, frustrazione, rancore. Una guerra dei forti contro i deboli, non solo dei primi contro gli ultimi ma dei penultimi contro chi viene subito dopo, di chi sta peggio col suo simile, come in una sorta di «vita mea mors tua», di sopraffazione permanente, di scontro molecolare. Dinamica che trova nelle città la sua massima applicazione, come suggerisce Loic Wacquant in Simbiosi mortale: «La metropoli punitiva riorganizzata – termine con il quale mi riferisco ai grandi centri urbani, etnicamente eterogenei e tipicamente segregati cui si è storicamente ancorato il defunto regime fordista-keynesiano, costituisce un luogo privilegiato per analizzare le connessioni esistenti fra il nuovo clima penale e il neoliberismo, e per due ragioni. La prima è che, allo stesso modo in cui le grandi città si sono caratterizzate quali avamposti dell’economia “globalizzata” nell’era post Bretton Woods, analogamente esse hanno giocato un ruolo chiave rispetto all’ideazione e al consolidamento delle nuove strategie penali: costituiscono infatti altrettanti nodi di produzione, definizione e diffusione della penalità neoliberale, vale a dire laboratori per lo sviluppo e la sperimentazione di discorsi e programmi orientati alla gestione preventiva e punitiva dell’ordine pubblico e della criminalità, esemplificati dalle pratiche di “tolleranza zero” e da un insieme di prassi tese a ripulire le strade dai rifiuti sociali». «La seconda ragione, invece», sottolinea ancora Wacquant «è che le città stesse attraversano un processo di ristrutturazione determinato proprio dalla deriva verso la regolazione punitiva dei poveri e l’emergere dello Stato penale. Il diffondersi progressivo degli attori, delle categorie e delle procedure tipiche di questo Stato accentua il processo di polarizzazione che separa una luminosa e accattivante downtown, spazio di consumo e di svago riservato ai residenti di classe medio-alta e ai turisti, e un arcipelago oscuro e temibile di no-go areas, percepito come brodo di coltura di una underclass i cui “comportamenti antisociali” minacciano il benessere fisico e morale del corpo urbano».

Il paradigma su cui si è costruito questo processo è quello della cosiddetta «Tolleranza zero», la teoria elaborata dai sociologi della nuova destra che è diventata uno degli argomenti centrali della Rivoluzione conservatrice degli ultimi decenni: lungo un percorso ideale, culturale e politico che va da Ronald Reagan a Silvio Berlusconi. All’origine di questa lettura della società – fatta propria anche da ampi settori delle post-sinistre, come indica la Terza via di Blair ma anche, più modestamente, la polemica anti-lavavetri del centro sinistra dell’ultimo governo Prodi – c’è un articolo pubblicato nel marzo del 1982 sull’Atlantic Monthly, una delle più prestigiose riviste conservatrici americane, con il titolo di «Broken Windows», letteralmente «vetri rotti», e firmato da George L. Kellin e James Q. Wilson. Un articolo che spiegava come il tollerare che i vetri di un immobile fossero rotti o restassero a lungo senza essere riparati rappresentava solo l’inizio di una catena di degrado: quell’edificio sarebbe diventato rapidamente una sorta di covo di criminali. «Se i vetri non sono riparati subito, i vandali si sentiranno autorizzati a romperne anche altri. Non solo, se l’edificio risulterà abbandonato, potranno entrarvi, accendere dei fuochi all’interno o magari pensare di occuparlo». Il punto decisivo per Kelling e Wilson era che non si consentisse di accumulare degrado o vandalismi, o per estensione piccoli reati contro le cose, senza un intervento deciso da parte delle autorità. Solo la prevenzione di quelli che nel mondo anglosassone sono definiti come «comportamenti antisociali», gli atti di vandalismo di varia natura, o i reati minori, può preservare un quartiere, una città o un’intera società dall’estendersi di veri e propri fenomeni criminali. I due autori, che avrebbero negli anni successivi alla pubblicazione di questo testo collaborato a lungo con diversi organismi di polizia, immaginavano un nuovo ruolo per le forze dell’ordine, orientato in primo luogo a rispondere alle paure dei cittadini.
La dottrina delle «finestre rotte» criticava esplicitamente la sociologia urbana formatasi negli Stati Uniti dopo le grandi rivolte dei ghetti afroamericani degli anni Sessanta che aveva messo l’accento sulla crisi sociale che gravava su una parte consistente delle città americane. Come evidenzia Alessandro De Giorgi in Zero Tolleranza, «secondo i criminologi della nuova destra il soggetto criminale è un individuo pienamente in grado di decidere se tenere o meno un comportamento deviante» e «nessun rilievo, rispetto alle strategie del controllo, deve essere attribuito alle condizioni sociali e al contesto nel quale il soggetto agisce». La linea del populismo penale è stata tracciata: «A questo cambiamento di prospettiva sul piano analitico», conclude infatti De Giorni, «corrisponde una svolta sul piano operativo e una complessa ridefinizione delle funzioni stesse della penalità: allo scopo riabilitativo sotteso alle politiche del trattamento si sostituisce l’obiettivo della deterrenza e dell’intimidazione».

