L’uscita di Marchionne da Confindustria mette in grave imbarazzo il Pd

Sergio Marchione alla guida del partito (rivoluzionario) del Capitale

Paolo Persichetti
Liberazione 5 ottobre 2011


Mentre l’intera agenda politica ruota attorno alle inchieste ed alle udienze che ritmano, tra un legittimo impedimento e l’altro, i processi al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, mentre il massimo sforzo oppositivo che le forze parlamentari contrarie all’attuale maggioranza di governo riescono a mettere in campo, dal Pd fino all’Idv, si riduce alla conta sulle mozioni di sfiducia o alle richieste di arresto provenienti dalla magistratura contro deputati della maggioranza o ministri del governo; mentre l’unica strategia che guida l’antiberlusconismo confida nella forza salvifica della spallata giudiziaria e nell’intervento risolutore di un governo tecnico guidato da un banchiere e appoggiato da Confindustria: «La vera partita del Paese», come ha titolato Mario Deaglio sulla Stampa di ieri, si sta giocando altrove.
Accecato dall’agonia del berlusconismo, un intero ceto politico in compagnia di larghi pezzi di società civile non s’accorge che a riscrivere in profondità la costituzione materiale dell’Italia non è più il padrone di Mediaset ma la Fiat di Sergio Marchionne assunta a ruolo di apripista, «partito rivoluzionario» (del capitale), come non ha esitato a qualificarla l’elefantino sul Foglio. La decisione presa dall’Ad di Fiat di uscire dalla Confindustria, annunciata con una lettera inviata ad Emma Marcegaglia lunedì 3 ottobre, è stata subito strumentalizzata da alcuni settori della destra che vi hanno visto una sorta di endorsement del governo, dopo  «il manifesto» con il quale l’organizzazione degli industriali di fatto voltava le spalle all’esecutivo. Ma se è vero che Marchionne può vantare l’appoggio di ministri come Sacconi e Brunetta, che viaggiano sulla sua stessa lunghezza d’onda, l’operazione della Fiat ha una portata strategica che guarda ben oltre qualsiasi contingenza. L’operazione di Marchionne ha il respiro lungo e mira a rideterminare sotto il pieno ed assoluto controllo padronale i rapporti di produzione e più in generale le reazioni sociali nel mondo del lavoro. C’è già chi scommette sullo sfaldamento del fronte confindustriale: un rompete le righe che alletta certamente quei settori padronali in grado di schiacciare facilmente il conflitto, molto meno quelli che preferiscono governare le relazioni industriali con patti concertativi. Marchionne ha trovato il plauso di Carlo Callieri, ex direttore del personale Fiat che organizzò la marcia dei 40 mila, per il quale «la Confindustria non è più rappresentativa e si comporta come una lobby». Sul fronte confindustriale si registra già una prima defezione: escono anche le cartiere Paolo Pigna Spa. La divergenza di vedute, e di interessi, ruota attorno al patto «neocorporativo», siglato il 21 settembre scorso, dove le parti sociali forniscono una loro interpretazione autentica dell’articolo 8, rivendicando «l’autonoma determinazione delle parti» sulle relazioni industriali e la contrattazione. Marchionne è fautore di una rottura culturale contro il «neocorporativismo» nelle relazioni industriali a vantaggio di una nuova realtà dove le regole siano dettate da una parte sola: l’imprenditore. Dove non può esserci più concertazione perché la maggiore flessibilità richiesta non è più un semplice problema di tecnica produttiva, ma ha sostanza politica: chi si oppone al comando padronale non ha diritto di cittadinanza dentro l’impresa. Il conflitto va espunto alla radice secondo un modello autoritario dove ha spazio una sola voce. La fabbrica diventa una società a senso unico. I toni basi e imbarazzati nel Pd la dicono lunga sullo spiazzamento subito da questo partito che fino a poco tempo fa vedeva in Marchionne un «vero socialdemocratico», l’esempio perfetto di campione del «partito dei produttori» di togliattiana e berlingueriana memoria. Il segretario Bersani ha nascosto il proprio pensiero dietro due citazioni di Enrico Letta e Marcegaglia. Piero Fassino, che non molto tempo fa avrebbe volentieri visto in Marchionne un perfetto segretario del Pd, si è limitato a parlare di decisione «negativa» evitando di affrontare la questione nonostante avesse l’Ad Fiat accanto in un appuntamento pubblico. Chiamparino, ex sindaco di Torino, ha letto la decisione come «un passo ulteriore per guardare sempre di più Oltreoceano». Per il responsabile economico del Pd Boccia si tratterebbe di una prova della crisi di rappresentanza dell’organismo confindustriale. Nessun giudizio sul merito. Vuoto d’idee oppure solo un modo per non far sapere che, sotto sotto, al “Botteghino” poi non è che la pensino in modo tanto diverso.

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Cronache operaie
Speculazione finanziaria
Il Marchionne del Grillo e l’operai da Fiat
Il metodo argentino di Marchionne: in fabbrica paura e sfruttamento
Marchionne secondo Marx

La vera storia del processo di Torino al “nucleo storico” delle Brigate rosse: la giuria popolare venne composta grazie all’intervento del Pci

Rivelazioni – Giuliano Ferarra: «Li convincemmo noi. Cossiga, Pecchioli, Berlinguer, Caselli e Violante sapevano»

