Secondino una ceppa di c… Alberto Sordi contro Geolier

Amici napoletani mi hanno spiegato che il nome d’arte Geolier preso da un noto cantante di successo sia frutto di una scelta identitaria legata ad una sottolineata rivendicazione del suo quartiere di origine, il rione Gescal di Secondigliano. Nei giorni scorsi alcuni giornalisti si sono affrettati a spiegare che il termine francese «Geolier» vorrebbe dire in italiano «secondino», termine con il quale a Napoli verrebbero chiamati gli abitanti di Secondigliano, sia per la presenza del carcere che per l’alta densità di popolazione del quartiere incarcerata. Non so quanto sia vero o quanto sia accettata una etichetta del genere, ma facciamo che sia così.

In realtà in italiano il termine geolier si traduce con carceriere. La parola viene da «geôle», dal francese arcaico «gaiole» derivato dal basso latino «caveola», diminutivo del latino classico «cavea», che indica una cavità, caverna e al tempo stesso gabbia. La geôle era la vecchia segreta, la cella riposta nei sotterranei per intenderci e il geolier il carceriere del luogo.
Secondino invece è un termine gergale, dispreggiativo, che indicava in origine «i secondi del capo carcere», in sostanza le guardie carcerarie che dovevano ubbidire al loro superiore in grado, dei sottomessi agli occhi dei detenuti. Termine «in origine lombardo, passato poi in veneto e quindi nella lingua nazionale durante il XIX secolo». Impiegato dai reclusi soprattutto in risposta alla pretesa delle guardie carcerarie di essere chiamate «superiori».
L’equivalente francese, non letterale ma di senso, del termine secondino è «maton» che deriva dall’argot «mater» ovvero guardare, dunque colui che guarda, il guardone.

Tutto questo per dire che se il nostro cantante voleva chiamarsi secondino, avrebbe dovuto impiegare il termine maton, largamente in uso nel francese attuale, e non geolier.

Il détournement, posto che questo fosse il vero obiettivo, non mi sembra granché riuscito.

Torno a dire, e concludo, che quello che a me un po’ sconcerta è la naturalezza con cui si sceglie di assumere questo nome, carceriere o secondino che dir si voglia, senza percepirne il disvalore profondo e che nei quartieri difficili, almeno un tempo, equivaleva all’infamia. 
Se ciò non è più, si tratta di un fatto socialmente e culturalmente rilevante, pregnante di significato, che introduce una cesura tanto più se avviene proprio in quei quartieri difficili, che contano un gran numero di persone detenute, di familiari con detenuti, dove quasi tutti hanno un amico o conoscente incarcerato o che è passato per la detenzione, dove il carcere è purtroppo un orizzonte quotidiano, un percorso inevitabile della propria esistenza che incombe in ogni momento.

Resisto al rischio di trarre conclusioni troppo affrettate intorno ad un fenomeno di costume che però non sottovaluterei affatto.
 Concludo solo ricordando che tra l’Alberto Sordi interprete di Detenuto in attesa di giudizio, con la regia di Nanni Loy, soggetto e sceneggiatura di personaggi del calibro di Rodolfo Sonego, Sergio Amidei e Emilio Sanna, e il povero Geolier, non c’è misura o scelta possibile. Sarà un segno dei tempi, sarà quel che sarà, ma è così.


– Scusi secondino!

– Secondino una ceppa di cazzo. Superiore!

– Superiore? Superiore a chi? Superiore a cosa? Superiore a me?


Nella desolata vastità della cella

La sapienza della cella

Vorresti conoscere te stesso e (forse ancor più) la tua reale situazione? C’è per questo una buona pietra di paragone. Considera quale tra le migliaia di definizioni dell’uomo ti appaia immediatamente evidente.
Mi metto dunque a pensare nella mia cella, e mi appare immediatamente lampante che l’uomo è nudo. Massimamente nudo è l’uomo che vien posto svestito di fronte a un uomo vestisto; disarmato di fronte a uno armato; impotente, di fronte a uno potente. Tutto ciò lo sapevano già Adamo ed Eva alla cacciata dal paradiso.
Subito si solleva una questione: da chi deve cominciare la definizione di uomo, dall’uomo nudo o dall’uomo vestito? Dall’armato o dal disarmato? Dall’impotente o dal potente? Nei paradisi dell’odierno aldiqua gli uomini vanno dattorno vestiti di colpo mi è chiaro che io invece sono nudo.

Nelle desolate vastità di un’angusta cella.

Ex Captivitate Salus
Carl Schmitt

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Cronache carcerarie

 

Caso cucchi: avanza l’offensiva di chi vuole allontanare la verità

Autoassoluzione: reintegrati i medici indagati per la morte di Stefano Cucchi nonostante siano sotto inchiesta per omicidio colposo.
Per la Asl non ci sarebbe stato “abbandono terapeutico”. Il decesso sarebbe frutto di un evento imprevedibile