In Europa, a «gestire» politicamente questo passaggio sono state in un primo momento le nuove destre che, nel loro emergere durante l’ultimo decennio, hanno fatto del tema della sicurezza la chiave del proprio successo. Come racconta Denis Salas ne La volonté de punir «il tema dell’insicurezza invade il discorso politico e si impone nei programmi elettorali. A un mondo aperto e incerto, questi partiti oppongono una società chiusa e ripiegata sul passato. Contro la globalizzazione di tutti i pericoli, fanno appello a una nazione mitizzata e trovano il loro pubblico tra gli scontenti e i dimenticati dei processi globali. La carta sociale e geografica situa chiaramente il loro elettorato: i quartieri delle grandi concentrazioni urbane dove agisce la piccola o media delinquenza». «È questa la Francia lepenista», spiega ancora Salas: «quella della decomposizione del mondo operaio e di una perdita d’identità che conduce alla xenofobia. Come non ricordarsi, da questo punto di vista, dell’invito lanciato da Jean Marie Le Pen alle “vittime dell’insicurezza, della povertà e della miseria” a “ritrovare la speranza” tra i due turni delle elezioni presidenziali del 2002». Quando il leader del Front National era risultato il più votato dopo il candidato gaullista Jacques Chirac, cancellando dal ballottaggio elettorale i rappresentanti delle sinistre e portando la minaccia xenofoba a un passo dalla conquista del potere.

In questo clima politico e dentro queste nuove contraddizioni sociali ha così messo radici un groviglio confuso di sentimenti che intrecciano la paura per l’avvenire e l’ossessione per il declino sociale, accentuando i processi d’identificazione vittimistica. L’insicurezza sociale e mentale, diffusa e multiforme, oltre a colpire direttamente le famiglie delle classi popolari, è dilagata sempre più nei ceti medi che i nuovi discorsi marziali dei politici e dei media sulla delinquenza convogliano ossessivamente sulla questione dell’insicurezza criminale.
«La paura in politica, come osservava Hobbes, ha due volti: uno guarda lontano, verso i nemici che la nazione deve fronteggiare; l’altro guarda in se stesso, verso i conflitti e le ineguaglianze che la nazione stessa produce. L’astuzia del potere politico sta nel convertire il primo di questi sguardi nel secondo, utilizzando la minaccia dei nemici all’esterno per reprimere i nemici all’interno», spiega Corey Robin, docente di Scienze politiche a New York, in Paura. La politica del dominio. «Logorata ed esausta a seguito di sempre inconcludenti test di adeguatezza», aggiunge in Amore liquido Zygmunt Barman, «spaventata a morte dalla misteriosa, inesplicabile precarietà delle sue fortune e dalle nebbie globali che nascondono ai suoi occhi qualunque prospettiva, la gente cerca disperatamente dei colpevoli per le proprie pene e tribolazioni. E come c’è da attendersi, li trova sotto il lampione più vicino, nell’unico posto premurosamente illuminato dalle forze della legge e dell’ordine: “Sono i criminali che ci rendono insicuri, e sono gli stranieri che generano criminalità”».

Una delle figure centrali di questa grande svolta punitiva approdata in Europa dagli Stati Uniti è diventata perciò l’icona della vittima presentata come «autentica incarnazione dell’individuo meritevole: quasi un modello ideale di cittadino». «Negli anni Ottanta», scrive ancora Jonathan Simon, «la vittima della criminalità è emersa dall’ombra del soggetto dei diritti civili per costituirsi come soggetto politico idealizzato in sé. In una sorta di estensione all’“uomo qualunque”, le rivendicazioni delle vittime di criminalità fecero propria la critica di complicità che gli attivisti dei diritti civili e le femministe avevano articolato a proposito del coinvolgimento dello Stato nella violenza criminale». E «una volta separata dal soggetto dei diritti civili, la vittima della criminalità può legarsi facilmente a un altro nucleo fondamentale di mobilitazione politica: il contribuente, vittimizzato dal governo, minacciato da un’avida classe politica di perdere i propri averi e persino la capacità di avere una casa propria». Siamo in ogni caso di fronte a «una trasformazione radicale della relazione tra le vittime e la società, una trasformazione così profonda che sembra poter modificare l’equilibrio di quest’ultima», scrivono Caroline Eliacheff e Daniel Soulez Larivière in Il tempo delle vittime.
Tuttavia l’investitura legittimante che viene offerta dall’acquisizione di questa posizione sociale è caratterizzata da un accesso fortemente limitato e diseguale: non tutte le “vittime” sono uguali, anzi, non tutte sono “vittime”. La postura dell’innocente è infatti riconosciuta sulla base di ben selezionati requisiti di ordine sociale, economico, culturale e etnico che variano secondo le latitudini. Ma, in ogni caso, può un eventuale sentimento d’ingiustizia considerarsi una «ferita psicologica» sanabile soltanto per il mezzo di una condanna penale? Come sottolinea Antoine Garapon in Des crimes qu’on ne peut ni punir ni pardonner, «le vittime non si aspettano dalla Giustizia soltanto di essere “risarcite” del danno subito, ma anche e soprattutto di essere riconosciute». Ma «questa attesa», si chiede ancora il giurista, «non rischia di snaturare il processo, di cui non è certo l’obiettivo? Una tale domanda di riconoscimento rischia di introdurre una confusione tra il privato e il pubblico […], tra la violazione pubblica e la sofferenza personale, tra la reciprocità della cittadinanza e la compassione religiosa». Non solo: negli Stati Uniti la concessione dello status di vittima non suscita alcuna controversia e produce tutti i suoi effetti positivi solo nel caso in cui portatori della rivendicazione siano individui bianchi appartenenti al ceto medio. Allo stesso modo in Europa i criteri si basano sull’appartenenza comunitaria, la religione e l’identità politica. Il rumeno, il musulmano, il rom non hanno chance. Per i gruppi stigmatizzati in partenza, nei confronti dei quali si presume una contiguità originaria con l’universo criminale o la genealogia del male, non vi è alcuna possibilità di accedere al ruolo di vittima. Anche perché, come ribadito con precisione da Alessandro Dal Lago in Non persone, «qualunque sia l’essere dell’uomo, la sua esistenza è connotata dalla posizione all’interno (o all’esterno) di un ordinamento concreto. Le implicazioni della natura giuridico-positiva (e quindi, in ultima analisi, politica) della “persona” sono abbastanza evidenti. Se è vero che una delle conquiste degli ordinamenti politici moderni è il conferimento di “diritti” solo a chi rientra a pieno titolo in tali ordinamenti, chi ne è escluso (o chi non vi è incluso) non habet personam, e quindi è uomo solo in senso naturale, non sociale. La cittadinanza (l’insieme di diritti di chi è legittimamente incluso in un ordinamento) è quindi condizione esclusiva della personalità sociale, e non viceversa, come recitano sia il senso comune filosofico sia quelle dichiarazioni o convenzioni internazionali che affermano o riaffermano i “diritti universali dell’uomo o della persona”».
In effetti, più della vittima in sé è la nozione di “vittima meritevole” che trova affermazione e legittimazione. Non basta aver subito un torto o un danno per poter essere riconosciuti come tali, occorre innanzitutto entrare a far parte della categoria legittimata a esserlo. L’uso strumentale della figura della vittima è uno degli aspetti centrali di questa nuova ideologia punitiva che ha innescato un processo regressivo di privatizzazione della giustizia. Il diritto della vittima alla riparazione simbolica è lentamente scivolato verso un potere di punire quantificato soltanto in base alla natura e all’entità della pena da infliggere e al riconoscimento di una capacità d’interdizione e ostracismo perpetuo sul corpo del reo. Ogni retorica riabilitativa è scomparsa dietro una pura logica di rappresaglia che i poteri pubblici delegano alla vendetta privata, costruita sulla spersonalizzazione e la disumanizzazione assoluta di chi viene immesso nel recinto dei colpevoli.
Questo processo di privatizzazione del diritto di punire trae la sua origine dalla convinzione che la liturgia del processo penale possa svolgere una funzione terapeutica, favorendo la riparazione psicologica della vittima. A questa svolta culturale sembra aver contribuito la nozione di «stress post-traumatico» introdotta dalla psicologia clinica anglosassone dopo la guerra del Vietnam, poi estesa alle molteplici forme di traumatismo civile, sociale, politico e naturale. Un’interpretazione che non ha mancato di sollevare obiezioni, perché sancisce una connaturata fragilità dell’individuo moderno, ormai ritenuto incapace di reggere i conflitti. In questo modo l’esaltazione narcisistica della sofferenza diventa infatti una risorsa che le parti in lotta introducono nella dimensione simbolica del conflitto, percependosi l’una come vittima dell’altra. Una competizione della sofferenza che mina ogni possibile terreno di soluzione, ogni pausa o riconciliazione civile. Alla fine la vittima genera solo altre vittime, ricordava infatti Hannah Arendt.