In questa intervista Giuliano Ferrara, oggi direttore del Foglio ma all’epoca importante dirigente della federazione torinese del Pci, riempie dei tasselli importanti che consentono di ricostruire il sistema della giustizia d’eccezione messo in piedi a partire dalla fine degli anni 70 per combattere l’azione delle formazioni della sinistra rivoluzionaria che conducevano la loro offensiva armata nelle fabbriche e nei quartieri delle periferie urbane. Oltre ad aver incontrato i giurati popolari sorteggiati per comporre la giuria, Ferrara rivela anche di avere fatto delle riunioni politiche, sempre nelle sedi del Pci, con il magistrato Giancarlo Caselli che aveva condotto l’inchiesta contro le Brigate rosse, per concordare una comune strategia antiterrorismo. Una circostanza che trova conferma in una precedente intervista rilasciata da Saverio Vertone sul Corriere della sera dell’11 dicembre 1994: «I rapporti di Caselli con il Pci erano strettissimi, fino a divenire più avanti nel tempo, statuari, organizzativi. Partecipava alle riunioni dei comitati federali. Forse, ma non ne sono certo, prendeva anche la parola alle riunioni di segreteria: discuteva di politica, naturalmente. Però non dimentichiamoci che allora discutere di politica significava affrontare il problema dell’emergenza terrorismo. Caselli era il rappresentante dell’ “intransigenza democratica”, teorizzava la supplenza della magistratura dinanzi al cedimento degli organismi pubblici. Io e Ferrara concordavamo con lui sulla necessità di mantenere una linea dura»

di Paolo Persichetti
Questa intervista è apparsa in versione ridotta su Il Riformista del 10 novembre 2010 e in versione integrale su Gli Altri del 12 novembre 2010

Dopo due anni costellati da rinvii, il 9 marzo 1978 si apre a Torino il processo al cosiddetto “nucleo storico delle Brigate rosse”. 46 imputati di cui 11 detenuti. Alla prima udienza – racconta Adelaide Aglietta, allora segretaria del partito radicale, nel suo, Diario di una giurata popolare al processo delle Brigate rosse, Milano libri edizioni 1979 – «scopro con mio enorme stupore che un giurato depone una rivoltella: accerterò nei mesi seguenti che anche altri girano costantemente armati». Il quotidiano torinese La Stampa descrive minuziosamente le imponenti misure di sicurezza: 4 mila uomini in assetto di guerra, teste di cuoio, tiratori scelti sui tetti intorno alla caserma Lamarmora trasformata in aula Bunker, novecento uomini addetti alle scorte. Nell’aula – ricorda sempre Aglietta – «la regia è perfetta: due persone su tre sono agenti in borghese camuffati per mimare l’intera scala sociale, dall’imbianchino all’impiegato, al signore borghese con loden e Repubblica sotto il braccio, al giovane finto estremista». Sarà il primo dei maxi-processi contro la lotta armata, dopo una maxi-inchiesta condotta dal giudice istruttore torinese Giancarlo Caselli che aveva accorpato, suscitando polemiche e accuse di forzatura, tre differenti filoni d’indagine svolti in città diverse. Il primo rinvio (maggio 1976) c’era stato perché gli imputati con un gesto a sorpresa avevano revocato i difensori. Ribaltando i ruoli nel processo da accusati si erano proclamati accusatori dello “Stato imperialista delle multinazionali” e innovando la tradizione del “processo rottura” annunciavano l’inizio del processo guerriglia, gettando così nello scompiglio l’intera macchina processuale. Il secondo rinvio è dell’anno successivo, dopo l’uccisione, il 28 aprile 1977, del presidente dell’ordine degli avvocati di Torino Fulvio Croce che aveva assunto la difesa d’ufficio nonostante la volontà contraria degli imputati. Il 3 maggio 1977 solo 4 degli 8 giudici popolari avevano accettato la nomina. Per arrivare a comporre l’intera giuria ci vollero ancora un anno e 40 estrazioni. 210 furono i rifiuti tra gli avvocati per le nomine d’ufficio. Il sorteggio, la fiction sceneggiata da Giovanni Fasanella (a proprosito: quando verranno chiamati dei veri storici a fornire consulenze invece dei soliti imprenditori della dietrologia giornalistica?) andata in onda su Raiuno non racconta però la storia di questi giurati embedded. Per saperne qualcosa di più ho incontrato Giuliano Ferrara, oggi direttore del Foglio ma all’epoca attivissimo responsabile delle fabbriche per la federazione torinese del Pci. In un libro di Maurizio Caprara, Lavoro riservato. I cassetti segreti del Pci, Feltrinelli 1997, aveva rivelato che tra i suoi incarichi di allora c’erano state anche «alcune riunioni con giurati del maxi-processo contro i brigatisti per convincerli a non rinunciare all’incarico».

Ferrara, davvero il Pci ti ha dato un incarico del genere?
Bisogna ricostruire il contesto, il clima che si viveva a Torino. Parliamo di anni in cui ogni settimana c’era un omicidio, una gambizzazione, un incendio in una fabbrica, un arresto, la scoperta di un covo. Insomma una situazione molto drammatica, intensa, spettacolare. Era una sorte di guerra civile dispiegata. Io mi occupavo delle fabbriche, della Fiat, di operai, del sindacato, poi ero nella segreteria della Federazione. La società torinese era intrisa di questo problema. Allora quando ci fu la questione del processo alle Br la città si bloccò, nel senso che tutto il processo si bloccò intorno al fatto che non si trovavano i giurati per la paura. Era una cosa devastante per noi. Voleva dire proprio che c’era una resa e allora ci muovemmo per trovare questi giurati.

Come?
Beh, quando venivamo a sapere che c’era qualcuno scelto ma che non voleva, allora intervenivamo. Nella società operaia ci sono delle relazioni parentali, amicali. Il partito era molto ramificato, era molto presente, ci veniva detto ed io andavo come responsabile dell’antiterrorismo.

