Libri – Mirella Serri, I Redenti. Gli intellettuali che vissero due volte 1938-1948, Corbaccio, 2005, pp. 372
Paolo Persichetti
14 ottobre 2005
«Uomini e no», con questa drastica alternativa Elio Vittorini aveva rappresentato la radicale alterità contenuta nella scelta di combattere il fascismo. Una decisione a cui lui stesso era giunto con un po’ di ritardo, se è vero che ancora nel 1942 prese parte in Germania ad un convegno con Giaime Pintor e in cui era presente Goebels.
Tempo dopo dalle pagine del Politecnico, come ricorda Luisa Mangoni in un saggio sugli intellettuali tra fascismo e antifascismo, sempre Vittorini rispondeva alle numerose lettere scritte da giovani nei quali si poteva leggere l’angoscia «di non poter più essere uomini dopo esser stati “non uomini”». Li invitava «a convincersi di non esser colpevoli… strumenti sì del fascismo, ciechi dinanzi a quello che il fascismo era, vittime di quello che sembrava, deboli, non forti, ma non fascisti». D’altronde come avrebbero potuto sapere? Si chiedeva, dimenticando un po’ troppo facilmente gli antifascisti che avevano marcito nelle galere o al confino. «L’antifascismo era all’estero, e la sua voce giungeva deformata in Italia come tutto il resto che giungeva in Italia dall’estero: deformato». In fondo questi giovani, spiegava pensando probabilmente a se stesso, «non erano reazionari… erano per un progresso sociale, per una migliore “giustizia sociale”, per l’eliminazione del latifondo e la socializzazione delle grandi imprese. Il fascismo disse loro di essere questo». Il fascismo come malinteso, dunque. Un equivoco che avrebbe tratto in inganno le buone intenzioni di una generazione inquieta che, in modo inconsapevole oppure dissimulando astute forme di nicodemismo, con fare ermetico o approntando diaboliche strategie entriste, praticava l’antifascismo in camicia nera, anticipando la resistenza nei salotti, nelle redazioni, nei posti al sole del regime, tra littoriali, militanze nei Guf, prebende del Minculpop, lettere di raccomandazione al Duce, elogi della filmografia nazista e dei carri armati dell’asse. Un curioso modo antifascista d’essere fascisti: «Voi non siete stati fascisti. Il vostro modo di esserlo, fino a qualunque data lo siate stati, è stato un modo “antifascista”». Antifascisti forse, ma senza esser mai stati antirazzisti dopo le leggi segregazioniste del 1938.
In questi brevi passi ripresi dal Vittorini-pensiero si racchiude molto della sostanza di quel salto pindarico che permise a una larga generazione di intellettuali di «vivere due volte», come ha scritto Mirella Serri nel suo saggio, I Redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948. Certo, la vicenda è complessa e non nuova agli studi, per questo non può essere liquidata con sprezzanti tirate moralistiche, di cui invero quegli intellettuali “redenti” furono spesso (non tutti per fortuna) spietati maestri durante le loro seconde vite. Diversi tra loro si riscattarono nella Resistenza, anche nella tragedia della morte, altri si riciclarono attraverso il frondismo, che è sempre una maniera molto elegante di restare con un piede tra due scarpe. Tuttavia la sfilza di nomi, presa anche solo per difetto, disorienta: Cantimori, Muscetta, Guttuso, Argan, Alicata, Ingrao, Lizzani, Della Perruta, Trombadori, Pavese, Pintor, Della Volpe, senza dimenticare su altre sponde Bobbio, Spadolini, Pannunzio, Scalfari, Montanelli, Bocca, Biagi, lo stesso Calamandrei e ancora, oltre Tevere, i clericofascisti come padre Agostino Gemelli. Insomma, benefattori, grandi uomini di cultura, facitori d’opinione, inter-preti della religione civile, padri della patria.