Quest’ideologia presenta tuttavia sfaccettature diverse tra la realtà nordamericana e quella europea. Differenze legate alla presenza di diversi modelli sociali, istituzionali e giudiziari. Il tema della complicità fra il crimine e lo Stato, tacciato per questo d’elitismo e corruzione, appartiene, per esempio, al repertorio classico della critica neoconservatice e dei libertarians americani (i fautori dello Stato minimo) nei confronti di quello che viene ritenuto un eccessivo presenzialismo statale (da questi definito big government) nelle questioni di società. Al contrario, da noi, chi mette l’accento sulla centralità della lotta alla mafia, denuncia il lassismo del governo nella lotta alla criminalità auspicando un sempre maggiore coinvolgimento dello Stato.
Il sistema giudiziario di tipo accusatorio fa sì che nel modello nordamericano si configuri una contrapposizione politico-ideologica tra gli incarichi elettivi e quelli indipendenti che reggono il sistema della giustizia penale, definito da Jonathan Simon il «complesso accusatorio». Lo sceriffo della contea insieme all’attorney locale (il procuratore) sono ritenuti i protagonisti della guerra senza quartiere al crimine. Mentre il giudice terzo, in quanto garante delle forme della legge, è percepito come un ostacolo se non addirittura una figura connivente con la delinquenza. La tradizione inquisitoria che caratterizza ancora il sistema giudiziario italiano, via di mezzo tra rito istruttorio e «semiaccusatorio», consente invece alla nostra magistratura di essere individuata come il perno centrale della lotta non solo alla criminalità ma più in generale all’ingiustizia. L’impegno profuso nel contrastare la sovversione sociale degli anni Settanta, la lunga stagione delle leggi penali speciali e dei maxiprocessi che ha traversato il decennio degli Ottanta, e poi la stagione di Tangentopoli hanno conferito alla magistratura, e in particolare ad alcune importanti procure, il ruolo di vero e proprio soggetto, portatore di un disegno generale di società. I giudici sono così diventati i protagonisti di quella che è stata presentata come «la rivoluzione italiana» dei primi anni Novanta, di cui Marco Revelli ha offerto in Le due destre una delle migliori sintesi. «Quello che sembra d’intravedere tra le brume dei primi anni Novanta», scrive il sociologo torinese, «sotto la superficie increspata delle inchieste giudiziarie, dietro la rappresentazione televisiva degli imputati eccellenti e degli arresti a catena, è la dissoluzione di tutti e tre i patti non scritti che avevano, in qualche modo, presieduto alla sopravvivenza della Prima Repubblica, ben oltre la sua effettiva durata in forma costituzionale. In primo luogo il residuo patto sociale tra capitale e lavoro […], in secondo luogo il patto che potremmo definire finanziario tra Stato-apparato e contribuenti o, se si preferisce, tra finanza pubblica e risparmio». E, infine, il «terzo patto che aveva retto il prolungamento, post mortem, della Prima Repubblica: il patto politico stabilito tra cittadini e classe eletta di governo nella confusa metamorfosi della società civile e della società politica a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. Patto di delega e mediazione, in base al quale veniva in qualche modo scambiato consenso contro consumo». «È in questo clima», conclude Revelli, «che i “mediatori” vengono trasformati in “criminali” in struttura deviante. E che il prezzo della mediazione, vissuto prima come necessità funzionale, viene d’un colpo percepito socialmente (e giudiziariamente) come “furto”».
Tornando all’ideologia vittimaria, va rilevato come nel nostro paese non abbia ancora assunto una sua fisionomia codificata e stabile. In un’epoca in cui i fenomeni sociali prendono una conformazione «liquida», anche il vittimismo diventa non solo pervasivo ma proteiforme, mutevole: e così nelle lande del Settentrione leghista fanno breccia gli argomenti tipici della destra statunitense sul contribuente vittimizzato dalle tasse governative, sul costo eccessivo di un welfare per i poveri e le minoranze urbane, cioè le stesse comunità accusate di generare criminalità, che nella retorica leghista diventano i migranti e le regioni meridionali. Così il sociologo Aldo Bonomi ha scelto «il risentimento e il rancore» quale cifra delle trasformazioni più profonde che attraversano questa parte del nostro paese. Ne Il rancore, il suo libro-viaggio nel «malessere del nord», Bonomi indaga ad esempio le ragioni del risentimento delle regioni settentrionali dell’Italia verso il complesso del mondo politico, accusato di essere troppo lento nel risolvere i problemi posti dallo sviluppo produttivo, ma anche di non capire i bisogni dei nuovi ceti emersi dalla rivoluzione economica dell’ultimo ventennio, su tutti il cosiddetto «popolo delle partite Iva». «Sono cambiate le forme di produzione, la composizione sociale, i modi per rappresentare interessi, passioni e forme di convivenza, i quali hanno come primo luogo di condensa il territorio», spiega Bonomi «Qui i problemi grandi, quelli della modernizzazione per stare nello spazio globale, e quelli piccoli, delle forme di convivenza di una società che cambia, sono più visibili e diretti».