La legge dice che i giurati non possono essere influenzati.
Certo che era una forzatura, una cosa totalmente non garantista, da emergenzialismo devastante. Per questo era un lavoro che facevamo segretamente, riservatamente. Però sentivo che avevo una forte giustificazione etica. D’altra parte facemmo anche il questionario antiterrorismo con la domanda numero 5 che invitava alla delazione. Insomma c’era una crisi dello Stato evidente che poi diventò parossistica durante il processo Moro, tra l’altro le date coincidono. Lo Stato era debole e flebile il progetto del compromesso storico. Però non ci fu nessuna germanizzazione, come si diceva all’epoca. Non c’è mai stata alcuna Stammheim. L’unica cosa è stata via Fracchia, l’eccidio della direzione della colonna genovese delle Br.

Ma così difendevate la legalità con l’illegalità?
Noi eravamo una specie di controterrorismo. Un giorno mio padre me lo disse, «ma tu sei un controterrorista». Contrariamente a quanti consideravano il terrorismo un fenomeno isolato, minoritario, totalmente avulso dalle lotte sociali, che era poi la versione di comodo di una parte del Pci, ritenevo già allora il terrorismo una cosa molto seria. Un partito armato con un progetto socialmente sostenuto da ragioni forti, da movimenti di massa, da situazioni nuove nella fabbrica, da una dottrina. La fabbrica non era più solo un luogo dello sfruttamento, che è un rapporto matematico, era il luogo dell’oppressione. La volontà di impedire quel processo di oppressione ha creato Il fenomeno del terrorismo politico di matrice marxista in tutta Europa, Raf e Brigate rosse. Se tu riconosci questo allora capisci le ragioni di quell’atto. Se fossero stati soltanto delle pattuglie scollegate dalla società non ce ne sarebbe stato bisogno.

Ma se la lotta armata nasceva dall’oppressione non sarebbe stata più opportuna una risposta politica? Le vostre scelte sembrano confermare invece quanto dicevano i prigionieri delle Br: «il processo messo in scena non è giustizia ma un atto di guerra».
Sì, ma lo Stato di diritto doveva essere salvato. Io sono marxista, dietro l’involucro formale dello Stato di diritto c’è la sostanza, cioè la forza.

Più che Marx mi sembra il discorso di Carl Schmitt.
Ovviamente non nego il formalismo giuridico di cui c’è bisogno, dico che è un involucro, poi dentro c’è un contenuto, una sostanza, i rapporti sociali.

Caselli nel rinvio a giudizio aveva definito le Br una nuova forma di criminalità sprovvista di contenuti politici.
Questa idea del terrorismo come di una pattuglia di persone separate dal contesto sociale italiano è sbagliatissima. Sei mesi prima di via Fracchia, quelli che dormivano lì e che erano nella direzione strategica delle Br, erano avanguardie operaie di fabbrica. Il terrorismo non era criminalità organizzata. Era azione politica che andava al cuore dello Stato, quindi se ti identificavi, se ti immedesimavi con lo Stato, a differenza di Sciascia che se la passava bene dicendo che non stava né con gli uni né con gli altri, non potevi agire altrimenti. Noi ci identificavamo e facevamo quello che consideravamo il nostro dovere. Certo ci voleva anche una certa dose di fanatismo allora per fare cose di questo genere.

Ma le Br non hanno mai fatto minacce dirette ai giurati popolari. Lo testimonia Adelaide Aglietta e le inchieste successive non hanno mai fornito una sola prova che ci fosse stata anche solo l’idea di colpire un giurato.
La percezione era che chi combatteva una battaglia legale contro le Brigate rosse rischiava. Era evidente che c’era un conflitto condotto con argomentazioni molto suggestive, perché le Br dicevano: «mica spariamo a voi, noi spariamo alla vostra funzione». Quindi alla funzione del secondino, alla funzione dell’avvocato Croce, a tutte le tutele corporative, al capo reparto. Chiunque dovesse svolgere un certo ruolo era minacciato, a prescindere da minacce effettive.

Dove avvenivano questi incontri?
Nelle sedi del partito. Mi ricordo una riunione a Lingotto. Adesso sembra chissà che cosa, ma tutto era fatto con una certa eleganza, mica dicevamo «dovete entrare a far parte della giuria e dargli l’ergastolo». Facevamo un’opera di persuasione. Una specie di antidoto contro la paura. Spiegavamo che partecipare ad una giuria è un dovere civico, che se non si arrivava a costituire questa giuria la città e un pezzo importante dell’Italia sarebbero cadute in uno stato di ripiegamento di fronte ad una offensiva violenta che semina lutti, che crea problemi. Davamo il nostro suggerimento e poi naturalmente offrivamo una mano, al di là della mano che dava lo Stato. Lo Stato offriva una sua protezione, noi potevamo aggiungere anche la nostra.

Che tipo di protezione?
Per esempio case. Chiedevamo: «Dicci quali sono i tuoi problemi, se hai paura. Sappi che noi ci siamo».

Fornivate anche armi?
No, non mi risulta. Può essere che questo consiglio sia venuto dalle forze di polizia. Il ministero dell’Interno suggeriva spesso di armarsi. Lo disse anche a me ed io comprai una rivoltella, presi il porto d’armi.

Tra le persone incontrate c’è stato qualcuno che alla fine ha detto no?
Sì, moltissime persone. Anzi ricordo più sconfitte che risultati.

Si trattava di una iniziativa autonoma della federazione di Torino oppure c’era stata una indicazione dalla sezione problemi dello Stato diretta da Pecchioli?
Certo la direzione era informata. Ma era una iniziativa nostra. In quel clima non c’era niente di più ovvio che fare questo.

Il rapporto con Pecchioli come era?
Pecchioli era torinese, era stato partigiano, era legatissimo a tutte le forze reali del partito. Veniva spesso, si fermava. In federazione c’era ancora la generazione della Resistenza divisa in due: quelli che tifavano per i terroristi, che pure c’erano, non dico quelli come Lazagna, ma quelli che dicevano «lasciateli fare i giovani, è inutile fare appelli accorati, hanno ragione loro». Quando cacciarono Lama dall’università erano tutti contenti, alla camera del lavoro e alla Fiom. E poi c’era l’altra generazione resistenziale, quella più dottrinale, quella più ortodossa, che invece diceva «No, questi sono un pericolo», gli amendoliani, insomma quelli più legati ad una tradizionale posizione d’apparato.