Paolo Persichetti
Liberazione 1 dicembre 2009

Sono stati reintegrati nel reparto penitenziario dell’ospedale Sandro Pertini i tre medici indagati per omicidio colposo dopo la morte di Stefano Cucchi. Eppure quanto è trapelato dagli accertamenti medico-legali sul corpo riesumato del giovane, deceduto il 22 ottobre scorso all’interno della struttura ospedaliera dopo una settimana di agonia seguita ad uno, o più, pestaggi e sevizie violentissime (sul numero esatto, e gli autori delle percosse subite, ancora oggi permane l’incertezza), confermerebbe le responsabilità dei sanitari nella sua morte. Il blocco della vescica riscontrato su Stefano Cucchi sarebbe, infatti, compatibile con la paralisi dell’ultimo tratto della colonna vertebrale.
Mentre le lesioni alla schiena e alla testa, seppur serie, non sarebbero state letali se adeguatamente curate. Insomma tutto lascia seriamente supporre che nei confronti di Cucchi vi sia stato un «abbandono terapeutico», una situazione di lassismo e incuria, una sottovalutazione grave e colposa delle sue condizioni di salute e delle cause che le avevano originate. Nonostante ciò, l’indagine amministrativa interna condotta da una commissione, apparentemente composta da personale della medesima Asl, ha sbrigativamente liquidato l’accaduto come «un evento non prevedibile». Nella relazione depositata ieri, si può leggere che l’analisi dei fatti, a fronte del «carattere improvviso e inatteso del decesso, non ha messo in luce, sul piano organizzativo e procedurale, alcun particolare elemento relativo ad azioni e/o omissioni da parte del personale sanitario con nesso diretto causa-effetto con l’evento avverso in questione. Contestualizza e configura pertanto l’oggetto dell’indagine sotto il profilo di evento non prevenibile». Per questo motivo Il direttore generale dell’Asl RmB, Flori Degrassi, ha disposto la revoca dell’ordine di trasferimento, preso in via provvisoria il 18 novembre scorso, nei confronti di Aldo Fierro, Stefania Corbi e Rosita Caponetti. La diffusione della notizia ha subito suscitato sconcerto e raccolto i commenti negativi del legale della famiglia, Fabio Anselmo, di Patrizio Gonnella dell’associazione Antigone, e di Luigi Nieri, assessore al Bilancio della regione Lazio, che ha censurato una «decisione affrettata e profondamente sbagliata», rilevando come sia piuttosto inusuale «che la Asl concluda la propria inchiesta amministrativa prima di quella penale».
La decisione presa dalle strutture dirigenti dell’ospedale Pertini non si discosta molto da quello spirito corporativo che ha fino ad ora caratterizzato il comportamento di tutti gli altri attori coinvolti in questo terribile esempio di violenza istituzionale. Chiusura a riccio e omertà d’apparato in difesa di una impunità di principio che vorrebbe imporre l’idea della insindacabilità dell’operato di chi agisce in uniforme di Stato. Un atteggiamento viziato da una visione autoreferenziale della legalità e della morale. Alcuni apparati molto potenti non hanno mai accettato di essere messi sul banco dei sospetti e fin dall’inizio hanno operato nell’ombra, mettendo le briglie a un’inchiesta che altrimenti rischiava di mostrare il «re nudo». Mentre negli ultimi giorni nuove testimonianze di detenuti, presenti nell’infermeria di Regina Coeli con Stefano Cucchi, hanno riaperto scenari su violenze precedenti l’arrivo in tribunale, che la procura ha sempre evitato di approfondire ritenendoli privi di riscontri (ma l’inchiesta serve per trovare eventuali riscontri, non per escluderli a priori), da parte degli indagati emerge una nuova strategia. Non più scarica barile tra penitenziaria e carabinieri, ma fuoco concentrico sulla persona di Cucchi, dipinto come uno che entrava e usciva dal pronto soccorso degli ospedali. Un modo per dire che era già «rotto» prima di essere arrestato. E come se non bastasse, vengono diffuse minacce a mezzo stampa facendo circolare notizie sull’apertura di una inchiesta contro i legali della famiglia Cucchi per calunnia nei confronti dei carabinieri. Un modo per dire che gli apparati dello Stato sono santuari intoccabili.

Link
http://perstefanocucchi.blogspot.com/
Stefano Cucchi: le foto delle torture inferte
Caso Cucchi, scontro sulle parole del teste che avrebbe assistito al pestaggio. E’ guerra tra apparati dello Stato sulla dinamica dei fatti
Morte di Cucchi, c’e chi ha visto una parte del pestaggio nelle camere di sicurezza del tribunale
Erri De Luca risponde alle infami dichiarazioni di  Carlo Giovanardi sulla morte di Stefano Cucchi
Stefano Cucchi, le ultime foto da vivo mostrano i segni del pestaggio. Le immaigini prese dalla matricola del carcere di Regina Coeli
Manconi: “sulla morte di Stefano Cucchi due zone d’ombra”
Cronache carcerarie
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Caso Stefano Cucch, “il potere sui corpi è qualcosa di osceno”
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Ignorata la disponibilita offerta da un gruppo di detenute che si offrì di assistere la Blefari. I magistrati puntavano al pentimento
Induzione al pentimento
Suicidio Blefari Melazzi: l’uso della malattia come strumento di indagine

Detenuto morto a Mammagialla. È il sesto in un anno

Ancora un detenuto morto nel carcere viterbese di Mammagialla. È il sesto decesso nel giro poco più di un anno tra indifferenza, mutismo, opacità della direzione dell’istituto e custodia

Liberazione 22 aprile 2009

Casa circondariale Mammagialla

Casa circondariale Mammagialla

Ancora un decesso nel carcere di Mammagialla. Un detenuto italiano di mezza età è morto lunedì notte. Pare respirando gas da una bomboletta dopo aver infilato la testa in una busta.
L’episodio è stato comunicato dal Garante regionale dei diritti dei detenuti, Angiolo Marroni, che ieri era in visita nell’Istituto viterbese. Come al solito dalla casa circondariale filtrano pochissime informazioni. Una spessa coltre e un mutismo ostinato, una vera e propria omertà istituzionale (coltivata da Direzione e ufficio di sorveglianza) hanno immediatamente avvolto la prigione. Si è saputo solo che l’uomo traversava da qualche tempo grosse difficoltà psicologiche. Mammagialla è nota per essere una delle peggiori carceri del Lazio, afflitta da un sovraffollamento cronico, 433 posti per 614 reclusi, e un clima ambientale in cui regnano indifferenza, cinismo e accidia da parte di chi dirige l’istituto.
Nel 2008 ci sono stati cinque decessi. Tre suicidi ufficialmente accertati, mentre per gli altri due casi sono ancora in corso accertamenti. Il 15 ottobre è stata presentata un’interrogazione parlamentare dalla radicale Rita Bernardini, ancora senza risposta. A febbraio, nel corso di un convegno il direttore D’Andria aveva descritto le condizioni critiche dell’istituto, dove 299 soggetti sono in terapia ordinaria, 178 in terapia psichiatrica e 12 in terapia antiretrovirale. Più malati che criminali.