Nonostante sia evidente la matrice ultrareazionaria e il carattere ferocemente conservatore dei suoi esiti politici, al dilagare del populismo penale, almeno in Italia, non è estranea la cultura di una parte della sinistra. La democrazia coniugata nella sua forma giudiziaria ha così favorito e accelerato la svolta a destra della società italiana. «La lunga sequenza delle “emergenze” sponsorizzate in prima persona dal Pci –», scrive Salvatore Palidda, «il terrorismo, la mafia, tangentopoli, ecc. – ha prodotto un’attitudine istituzionale alla messa in mora dei diritti fondamentali. Di più: ha delegittimato la vigenza effettiva del dettato costituzionale (“nato dalla Resistenza”) in nome della sua difesa verbale. Al termine di questa lunga stagione emergenziale resta soltanto il potere pratico della legittimazione manipolante di qualsiasi politica venga decisa dal “centro” dello stato. Che nel frattempo, avendo visto scomparire e delegittimare – con Tangentopoli – la politica e – col procedere dell’integrazione europea – la sovranità monetaria e diplomatica, si è ridotto alla pura funzione esecutiva: magistratura e polizia».
Le conseguenze di queste politiche sulla situazione delle carceri italiane sono poi sotto gli occhi di tutti. «Se nel 1990 nelle nostre prigioni c’erano 25.931 detenuti, nel ’91 se ne contavano già 35.469, che divennero 47.316 nel ’92, fino a stabilizzarsi intorno alle 50mila presenze giornaliere negli anni successivi», indicava già nel 2002 in Massima sicurezza l’operatore carcerario Salvatore Verde, aggiungendo: «L’indice di carcerazione nel nostro paese passa bruscamente dalle 45 alle 89 persone ogni 100mila abitanti […]. Ancor più evidente è questo sconvolgimento se guardiamo ai flussi di ingresso nelle prigioni. Se nel ’90 entrarono 57.735 persone, nel 1994 gli incarcerati superarono le 100mila unità». Ma non sono solo i numeri a indicare la differenza rispetto al passato. Se all’epoca dell’ingresso in carcere di Giulio Salierno, entrato in cella come militante neofascista condannato per omicidio e uscito come sociologo marxista tra i più attenti alla realtà dell’emarginazione e del controllo sociale – come ha raccontato nella sua Autobiografia di un picchiatore fascista – nell’Italia della fine degli anni Cinquanta i detenuti provenivano prevalentemente dal «proletariato bracciantile, adulto e meridionale», non è così nell’ultimo decennio. Come spiega Salvatore Verde: «La composizione sociale del nuovo popolo delle carceri si presenta radicalmente mutata rispetto ai soggetti che avevano agitato la scena carceraria negli anni Settanta e Ottanta. In carcere affluisce un variegato panorama di figure sociali (caratteristiche del) sottoproletariato giovanile metropolitano. Il tossicodipendente e l’immigrato diventano le principali figure bersaglio. Sono questi i soggetti che sconvolgono le statistiche penitenziarie di questi anni e che pagheranno i costi più pesanti della deriva criminalizzatrice delle politiche del controllo sociale».