E le istituzioni? Il presidente della corte d’Assise Barbaro era al corrente di questa vostra attività?
Non te lo so dire.

Giancarlo Caselli?
Penso che lo sapesse. Caselli e Violante facevano le riunioni con noi.

Il ministro degli Interni Francesco Cossiga era informato?
Sì, Cossiga era in stretto rapporto con Pecchioli, dunque sapeva. Almeno sette-otto persone, da Berlinguer in giù, avevano sicuramente notizia che il Pci a Torino si era attivato per cercare di comporre questa giuria.

Oggi, a distanza di oltre trent’anni, dopo tutto quello che è successo, rifaresti la stessa cosa?
E’ passato tanto tempo, ho un’altra età, ho appreso un sacco di lezioni. La storia ha replicato quindi non voglio fare il gradasso dicendo che rifarei tutto. Spero però che ci sia sempre un giovane, come me allora, capace di rifare la stessa cosa.

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Piperno: «Cossiga architetto dell’emergenza giudiziaria era convinto che con l’amnistia si sarebbero chiusi gli aspetti più orripilanti di quegli anni»
Enzo Traverso, années de plomb entre tabou et refoulement
Mario Moretti, Brigate rosse une histoire italienne
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Perché a Romiti non piace il capitalismo di Marchionne

Quando Marchionne criticava l’arida ricerca del profitto del capitalismo anglosassone…

Ferruccio de Bortoli
Il Sole 24 ore 25 settembre 2007

Gli anni della grande paura borghese

Cesare Romiti non ama i pullover. «Continuo a portare la cravatta, quella non me la tolgo di sicuro». L’ex amministratore delegato e presidente della Fiat, 84 anni, si toglie invece qualche sassolino dalla scarpa dopo aver letto, domenica sul Corriere della Sera, l’intervento del suo successore alla guida della Fiat, pronunciato al convegno pugliese della rivista prodiana “L’Industria”. Un discorso molto applaudito, soprattutto a sinistra. «Una società liberale che vuole durare nel tempo – sostiene Sergio Marchionne, 55 anni – deve difendere chi è colpito dal cambiamento».
L’artefice della rinascita del gruppo torinese critica l’arida ricerca del profitto del capitalismo anglosassone, rivaluta le virtù del welfare europeo, rilancia il dialogo con i sindacati, ma non manca di sottolineare l’importanza del mercato, la centralità del merito, dell’efficienza e della competitività. Piero Fassino intravede nel manifesto di Marchionne una forte impronta riformista e socialdemocratica, quasi un nuovo modello capitalista. «Sono pronto ad allearmi con lui».
Nella sua casa milanese, Romiti scuote il capo e premette di avere una grande stima di Marchionne, ma di non aver digerito affatto alcuni passaggi di quell’intervento, in particolare quando, parafrasando Dickens, si dice che la Fiat «sta facendo molto, molto meglio di quanto non abbia fatto, sta andando verso un posto migliore, molto migliore di quanto non sia mai stata». Come se chi fosse venuto prima di Marchionne possa essere paragonato al perfido Fagin o al triste Sower di Oliver Twist.
No, argomenta con calma Romiti: la storia della Fiat, ma di qualsiasi altra grande impresa, va giudicata tenendo conto del contesto politico e sociale del tempo. Se questo, forse, è un capitalismo più avanzato, quello di prima non era né reazionario né insensibile ai temi sociali. Non c’è un modello buono e uno cattivo.
«Non dimentichiamoci che cos’era l’Italia della fine degli anni 70: scioperi, conflittualità e la minaccia del terrorismo». Marchionne cita, nel suo intervento, Mel Gibson nel film Braveheart: «Gli uomini non seguono gli uomini, gli uomini seguono il coraggio». E quanto coraggio, dice Romiti, bisognava avere negli anni in cui cadevano Ghiglieno e Casalegno? Quando vivevamo sotto scorta e ogni giorno qualcuno veniva gambizzato? Era quello un capitalismo cattivo e pavido? Che cosa sarebbe oggi la Fiat, ma anche il Paese, se non vi fosse stata la marcia dei quarantamila e, prima, il licenziamento di quei 61 dipendenti, fra i quali vi erano molti sospetti collusi con la lotta armata?
I ricordi si moltiplicano, anzi si affollano. «Gli anni del terrore furono anni terribili, durante i quali fare impresa, andare in ufficio o in fabbrica ogni giorno equivaleva a compiere un atto di coraggio civile che metteva a repentaglio la vita propria e dei propri collaboratori». Romiti parla di Ghidella, Callieri, Mattioli, Annibaldi. «E Guido Rossa? Io stesso fui oggetto di un tentativo di sequestro. Ma lasciamo perdere».
Gli anni passano, dottor Romiti, e qualche errore lo fece anche lei, lo ammetta. «Sì, ma la crisi della Fiat è stata il risultato di una serie di decisioni sbagliate, e di persone sbagliate. Soprattutto dopo il ’98, da quando lasciai la presidenza. Marchionne è stato bravo, lo riconosco. Ma il dialogo con il sindacato lo avevamo anche noi, aprivamo asili, colonie per i figli dei dipendenti, case, servizi». Insomma, Romiti non lo dice, ma trova molto ingeneroso il silenzio di Marchionne sugli anni difficili della Fiat. «Gli scioperi dopo la marcia dei quarantamila nell’80 finirono. Non se lo ricorda più nessuno. Ora non ci sono più? Sono contento, anche se mi sembra che a Termini Imerese qualche sciopero ci sia stato ancora, recentemente». La Fiat di Romiti diversificò le proprie attività, con successo. La Fiat di Marchionne si concentra sull’auto. Con successo.«Bene, ma allora perché non cede la partecipazione in Rcs, visto che è cambiato il modello di capitalismo?».
Ma il successo è innegabile o no? Romiti, alla fine, a mezza voce esprime qualche dubbio persino sul fatto che la ripresa di Torino sia così forte e stabile come appare e come testimonia la quotazione in Borsa. E poi ci sono le stock option, che proprio non gli vanno giù. Qualcuno ha fatto il calcolo, sostiene, di quanti secoli deve lavorare un dipendente Fiat per mettere insieme l’ammontare degli emolumenti del proprio amministratore delegato? «Una volta il rapporto fra quanto guadagnava un top manager e un dipendente era molto inferiore». Sì, ma la sua liquidazione, dottor Romiti, fu di diverse decine di miliardi. «Così si stabilì con l’Avvocato, ma le stock option condizionano giornalmente le scelte del manager. Non sempre quello che va bene per lui va bene per l’azienda». La conversazione termina ancora sul pullover. «Ho letto che poi se lo è messo anche Prodi…». Il cronista traduce non autorizzato: stia attento Marchionne, straniero in Patria, a non indossare, senza volerlo, oltre un pullover, una casacca.