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Cronache carcerarie

L’indulto da sicurezza, il carcere solo insicurezza
Carcere, solo posti in piedi
Carcere: il governo della sofferenza
Mammagialla morning
Come si vive e si muore nelle carceri italiane
Come topi
in gabbia
Abruzzo la terra trema anche per i dimenticati in carcere
Lì dove il secolo è il minuto
Prigioni i nuovi piani di privatizzazione del sistema carcerario
Carceri private il modello a stelle e strisce privatizzazioni e sfruttamento
Aboliamo le prigioni
Il lavoro in carcere
Le misure alterantive al carcere sono un diritto del detenuto
Basta ergatolo: parte lo sciopero della fame
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Carcere di Forli: muore in cella abbandonato nessuno lo ha soccorso
Ali juburi, morto di sciopero della fame
Dopo la legge Gozzini tocca al 41 bis, giro di vite sui detenuti
Carcere, arriva la legge che cancella la Gozzini
Fine pena mai, l’ergastolo al quotidiano
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Sulla mobilitazione attuale nelle carceri
Carcere, gli spettri del 41 bis

Abruzzo: La terra trema anche per i dimenticati in carcere

Evacuato il carcere minorile di L’Aquila. Timori per l’agibilità della casa di reclusione di massima sicurezza

Paolo Persichetti
Liberazione 8 aprile 2009

«Dopo aver effettuato un’approfondita verifica, possiamo affermare che le carceri delle zone interessate dal terremoto hanno complessivamente tenuto», è stato questo il messaggio rassicurante reso noto subito dopo il sisma dal ministro della Giustizia Alfano. Ma quella tipica precauzione semantica che si cela dietro l’avverbio complessivamente accende più di un dubbio. Infatti accanto alle case crollate col passar delle ore sono emerse anche le prime crepe nella versione ufficiale diffusa dal ministero di via Arenula.
Se è vero che la gran parte degli istituti penitenziari abruzzesi non hanno subito danni alle strutture, molto diverso invece è stato l’impatto delle scosse sulle carceri aquilane. L’istituto penale minorile è stato evacuato. I tredici ragazzi presenti sul posto sono stati trasferiti in altre sedi. Sei di loro nel carcere minorile romano di Casal del Marmo, gli altri sette nei minorili di Potenza, Bari e Firenze. È quanto reso noto dall’ufficio del Garante dei detenuti del Lazio.
Nonostante il tentativo di minimizzare la situazione, importanti sarebbero i danni inferti dal sisma alla casa di reclusione di L’Aquila. Un istituto penitenziario particolarmente sensibile perché ospita un’intera sezione di massima sicurezza, dove sono rinchiusi i detenuti sottoposti al regime del 41 bis (massime restrizioni e isolamento) e un’area riservata, cioè un regime detentivo ancora più aspro e nel quale l’isolamento, anche sensoriale, è praticamente assoluto. Non a caso poche ore dopo il sisma, il capo del Dap Franco Ionta ha inviato sul posto il direttore del Gruppo operativo mobile (il reparto speciale della polizia penitenziaria che gestisce i reparti di massima sicurezza), generale Alfonso Mattiello. Lo stesso Ionta è arrivato a L’Aquila nella serata di lunedì. In un comunicato ufficiale, emesso ieri, si dice che nella caserma del carcere sono state rilevate «solo lievi lesioni»; ma la versione che viene dall’interno dell’istituto aquilano è un po’ diversa. Secondo la testimonianza rilasciata a Irene Testa, segretaria dell’associazione “Il detenuto ignoto”, da un agente di servizio la notte del terremoto, l’edificio sarebbe inagibile, parte degli appartamenti della polizia penitenziaria sarebbero crollati mentre nel resto della struttura e nelle celle vi sarebbero danni «non rilevanti». Nel frattempo sei detenuti, di cui quattro in regime di 41 bis, più un ex collaboratore di giustizia e un “comune”, tutti bisognosi di cure cliniche, sono stati trasferiti, alcuni a Roma. Il crollo dell’ospedale aquilano non permetteva più di fornire loro l’assistenza medica adeguata. Altre tre traduzioni sarebbero in attesa.
Sembra invece che il protocollo d’emergenza previsto in questi casi abbia funzionato bene. Almeno è quanto rivelano fonti dell’amministrazione penitenziaria. Dopo la scossa anche i detenuti della massima sicurezza sarebbero stati raccolti per gruppi e portati nei cortili del passeggio, dove forniti di coperte hanno trascorso la notte. Anche a Sulmona è stato seguito un protocollo analogo. Solo un detenuto è stato colto da malore a causa di una crisi d’ansia. Nelle situazioni d’emergenza (terremoti, incendi, alluvioni) ogni carcere segue un suo specifico protocollo dettato dalle caratteristiche dell’istituto: tipologia architettonica e requisiti di sicurezza.
Ma intanto la terra continua a tremare per questo c’è chi chiede l’evacuazione completa dell’istituto di pena.