BIBLIOGRAFIA

Zygmunt Bauman, Amore liquido, Laterza, 2004
Aldo Bonomi, Il rancore, Feltrinelli, 2008
Robin Corey, Paura. La politica del dominio, Università Bocconi, 2005
Alessandro Dal Lago, Non persone, Feltrinelli, 1999
Antoine Garapon, Des crimes qu’on ne peut ni punir ni pardonner, Odile Jacob, 2002
Marco Revelli, Le due destre, Bollati Boringhieri, 1996
Denis Salas, La volonté de punir. Essai sur le populisme pénal, Hachette, 2008
Giulio Salierno, Autobiografia di un picchiatore fascista, minimum fax, 2008
Jonathan Simon, Il governo della paura, Raffaello Cortina Editore, 2008
Salvatore Verde, Massima sicurezza, Odradek, 2002
Loic Wacquant, Simbiosi mortale, Ombre Corte, 2002
Caroline Eliacheff e Daniel Soulez Larivière, Il tempo delle vittime, Salani, 2008

Terremoto, sfollato il carcere di L’Aquila

«In trappola come topi», era fondato l’allarme delle prime ore di agenti e detenuti del carcere di L’Aquila evacuato in piena notte.
Tensione anche a Sulmona: i reclusi dormono fuori dalla celle

Paolo Persichetti
Liberazione 9 aprile 2009

«I reclusi erano in preda a tensioni comprensibili e si sentivano dei topi in trappola», con queste parole il presidente del consiglio Silvio Berlusconi ha spiegato le ragioni che hanno portato all’evacuazione del carcere di L’Aquila.
I toni rassicuranti apparsi nel primo comunicato diffuso dal ministero della Giustizia, dopo la scossa devastante che domenica notte ha squassato l’Aquila e i paesini circostanti, erano soltanto uno schermo. Che fosse un tentativo di prendere tempo per organizzare lo sfollamento del carcere, mantenendo la riservatezza per ovvie ragioni di sicurezza, dopo che il sisma aveva reso inagibile la caserma del corpo di custodia, distrutto le abitazioni di una trentina di agenti della polizia penitenziaria e danneggiato le celle dove erano ubicati i detenuti, anche se non in modo strutturale come più volte ribadito dall’amministrazione, si era capito subito. Diversi agenti erano stati inviati dalle carceri del nord per rimpiazzare i locali. Voci allarmate provenienti dallo stesso personale di custodia descrivevano una realtà molto diversa da quella dipinta nei comunicati ufficiali.
Insomma la gestione del carcere, una struttura ritenuta particolarmente “sensibile” nella mappatura degli istituti di pena italiani per la presenza di un importante reparto di massima sicurezza e di un’area riservata nella quale erano rinchiuse due donne, tra cui Nadia Lioce, era diventata problematica. L’ininterrotto sciame sismico (354 scosse registrate, 182 soltanto nella giornata di martedì, e una sessantina di magnitudo superiore al 3 della scala Richter) ha accresciuto col passar dei giorni le tensioni. Detenuti e personale di custodia non tolleravano più la loro presenza sul posto.
D’altronde se la popolazione della città era stata evacuata dalle zone a rischio, non v’era nessuna altra ragione che giustificasse la permanenza all’interno dell’Istituto penitenziario dei reclusi, obbligando gli stessi agenti di custodia a correre dei rischi notevoli. I sindacati di polizia penitenziaria hanno sicuramente fatto la voce grossa. Così dopo l’ultima violenta scossa di martedì sera è partito nella notte il piano di evacuazione. Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha avviato le procedure subito dopo la mezzanotte. I primi mezzi hanno lasciato il carcere delle Costarelle verso le due.
Ovviamente un piano del genere non s’improvvisa. Dal Dap con una nota ufficiale hanno fatto sapere che si è trattato della «più grande operazione di traduzione di detenuti che si ricordi», dopo quella – aggiungiamo noi – che diede avvio al “circuito dei camosci”, la rete di carceri speciali voluta dal generale Dalla Chiesa.
Nella notte tra il 16 e il 17 luglio 1977, in grande segretezza e con ampio spiegamento di forze e mezzi dell’Arma dei carabinieri, facendo anche uso di elicotteri birotore Chinook, alcune centinaia di detenuti politici furono trasferiti nelle prime carceri di massima sicurezza appena allestite, tra cui la famigerata sezione Fornelli nell’isola dell’Asinara.
Per il trasferimento dei detenuti ristretti nel carcere aquilano sono stati impiegati, secondo le cifre fornite dal ministero della Giustizia, 200 uomini, molti dei quali appartenenti al Gom (il reparto speciale della polizia penitenziaria impiegato per la custodia dei reparti di massima sicurezza e per le operazioni speciali, noto per il famigerato comportamento tenuto contro i manifestanti nella caserma di Bolzaneto, nel 2001) per un totale di 70 mezzi, di cui 40 furgoni blindati e 40 autovetture della polizia penitenziaria. Le due donne rinchiuse nell’area riservata sono state tradotte nel carcere femminile di Rebibbia a Roma; gli 81 ristretti nella sezione 41 bis sono finiti nel reparto di massima sicurezza della casa di reclusione di Spoleto, mentre i detenuti assegnati al circuito della media sicurezza sono stati inviati nella casa circondariale di Pescara. L’intera operazione, sottolinea ancora il comunicato del ministero, «è avvenuta senza incidenti».esterne071312460704131438_big
Tensione c’è anche nel carcere di Sulmona, dove i 464 detenuti presenti (292 nella reclusione e 172 internati nella casa lavoro) si sono rifiutati di dormire nelle celle e hanno trascorso la notte nei passeggi e nelle sezioni. Anche se l’istituto penitenziario non ha subito danni, tra i detenuti circola un comprensibile stato di ansia. Per questa ragione la direzione ha rafforzato i turni di sorveglianza esterna al carcere e sospeso i riposi degli agenti penitenziari in servizio.
Il terremoto ha fermato anche l’udienza del maxiprocesso alla mafia tirrenica. Un imputato, detenuto in regime di 41 bis nel carcere di Avezzano, durante il collegamento in videoconferenza ha avuto un attacco di panico a causa delle scosse d’assestamento.

