A proposito di un dibattito che campeggia da alcune settimane sul quotidiano L’Altro su memoria, fascismo, omofobia, strage di Bologna…
Paolo Persichetti
L’Altro 7 ottobre 2009

Siamo sicuri che per affrontare l’intolleranza, combattere contro i pregiudizi e l’omofobia, salvaguardare ed estendere lo spettro dei diritti civili, bisogna passare per il salotto di CasaPound, che nella piazza romana sembra ormai aver rimpiazzato quello televisivo di Vespa? Non esistono forse altre strade più salutari, intelligenti e efficaci?
La domanda la pongo a questo giornale, non solo perché in proposito ha pubblicato un articolo di Paola Concia, deputata del Pd, ex comunista che oggi si definisce «liberale di sinistra», mi auguro nel senso di John Rawls altrimenti – lo dico senza facili sarcasmi – non sarebbe un orizzonte culturale particolarmente innovativo (esistevano già alla fine dell’800 e si sono macchiati di numerosi misfatti coloniali e imperialistici nel corso della loro storia). Rivolgo la domanda a l’Altro anche perché la redazione ha finito per litigare a causa della pubblicazione di alcuni interventi scritti da esponenti dichiaratamente fascisti, dopo aver avviato con un inizio assai infelice ed alcuni passaggi decisamente sgangherati, una discussione sulla memoria degli anni 70, se essa debba essere condivisa o meno: ma perché, almeno per istruire la discussione, non ha dato la parola a degli storici o filosofi che lavorano sulla differenza fondamentale che distingue la storia dalla memoria?
Per quel che mi riguarda, ho trovato gli articoli di Mancinelli e Renzaglia (i due fascisti in questione) delle sfide culturali che come tali meritavano risposte di altro livello, anche perché in alcuni passaggi sollevavano problemi che sono stati oggetto di serio dibattito all’interno del movimento comunista (dai giudizi di Bordiga sul fascismo come processo di modernizzazione del capitale, in contrasto con Gramsci e altri dirigenti del Pcd’I, alla revisione critica del togliattismo fatta dal marxismo operaista negli anni 60). Per contro, l’intervista a Iannone apparsa tempo fa e il successivo articolo elogiativo su un noto picchiatore d’immigrati rasentavano la piaggeria. Assolutamente parziale è stata poi la parola concessa a Valerio Fioravanti sulla strage di Bologna, a cui è stato permesso di rispondere a un depistaggio con un altro depistaggio ancora più infondato e che getta fango su palestinesi e prigionieri delle Br. La critica che in tempi non sospetti, quasi un ventennio fa, sinistra garantista e prigionieri della lotta armata di sinistra muovevano alla magistratura bolognese era diretta all’impianto emergenzialista che aveva ispirato l’inchiesta sulla strage, non sposava certo i punti di vista degli imputati. C’è una bella differenza, al punto che oggi la destra cerca di cavarsela accollando quell’attentato, con una logica perfettamente speculare, al movimento palestinese e alla sinistra armata.
La deputata Concia ha spiegato la scelta di andare a CasaPound con il fatto che la sinistra italiana (quale? Il Pd suppongo) «su questi temi deve fare molta strada e, per esempio, imparare non dai progressisti europei, ma dai conservatori». Già qui qualcosa non quadra. Fino a poco tempo fa non era forse Zapatero l’uomo nuovo dei diritti civili in Europa? Non mi risulta che il premier spagnolo appartenga allo schieramento conservatore. Siccome nessuno si pone il problema di educare la destra italiana – sostiene sempre Paola Concia – bisogna andare a CasaPound per discutere con loro di diritti civili. «Perché una cosa del genere non dovrebbe essere fatta? – domanda. «Forse perché loro sono destra “fascista”, “estremista”, impresentabili, non da salotto buono?», si risponde da sola. A parte la pretesa velleitaria di educare quelli di CasaPound, i cui dirigenti non sono affatto degli sprovveduti, mi pare che sorga un secondo problema.
Che cosa sono la destra sociale e CasaPound in particolare? L’analisi proposta, che ricalca quella fatta da altri su questo giornale, a me sembra superficiale. CasaPound è una forza politica gerarchizzata, (che si presenta sotto forma di centro sociale), verticistica, con livelli riservati, un servizio d’ordine, nulla a che vedere con l’atmosfera spontaneistica, confusionaria, orizzontale e pressappochista dei centri sociali. CasaPound è certamente ai margini, non del sistema però, ma dell’area di governo della città (e non solo), di quello che un tempo si chiamava sottogoverno. Non stiamo parlando di culture politiche ghettizzate, discriminate, vittimizzate, ma di esperienze che hanno il vento in poppa, sono in sintonia con l’egemonia culturale che la destra, grazie al dispositivo berlusconiano, è riuscita a costruire in Italia. Questo anche per merito loro, per un’indubbia capacità politica messa in campo negli ultimi anni.