Link
https://insorgenze.wordpress.com/2009/04/08/come-topi-in-gabbia/

Prigioni: i nuovi piani di privatizzazione del sistema carcerario

Anche in Italia rischia di prendere forma un complesso carcerario-industriale?
Diliberto, Fassino, Castelli, Alfano: nell’ultimo decennio sinistra carceraria e destra hanno tentato in tutti i modi di favorire l’ingresso del capitale privato nella costruzione e gestione delle carceri

Paolo Persichetti
Liberazione
14 marzo 2009 (versione integrale non censurata)

«Complesso carcerario-industriale» è la definizione introdotta dalla sociologia critica e dagli attivisti abolizionisti americani per definire il carcere-fabbrica postfordista. Il termine è stato introdotto per la prima volta da Mike Davis, davis-m_slum1 attento studioso di sociologia urbana, per descrivere il sistema penale californiano (Città di quarzo, manifestolibri 1991; Geografie della paura, Feltrinelli 1999; Il pianeta degli Slum, Feltrinelli 2006, sono solo alcune delle sue opere tradotte). Lo ricorda Angela Davis in una sua raccolta di saggi, Aboliamo le prigioni?, da poco pubblicata dalla Minimum fax.
Negli Stati uniti l’impresa privata utilizza la manodopera carceraria. Il vantaggio è notevole: «Niente scioperi né sindacati. Niente indennità di malattia, sussidi di disoccupazione o compensi da pagare ai lavoratori. Le nuove prigioni sono fabbriche cinte da mura. I detenuti immettono dati per la Chevron, ricevono prenotazioni telefoniche per la Twa, costruiscono circuiti stampati, il tutto per un costo molto inferiore a quello della manodopera libera». Qualcosa del genere rischia di accadere anche da noi? Da un buon decennio a questa parte ha fatto breccia nella cultura politica l’idea di un coverimagecoinvolgimento dell’impresa privata all’interno del sistema penitenziario. In parte ciò accade già. Alcuni servizi sono stati esternalizzati per ridurre costi e rendere maggiormente efficienti le prestazioni. Per esempio, in alcuni istituti penitenziari le cucine sono state date in gestione a cooperative sociali di ex detenuti. Nella casa circondariale di Velletri si produce addirittura del vino, il fuggiasco, ricavato da vitigni lavorati con cura da una cooperativa di detenuti. A Rebibbia e san Vittore sono attivi dei call center della Telecom. Niente a che vedere, ancora, con lo sfruttamento che le grandi privates corporation americane fanno della manodopera reclusa. L’idea è quella di favorire l’autoimprenditorialità sociale come uno dei percorsi di recupero e integrazione previsti dalla legge Gozzini, dove il lavoro è ritenuto un passaggio verso l’uscita graduale dal carcere, grazie alle misure alternative (lavoro esterno, semilibertà, affidamento in prova). Anche le condizioni contrattuali rispettano i parametri sindacali minimi previsti all’esterno: contributi, ferie, malattia. Ma la difficoltà di stare sul mercato va lentamente snaturando queste esperienze, risucchiate da logiche molto lontane dai loro presupposti iniziali. La pratica dei subappalti e il controllo del mercato da parte d’imprese più grandi condannano nel tempo queste esperienze locali. Il capitalismo ha le sue leggi.
Tuttavia la costituzione e la legislazione italiana restano, per ora, un ostacolo insuperato per chi vorrebbe privatizzare il sistema penitenziario nel suo complesso. Prima che ciò accada veramente occorre che si realizzi un passaggio concettuale importante: separare la punizione dal suo legame con il reato. In sostanza che il castigo non sia più legato al delitto ma diventi una forma di controllo sociale e sfruttamento delle fasce più basse della popolazione. Per certi versi già avviene in alcune circostanze. Basti pensare a come, nell’accidentato percorso terapeutico della tossicodipendenza, la ricaduta nell’uso di sostanze stupefacenti è assimilata alla recidiva penale e non alla fisiologia clinica.
Un altro requisito è l’esplosione dei tassi di carcerazione, la scelta strutturale di fare della penalità, del sistema giudiziario-penitenziario, un asse essenziale delle politiche di governo sociale. I numeri che vedono ormai superata la soglia limite dei 60 mila detenuti, a fronte di una capienza legale di 43 mila, la retorica dilagante sulla certezza della pena, il populismo penale e l’ideologia vittimaria, sono lì a dimostrarlo: siamo già all’interno di questo processo. Tra il 1995-2005 la popolazione carceraria è cresciuta del 22% rispetto alla media europea, mentre la capacità di accoglienza è rimasta pressoché stabile (+5,5%). prison-industry
Il sovraffollamento, l’eccedenza d’esseri umani rinchiusi, è il cavallo di Troia utilizzato per far passare nel nostro paese l’idea che il ricorso ai privati sia una necessità. Fino alla svolta degli anni 80, i flussi penitenziari venivano governati attraverso il ricorso periodico ad amnistie e indulti. Una politica che non suscitava allarmi sociali e non ha mai pregiudicato la sicurezza e l’ordine pubblico. La paura non era ancora uno dei temi essenziali del marketing politico e diffusa era la consapevolezza che la devianza non aveva radici etiche, non era frutto di un male teologico, ma aveva cause socio-economiche che andavano aggredite. Al di là della ovvia repressione, soltanto politiche strutturali potevano ridurne la dimensione. Insomma l’obiettivo non era solo quello di «sbattere dentro», ma d’intervenire sulle radici sociali del crimine. Poi è arrivata la rivoluzione conservatrice di Reagan, una nuova filosofia della correzione ha avuto il sopravvento anche in Italia e la società è tornata a rinchiudere, incarcerare pezzi di popolazione sempre più ampi. Dietro al sovraffollamento carcerario non c’è un semplice incremento della «devianza sociale», suscitato da quel movimento tellurico che è lo spostamento migratorio di popolazioni verso le zone più ricche del pianeta e dalla precarizzazione strutturale della nuova economia, ma la scelta di fare del carcere uno strumento di governo di questi nuovi flussi. Un fenomeno che ricorda quanto avvenne agli albori del protocapitalismo con le enclosures, le recensioni delle terre coltivabili che spinsero la popolazione delle campagne a cercare fortuna nelle città. Un’improvvisa eccedenza di popolazione che l’immaturità della nuova economia capitalistica non riusciva ad assorbire suscitarono l’immensa piaga del vagabondaggio, represso con leggi durissime e l’internamento nelle case-lavoro antesignane della prigione moderna. privatiedprisons

