Conferenza stampa a Montecitorio. I legali denunciano: «Quello di Papini è stato un processo ai sentimenti. Quando venne arrestato, la digos di Bologna sapeva già da un anno, grazie alle intercettazioni telefoniche, che andava in carcere a trovare la Blefari con l’accordo della direzione dell’istituto di pena per tentare di impedire i suoi propositi suicidari dichiarati in una lettera. L’inchiesta è stata una montatura». Dopo l’assoluzione crolla il teorema accusatorio messo in piedi dai pm bolognesi che hanno pilotato da lontano anche l’inchiesta romana e il processo. I magistrati dovrebbero archiviare la sua posizione nell’inchiesta sull’attentato a Marco Biagi, ma sotto le due torri esiste una delle peggiori procure d’Italia
Paolo Persichetti
Liberazione 6 aprile 2011
Chissà cosa avrebbe pensato il marziano di Flaiano se fosse atterrato ieri mattina davanti a Montecitorio? Mentre i post-girotondini del popolo viola presidiavano la piazza per protestare contro il modo in cui il governo e la sua maggioranza parlamentare affrontano i temi della giustizia, srotolando un tricolore lungo circa 60 metri per dare inizio alla giornata della democrazia accanto a molte bandiere dell’Italia dei valori, FdS e Sel, dentro la Camera si teneva una conferenza stampa quasi deserta sul caso di Massimo Papini: uno degli
esempi drammaticamente più concreti di come si esercita la giustizia in Italia. 17 mesi e 23 giorni di carcere duro in custodia preventiva, quando andava bene in regime di alta sicurezza nel braccio speciale di Siano, in Calabria, dove sono rinchiusi una parte dei detenuti politici di sinistra; altrimenti in regime di totale isolamento, peggio del 41 bis, quando durante i lunghi mesi del processo era appoggiato al piano terra del reparto G12 di Rebibbia. Sempre solo in un cubicolo, senza diritto alla socialità con altri detenuti, e con le ore d’aria (per così dire) da passare in un rettangolo di cemento di pochi metri quadrati circondato da alte mura e con il cielo coperto da una grossa griglia metallica. Tutto questo per un’accusa senza fondamento: aver fatto parte delle cosiddette “nuove brigate rosse”, solo perché non aveva rinunciato ad assistere la sua ex fidanzata, Diana Blefari Melazzi, precipitata dopo l’arresto nel labirinto della sofferenza psichiatrica. Strada senza ritorno sfociata nel suicidio, poche settimane dopo l’arresto di Massimo, il 31 ottobre 2009. Una morte quasi indotta da una persecutoria volontà di sfruttare la sua malattia come una opportunità per le indagini. «Assolto per non aver commesso il fatto» hanno stabilito lo scorso 23 marzo i giudici della prima corte d’assise di Roma, ribadendo che la solidarietà, anche per chi è stato dichiarato colpevole, non è reato. Un caso «paradigmatico» hanno spiegato i suo legali, Caterina Calia e Francesco Romeo presenti alla conferenza stampa insieme a Gianluca Peciola, consigliere provinciale Sel e alla deputata radicale (lista Pd) Rita Bernardini, che ha seguito il caso, incontrato più volte Papini in carcere e portato radio radicale a registrare le udienze del processo. Attenzione mediatica che ha infastidito molto la pubblica accusa. Tra i banchi solo qualche sparuto giornalista e gli amici di Massimo, animatori del comitato che l’ha sostenuto nei suoi 17 mesi di detenzione. ![]()
La piazza era piena ma la sala era vuota. Eppure si parla tanto di giustizia al punto che – direbbero i sociologi – questo tema è divenuto il maggiore repertorio di mobilitazione dell’azione politica. Fa scorrere fiumi d’inchiostro, riempie tg e salotti televisivi, ma quando ci si trova di fronte a casi concreti l’interesse svanisce. Davvero una strana idea di giustizia: la destra che grida alle toghe rosse e vede complotti delle procure ovunque si allinea subito dietro l’azione repressiva della magistratura, quando questa si riversa contro soggetti estranei al mondo imprenditoriale, alle classi possidenti; la sinistra, che inneggia alla costituzione e si erge a paladina delle legalità, perde vista, udito e parola di fronte agli abusi, per non parlare del carattere sistemico delle pratiche inquisitorie condotte dalla magistratura inquirente, grazie anche ad una legislazione speciale che gli offre mano libera. Insomma ci si agita molto per non fare nulla. L’arena giudiziaria appare solo il luogo dove si è trasferito lo scontro politico. Alla fine, della giustizia, della giustizia giusta, delle garanzie, non interessa a nessuno. Vince solo la demagogia penale: in galera tutti meno quelli che ci mandano gli altri. E così vicende come quelle di Papini restano sullo sfondo, ignorate. Nessuno chiederà conto alla procura di Bologna che – è già accaduto in altri casi – ha pilotato da lontano l’arresto di Papini e il processo, occultando prove a discarico dell’imputato, come ha denunciato l’avvocato Romeo. Nessuno vorrà sapere perché i testi citati dalla difesa sono stati inchiestati durante il processo, al punto da dover temere che l’azione difensiva fosse diventata un delitto. Il marziano di Flaiano non ha esitato, ha ripreso il volo disgustato.
