Comitati d’affari, oligarchie e combriccole che governano l’Italia
Paolo Persichetti
Liberazione 13 luglio 2010
Una feroce lotta intestina si sta giocando all’interno del sistema di potere berlusconiano. E’ quanto emerge dagli sviluppi dell’ultima inchiesta giudiziaria condotta dalla procura della repubblica di Roma. Per tentare di capire come nasce e quali attori si muovono dietro questa guerra senza quartiere, occorre partire dall’indagine sugli appalti pilotati per l’energia eolica in Sardegna. Seguendo questo filone d’inchiesta nel quale sono indagati l’imprenditore-faccendiere Flavio Carboni, insieme al governatore della Sardegna Ugo Cappellacci (figlio del commercialista di Berlusconi) e al coordinatore e parlamentare Pdl Denis Verdini, la procura ha ritenuto che vi fossero tutti gli elementi per configurare una ulteriore ipotesi di reato: l’associazione per delinquere e la violazione della cosiddetta “legge Anselmi” sulle associazioni segrete, nota come legge contro la P2. Ad alimentare questa lettura delle indagini è senza dubbio la presenza di Carboni, vecchia conoscenza delle cronache giudiziarie recentemente assolto anche in appello dall’accusa di aver avuto un ruolo nella uccisione, nel 1982, sotto il ponte dei Frati Neri a Londra, del banchiere Roberto Calvi, coinvolto in almeno una ventina di altre inchieste e condannato in via definitiva per la bancarotta del Banco Ambrosiano.
La nuova inchiesta si occupa dell’attività lobbistica che, secondo i magistrati, il «gruppo di potere occulto» avrebbe organizzato in maniera sistematica per ottenere interventi e decisioni in campo politico, giudiziario e amministrativo a favore di alcuni personaggi «protetti», in primis Berlusconi ma anche altre figure targate Pdl. Della combriccola che alcuni giornali, un po’ frettolosamente, hanno subito ribattezzato «loggia P3», facevano parte, oltre a Carboni (finito in carcere) e Verdini (indagato), anche Pasquale Lombardi, notabile campano, ex esponente della Dc locale, in passato sindaco di un paese della provincia di Avellino, uomo d’influenza, giudice tributario promotore di un’associazione culturale, il «Centro studi giuridici per l’integrazione europea Diritti e Libertà» che organizza convegni nel mondo della magistratura, Arcangelo Martino, imprenditore, ex assessore socialista del comune di Napoli coinvolto e alla fine prosciolto nelle inchieste su Tangentopoli, entrambi finiti in manette, e il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri insieme al sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino, tutti e due iscritti – notizia dell’ultim’ora – nel registro degli indagati. Architrave dell’inchiesta sarebbero le intercettazioni telefoniche, circa duemila pagine contenute in una informativa del comando provinciale dei carabinieri di Roma. Tra gli episodi contestati il tentativo di avvicinare i pm fiorentini che indagano sull’eolico in sardegna, e quello di accelerare il processo in Cassazione del sottosegretario Cosentino, sul quale pesa una richiesta d’arresto per concorso esterno in associazione camorristica. Pressione fallita perché la Suprema corte ha comunque confermato l’arresto, negato successivamente dalla Camera dei deputati. Quindi altre interferenze e il tentativo, anche questo non andato in porto, di attivare un’ispezione ministeriale contro i giudici milanesi che esclusero in un primo momento la lista di Roberto Formigoni dalle elezioni regionali in Lombardia. Manovra che secondo i pm avrebbe coinvolto lo stesso governatore che in una telefonata intercettata sollecita l’intervento di Lombardi che l’indomani piomba a Milano per incontrare il presidente della corte d’Appello Alfonso Marra, appena nominato grazie anche alla rete di pressioni messa in piedi dal comitato d’affari, perché «chiamasse a ’sti tre quattro scemi e non dessero fastidio». Ci sono poi le ritorsioni contro il candidato del Pdl alla regione Campania, Stefano Caldoro, che aveva rubato il posto a Cosentino, contro il quale