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Romiti, “A Marchionne dico: operai e azienda, la contrapposizione di interessi ci sarà sempre”
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Delazioni industriali: la nuova filosofia aziendale di Marchione
Disobbedienza e lavoro in fabbrica, la questione etica degli operai Fiat a Melfi
1970, come la Fiat schedava gli operai

Maggiordomi Fiat, quando Piero Fassino si dichiarava alleato di Marchionne

Era il 2007 e l’entrata di Marchionne in Fiat affascinava la sinistra. Addirittura il solito Piero Fassino riconoscendo in lui la stoffa di un vero «socialdemocratico», si dichiarava: pronto ad allearsi con Marchionne»…

Franco Debenedetti
Sole 24ore, 25 settembre 2007

Dato che si impara anche dai successi, la storia dello spettacolare turn around della Fiat di Sergio Marchionne, oltre che oggetto di compiacimento, ammirazione e soddisfazione, diventerà oggetto di studio. È giusto che egli ci ricordi quanto giochi, in ogni storia industriale di successo, la componente schumpeteriana, le culture di origine o di elezione, Machiavelli o Dickens. Un imprenditore deve tener conto del “terreno culturale” in cui opera, quello che Marchionne chiama, con qualche generosità, di “forte responsabilità sociale”. Non piccola parte del suo successo è dovuta all’aver riconosciuto che, tra i tanti problemi che ha trovato in Fiat, i temi “sensibili” – emblematicamente Termini Imerese e Mirafiori – non erano prioritari: e potevano essere diversamente risolti.
Proprio perché ogni storia di rilancio è anche una “storia di trasformazione personale” di chi la realizza, nessuna caratteristica individuale, nessun tipo di capitalismo sono dati a priori come vincenti. E invece i resoconti della giornata e i commenti del giorno dopo testimoniano dell’incapacità del mondo politico di leggere correttamente la lezione del manager Fiat, e di resistere alla tentazione di generalizzare e di appropriarsi di una quota del merito che solo è suo.
La spesa sociale pubblica, ha detto Marchionne, in Europa è del 27%, in Usa è del 16. Tanto è bastato perché il “mondo accademico filo cattolico” radunato a Mattinata esprimesse consenso a quella che parve fosse una critica al modello americano (così Roberto Bagnoli sul Corriere della Sera). Ma era proprio una critica? Egli sa bene che questo divario si ha anche perché l’onere previdenziale sta nei bilanci delle aziende americane, nel caso della General Motors facendola vacillare più della concorrenza giapponese. Lo crediamo quando dice che a lui è stato più facile trattare sui livelli occupazionali con i sindacati italiani di quanto lo sarebbe per General Motors con Uaw: ma in Usa è possibile avere contratti aziendali che escludono la presenza di sindacati, anzi così succede in molte aziende del Gruppo Fiat in America. Invece in Italia vige l’erga omnes e si rincorre sempre l’obbiettivo di differenziare e di fare della contrattazione aziendale il luogo dove si misura la produttività e si riconosce il merito. Per la flessibilità in uscita, le grandi aziende, e la Fiat in particolare, sanno di poter contare su strumenti di mobilità anche generosi. Per le piccole e medie aziende invece, e non solo per i commentatori anglosassoni, la nostra struttura del lavoro è poco flessibile. Anche per loro i problemi si chiamano una burocrazia che “non fa che alimentare se stessa”, la carenza “di una rete di infrastrutture efficiente e moderna”, “la riduzione della pressione fiscale”, “il costo dell’energia”.
Anche Piero Fassino, commentando il giorno dopo il discorso di Marchionne, ne apprezza la sensibilità sociale. Così insignitolo della medaglia di “vero socialdemocratico”, facendo l’analogia tra il cambiamento che il manager ha realizzato in Fiat («quando tutti dicevano che doveva essere solo venduta») e l’ambizione di cambiare la politica italiana dando vita al Partito democratico, può prenderlo come supertestimonial dell’evento. Ormai il parallelo tra industria e politica è diventato comune anche a sinistra. Fassino va oltre, e non esita a individuare nei sindacati e nella stessa coalizione di Governo il luogo dove si annidano le resistenze conservatrici al cambiamento. Per batterle, egli si dichiara «pronto ad allearsi con Marchionne». L’affermazione lascia perplessi: perché non vi è dubbio alcuno che, per superare gli ostacoli che sono disseminati sulla strada di aziende grandi e piccole, e delle piccole più ancora delle grandi, il Pd dovrà sapere stringere alleanze diverse, probabilmente assai meno facili. Penso alle tante aziende che non hanno bisogno che gli venga ricordato di «fondare le proprie radici sui valori della concorrenza e del mercato»; e che quanto ad «abbracciare la sfida del nuovo e pensare al futuro» possono dare lezioni. Perfino in America la frase che rese famoso Charles B. Wilson, ministro della Difesa di Eisenhower, («Ciò che è bene per la General Motors è bene per l’America ») è ricordata come l’epitaffio di un mondo che fu: figurarsi in Italia dove di grandi aziende ne abbiamo avute sempre poche.

