La retata parigina, intervista a Enzo Traverso

Manifestazione parigina del 1 maggio 2021

Zapruder, storie in movimento, 7 maggio 2021

Intervista a cura di Andrea Brazzoduro

Viste le reazioni scomposte che hanno accompagnato l’indegna retata parigina del 28 aprile 2021 abbiamo chiesto a Enzo Traverso – tra i massimi storici del mondo contemporanea – di ragionare insieme sulla «stagione della conflittualità» tra storia, memoria, politica e giustizia. Tra questi termini il grande convitato di pietra è infatti la storia, cioè il lavoro di comprensione degli eventi del passato. In che senso l’arresto di un pugno di uomini e donne dai capelli bianchi aiuterebbe l’Italia a «fare i conti con la Storia» – se non proprio col Novecento – come hanno scritto alcuni? Da una parte questi ex militanti politici sono trattati come criminali comuni secondo i dettami di un’ideologia presentista tra le più becere e ignoranti. Dall’altra è convocata (impropriamente) tutta la panoplia dei memory studies per imporre una narrazione del trauma, fondata sul paradigma vittimario. In base a che cosa si dice che nella società italiana ci sarebbe una ferita aperta rispetto agli anni Settanta? Come in Francia per l’occupazione dell’Algeria, sembra piuttosto che si tratti di esplicito uso politico della storia, che niente ha a che fare con i processi sociali reali di elaborazione della memoria.
Intorno a questi temi, a partire dalla ‘retata parigina’, abbiamo intervistato Enzo Traverso per tentare di andare oltre il monologo collettivo che imperversa nel dibattito pubblico.
(Ringraziamo Arianna Lodeserto e raspou.team per le immagini della Comune)

Donne e uomini coi capelli grigi, tra i 60 e i 78 anni, tradotti in manette, all’alba, nelle camere di sicurezza dell’antiterrorismo. «Ombre rosse» è il nome scelto per la retata con cui, il 28 aprile 2021, sono stati arrestati 7 ex militanti della sinistra rivoluzionaria rifugiati in Francia da anni e accusati dalla giustizia italiana di una serie di delitti che vanno dall’associazione sovversiva all’omicidio commessi, secondo l’accusa, tra il 1972 e il 1982. Si tratta di «chiudere con il Novecento», come scrive «la Repubblica»?
Il Novecento è chiuso dal lontano 1989, quando cadde il muro di Berlino e finì la guerra fredda. Da allora il mondo è cambiato e con lui l’Italia, che non è più quella di trentadue anni fa. Sotto molti aspetti è ben peggiore: quelle che i media definiscono abitualmente la “seconda” e la “terza” repubblica ci fanno rimpiangere la prima, creata da uomini e donne che avevano combattuto il fascismo e creato un paese nuovo. L’eredità del Novecento rimane tuttavia soverchiante e molti mali strutturali continuano ad affliggere il nostro paese. Basti pensare alla mafia, alla questione meridionale, al razzismo, alla corruzione. Alcuni si sono aggravati, se pensiamo alla disoccupazione giovanile e al razzismo postcoloniale, molto più forte da quando il paese è diventato terra di immigrazione. Durante la seconda metà del Novecento, l’Italia era entrata a far parte del mondo occidentale più ricco; da trent’anni a questa parte se ne sta allontanando: conosce un costante declino demografico ma non vuole integrare gli immigrati, non concedendo la cittadinanza neppure a quelli di seconda generazione; le sue élite invecchiano, ma i giovani rimangono esclusi, e la penisola conosce una diaspora intellettuale impressionante, simile a quella dei paesi del Sud; le élite economiche si sono enormemente arricchite senza produrre sviluppo. Di queste élite, «Repubblica» è uno degli specchi più fedeli, poiché ormai è l’amministratore delegato della Fiat che annuncia pubblicamente la nomina dei direttori di questo quotidiano. “Chiudere con il Novecento” significa affrontare questo nodo di problemi. Per «Repubblica» pare invece che significhi l’estradizione di Marina Petrella, Giorgio Pietrostefani e qualche altro rifugiato.