Link
Abruzzo, la terra trema anche per i dimenticati in carcere

Dopo la legge Gozzini tocca al 41 bis, giro di vite sui detenuti

Isolamento totale. Lo invoca una circolare inviata dal ministro della Giustizia ai direttori degli Istituti di pena

Paolo Persichetti
Liberazione 20 luglio 2008

Ogni annuncio ha il suo pubblico. In un sistema politico ridotto ormai a teatrino, il ministro della Giustizia Alfano ha scelto la città di Palermo, profittando della platea che gli veniva offerta dall’anniversario dell’attentato mortale contro il giudice Borsellino e la sua scorta, per rendere noto il contenuto di una circolare diramata dai suoi uffici «molto restrittiva sul 41 bis. Una stretta che impedirà qualsiasi comunicazione fra i boss arrestati».

Reuters, Jorge Adorno

Reuters, Jorge Adorno

Nel provvedimento si chiede ai direttori degli istituti di pena di disporre lo spostamento dei reclusi sottoposti al regime del carcere duro in celle distanti tra loro per impedire qualsiasi scambio verbale. Una decisione che creerà non pochi problemi al Dap, visto l’attuale sovraffollamento delle sezioni di massima sicurezza. Sanzioni disciplinari sono poi state previste per i detenuti sorpresi a comunicare tra loro. Il guardasigilli si è voluto probabilmente ispirare alla nota osservanza del silenzio che regolava la vita monacale dei frati cistercensi. A ben vedere, il regime detentivo previsto per il 41 bis ricorda molto da vicino «l’osservanza integrale della Santa Regola, soprattutto dell’astinenza perpetua dalla carne, la fedeltà nelle leggi costituite a proposito del digiuno e del silenzio». Disposizioni più selettive sono state introdotte anche per regolare i “gruppi di socialità”, ovvero il numero e i criteri di composizione dei detenuti che possono accedere nei piccoli cubicoli di cemento che fungono da passeggi per le ore d’aria. Unico spazio d’incontro concesso nell’arco di una giornata altrimenti marcata dalla monotonia dell’isolamento più assoluto.
L’annuncio del ministro ha lasciato però insoddisfatto il capo della Procura della Repubblica di Palermo, Francesco Messineo, a cui l’inasprimento del regime detentivo non basta poiché – ha sottolineato – il «problema è il mantenimento del carcere duro

REUTERS/Damir Sagolj

REUTERS/Damir Sagolj

rispetto a certi soggetti. Serve un impegno diretto e di modifica della norma e una sua più puntuale interpretazione». Il giro di vite interviene dopo le polemiche suscitate dalle revoche decise da più tribunali di sorveglianza, in favore di 37 detenuti condannati per reati di mafia. Il solito coro trasversale dei professionisti dell’antimafia si era subito levato per denunciare le «interpretazioni eccessivamente garantiste» fornite dai magistrati.
Esempio tra i più clamorosi della giustizia d’eccezione, il 41 bis rielabora il vecchio articolo 90, ovvero la norma che sospendeva l’applicazione della riforma carceraria utilizzata nelle carceri speciali durante gli anni della detenzione politica di massa. Introdotto per la prima volta nel 1992, con il decreto Scotti-Martelli, il regime speciale di massima sicurezza è stato sistematicamente rinnovato fino ad essere stabilizzato nel 2002, quando l’eccezione si è tramutata in regola. Una lunga serie di sentenze della Cassazione e della Corte costituzionale hanno fatto sì che l’assegnazione al regime di carcere duro venisse sottoposta a verifica giurisdizionale, consentendo ai detenuti di presentare ricorso alla magistratura. Oggi il 41 bis è vittima del suo successo. Infatti la revoca può avvenire soltanto una volta verificata l’assenza di legami con la criminalità mafiosa e l’attenuarsi della pericolosità sociale. Molte delle declassificazioni concesse sono intervenute dopo oltre un decennio di isolamento nelle sezioni di massima sicurezza. Segno che la clausura ha spezzato i legami più intensi con i contesti criminali. Chi contesta queste declassificazioni sostiene il contrario entrando così in una insanabile contraddizione: se decenni di un isolamento che s’apparenta alla tortura non servono a rompere i legami criminali, allora il 41 bis a cosa serve?
Già negli anni del governo Prodi si era registrata una crescita delle revoche che aveva spinto il Dap a incrementare la creazione di nuove sezioni a «elevato indice di vigilanza». Una nuova clasificazione che sfugge a qualsiasi controllo giurisdizionale, essendo il mero risultato di due circolari interne dell’amministrazione penitenziaria. Caratterizzate da un regime ristrettivo molto vicino a quello del 41 bis, le nuove sezioni Eiv – che accolgono anche quei detenuti che per legge non possono essere sottoposti a 41 bis, tra cui i detenuti politici degli anni 70-80 – di fatto rappresentano un regime di massima sicurezza camuffato che non può nemmeno avvalersi delle prerogative riconosciute per il 41 bis ufficiale.disegno_liberitutt
Il presidente della prima Commissione Affari Costituzionali del Senato, l’ex Psdi Carlo Vizzini, oggi nel Pdl, ha presentato un ddl che aumenta di un anno la durata de 41 bis, capovolge incostituzionalmente l’onere della prova dell’assenza dei legami con la criminalità, oggi a carico delle procure antimafia e sposta la competenza al solo tribunale di sorveglianza di Roma per tutti i ricorsi contro l’assegnazione al 41 bis.