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Prigioni: i nuovi piani di privatizzazione del sistema carcerario

Anche in Italia rischia di prendere forma un complesso carcerario-industriale?
Diliberto, Fassino, Castelli, Alfano: nell’ultimo decennio sinistra carceraria e destra hanno tentato in tutti i modi di favorire l’ingresso del capitale privato nella costruzione e gestione delle carceri

Paolo Persichetti
Liberazione
14 marzo 2009 (versione integrale non censurata)

«Complesso carcerario-industriale» è la definizione introdotta dalla sociologia critica e dagli attivisti abolizionisti americani per definire il carcere-fabbrica postfordista. Il termine è stato introdotto per la prima volta da Mike Davis, davis-m_slum1 attento studioso di sociologia urbana, per descrivere il sistema penale californiano (Città di quarzo, manifestolibri 1991; Geografie della paura, Feltrinelli 1999; Il pianeta degli Slum, Feltrinelli 2006, sono solo alcune delle sue opere tradotte). Lo ricorda Angela Davis in una sua raccolta di saggi, Aboliamo le prigioni?, da poco pubblicata dalla Minimum fax.
Negli Stati uniti l’impresa privata utilizza la manodopera carceraria. Il vantaggio è notevole: «Niente scioperi né sindacati. Niente indennità di malattia, sussidi di disoccupazione o compensi da pagare ai lavoratori. Le nuove prigioni sono fabbriche cinte da mura. I detenuti immettono dati per la Chevron, ricevono prenotazioni telefoniche per la Twa, costruiscono circuiti stampati, il tutto per un costo molto inferiore a quello della manodopera libera». Qualcosa del genere rischia di accadere anche da noi? Da un buon decennio a questa parte ha fatto breccia nella cultura politica l’idea di un coverimagecoinvolgimento dell’impresa privata all’interno del sistema penitenziario. In parte ciò accade già. Alcuni servizi sono stati esternalizzati per ridurre costi e rendere maggiormente efficienti le prestazioni. Per esempio, in alcuni istituti penitenziari le cucine sono state date in gestione a cooperative sociali di ex detenuti. Nella casa circondariale di Velletri si produce addirittura del vino, il fuggiasco, ricavato da vitigni lavorati con cura da una cooperativa di detenuti. A Rebibbia e san Vittore sono attivi dei call center della Telecom. Niente a che vedere, ancora, con lo sfruttamento che le grandi privates corporation americane fanno della manodopera reclusa. L’idea è quella di favorire l’autoimprenditorialità sociale come uno dei percorsi di recupero e integrazione previsti dalla legge Gozzini, dove il lavoro è ritenuto un passaggio verso l’uscita graduale dal carcere, grazie alle misure alternative (lavoro esterno, semilibertà, affidamento in prova). Anche le condizioni contrattuali rispettano i parametri sindacali minimi previsti all’esterno: contributi, ferie, malattia. Ma la difficoltà di stare sul mercato va lentamente snaturando queste esperienze, risucchiate da logiche molto lontane dai loro presupposti iniziali. La pratica dei subappalti e il controllo del mercato da parte d’imprese più grandi condannano nel tempo queste esperienze locali. Il capitalismo ha le sue leggi.
Tuttavia la costituzione e la legislazione italiana restano, per ora, un ostacolo insuperato per chi vorrebbe privatizzare il sistema penitenziario nel suo complesso. Prima che ciò accada veramente occorre che si realizzi un passaggio concettuale importante: separare la punizione dal suo legame con il reato. In sostanza che il castigo non sia più legato al delitto ma diventi una forma di controllo sociale e sfruttamento delle fasce più basse della popolazione. Per certi versi già avviene in alcune circostanze. Basti pensare a come, nell’accidentato percorso terapeutico della tossicodipendenza, la ricaduta nell’uso di sostanze stupefacenti è assimilata alla recidiva penale e non alla fisiologia clinica.
Un altro requisito è l’esplosione dei tassi di carcerazione, la scelta strutturale di fare della penalità, del sistema giudiziario-penitenziario, un asse essenziale delle politiche di governo sociale. I numeri che vedono ormai superata la soglia limite dei 60 mila detenuti, a fronte di una capienza legale di 43 mila, la retorica dilagante sulla certezza della pena, il populismo penale e l’ideologia vittimaria, sono lì a dimostrarlo: siamo già all’interno di questo processo. Tra il 1995-2005 la popolazione carceraria è cresciuta del 22% rispetto alla media europea, mentre la capacità di accoglienza è rimasta pressoché stabile (+5,5%). prison-industry
Il sovraffollamento, l’eccedenza d’esseri umani rinchiusi, è il cavallo di Troia utilizzato per far passare nel nostro paese l’idea che il ricorso ai privati sia una necessità. Fino alla svolta degli anni 80, i flussi penitenziari venivano governati attraverso il ricorso periodico ad amnistie e indulti. Una politica che non suscitava allarmi sociali e non ha mai pregiudicato la sicurezza e l’ordine pubblico. La paura non era ancora uno dei temi essenziali del marketing politico e diffusa era la consapevolezza che la devianza non aveva radici etiche, non era frutto di un male teologico, ma aveva cause socio-economiche che andavano aggredite. Al di là della ovvia repressione, soltanto politiche strutturali potevano ridurne la dimensione. Insomma l’obiettivo non era solo quello di «sbattere dentro», ma d’intervenire sulle radici sociali del crimine. Poi è arrivata la rivoluzione conservatrice di Reagan, una nuova filosofia della correzione ha avuto il sopravvento anche in Italia e la società è tornata a rinchiudere, incarcerare pezzi di popolazione sempre più ampi. Dietro al sovraffollamento carcerario non c’è un semplice incremento della «devianza sociale», suscitato da quel movimento tellurico che è lo spostamento migratorio di popolazioni verso le zone più ricche del pianeta e dalla precarizzazione strutturale della nuova economia, ma la scelta di fare del carcere uno strumento di governo di questi nuovi flussi. Un fenomeno che ricorda quanto avvenne agli albori del protocapitalismo con le enclosures, le recensioni delle terre coltivabili che spinsero la popolazione delle campagne a cercare fortuna nelle città. Un’improvvisa eccedenza di popolazione che l’immaturità della nuova economia capitalistica non riusciva ad assorbire suscitarono l’immensa piaga del vagabondaggio, represso con leggi durissime e l’internamento nelle case-lavoro antesignane della prigione moderna. privatiedprisons