Una prima chiave di lettura ci dice che, quali che siano i colori delle ideologie, questa è una classica storia d’élites, che riescono quasi sempre a traversare con pochi danni le tempeste della storia. Subentra poi la politica «entrista» che i comunisti
condussero ai fianchi del regime, una volta abbandonata l’idea del rovesciamento armato e riconosciuta la sua natura «reazionaria di massa». Quindi la vicenda del patto Ribentrop-Molotov del 39-41, esaltata come l’alleanza delle nuove potenze monopolistiche contro le plutocrazie occidentali che stentavano a rimettersi dalla crisi (anche il new deal Roosveltiano guardava ai vantaggi dell’economia di pianificazione e in quegli anni Keynes elaborava la sua dottrina). Il vecchio programma di Verona, l’originaria fase del fascismo di sinistra, antiborghese, corporatista e monopolista, fu il collante che consentì il successo della strategia di recupero attuata da Togliatti. Un organico disegno d’egemonia che attraverso la chiusura della guerra civile, l’amnistia politica e il reclutamento delle giovani energie intellettuali del passato regime, mirava a ricomprendere la storia nazionale rifondando le basi del paese. Un disegno strategico che l’odierna storiografia liberale tende a rileggere in termini d’inevitabile continuità, culturale e ideologica, conseguenza di una supposta omologia totalitaria tra fascismo e comunismo. Dimenticando i reclutamenti nel campo laico-liberale e la posizione di Croce, la sua avversione verso le epurazioni, la metafora della grande parentesi con la quale si voleva liquidare il fascismo come se nulla fosse accaduto, e soprattutto sottacendo l’altra continuità, quella degli apparati statali, della magistratura, dell’industria e della finanza “fascistissima”, dei senatori del regno, come Agnelli, ingrassati con le avventure coloniali del regime. Singolare atteggiamento quello della storiografia liberale, che da una parte lancia anatemi sull’esecuzione di Gentile, ma poi denuncia la politica d’integrazione dei giovani quadri intellettuali del fascismo.
Comunque continuità ci fu, ma questa avvenne proprio a scapito del marxismo. L’integrazione togliattiana dei quadri bottaiani per un verso, e dell’azionismo dall’altro, entrambi formati alla filosofia di Gentile, produsse un singolare mescolanza di cui a tutt’oggi resta insuperata la critica mossa da Asor Rosa nell’oramai lontano Scrittori e popolo. Un ibrido ideologico che fondeva strati di nazional-popolare, storicismo crociano, diamat staliniano, il tutto condito – come ha sottolineato Romano Luperini – da una visione dell’impegno improntato alla vita morale, ad ideali genericamente umanisti che vedevano nell’intellettuale il sale della terra. «Io non mi sono iscritto al partito comunista italiano per motivi ideologici», scriveva Vittorini a Togliatti, «Quando mi sono iscritto non avevo ancora avuto l’opportunità di leggere una sola opera di Marx, o di Lenin, o di Stalin… Aderii ad una lotta e a degli uomini».
Non a caso si dovettero attendere gli anni Sessanta perché si affermassero in Italia i fermenti di un neomarxismo liberato dagli effluvi gentiliano-bottaiani e gli anni Settanta perché questo divenisse pratica politica. Per questo oggi sarebbe più utile una riflessione storica sulle conseguenze politico-culturali di quella stagione, piuttosto che l’attenzione un po’ scandalistica sulle rivelazioni di passati celati, memorie edulcorate, rimozioni, reticenze e autoindulgenze, per giunta condotte in molti casi di pari passo con la più spietata inclemenza verso quelle generazioni che negli anni Settanta tradussero concretamente la loro ricerca di una società diversa, che non si accontentava più del compromesso sociale-istituzionale uscito dal dopoguerra. Per costoro, al contrario, non c’è stata nessuna indulgenza, alcun tentativo di capire, ancora meno una politica di recupero, nessuna delle tre amnistie concesse dal fascismo ai suoi nemici, ma solo carcere ed esilio. Il vero problema, dunque, non è il prima semmai il dopo.
In fondo, tutti dovrebbero avere il diritto di tentare, di crescere, di trarre lezione dall’esperienza. Allora dovrebbe far riflettere questo passato repubblicano fatto di redenti e di perduti, di salvati e di sommersi.
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pugilato per la categoria dei pesi medi. La sua vita raccontata nel libro di Mauro Valeri, Nero di Roma, Storia di Leone Jacovacci l’invincibile mulatto bianco, Palombi editori, è un’odissea del pregiudizio, un viaggio nei mari del razzismo prima ideologico, poi codificato negli statuti coloniali e nelle leggi razziali. Come per i più grandi pugili del Novecento la via del ring è stata per lui un modo di farsi strada nella vita. I pugni incassati fuori Leone li restituiva nel quadrato. All’anagrafe risulta iscritto nel 1902, ma è solo l’anno in cui il padre realizzò l’atto amministrativo. In realtà era nato in Congo tempo prima, dove l’ingegnere Umberto Jacovacci era arrivato in cerca di fortuna con un contratto d’agronomo in tasca. Qui aveva conosciuto Zibu, figlia di un capo tribù locale. Dalla loro relazione erano nati Leone e Aristide che il padre decise di portare con sé al suo rientro a Roma. I piccoli furono cresciuti dai nonni paterni nel viterbese e presto scoprirono il prezzo del pregiudizio raziale negli anni dell’Italia giolittiana, quando la «giovane proletaria» declamata da Pascoli cercava il suo posto al sole occupando Tripolitania e Cirenaica a suon di cannonate. Anni in cui la propaganda colonialista struttura le correnti ideologiche razziste e nazionaliste che spingeranno l’Italia verso il baratro della prima guerra mondiale e del fascismo. Allora per l’anagrafe Leone Jacovacci aveva nove anni. A 16 anni, anima inquieta e già ribelle, s’imbarca probabilmente a Napoli come mozzo su un mercantile inglese che però fa naufragio. Insieme agli altri membri dell’equipaggio viene salvato da un’altro mercantile inglese, il Queen.