viene montato un falso dossier con l’accusa di «frequentare trans». Ma l’episodio politicamente più rilevante riguarda il tentativo di condizionare la decisione della Consulta sul lodo Alfano. Intervento concertato, secondo l’accusa, in diverse riunioni tenute nella lussuosa dimora romana del coordinatore del Pdl Verdini. Incontri ripetuti, forse 6, ai quali avrebbero partecipato, oltre a Carboni, Lombardi e Martino, anche Marcello Dell’Utri, il sottosegretario alla giustizia (e magistrato) Giacomo Caliendo, il consigliere di Cassazione Antonio Martone, dimessosi dall’incarico appena la vicenda è diventata pubblica, e Arcibaldo Miller, capo dell’ufficio ispezione del ministero Giustizia. Anche qui, però, le pressioni architettate sono finite in un insuccesso. Come comitato d’affari e centro d’influenza la combriccola era senza dubbio efficace ma come «loggia segreta» la piccola banda sembra aver collezionato soltanto una lunga catena di fallimenti quanto mai goffi. Quanto fino ad ora emerso rende abbastanza inappropriato il paragone con la loggia P2: L’evocazione di un nuovo centro di potere occulto appare addirittura fuorviante rispetto alle caratteristiche oligarchiche assunte ormai dal funzionamento del sistema politico nel suo insieme. La trasformazione dei partiti in macchine elettorali e appendici aziendali, l’impronta presidenzialista imposta al sistema politico-istituzionale, il populismo dilagante, hanno ridotto le masse popolari a semplici spettatori che esprimono gradimenti nei sondaggi. I leader agiscono per mezzo di fondazioni, poteri forti e gruppi d’interesse si organizzano attraverso pratiche lobbistiche. E le inchieste giudiziarie ancora una volta sono parte di uno scontro tra gruppi di potere. Rincorrere le narrazioni dietrologiche aiuta solo a cementificare ulteriormente questo sistema.
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amministrativi tesi a criminalizzare la cosiddetta “marginalità sociale” a colpi di decreti e ordinanze amministrative (contro accattoni, lavavetri, prostitute, trans etc.); dall’altra un processo di trasformazione delle cosiddette teorie della giustizia in giustizialismo. Ovverosia in quell’ideologia politica post-garantista che tende a vedere nel legalismo e nel contenimento del rafforzamento del potere esecutivo l’unica forma di politica possibile. Ci riferiamo, evidentemente, al successo del dipietrismo-travaglismo e al buon esito di consenso mediatico e non che essi riescono ad avere. L’ossessione giustizialista, però, spesso declinata come anti-berlusconismo, non sempre, per non dire mai, riesce ad attraversare anche gli ambiti del garantismo “per tutti” e quindi si traduce in un potere che non distingue i soggetti coinvolti nella dinamica. Non distingue cioè l’ingiustizia sociale, trasformatasi ormai in politica penale contro gli ultimi, dallo scontro ormai titanico tra potere esecutivo e potere giudiziario. Di conseguenza passano quasi inosservati i “pentitismi” sull’indulto, i no secchi all’amnistia, il totale silenzio sulla persecuzione nei confronti di migranti, prostitute e quant’altro, l’avallo incondizionato dato nei confronti di qualsiasi processo di criminalizzazione preventiva. In poche parole è ovvio e ragionevole che qualsiasi tentativo di rafforzamento, di potenziamento dell’esecutivo debba preoccupare tutti, ma non è altrettanto ovvio che ciò avvenga attraverso l’innalzamento virile del vessillo giustizialista. La cosiddetta teoria del bilanciamento dei poteri, sancita anche dalla costituzione, che a giusto titolo prevede oltre alla funzione legislativa ed esecutiva anche quella giudiziaria, appare in realtà sempre più sbilanciata verso un giustizialismo sommario, sino ad essere divenuta il “grande tema” della politica contemporanea di cui discutere nei vari salotti televisivi, a dispetto di chi ne paga le conseguenze reali sulla propria pelle (precari senza possibilità di accedere ad uno straccio di diritto, tossicodipendenti a cui vengono negate le