Come sempre accade nella storia d’Italia, le svolte a destra maturano quando al governo c’è la sinistra. Era il 30 gennaio 2001 quando il ministro della Giustizia Piero Fassino, uno dei peggiori assieme a Oliviero Diliberto, dispose la dismissione di 21 carceri e l’individuazione di nuove aree per la costruzione di un modello inedito di prigione, di media sicurezza e trattamento penitenziario qualificato. Progetto che prevedeva l’ingresso dei privati nella costruzione e gestione dei nuovi istituti. Roberto Castelli, il successivo guardasigilli leghista con laurea in ingegneria, non fece altro che raccogliere l’idea. Era il periodo delle cartolarizzazioni e della finanza creativa di Giulio Tremonti. Venne creata la Patrimonio spa, società del governo che doveva raccogliere gli introiti delle dismissioni di Regina Coeli a Roma e San Vittore a Milano, liberando aree urbane centrali che facevano gola alla grande speculazione edilizia. La Dike Aedifica, controllata al 95% dalla Patrimonio, amministrata da Vico Valassi, un amico del ministro, doveva invece coinvolgere i privati. L’operazione però non decollò e della vicenda s’interessò soltanto la magistratura. Con la nomina di Franco Ionta, capo del Dap, a commissario straordinario all’edilizia penitenziaria con poteri speciali, il guardasigilli Angelino Alfano è tornato alla carica. L’obiettivo ora sarebbe quello di costruire carceri di nuova generazione a impianto radiale, edifici concepiti per essere ampliati successivamente. Carceri «leggere» per detenuti in attesa di giudizio. Nuovi edifici modulari costruiti su terreni demaniali con criteri ecocompatibili.
I fondi verranno presi dalla Cassa delle ammende (utilizzata fino ad ora per il reinserimento dei detenuti. Una bella beffa!) e poi si tenterà nuovamente di coinvolgere i privati attraverso il «project financing». Chi costruisce avrà in cambio la gestione dei servizi (mensa, lavanderia, manutenzione) che non sono di competenza esclusiva dello Stato (sicurezza e sanità). Ma poiché tali servizi non sono sufficientemente remunerativi dei capitali investiti, per invogliare il capitale privato il governo ha previsto a titolo di compenso una permuta con i penitenziari situati nei centri storici di alcune città, come Roma, Milano, Palermo, oppure con quelli situati in posti di indubbio valore naturalistico (ma facilmente convertibile in valore turistico) come Pianosa, Procida o Nisida, oltre all’ipotesi di leasing ventennali o trentennali. La banda del mattone s’appresta a fare soldi a palate.

Carceri private: il modello a stelle e strisce, privatizzazioni e sfruttamento

Affari d’oro e detenuti come forza lavoro da “spremere”