Come sempre accade nella storia d’Italia, le svolte a destra maturano quando al governo c’è la sinistra. Era il 30 gennaio 2001 quando il ministro della Giustizia Piero Fassino, uno dei peggiori assieme a Oliviero Diliberto, dispose la dismissione di 21 carceri e l’individuazione di nuove aree per la costruzione di un modello inedito di prigione, di media sicurezza e trattamento penitenziario qualificato. Progetto che prevedeva l’ingresso dei privati nella costruzione e gestione dei nuovi istituti. Roberto Castelli, il successivo guardasigilli leghista con laurea in ingegneria, non fece altro che raccogliere l’idea. Era il periodo delle cartolarizzazioni e della finanza creativa di Giulio Tremonti. Venne creata la Patrimonio spa, società del governo che doveva raccogliere gli introiti delle dismissioni di Regina Coeli a Roma e San Vittore a Milano, liberando aree urbane centrali che facevano gola alla grande speculazione edilizia. La Dike Aedifica, controllata al 95% dalla Patrimonio, amministrata da Vico Valassi, un amico del ministro, doveva invece coinvolgere i privati. L’operazione però non decollò e della vicenda s’interessò soltanto la magistratura. Con la nomina di Franco Ionta, capo del Dap, a commissario straordinario all’edilizia penitenziaria con poteri speciali, il guardasigilli Angelino Alfano è tornato alla carica. L’obiettivo ora sarebbe quello di costruire carceri di nuova generazione a impianto radiale, edifici concepiti per essere ampliati successivamente. Carceri «leggere» per detenuti in attesa di giudizio. Nuovi edifici modulari costruiti su terreni demaniali con criteri ecocompatibili.
I fondi verranno presi dalla Cassa delle ammende (utilizzata fino ad ora per il reinserimento dei detenuti. Una bella beffa!) e poi si tenterà nuovamente di coinvolgere i privati attraverso il «project financing». Chi costruisce avrà in cambio la gestione dei servizi (mensa, lavanderia, manutenzione) che non sono di competenza esclusiva dello Stato (sicurezza e sanità). Ma poiché tali servizi non sono sufficientemente remunerativi dei capitali investiti, per invogliare il capitale privato il governo ha previsto a titolo di compenso una permuta con i penitenziari situati nei centri storici di alcune città, come Roma, Milano, Palermo, oppure con quelli situati in posti di indubbio valore naturalistico (ma facilmente convertibile in valore turistico) come Pianosa, Procida o Nisida, oltre all’ipotesi di leasing ventennali o trentennali. La banda del mattone s’appresta a fare soldi a palate.

Carceri private: il modello a stelle e strisce, privatizzazioni e sfruttamento

Affari d’oro e detenuti come forza lavoro da “spremere”