Nel panorama della politica istituzionale così come nella stampa italiana le reazioni sono state senza sorprese unanimi: «Il dovere di fare i conti con la storia» (Ezio Mauro) «dopo ferite particolarmente dolorose» (Marta Cartabia), ecc. Ti occupi ormai da molti anni del rapporto tra storia, memoria, giustizia e politica (utilissimo il tuo Il passato: istruzioni per l’uso. Storia, memoria, politica, pubblicato in italiano da Ombre corte nel 2006). Cosa pensi di questo linguaggio e questo uso della memoria? C’è davvero una ferita da rimarginare?
Per chi appartiene alla mia generazione e ha vissuto quegli anni, non c’è dubbio che si tratti di ferite dolorose che non si sono ancora rimarginate. Gli esuli arrestati in Francia sono i primi a riconoscerlo. Il problema è come fare i conti con la storia. Mario Calabresi, figlio del commissario assassinato nel 1972, ha dichiarato che la notizia dell’arresto di Giorgio Pietrostefani non ha suscitato in lui nessun sentimento di sollievo, soddisfazione, riparazione o giustizia, soltanto pena e imbarazzo. In Italia, i media e la cultura ufficiale — quelli che Althusser chiamava gli “apparati ideologici di Stato” — non hanno saputo e soprattutto non hanno voluto elaborare la memoria degli anni di piombo. Hanno soltanto accompagnato ondate successive di leggi speciali e arresti, dipingendo come mostri i “nemici dello Stato”. I pentiti hanno ovviamente svolto il loro ruolo in questo dispositivo. Gli ex terroristi, insieme a pochi storici, tra i quali vorrei ricordare Giovanni De Luna, sono probabilmente tra i pochi che hanno dato un vero contributo alla conoscenza, alla comprensione e alla costruzione di una memoria critica di quegli anni. Gli ex brigatisti hanno ammesso i loro delitti, talvolta i loro crimini, hanno riflettuto sui loro errori, hanno cercato di capire e spiegare le ragioni delle loro scelte. L’intervista di Rossana Rossanda e Carla Mosca a Mario Moretti (1994) è molto più utile, sotto questo aspetto, di tutti gli articoli pubblicati da «Repubblica» e «Il Corriere della Sera» durante mezzo secolo. Non ho letto l’articolo di Ezio Mauro, ma chi possiede un minimo di onestà intellettuale dovrebbe riconoscere che “il dovere di fare i conti col passato” significa ben altra cosa di una repressione a scoppio ritardato, a oltre due generazioni di distanza dai fatti avvenuti.
In questi giorni si commemora l’anniversario della Comune di Parigi. La mia impressione è che i media e il mondo politico, in Italia, continuino, a cinquant’anni di distanza, a esorcizzare il terrorismo come la cultura francese fece nei confronti della Comune negli anni settanta dell’Ottocento. La Comune non era una rivoluzione né il prodotto di una crisi sociale e politica, era un’epidemia, la propagazione di un virus contagioso che bisognava sconfiggere con i metodi più drastici. I comunardi non avevano un progetto politico, erano “licantropi”, bestie feroci, pazzi assetati di sangue, nemici della civiltà, piromani eccitati dall’alcol. La repressione fu brutale, ma dieci anni dopo la Terza Repubblica decretò un’amnistia e i comunardi rientrarono dall’esilio e dalla deportazione. La Comune venne addirittura rivendicata come un’esperienza fondatrice della Repubblica. Mi sembra che in Italia il terrorismo e la violenza politica degli anni settanta continuino a essere visti con lo stesso sguardo miope e vendicativo di cinquant’anni fa. I terroristi sono mostri che devono pagare il loro debito con la giustizia. Se questo è il messaggio che si vuole trasmettere a chi non ha vissuto quegli anni, si tratta a mio avviso del modo peggiore di assolvere al “dovere di fare i conti col passato”.