 

ansa0035012bcxw200h270c00Gli spettri del 41 bis
di Paolo Persichetti, Liberazione 30 ottobre 2002

Degli spettri si aggirano per le carceri italiane, sono i detenuti sottoposti al 41 bis. Si tratta di uomini e donne imprigionati due volte. Dei tribunali hanno tolto loro la libertà, una amministrazione ha decretato la loro invisibilità. Si trovano qualche metro più in là, oltre le sbarre e la griglia che ornano la finestra di questa cella. Pochi metri di cortile mi separano dal popolo dei murati vivi, i fantasmi della prigione. Quando qualcuno di questi spettri traversa il carcere le porte blindate vengono chiuse al loro passaggio. Altre barriere si aggiungono a ispessire il loro isolamento e la loro distanza. Il 41 bis è il regno della opaca afflizione, la pena che rende invisibili. Il supplizio moderno ha vergogna di se stesso, fosse trasparente probabilmente perderebbe molta parte della sua legittimazione sociale.
L’intero carcere è colmo di queste «assenze» che si fanno pesanti presenza per tutti. Disciplina e regolamento dell’istituto sono segnati dalla esistenza di questi spettri: non c’è socialità, non ci sono attività rieducative o di formazione, è chiuso persino il campo di pallone. Anche la televisione è imprigionata in una scatola metallica. Tutto è chiuso, metodicamente blindato e imbullonato. «Massima sicurezza» vuole dire deserto disciplinare, spazi angusti e metallici dove i corpi in soprannumero sono stipati e formati in modo rigido e severo mentre le menti si inaridiscono. 20080603_giudiciL’unico svago concesso viene dall’agognato carrello dell’infermeria che scandisce la giornata distribuendo tre volte al giorno stupefacenti ricreazioni chimiche a base di benzodiazepine. Gli «invisibili», come fantasmi, ogni tanto battono un colpo, anzi dei colpi sui cancelli blindati. Quelle periodiche battiture ci ricordano che il loro è un mondo di vivi che non rinuncia a resistere.
Recentemente il senato ha reso definitivo il regime del 41 bis, una norma sospensiva del normale trattamento penitenziario e che in origine doveva essere solo «eccezionale e transitoria». Non soddisfatti, i senatori ne hanno prolungato la durata ed esteso la portata ad altre tipologie di reato. Chi sostiene la validità di questo trattamento differenziato afferma che esso è necessario per condurre a termine la lotta contro il nemico di turno, che si tratti dei mafiosi, dei terroristi, degli scafisti, non conta poi molto. I «nemici», si sa, sono intercambiabili. La battaglie di civiltà e le lotte per l’emancipazione si svolgono il più delle volte sul terreno impervio delle questioni di principio. È sui punti limite che si misurano i passaggi epocali, i momenti di rottura. Troppo comodo e troppo facile, nonché in effettuale, è l’atteggiamento di chi pensa di poter difendere solo i diritti di coloro che sente più prossimi: «poveri ma belli» oppure «ricchi e potenti». In entrambi i casi vi è il segno speculare dell’atteggiamento strumentale di chi pensa di eliminare il proprio nemico abolendo i suoi più elementari diritti, considerandolo sub specie umana. È la peggiore guerra quella mossa in nome del diritto per abolire i diritti.
Sfugge a questa concezione una lucida consapevolezza di ciò che è l’emergenza, dei suoi dispositivi di governo delle relazioni sociali, del suo ricorso sistematico alla eccezione che addirittura non sospende più la regola ordinaria ma si candida a rimpiazzarla stabilmente. Sorprende che proprio chi si vuole radicale, antagonista, comunista, non percepisca come i pesanti cella_largedispositivi giudiziari e penitenziari della emergenza, sempre più limitanti e costrittivi delle libertà individuali e collettive, restino radicati nel tempo, mentre le tipologie di applicazione hanno vocazione a variare. Ieri è toccato ai «terroristi», oggi ai mafiosi, persino ceto politico e imprenditori ne hanno saggiato gli effetti. E domani?
La ruota gira e con i tempi che corrono tra «guerra preventiva», estensione a dismisura della nozione di terrorismo fino a comprendere comportamenti politici e sociali considerati semplicemente «non allineati», a chi giova rafforzare l’arsenale repressivo che un giorno potrebbe essere facilmente rivolto verso tutti quelli che sono semplicemente «contro»?
Quei 61 collegi su 61 vinti in Sicilia dalla Casa delle libertà non avrebbero dovuto istruire sul fallimento delle politiche unicamente repressive condotte dagli imprenditori dell’antimafia? Dieci anni di 41 bis non hanno sconfitto la mafia, al contrario il centrodestra ha fatto man bassa dei voti come mai era riuscito persino alla Dc. Con la sua strategia fatta di carcere duro e pentitismo remunerato, lo Stato con i suoi centri di potere emergenziale è riuscito solo a favorire la selezione di nuove élites mafiose e il ritorno alle strategie morbide e conniventi di una «Cosa nostra» tornata invisibile ma sempre percettibile.
A cosa sono serviti allora questi lunghi anni di 41 bis, se non a perfezionare le tecniche di differenziazione penitenziaria, utilizzabili domani, anzi oggi stesso, contro altri gruppi sociali scomodi trasformati in nuovi nemici?
Abolire le garanzie, restringere le maglie della società,non facilita la lotta contro i potenti che dispongono comunque di altre risorse per tutelarsi, mentre rende vulnerabili, espone al ricatto repressivo coloro che non hanno potere, risorse sociali, economiche e culturali. È ora di abbandonare l’idea che la lotta di classe si possa fare con i tribunali e le prigioni. Ne trarrebbe giovamento la critica e la lotta contro ogni forma di valorizzazione legale e illegale del capitale. La sciamo al diritto la funzione di seguire le evoluzioni della società, di registrare avanzate e sconfitte. Staremo tutti meglio e saremo più liberi di lottare.