polemiche che l’accolsero all’indomani della sua emanazione, in occasione della proclamazione della Repubblica, il 22 giugno 1946. In questa direzione, infatti, è rivolta la recensione che lo storico Sergio Luzzato ha scritto sul Corriere della Sera del 19 aprile scorso. Una vera requisitoria contro l’uomo dalla stilografica con l’inchiostro verde, accusato di aver spalancato le porte delle carceri a fascisti e saloini imprigionati subito dopo la Liberazione. Colpevole ancora una volta della sua «proverbiale doppiezza» per aver disconosciuto la responsabilità di quella misura – come lui stesso scrisse – «giusta nelle intenzioni ma sbagliata nell’applicazione», a causa dell’uso politico che ne fece la Dc e dell’interpretazione distorta fornita dalla magistratura.
Al tempo stesso però, come accade per le amnistie francesi del 1951 e del 1953, anch’esse accolte da furiose polemiche, di cui si ebbe testimonianza nel confronto tra Mauriac e Camus, l’applicazione concreta della clemenza viene influenzata dai nuovi scenari geopolitici scaturiti dalla fine del conflitto. La “guerra fredda” spinge i paesi occidentali a rompere il fronte resistenziale e recuperare buona parte del personale compromesso con i passati regimi, per poter garantire una continuità dell’apparato statale in funzione anticomunista. Dietro la «riconciliazione» non ci sono ireniche spinte morali alla concordia ma un cinico calcolo strategico. In previsione dello scontro, il centro-destra democristiano e la sinistra comunista cercano di rafforzarsi reclutando nel passato. In questo modo l’amnistia da luogo ad un singolare paradosso: essa non è più un’occasione per la ricomposizione del corpo politico ma un espediente che perpetua la divisione, seppur in forma nuova, alimentando quella guerra civile fredda che, dopo la parentesi consociativa degli anni 70, vedrà assumere, alla fine del 1989, i connotati di una «guerra civile legale». In realtà, alcuni regi decreti del 44 e del 45 avevano già introdotto alcune misure amnistiali che non tutelavano affatto le azioni della Resistenza armata. Ed è innanzitutto per sanare queste carenze che Togliatti vara un provvedimento molto più organico ed ampio, che estende il beneficio anche ai nemici sconfitti purché incolpati solo di delitti politici, lasciando al giudice il compito dell’accertamento dell’indole politica del reato. Il tutto in un’ottica, come poi spiegò Mario Bracci, uno dei 18 ministri del dicastero De Gasperi che approvarono il provvedimento, che accertasse «le responsabilità dei singoli», evitando la logica delle responsabilità storiche e collettive, che avrebbe finito per imporre l’emarginazione e la persecuzione indiscriminata e non quel «rapido avviamento del paese a condizioni di pace politica e sociale», auspicate dallo stesso Togliatti. E sarà proprio questo il punto dolente del suo provvedimento. Una sorprendente dimostrazione d’angelismo politico o forse, in realtà, di quella precoce volontà di costruire un rapporto privilegiato con la magistratura, ritenuta un vettore di progresso in ragione del mito riformatore dell’azione giudiziaria. Invece, dando prova di un accurato zelo persecutorio, i magistrati della Cassazione, in gran parte reduci del regime, grazie a capziose interpretazioni giurisprudenziali, rovesciarono completamente le intenzioni del legislatore, applicando una clemenza di massa nei confronti dei fascisti, ben 10.034 di loro vennero amnistiati, ed escludendo sistematicamente i Resistenti che si videro riconoscere il beneficio solo in 153 casi. Lo stesso governo dovette promulgare, tre mesi dopo, un decreto che introduceva il divieto di emettere mandati di cattura o revocava quelli già spiccati contro i partigiani (Santosuosso e Colao, Politici e Amnistia, Bertani 1986).