Simonetta Cossu
Liberazione
14 marzo 2009

C’è un business negli Stati Uniti che non dà segni di crisi. E’ l’incredibile affare che ruota attorno al complesso carcerario-industriale. Non è legato ad aumenti di atti criminali e neanche ad un equo rapporto tra il delitto e il castigo. E’ il risultato di una alleanza di ferro tra grandi imprese, governo, istituti di pena e media che produce soldi a palate a discapito del principio di giustizia. 4q53hqf
Negli Stati Uniti ci sono ad oggi quasi tre milioni di detenuti. Ospiti di carceri federali, statali e anche private sparse in tutto il paese. Secondo l’organizzazione californiana California Prison Focus «nessuna altra società nella storia umana ha imprigionato un così alto numero di suoi cittadini». E i numeri sembrano confermarlo. Secondo le statistiche nelle prigioni americane è detenuto il 25% della popolazione carceraria mondiale, su soltanto il 5% della popolazione mondiale. Mezzo milione in più della Cina, che però ha una popolazione cinque volte più numerosa.
Viene spontaneo chiedersi: cosa ha determinato questa escalation di detenzioni?
Il tasso di criminalità stando alle statistiche è in discesa. Secondo il Bureau of prisons nel 2004 si è registato lo stesso tasso di ciminalità del 1974, mentre gli omicidi sono al loro minimo storico, pari a quello registrato nel 1965. Ma il dato più importante è che il tasso di criminalità si concentra in determinate aree: povere e principalmente abitate da afroamericani e ispanici. Il 57% dei reati commessi sono legati a traffico di droga. Ma nonostante questo si è passati dalla popolazione carceraria di 300 mila detenuti del 1972, al milione del 1990 per arrivare ai quasi tre di oggi. Dieci anni fa esistevano negli Stati Uniti solo 5 carceri private, oggi ce ne sono 100. 2326997474_a0b0d81f47_o
E’ chiaro il come e il perché dell’enorme affare che ha dato vita a quello che viene definito il complesso industriale-carcerario. Immaginate di avere a disposizione un enorme bacino di forza lavoro che costa poco, non può protestare (chi protesta può essere messo in isolamento) e non richiede assicurazioni di sorta. E’ questa la ricetta di quella che le organizzazioni umanitarie, così come quelle politiche e sociali, definiscono come una nuova forma di inumano sfruttamento. Una industria multimilionaria che ha proprie mostre commerciali, convention, website e punti vendita su internet. Inoltre ha campagne pubblicitarie dirette, studi di architettura, società di costruzioni, società di investimento a Wall Street, aziende di impiantistica, compagnie di distribuzione di generi alimentari, sicurezza armata, e celle.
Inoltre i contratti privati per il lavoro dei carcerati sono un incentivo per imprigionare sempre più gente. Le prigioni dipendono da questo reddito. Azionisti delle corporation che fanno i soldi grazie al lavoro dei carcerati fanno lobbing a favore di pene più lunghe, per espandere la loro mano d’opera. Un sistema che si autoalimenta.
Secondo una inchiesta del Left Business Observer , l’industria federale carceraria produce il 100% di molti materiali militari: elmetti, cinture per le munizioni, maglie a prova di proiettile, placche di identificazione, camicie, pantaloni, tende, borse e spacci di bevande. A parte i rifornimenti militari, gli operai della prigione forniscono il 98% dell’intero mercato per i servizi di assemblaggio di apparecchiature; il 93% delle vernici e dei pennelli; il 92% dell’assemblaggio di cucine; il 46% delle armature protettive; il 36% degli elettrodomestici; il 30% di cuffie/microfoni/altoparlanti; e il 21% delle forniture di ufficio. Parti di aeroplano, forniture mediche, e molto più: i prigionieri stanno persino allevando e addestrando cani-guida per ciechi.
Ma come si fa ad incarcerare sempre più persone? Negli Usa negli ultimi anni si è assistito ad una lunga serie di nuove leggi che allungano la pena. L’esempio più ecclatante è la famosa “Three strikes law”, la legge “tre volte e sei eliminato” – termine preso in prestito dal baseball – che prevede pene fino all’ergastolo, senza possibilità di libertà condizionata, per chi si macchia di almeno tre reati, anche minori. L’approvazione di questa norma in “soli” 13 Stati ha determinato la necessità di costruire nei prossimi 10 anni altre 20 carceri.  NA/HOLDEM
E qui arriva il grande affare della privatizzazione. Il boom è iniziato nel 1980 sotto le presidenze di Ronald Reagan e di Bush senior ma ha raggiunto il suo appice nel 1990 con Clinton. Le prigioni private sono l’affare più grande nel complesso dell’industria carceraria. Le due più grandi società del settore sono la Correctional Corporation of America (Cca) e Wackenhut, le quali insieme controllano il 75% del mercato. Le prigioni private ricevono un importo garantito di denaro per ogni prigioniero, indipendentemente dal costo per mantenerlo. Secondo Russell Boraas, amministratore di una prigione privata in Virginia, «il segreto dei costi di gestione bassi sta nell’avere il numero minimo di guardie per il numero massimo di prigionieri». La Cca, per esempio, ha una prigione ultra-moderna a Lawrenceville, in Virginia, dove cinque guardie nel turno di giorno e due in quello di notte sorvegliano oltre 750 prigionieri. In queste prigioni, i carcerati possono ottenere la riduzione della pena per “buona condotta”, ma qualsiasi infrazione è punita con 30 giorni aggiuntivi – che significa più profitti per la Cca.
Una forza lavoro quella in carcere che ha rappresentato per molte multinazionali una manna dal cielo: costa poco, non protesta e non chiede tutele o assicurazioni. Almeno 37 stati hanno affidato per legge il lavoro dei detenuti a società private che organizzano le lavorazioni direttamente all’interno delle prigioni di Stato. nella lista di queste aziende si trova la crema delle corporazioni Usa: Ibm, Boeing, Motorola, Microsoft, At&t, Wireless, Texas Instrument, Dell, Compaq, Honeywell, Hewlett-Packard, Nortel, Lucent Technologies, 3Com, Intel, Northern Telecom, Twa, Nordstrom, Revlon, Macy, Pierre Cardin, Target Stores e molte altre. I carcerati dei penitenziari di Stato generalmente ricevono lo stipendio minimo per il loro lavoro, ma non tutti; in Colorado, per esempio, vengono pagati circa 2 dollari l’ora, ben al di sotto del minimo. E nelle prigioni private ricevono solo 17 centesimi l’ora per un massimo di sei ore al giorno, l’equivalente di 20 dollari al mese. La prigione privata con le paghe migliori è la Cca del Tennessee, dove i prigionieri ricevono 50 centesimi all’ora per quelli che vengono «impieghi altamente qualificati».
Grazie al lavoro carcerario, gli Stati Uniti risultano ancora appetibili per investimenti originariamente progettati per il mercato del così detto “terzo mondo”. Un’azienda che possedeva una maquiladora (impianto di assemblaggio) in Messico vicino al confine, per esempio, ha chiuso i suoi stabilimenti e li ha ricollocati nella famosa prigione di Stato di San Quentin, in California.
Per concludere, alcuni dati. Il 97% dei 125mila carcerati federali sono stati condannati per crimini non-violenti. Si stima che più della metà dei 623mila carcerati delle prigioni comunali o di contea siano innocenti dei crimini di cui sono accusati. Di questi, la maggioranza sta attendendo il processo. Due terzi del milione di prigionieri statali hanno commesso crimini non-violenti. Il sedici per cento dei quasi tre milioni di prigionieri del paese soffre di malattie mentali.