Simonetta Cossu
Liberazione
14 marzo 2009

C’è un business negli Stati Uniti che non dà segni di crisi. E’ l’incredibile affare che ruota attorno al complesso carcerario-industriale. Non è legato ad aumenti di atti criminali e neanche ad un equo rapporto tra il delitto e il castigo. E’ il risultato di una alleanza di ferro tra grandi imprese, governo, istituti di pena e media che produce soldi a palate a discapito del principio di giustizia. 4q53hqf
Negli Stati Uniti ci sono ad oggi quasi tre milioni di detenuti. Ospiti di carceri federali, statali e anche private sparse in tutto il paese. Secondo l’organizzazione californiana California Prison Focus «nessuna altra società nella storia umana ha imprigionato un così alto numero di suoi cittadini». E i numeri sembrano confermarlo. Secondo le statistiche nelle prigioni americane è detenuto il 25% della popolazione carceraria mondiale, su soltanto il 5% della popolazione mondiale. Mezzo milione in più della Cina, che però ha una popolazione cinque volte più numerosa.
Viene spontaneo chiedersi: cosa ha determinato questa escalation di detenzioni?
Il tasso di criminalità stando alle statistiche è in discesa. Secondo il Bureau of prisons nel 2004 si è registato lo stesso tasso di ciminalità del 1974, mentre gli omicidi sono al loro minimo storico, pari a quello registrato nel 1965. Ma il dato più importante è che il tasso di criminalità si concentra in determinate aree: povere e principalmente abitate da afroamericani e ispanici. Il 57% dei reati commessi sono legati a traffico di droga. Ma nonostante questo si è passati dalla popolazione carceraria di 300 mila detenuti del 1972, al milione del 1990 per arrivare ai quasi tre di oggi. Dieci anni fa esistevano negli Stati Uniti solo 5 carceri private, oggi ce ne sono 100. 2326997474_a0b0d81f47_o
E’ chiaro il come e il perché dell’enorme affare che ha dato vita a quello che viene definito il complesso industriale-carcerario. Immaginate di avere a disposizione un enorme bacino di forza lavoro che costa poco, non può protestare (chi protesta può essere messo in isolamento) e non richiede assicurazioni di sorta. E’ questa la ricetta di quella che le organizzazioni umanitarie, così come quelle politiche e sociali, definiscono come una nuova forma di inumano sfruttamento. Una industria multimilionaria che ha proprie mostre commerciali, convention, website e punti vendita su internet. Inoltre ha campagne pubblicitarie dirette, studi di architettura, società di costruzioni, società di investimento a Wall Street, aziende di impiantistica, compagnie di distribuzione di generi alimentari, sicurezza armata, e celle.
Inoltre i contratti privati per il lavoro dei carcerati sono un incentivo per imprigionare sempre più gente. Le prigioni dipendono da questo reddito. Azionisti delle corporation che fanno i soldi grazie al lavoro dei carcerati fanno lobbing a favore di pene più lunghe, per espandere la loro mano d’opera. Un sistema che si autoalimenta.
Secondo una inchiesta del Left Business Observer , l’industria federale carceraria produce il 100% di molti materiali militari: elmetti, cinture per le munizioni, maglie a prova di proiettile, placche di identificazione, camicie, pantaloni, tende, borse e spacci di bevande. A parte i rifornimenti militari, gli operai della prigione forniscono il 98% dell’intero mercato per i servizi di assemblaggio di apparecchiature; il 93% delle vernici e dei pennelli; il 92% dell’assemblaggio di cucine; il 46% delle armature protettive; il 36% degli elettrodomestici; il 30% di cuffie/microfoni/altoparlanti; e il 21% delle forniture di ufficio. Parti di aeroplano, forniture mediche, e molto più: i prigionieri stanno persino allevando e addestrando cani-guida per ciechi.
Ma come si fa ad incarcerare sempre più persone? Negli Usa negli ultimi anni si è assistito ad una lunga serie di nuove leggi che allungano la pena. L’esempio più ecclatante è la famosa “Three strikes law”, la legge “tre volte e sei eliminato” – termine preso in prestito dal baseball – che prevede pene fino all’ergastolo, senza possibilità di libertà condizionata, per chi si macchia di almeno tre reati, anche minori. L’approvazione di questa norma in “soli” 13 Stati ha determinato la necessità di costruire nei prossimi 10 anni altre 20 carceri.  NA/HOLDEM
E qui arriva il grande affare della privatizzazione. Il boom è iniziato nel 1980 sotto le presidenze di Ronald Reagan e di Bush senior ma ha raggiunto il suo appice nel 1990 con Clinton. Le prigioni private sono l’affare più grande nel complesso dell’industria carceraria. Le due più grandi società del settore sono la Correctional Corporation of America (Cca) e Wackenhut, le quali insieme controllano il 75% del mercato. Le prigioni private ricevono un importo garantito di denaro per ogni prigioniero, indipendentemente dal costo per mantenerlo. Secondo Russell Boraas, amministratore di una prigione privata in Virginia, «il segreto dei costi di gestione bassi sta nell’avere il numero minimo di guardie per il numero massimo di prigionieri». La Cca, per esempio, ha una prigione ultra-moderna a Lawrenceville, in Virginia, dove cinque guardie nel turno di giorno e due in quello di notte sorvegliano oltre 750 prigionieri. In queste prigioni, i carcerati possono ottenere la riduzione della pena per “buona condotta”, ma qualsiasi infrazione è punita con 30 giorni aggiuntivi – che significa più profitti per la Cca.
Una forza lavoro quella in carcere che ha rappresentato per molte multinazionali una manna dal cielo: costa poco, non protesta e non chiede tutele o assicurazioni. Almeno 37 stati hanno affidato per legge il lavoro dei detenuti a società private che organizzano le lavorazioni direttamente all’interno delle prigioni di Stato. nella lista di queste aziende si trova la crema delle corporazioni Usa: Ibm, Boeing, Motorola, Microsoft, At&t, Wireless, Texas Instrument, Dell, Compaq, Honeywell, Hewlett-Packard, Nortel, Lucent Technologies, 3Com, Intel, Northern Telecom, Twa, Nordstrom, Revlon, Macy, Pierre Cardin, Target Stores e molte altre. I carcerati dei penitenziari di Stato generalmente ricevono lo stipendio minimo per il loro lavoro, ma non tutti; in Colorado, per esempio, vengono pagati circa 2 dollari l’ora, ben al di sotto del minimo. E nelle prigioni private ricevono solo 17 centesimi l’ora per un massimo di sei ore al giorno, l’equivalente di 20 dollari al mese. La prigione privata con le paghe migliori è la Cca del Tennessee, dove i prigionieri ricevono 50 centesimi all’ora per quelli che vengono «impieghi altamente qualificati».
Grazie al lavoro carcerario, gli Stati Uniti risultano ancora appetibili per investimenti originariamente progettati per il mercato del così detto “terzo mondo”. Un’azienda che possedeva una maquiladora (impianto di assemblaggio) in Messico vicino al confine, per esempio, ha chiuso i suoi stabilimenti e li ha ricollocati nella famosa prigione di Stato di San Quentin, in California.
Per concludere, alcuni dati. Il 97% dei 125mila carcerati federali sono stati condannati per crimini non-violenti. Si stima che più della metà dei 623mila carcerati delle prigioni comunali o di contea siano innocenti dei crimini di cui sono accusati. Di questi, la maggioranza sta attendendo il processo. Due terzi del milione di prigionieri statali hanno commesso crimini non-violenti. Il sedici per cento dei quasi tre milioni di prigionieri del paese soffre di malattie mentali.

Aboliamo le prigioni?

“Aboliamo le prigioni?” sarà presentato domenica a Roma al Volturno occupato, via Volturno 37 alle ore 19 nell’ambito di una “giornata sulla prigionia femminile” organizzata da Scarceranda e Ora d’aria
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Vincenzo Guagliardo, Liberazione 6 Marzo 2009