Varcare il portone del grande palazzo di via Napoleone III è oggi quanto di più conformista, omologato e subalterno possa esistere. Appartiene alla più classica delle ritualità conservatrici. Chi va a CasaPound vuole farsi accettare dai nuovi assetti culturali dominanti di questo Paese. Non rompe schemi, non innova, al contrario si accoda, si assimila, si acquieta. Infatti il dissociato Valerio Morucci è stato uno dei primi a precipitarsi, abituato ormai a tenere conferenze suggerite da funzionari del ministero degli Interni, come ha raccontato il professor Mariani della Sapienza. Anche lui, su queste pagine, facendo ricorso alla retorica dell’incontro tra reduci ha iscritto i fascisti nella categoria dei paria della storia proprio quando il trend si è rovesciato e concede loro il sopravvento.
Ma c’è qualcosa di ancora peggiore che questa vicenda rivela: l’abbandono del sociale. Per combattere intolleranza, razzismo e omofobia invece di tornare ad essere politicamente e culturalmente presenti nelle periferie, vera frontiera dove questi fenomeni vanno contrastati, si propaga l’idea che occorre recarsi in pellegrinaggio a CasaPound, cioè nella sede di un’organizzazione che si autoinveste espressione dei quartieri difficili, legittimando così questa rappresentatività. Non è forse particolarmente stupido tutto ciò?
Che una così balzana idea possa essere venuta a una liberale di sinistra, non stupisce. A questo tipo di cultura avulsa dal sociale appartiene una concezione elitaria della politica, dunque la sola ricerca di un rapporto tra gruppi dirigenti, tra ceti politici che si legittimano vicendevolmente. Quella sinistra che viene dalla storia del movimento operaio, come può assecondare tutto ciò? Perché non andare direttamente a Tor Bella Monaca davanti ai muretti dove stazionano bande di adolescenti e giovani e la cocaina brucia i cervelli? Il sindaco di Roma Alemanno sta tagliando i fondi a quelle cooperative sociali che da decenni e in piena solitudine affrontano in prima linea questa battaglia. Soldi dirottati verso l’arcipelago delle associazioni e cooperative amiche, tra cui le “Occupazioni non conformi” dirette dai ducetti di condominio che in quei quartieri sono presenti e certo non contrastano le sottoculture sessiste, omofobe, intolleranti e violente che crescono contro il diverso, il più fragile. L’Altro appunto.
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pugilato per la categoria dei pesi medi. La sua vita raccontata nel libro di Mauro Valeri, Nero di Roma, Storia di Leone Jacovacci l’invincibile mulatto bianco, Palombi editori, è un’odissea del pregiudizio, un viaggio nei mari del razzismo prima ideologico, poi codificato negli statuti coloniali e nelle leggi razziali. Come per i più grandi pugili del Novecento la via del ring è stata per lui un modo di farsi strada nella vita. I pugni incassati fuori Leone li restituiva nel quadrato. All’anagrafe risulta iscritto nel 1902, ma è solo l’anno in cui il padre realizzò l’atto amministrativo. In realtà era nato in Congo tempo prima, dove l’ingegnere Umberto Jacovacci era arrivato in cerca di fortuna con un contratto d’agronomo in tasca. Qui aveva conosciuto Zibu, figlia di un capo tribù locale. Dalla loro relazione erano nati Leone e Aristide che il padre decise di portare con sé al suo rientro a Roma. I piccoli furono cresciuti dai nonni paterni nel viterbese e presto scoprirono il prezzo del pregiudizio raziale negli anni dell’Italia giolittiana, quando la «giovane proletaria» declamata da Pascoli cercava il suo posto al sole occupando Tripolitania e Cirenaica a suon di cannonate. Anni in cui la propaganda colonialista struttura le correnti ideologiche razziste e nazionaliste che spingeranno l’Italia verso il baratro della prima guerra mondiale e del fascismo. Allora per l’anagrafe Leone Jacovacci aveva nove anni. A 16 anni, anima inquieta e già ribelle, s’imbarca probabilmente a Napoli come mozzo su un mercantile inglese che però fa naufragio. Insieme agli altri membri dell’equipaggio viene salvato da un’altro mercantile inglese, il Queen.