Approfondimenti
Cronache carcerarie

Carcere: Gli spettri del 41 bis

Massima sicurezza

Paolo Persichetti
Liberazione
lunedì 28 ottobre 2002

appello-2-meglioDegli spettri si aggirano per le carceri italiane, sono i detenuti sottoposti al 41 bis. Si tratta di uomini e donne imprigionati due volte. Dei tribunali hanno tolto loro la libertà, una amministrazione ha decretato la loro invisibilità. Si trovano qualche metro più in là, oltre le sbarre e la griglia che ornano la finestra di questa cella. Pochi metri di cortile mi separano dal popolo dei murati vivi, i fantasmi della prigione. Quando qualcuno di questi spettri traversa il carcere le porte blindate vengono chiuse al loro passaggio. Altre barriere si aggiungono a ispessire il loro isolamento e la loro distanza. Il 41 bis è il regno della opaca afflizione, la pena che rende invisibili. Il supplizio moderno ha vergogna di se stesso, fosse trasparente probabilmente perderebbe molta parte della sua legittimazione sociale. L’intero carcere è colmo di queste «assenze» che si fanno pesanti presenze per tutti. Disciplina e regolamento dell’istituto sono segnati dalla esistenza di questi spettri: non c’è socialità, non ci sono attività rieducative o di formazione, è chiuso persino il campo di pallone. Anche la televisione è imprigionata in una scatola metallica. Tutto è chiuso, metodicamente blindato e imbullonato. «Massima sicurezza» vuole dire deserto disciplinare, spazi angusti e metallici dove i corpi in soprannumero sono stipati e formati in modo rigido e severo mentre le menti si inaridiscono.

CartoncinoL’unico svago concesso viene dall’agognato carrello dell’infermeria che scandisce la giornata distribuendo tre volte al giorno stupefacenti ricreazioni chimiche a base di benzodiazepine. Gli «invisibili», come fantasmi, ogni tanto battono un colpo, anzi dei colpi sui cancelli blindati. Quelle periodiche battiture ci ricordano che il loro è un mondo di vivi che non rinuncia a resistere.
Recentemente il senato ha reso definitivo il regime del 41 bis, una norma sospensiva del normale trattamento penitenziario e che in origine doveva essere solo «eccezionale e transitoria». Non soddisfatti, i senatori ne hanno prolungato la durata ed esteso la portata ad altre tipologie di reato. Chi sostiene la validità di questo trattamento differenziato afferma che esso è necessario per condurre a termine la lotta contro il nemico di turno, che si tratti dei mafiosi, dei terroristi, degli scafisti, non conta poi molto. I «nemici», si sa, sono intercambiabili. La battaglie di civiltà e le lotte per l’emancipazione si svolgono il più delle volte sul terreno impervio delle questioni di principio. È sui punti limite che si misurano i passaggi epocali, i momenti di rottura. Troppo comodo e troppo facile, nonché ineffettuale, è l’atteggiamento di chi pensa di poter difendere solo i diritti di coloro che sente più prossimi: «poveri ma belli» oppure «ricchi e potenti». In entrambi i casi vi è il segno speculare dell’atteggiamento strumentale di chi pensa di eliminare il proprio nemico abolendo i suoi più elementari diritti, considerandolo sub specie umana. È la peggiore guerra quella mossa in nome del Diritto per abolire i diritti. Sfugge a questa concezione una lucida consapevolezza di ciò che è l’emergenza, dei suoi dispositivi di governo delle relazioni sociali, del suo ricorso sistematico alla eccezione che addirittura non sospende più la regola ordinaria ma si candida a rimpiazzarla stabilmente. Sorprende che proprio chi si vuole radicale, antagonista, comunista, non percepisca come i pesanti dispositivi giudiziari e penitenziari della emergenza, sempre più limitanti e costrittivi delle libertà individuali e collettive, restino radicati nel tempo, mentre le tipologie di applicazione hanno vocazione a variare. Ieri è toccato ai «terroristi», oggi ai mafiosi, persino ceto politico e imprenditori ne hanno saggiato gli effetti. E domani?

41-bistortura-ridLa ruota gira  e con i tempi che corrono tra «guerra preventiva», estensione a dismisura della nozione di terrorismo fino a comprendere comportamenti politici e sociali considerati semplicemente «non allineati», a chi giova rafforzare l’arsenale repressivo che un giorno potrebbe essere facilmente rivolto verso tutti quelli che sono semplicemente «contro»? Quei 61 collegi su 61 vinti in Sicilia dalla Casa delle libertà non avrebbero dovuto istruire sul fallimento delle politiche unicamente repressive condotte dagli imprenditori dell’antimafia? Dieci anni di 41bis non hanno sconfitto la mafia, al contrario il centrodestra ha fatto man bassa dei voti come mai era riuscito persino alla Dc. Con la sua strategia fatta di carcere duro e pentitismo remunerato, lo Stato con i suoi centri di potere emergenziale è riuscito solo a favorire la selezione di nuove élites mafiose e il ritorno alle strategie morbide e conniventi di una «Cosa Nostra» tornata invisibile ma sempre percettibile.
A cosa sono serviti allora questi lunghi anni di 41 bis, se non a perfezionare le tecniche di differenziazione penitenziaria, utilizzabili domani, anzi oggi stesso, contro altri gruppi sociali scomodi trasformati in nuovi nemici?
Abolire le garanzie, restringere le maglie della società, non facilita la lotta contro i potenti che dispongono comunque di altre risorse per tutelarsi, mentre rende vulnerabili, espone al ricatto repressivo coloro che non hanno potere, risorse sociali, economiche e culturali. È ora di abbandonare l’idea che la lotta di classe si possa fare con i tribunali e le prigioni. Ne trarrebbe giovamento la critica e la lotta contro ogni forma di valorizzazione legale e illegale del capitale. Lasciamo al diritto la funzione di seguire le evoluzioni della società, di registrare avanzate e sconfitte. Staremo tutti meglio e saremo più liberi di lottare.

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