Che fine ha fatto la famosa compagna afroamericana Angela Davis, per la cui liberazione ci si mobilitò in tanti, e con successo, sia in America che in Europa nei primissimi anni Settanta? E’ rimasta al suo posto: sempre idealmente vicina ai suoi vecchi “maestri”, il filosofo Marcuse e il detenuto ammazzato in carcere George Jackson, da studiosa e militante ha continuato ad approfondire certi temi, e, mutando e migliorando sempre il suo approccio, propone ora come approdo la lotta per l’abolizione delle prigioni. Così come si è fatto prima per la schiavitù e, ormai in molti paesi, per la pena di morte. (Angela Davis, Aboliamo le prigioni? , Minimum fax, 270 pagine, euro 14,50). Le prigioni sono un cancro nel cuore della democrazia che, così, non è più tale. Il carcere infatti non è solo la prigione, è una vasta intricata e ignorata rete di interessi e conseguenze, è un «complesso carcerario-industriale». «Le strategie di abolizione del carcere riflettono una comprensione dei nessi tra istituzioni che di solito concepiamo come diverse e slegate (…) La povertà persistente nel cuore del capitalismo globale porta a un aumento della popolazione carceraria, che a sua volta rafforza le condizioni che perpetuano la povertà». I carcerati sono gli eredi degli schiavi, persone senza diritti (e gli ergastolani gli eredi dei condannati a morte). La vecchia pena visibile si occulta dietro i muri, e grazie all’invisibilità viene accettata come cosa normale. Ma da questo laboratorio-memoria ogni tanto le sue tecniche devono fuoriuscire. Mica sono lì per niente. Quando ciò avviene, a Guantanamo o ad Abu Ghraib in Iraq, magari sotto forma di tortura filmata, il progressista scende in campo in difesa della “democrazia”, cui tali aspetti sarebbero estranei: in realtà continua a ignorare la fonte, “il cancro” della cosiddetta democrazia, la sua realtà quotidiana. Ma ora in America ci sono più di due milioni di reclusi. Come nascondersi con tali numeri che il carcere è ormai un ghetto dove buttar via una buona parte della gente ormai considerata superflua, demonizzandola, sottoponendola a un trattamento che terrorizzi gli altri superflui e cementi la morale della gente perbene? free_angela_buttonE come ignorare che l’esportazione della “democrazia” americana esporta anche questo cancro, che esso ne fa parte… “di brutto”? Ecco: un discorso semplice, lineare. Siamo arrivati a un momento chiave, possiamo ripercorrere a ritroso il cammino del cancro, giungere alla logica conclusione del discorso (la «democrazia dell’abolizione»). Ma immagino che l’intellettuale italiano medio qualificherà questa analisi come rozza: slogan pietrificati, detriti sociologici… E se fosse evangelica chiarezza? Il futuro che già vediamo in atto anche qui? Beh, se non lo riconosceremo, sarà allora difficile capire il successo ottenuto nel 1998 dagli studenti americani con sit-in e manifestazioni in cinquanta campus. Avevano visto in un filmato che «Le guardie del Brazoria County Detention Center usavano pungoli elettrici per il bestiame e altre forme d’intimidazione per ottenere il rispetto e costringere i prigionieri a dire: Amo il Texas». A guadagnare in quel carcere privatizzato era la Sodexho (con sede a Parigi!): tra le università che hanno rinunciato ai servizi della Sodexho figurano la Suny di Albany, il Goucher College e la James Madison University. La Sodexho ha ceduto, ha mollato il Brazoria… Se non lo riconosceremo, faremo girotondi.
In appendice al libro della Davis, Guido Caldiron e Paolo Persichetti provano generosamente a dimostrare l’attualità delle tesi abolizioniste dell’autrice riferite alla situazione italiana ed europea. Un’attualità tutt’ora virtuale, s’intende…