Intanto piccole bande armate crescono nelle nostre province sotto le mentite spoglie delle ronde. Strutture che, di fatto, mettono in discussione il monopolio della forza legittima detenuto dallo Stato. Per tacitare le polemiche, il Viminale ha reso noto il regolamento d’attuazione che dovrà disciplinare l’iscrizione delle «ronde» nei registri prefettizi, una volta approvato dal Parlamento in via definitiva il disegno di legge sulla sicurezza. «Le associazioni dei volontari non potranno utilizzare simboli e nomi che riportano a partiti politici». Proibito anche l’uso delle armi e di altri strumenti di coercizione come corde o manette, manganelli, spray urticanti e «qualsiasi oggetto atto a offendere». Le persone con precedenti penali non potranno far parte delle squadre di volontari, al contrario sarà favorito il reclutamento di guardie giurate ed ex appartenenti alle forze dell’ordine. Secondo il ministro dell’Interno Maroni, questo regolamento metterà «fuorilegge» tutti quei gruppi, come sono appunto le «ronde nere», che mirano a sostituirsi alle forze dell’ordine. I componenti delle squadre, composte di un minimo di tre a un massimo di cinque persone, «dovranno limitarsi alla segnalazione» delle situazioni di pericolo e dunque saranno dotati di telefonini oppure radiotrasmittenti collegate direttamente con le centrali operative. Insomma niente intervento diretto «sia esso per l’identificazione o il controllo delle persone». Il regolamento, tuttavia, non risolve un problema di fondo: in caso di «flagranza di reato» l’articolo 383 del codice di procedura penale autorizza anche i privati a procedere all’arresto. Forti di questa norma, le ronde potranno comunque intervenire ed è evidente la differenza tra l’eventuale soccorso, del tutto casuale, di un cittadino che viene a trovarsi di fronte ad un evento-reato, e quello di squadre di volontari che girano appositamente per le strade. Per il segretario dell’Associazione nazionale funzionari di polizia Enzo Marco Letizia, è un «azzardo» consentire ai possessori di porto d’arma di partecipare alle ronde. «Secondo indiscrezioni – osserva Letizia – il regolamento attuativo consente l’iscrizione nei registri prefettizi anche a chi detiene o abbia un porto d’arma. Il legislatore azzarda davvero troppo ad avere fiducia nei possessori di un’arma, poiché forte sarà la tentazione, a cui i più deboli non sapranno resistere, di portarsi l’arma nel controllare il territorio». Nelle case degli italiani, ricorda sempre il segretario dell’Anfp, «ci sono circa 10 milioni di armi: siamo molto preoccupati, anche perché le norme sulle verifiche psichiche dei detentori di un’arma da fuoco sono sostanzialmente fumose e inefficaci, come dimostra la storia italiana degli omicidi e delle stragi della follia». Altro aspetto inquietante è quello del finanziamento. Il regolamento vieta elargizioni pubbliche, il che non rassicura affatto perché le ronde potrebbero finire al soldo di consorzi creati da commercianti e imprenditori locali, o di potentati e mafie del posto. Ancora peggio, come hanno ricordato i sindacati di polizia, «il vero rischio è legittimare azioni incontrollabili di associazioni mafiose e camorristiche così come quelle di cittadini esaltati». Alle ronde nere ha già risposto la brigata ebraica, attraverso il responsabile delle politiche giovanili del Pri Vito Kahlun, pronta con le controronde. Creare «strutture unitarie di vigilanza operaia e popolare sui territori» per contrastare i nascenti gruppi paramilitari della destra, è invece la proposta lanciata da Marco Ferrando del Pcl. Tira un’aria da repubblica di Weimar.
accolta nell’indifferenza generale, appena poche righe nella cronaca locale. Loyos era quello che i giornali hanno etichettato come il “biondino”. Spersonalizzato e mostrificato insieme a Karl Racs, anche lui subito soprannominato “faccia da pugile”. I due, secondo la questura e la procura, avevano aggredito una coppia di fidanzatini minorenni nel parco della Caffarella, stuprando brutalmente la fanciulla. In realtà i responsabili di quello scempio erano altri, a loro volta cittadini romeni che nei giorni precedenti avevano commesso diverse aggressioni contro coppiette nella stessa zona, seminando una quantità incredibile d’indizi. Un’indagine più accorta avrebbe trovato subito quelle tracce e scoperto agevolmente i veri colpevoli. Invece le cose sono andate diversamente. La politica ha interferito pesantemente nell’inchiesta. Un ennesimo decreto sicurezza è stato varato dopo una violenta campagna allarmistica. Servivano subito due colpevoli. Loyos e Racs erano stati fotosegnalati dalla polizia dopo un altro stupro, avvenuto il 21 gennaio precedente, in un luogo poco distante dal loro accampamento di fortuna. Insomma erano i capri espiatori perfetti. L’adolescente aggredita non mise molto a indicare il viso del biondino. Seguendo una classica tecnica a imbuto gli erano state mostrate un numero limitato di foto. Nonostante ciò aveva designato un’altra persona. Solo in seconda battuta “riconosce” Loyos. La polizia lo trova subito. Erano le 18 circa del 17 febbraio. 8 ore dopo (alle 2 di notte) confessa davanti al pm: «L’abbiamo violentata per sfregio…». Chiama in causa anche l’amico Racs. Pochi giorni dopo ritratta, spiegando di aver subito violente percosse. Nessuno lo ascolta. In questura sono occupati a smaltire la sbornia della conferenza stampa trionfale dei giorni precedenti. I giornali dipingono agiografici ritratti. Il questore non sta nella pelle: «Un lavoro di pura investigazione, d’intuito e senza l’aiuto di supporti tecnici. Da veri poliziotti». Gli fa eco il capo della Mobile Vittorio Rizzi: «Finalmente non sarò più il nipote di Vincenzo Parisi» (capo della polizia dal 1987 al 1994).