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Massimo Papini assolto per non aver commesso il fatto
Papini assolto: “Non faceva parte delle nuove Br”
“Scarcerate Papini, accuse senza argomenti”
Amicizia e solidarietà sotto processo
Un altro Morlacchi dietro le sbarre
Ignorata la disponibilita offerta da un gruppo di detenute che si offrì di assistere la Blefari. I magistrati puntavano al pentimento
Induzione al pentimento
Suicidio Blefari Melazzi: l’uso della malattia come strumento di indagine
Cassazione: “Non è reato essere amici di inquisiti per banda armata”




In alcune redazioni non esitarono a definirla la «belva», e tutto a causa di una minuta sequestrata nella sua cella. Un abbozzo di lettera mai conclusa a un suo coimputato, soprattutto mai spedita. In realtà si trattava della messa per iscritto di un delirio scatenatosi in uno dei momenti più acuti della sua malattia psichiatrica. Era l’estate del 2005, e Diana Blefari Melazzi si trovava in regime di 41 bis aggravato, nella cosiddetta “area riservata” del carcere di Benevento. Nel pozzo più profondo che l’ingegneria sadica della punizione è riuscita a concepire. Ma la «belva» doveva essere lei. Faceva comodo quell’immagine bestiale da sovrapporre alla sparuta pattuglia di aspiranti nuovi brigatisti che, con i loro spari improvvisi, senza radici e senza futuro, avevano bruscamente risvegliato un paese distratto e annoiato. Alcune frasi di odio verso Marco Biagi, estrapolate dal testo, finirono in un rapporto della digos e poi sui giornali. Lo squilibrio mentale venne presentato come un proclama politico. La “pazzia” per la Blefari ha sempre funzionato come un elemento a carico, un’aggravante utile solo per condannarla all’ergastolo. Non è vero che poteva stare nel processo, come i giudici hanno sentenziato con ostinazione. “Doveva” stare nel processo, non aveva scampo. I suoi legali fecero ricorso contro il sequestro di quei fogli privati. Che rilevanza processuale poteva mai avere la parola di una persona ridotta in quello stato? Il tribunale del riesame di Bologna accolse il reclamo e ne dispose la cancellazione dal fascicolo processuale. Un riconoscimento che non ebbe seguito. Per anni la Blefari ha rifiutato le ore di socialità concesse. Non è mai uscita per l’ora d’aria, non ha mai acceso la luce della cella, è stata quasi sempre rintanata sotto le coperte e per lunghi periodi non ha effettuato i colloqui con i familiari e i suoi avvocati. Sospettava che il cibo dell’amministrazione fosse avvelenato e per lunghi periodi non mangiava. Aveva crisi d’identità e disturbi percettivi fino ad arrivare ad allucinazioni visive, particolarmente legate alla televisione nella quale vedeva dei “mostri”, motivo per cui aveva smesso di utilizzarla. Nel 41 bis di L’Aquila rifiutava di avere contatti con le sue coimputate, scambiandone una per Provenzano e l’altra per sua sorella. Rivedeva sua madre, morta suicida dopo una lunga depressione, sul muro di fronte alla sua cella. Nella sua ultima lettera annotava, «continuano le vibrazioni, le sensazioni negative, i sapori di merda in ogni cosa che mangio, le intrusioni nella mia testa sia quando sono sveglia che quando dormo». Ma per i periti nominati dai giudici il suo atteggiamento rientrava nella tipica condotta oppositiva di chi vive un rapporto di inimicizia politica verso le istituzioni. Singolare capovolgimento di fronte. Ogni volta che un detenuto politico è sottoposto a “osservazione scientifica della personalità”, per fruire dei cosiddetti benefici penitenziari deve lottare con chi pensa di poter leggere il suo vissuto politico come una devianza che rinvia a disturbi della personalità. Quando questi ci sono realmente, vengono interpretati in modo politico. L’avvocato Caterina Calia ha ricordato la disponibilità venuta da molte detenute politiche storiche ad assistere la Blefari. Nelle carceri esiste la figura del “piantone”, ovvero di un detenuto che assume l’incarico di assistere un suo compagno impossibilitato a occuparsi di se stesso. La Blefari poteva essere aiutata, ma venne sempre tenuta isolata dalle altre politiche. C’era chi sperava di strumentalizzarne la sofferenza per farne una collaboratrice di giustizia. All’inizio dell’anno la