Mammagialla morning

Ore 6.30: gli uccelli già cinguettano fuori. Sono scomparse le cornacchie, mi domando perché. Apro la finestra. Un’ape proveniente dalle arnie del carcere è venuta a morire sul davanzale. Il loro ciclo vitale è di soli 60 giorni. Una ventina trascorsi allo stato larvale nella celletta dove la regina ha depositato le uova, i successivi 40 vissuti da operaia, con mansioni diverse. Prima la pulizia delle celle, poi la produzione di cera, quindi accudendo la regina madre, infine occupandosi dell’interno dell’arnia dove c’è sempre qualcosa da fare come produrre propoli per saldare ermeticamente gli spifferi d’aria o mummificare i corpi estranei. Solo dopo questa dura corvee viene finalmente il diritto all’agognata avventura: le missioni esterne. Scorazzare tra prati e fiori, raccogliere polline e nettare, produrre miele, avvistare altri campi, partire in avanscoperta, scovare nuovi ripari per gli sciami che decidono d’andar via quando una nuova regina vuole fondare famiglia altrove. E quando arriva l’ora fatale dopo tanto lavoro, prima che la stanchezza vinca completamente, c’è il viaggio finale, l’ultimo volo, quello funerario. Nata in una cella la povera ape non poteva che trovare il proprio letto di morte in un’altra.
La colazione è già sul ripiano marrone appeso al muro. Sollevo il panno che ricopre lo scaldalatte e m’accorgo che lo yogurt non è venuto. Ieri sera ho atteso troppo e il latte deve aver perso la giusta temperatura. Pazienza. Con i biscotti è buono lo stesso.
Ascolto i notiziari del mattino rigorosamente rete per rete, poi le rassegne stampa televisive e radiofoniche. Alla fine spengo tutto. Di nuovo silenzio. La sezione dorme ancora. Che pace! È il momento migliore della giornata. Passa il carrello dell’infermeria. Come sempre cigola troppo. C’è chi aspetta la terapia. Più tardi arriva il latte caldo dell’amministrazione. Solita trattativa per averne di più, se avanza.
Sono le otto e trenta, da un po’ sto leggendo l’arretrato di giornali che mi sovrasta. Già sono partito con le forbicine chicco che non tagliano nemmeno la carta. Conservo alcuni articoli di “terza pagina”. La guardia apre le celle, c’è il lavorante che raccoglie la spazzatura. Non c’è ancora la posta del giorno prima (in questo carcere tutto viene consegnato con almeno 24-48 ore di ritardo).
Sono quasi le 9. È il momento di prepararsi per scendere all’aria. Oggi ci tocca il campo di calcio. Finalmente usciamo. Solita caciara. Battute, risate, occhi gonfi, visi assonnati. Il terreno è un po’ pesante. Ieri ha diluviato. Incontro Luciano e passeggiamo parlando per una ventina di minuti, quindi incomincio a fare la mia corsa. È dura, ma lentamente arrivo a scaldarmi e trovo finalmente il fiato. Concludo con un paio di scatti da una estremità all’altra del campo. Smetto. Recupero l’ossigeno e mi avvicino ad un gruppo che fa ginnastica. Mi aggrego. Facciamo gli addominali. Serie da venti. Nessun problema. Poi un po’ di flessioni. Qualche problema. Si avvicina il russo.
Iuo fare luotta libera. Io insegnare te luotta.
Vabbé, se proprio ci tieni!
Come faccio a dirgli di no? Rischio di sembrare scortese. Poi con quell’accento meglio assecondare. Così fino alla dieci e mezza scopro la differenza tra greco-romana e libera. Mi spiega alcune prese. In genere con Milseu mi capita di fare scherma pugilistica. Quella la conosco bene. Nonostante gli anni passati ho conservato sufficiente dimestichezza.
Salgo in sezione giusto in tempo per la doccia. C’è diversa gente. Solite chiacchiere. Arriva Valerio. Ora ha il pizzetto. Era un po’ che non lo vedevo. È di Sezze romano, “l’ultimo degli Angioini” – racconta. Ha una buona proprietà di linguaggio. Sicuramente proviene da una famiglia benestante. Deve aver frequentato il liceo da ragazzo. Forse ha commesso un reato in famiglia. Un parente ucciso probabilmente. Qualcuno dice il padre. Sta in cella con Pino, carcerato da undici anni. Tutti e due con problemi psichiatrici. Pino percepisce una pensione d’invalidità perché schizofrenico. Ha sbudellato un vicino durante una lite sotto l’ingresso della sua casa popolare a Rebibbia. L’altro giorno aveva il ballo di san vito alle mani.
Cos’hai Pino?
Il prete mi ha detto che è morta mia moglie. Sarà vero?
E quando te lo ha detto?
Ieri, ma non è la prima volta. Che dici, sarà vero?
Beh, se non è la prima volta, dev’essere vero.
Anche se eravamo divorziati, mi dispiace. Era la madre dei miei figli.
Pino pare completamente perso. Di lui non si cura nessuno. Ho scritto a qualche associazione, senza risultati. Quando uscirà a fine pena, tra non molto, non avrà nemmeno un letto dove andare a dormire. La famiglia l’ha abbandonato perché lui aveva abbandonato loro. Pino è incapace di qualsiasi cosa. Non sa leggere, non sa parlare. Immagino la scena della sua scarcerazione. Immobile davanti al portone col sacco di plastica nero in mano. Si guarda davanti senza sapere cosa fare, dove andare. Cercherà di raggiungere l’ufficio postale dove sono depositate alcune migliaia di euro. Gli arretrati della sua pensione d’invalidità. Ogni tanto viene e mi chiede:
Ma sei sicuro che quando esco ci saranno i soldi della pensione?
E magari se li farà pure rubare da qualche altro disperato. Dove andrà Pino quel giorno? Sotto quale ponte? Nella hall di quale stazione? Quanto resterà vivo, Pino?
Nel 1576 a Sezze sono sbarcati i marziani!
Mi giro per non mostrare che sto ridendo. Valerio adesso parte con una delle sue. Tempo fa sosteneva che sotto la griglia che raccoglie gli scarichi della doccia c’erano le trote.
Le trote?
Si, le trote. Non le senti? Ascolta.
E noi ascoltavamo protesi con l’orecchio.
Beh, allora se le magnamo! E mica le lasciamo qui! Aspetta che mo’ vado a pijà la canna…
Il periodo ittico ora pare terminato. Siamo all’era astrale.
Una volta ho visto un’astronave. I primi marziani sono scesi a Sezze, poi è arrivato Nakamoto, lo scienziato giapponese con lo skateboard e ha salvato il mondo. Ha creato l’istituto scientifico spaziale. Così a Sezze c’è l’università.
In sezione incrocio Cheng, detto “Liso flitto” perché cucina un ottimo riso cantonese e perché non conosce la erre. Sembra uscito dai fumetti. Parla proprio come fanno i cinesi con i dentoni nelle nuvolette dei cartoni animati.
Liso flitto ride sempre. Ma anche quando sembra allegro è incazzato. Domenica al passeggio dell’una mi ha raccontato la sua ultima lite. C’è voluto un po’ per decifrare, ma alla fine ho capito. Gli hanno messo in cella un detenuto che pare sia omosessuale. Si dice che l’abbiano preso col sorcio in bocca… ma in carcere si dice sempre troppo.
Liso flitto allora è molto incazzato con la Direzione per quello che ritiene un affronto alla sua onorabilità.
Io non volele flocio in cella. Mio paese non succede questo. Flocio con flocio, non mischia. Io denunciale se lolo tenele flocio in mia cella.
Aspetta Cheng, non è mica così semplice. Non puoi essere razzista. Non puoi denunciare uno perché è omosessuale. Lui avrà anche il diritto di essere frocio.
No, non in mia cella.
Scusa Cheng, mica ti ha messo le mani addosso. Si comporta bene, no? È un bravo ragazzo?
Cosa? Lui toccale mio culo? Se lui provale, lui molto. Io non potele dolmile la notte con flocio. Io dovele gualdale semple. Io pallato con bligadiele. Io detto: mio palese altla cultula. Divelso da Italia. Flocio con flocio, altlo con altlo. Non mischia. Io volele mia cultula lispettata.
E cosa ti ha risposto?
Lolo stlonzi, plendele pelilculo.
Pule lolo floci? Ho detto, cercando una battuta non so quanto felice.
Io salito cella, preso sgabello e lotto testa.
Quindici giorni di cella di punizione e Cheng è ritornato in sezione, dopo aver risolto il problema del cocellante.

Ps: Liso flitto è uscito con l’indulto del 2006 ed è tornato dalla famiglia. Pino terminata la pena ha trovato ad aspettarlo fuori dalla porta del carcere un operatore volontario (sollecitato dai suoi compagni detenuti) che lo ha accompagnato in un centro di accoglienza dove è stato momentaneamente ospitato. Preso in cura dal Centro di igiene mentale ha avuto il tempo di una piccola disavventura. Uscito dal centro di accoglienza dopo la sua prima notte di libertà, si è incamminato per le strade del centro storico di Viterbo dove ha perso l’orientamento fino a perdersi. Nel panico più assoluto e timoroso di avvincinarsi a chiunque per chiedere aiuto, ha passato la notte sulla panchina di un giardino pubblico. All’alba si è nuovamente incamminato riuscendo finalmente a trovare la sede del Cim. Ora vive in una comunità di accoglienza. Pare stia bene. L’ultima volta che ho avuto notizie di Valerio era ancora al Mammagialla.