misure alternative, trans rinchiusi nei cpt etc.). Prima della nascita dello stato moderno non si ha memoria di sistemi politici che differenziavano i poteri per poter giustiziare gli stessi diritti e lo stesso potere esecutivo, qualora fossero colti in flagranza di abuso, dal momento che la pubblica messa a gogna del capro espiatorio di turno riusciva a soddisfare il sadico piacere della vendetta di massa. I molti si sfogavano sull’uno ma non sul sistema accentratore e assolutistico che produceva il capro espiatorio. Poi ci sono state le rivoluzioni, a seguire è nata la democrazia nonché il potere giudiziario il quale fu posto, seppure tra mille contraddizioni e conflitti, a svolgere il ruolo terzo di controllo sul potere esecutivo e legislativo in modo tale da poter garantire una forma di giustizia attraverso l’assoggettamento alla legge financo dell’autorità politica di turno. Nacque, cioè, lo stato di diritto. Ma se da una parte la giustiziabilità del potere esecutivo avrebbe dovuto garantire il famoso principio della “legge uguale per tutti”, dall’altra i sistemi di welfare avrebbero dovuto consentire lo sviluppo di una giustizia parallela, quella sociale. Oggi, venuta a mancare quest’ultima, ci ritroviamo dinanzi ad un potere giudiziario tradotto troppo spesso in giustizialismo e in un reale abuso del potere esecutivo, ma entrambi i poteri distorti si muovono sullo stesso crinale pur essendo contrapposti: la legge non è uguale per tutti sia per gli uni che per gli altri. Perché Di Pietro è ossessionato dal lodo Alfano ma non spende parola alcuna sulle migliaia di migranti che popolano i centri di detenzione costruiti ad hoc per contenere la miseria e la disperazione del mondo? Perché i cosiddetti giustizialisti, tra cui senz’altro mettiamo anche Travaglio non aprono bocca dinanzi al decreto sulla sicurezza voluto da Maroni e poi convertito in legge che consente la carcerizzazione di massa e l’espulsione facile di migliaia di persone? Perché nessuno apre bocca sull’ipocrisia perbenista e falsamente morale del ddl Carfagna sulla prostituzione? Perché tutti oggi negano l’efficacia dell’indulto sui maggiori quotidiani italiani nonostante vi siano saggi scientifici che dimostrano il contrario (si veda a tal proposito il lavoro fatto da Antigone)? Eppure questi ultimi fenomeni ci pongono dinanzi alla crisi dello stato di diritto nel medesimo modo del lodo Alfano. Qualsiasi persona ragionevole, infatti, vedrebbe il fenomeno nel suo duplice volto se avesse un minimo di coscienza di quanto possa essere fuorviante trasformare la dea della giustizia, la bellissima Minerva, in un giustiziere monomaniaco che trasforma l’idea democratica del bilanciamento dei pubblici poteri in un meccanismo che fa di due pesi, due misure. Il giustizialismo, infatti, e non la giustizia è ormai diventato un potere come gli altri, con un suo preciso ordine del discorso teso ad aizzare le masse contro un sovrano per creare consenso verso un altro sovrano, per costruire nuove ed inedite forme di populismo difficilmente collocabili sia a destra che a sinistra. D’altronde non è un’operazione politica così difficile dati i tempi che corrono, ma non è neppure un’operazione sana perché in fin dei conti spara nel mucchio, nella mucillaggine in cui tutti siamo immersi, senza distinguere più tra i sommersi e i salvati. Nel famoso film di Nanni Moretti, Il Caimano, il sipario si chiudeva con l’immagine di un Tribunale che avrebbe salvato l’Italia. Il dipietrismo, con il supporto della lingua biforcuta e scaltra di Travaglio, cerca di trasformare questa immagine in una forma della politica contemporanea, ma sia anche chiaro a tutti che il rovescio di questo fenomeno non risiede nel ripristino di un diritto per tutti. Tutt’altro. Risiede nella tendenza contemporanea dei poteri di trasformare tutto ciò che toccano in politica penale, come se tutti ormai stessimo in una nuova e gigantesca gogna mediatica. Sarà per questo che Di Pietro “tira”, come si dice in gergo?