Un altro capitolo di quel tuo saggio su storia, memoria, politica è dedicato al rapporto tra «verità e giustizia». La ‘giuridicizzazione del passato’ (Henry Rousso) è un fenomeno inversamente proporzionale al collasso dell’orizzonte d’attesa, alla canzonetta sulla ‘fine delle ideologie’ che è l’architrave teorico su cui si fonda il ‘realismo capitalista’ di cui parla Mark Fisher. È questa la chiave con cui leggere la retata parigina?
Pensare di poter rispondere oggi, sul piano giuridico, all’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta e a quello del commissario Calabresi, mettendo in carcere gli ultimi esuli, è espressione innanzi tutto della cecità e dell’incomprensione di cui ho appena parlato. Ma questa cecità e questa incomprensione non sono ovviamente frutto di ingenuità, sono state perseguite per decenni. È anacronistico pensare di poter rispondere nel 2021, sul piano giudiziario, a fatti avvenuti negli anni settanta. Se si accetta il principio della loro imprescrittibilità, assimilando di conseguenza questi fatti a crimini contro l’umanità, si entra in un groviglio di contraddizioni indistricabili. Pietrostefani e Petrella = Eichmann? Nel 1946, Palmiro Togliatti, ministro di grazia e giustizia del primo governo repubblicano, promulgò un’amnistia nei confronti di chi si era macchiato dei peggiori crimini fascisti durante la guerra civile. Come giustificare l’accanimento persecutorio, a decenni di distanza, nei confronti dei protagonisti degli anni di piombo che si sono rifugiati in Francia?
Dai tempi antichi — pensiamo alle guerre del Peloponneso — l’amnistia ha sempre concluso le guerre civili e le crisi politiche segnate dalla violenza. La legge di amnistia promulgata da Togliatti nel 1946 si inscriveva in una tendenza generale e aveva equivalenti in tutta Europa. Collaborazionisti ed ex fascisti riempivano prefetture, questure e uffici governativi di tutto il continente fino agli anni settanta. In Italia, ha sottolineato Paul Ginsborg (1989), all’inizio degli anni sessanta, la totalità dei prefetti erano stati alti funzionari del regime fascista. In Spagna, durante la transizione alla democrazia, l’amnistia riguardò sia gli esuli antifascisti sia i responsabili del regime franchista. 
La fine del Novecento ha visto nascere, in Sudafrica, uno sguardo nuovo, diverso, per cercare di “fare i conti col passato” e rimarginarne le ferite. Dopo la fine dell’Apartheid, questo paese ha creato commissioni di verità e giustizia che escludevano inchieste giudiziarie e condanne penali in cambio dell’accertamento della verità. L’esempio sudafricano è stato seguito da molti paesi, soprattutto in America latina, dal Perù alla Colombia. Si tratta ovviamente di esperienze storiche non sovrapponibili, ma il principio rimane fruttuoso per uscire da una crisi e “fare i conti col passato”. In Italia, questo principio non è mai stato discusso. Il paradosso italiano è che i soli ad aver raccontato la loro esperienza sono gli ex brigatisti, non i loro nemici. Lo Stato non ha fatto nulla o quasi per chiarire le trame golpiste, le infiltrazioni neofasciste, le “deviazioni” dei servizi segreti, la messa in atto della “strategia della tensione”, le violenze neofasciste che beneficiavano di coperture in seno agli apparati statali e che hanno fatto molte più vittime del terrorismo di sinistra. Nessuno ha mai chiesto allo Stato di spiegare le centinaia di morti (militanti, giovani, studenti, operai) uccisi in quegli anni dalle forze di polizia. Chi rivendica “il dovere di fare i conti col passato” dovrebbe porsi queste domande.
Questa “patologia” italiana ha tuttavia una spiegazione. Lo Stato è inflessibile contro i suoi nemici, molto accomodante o compiacente nei confronti delle violenze messe in atto dai propri agenti e rappresentanti. Le trame golpiste e la collusione degli apparati dello Stato con i gruppi neofascisti che mettono le bombe nei treni vanno nascoste; la persecuzione dei terroristi di sinistra rafforza invece la solidità delle istituzioni. Questo non vale soltanto per l’Italia. Molti studi hanno messo in luce come, nella Repubblica federale tedesca, le condanne inflitte ai membri della Raf superino di gran lunga quelle emesse tra il 1949 e il 1979 nei confronti degli ex nazisti. Quando parliamo di “memoria” semplifichiamo sempre: la memoria è complessa, eterogenea, divisa. C’è la memoria degli ex terroristi e delle loro vittime (e la “post-memoria” dei loro figli); c’è la memoria collettiva dei movimenti sociali, ormai sopita o estinta; c’è la memoria culturale che plasma la sfera pubblica; e c’è anche la memoria delle istituzioni, la memoria dello Stato, che in tutta questa vicenda è probabilmente la più reticente. Ciò spiega anche perché chi si è rifugiato in Francia, alcuni decenni fa, non si voleva consegnare a una giustizia che non nascondeva la sua volontà persecutoria ma offriva ben poche garanzie di imparzialità. Una giustizia che non appariva credibile, come ha dimostrato Carlo Ginzburg in un famoso saggio sul processo Sofri (1991). Basti pensare al ruolo svolto dai pentiti in tanti processi. Non credo si possa dire semplicemente che i rifugiati si sono “sottratti alla giustizia”.  

Nelle ultime righe dell’introduzione di un altro tuo saggio fondamentale (2007) rievochi brevemente la tua esperienza di ‘militante rivoluzionario’ del secondo Novecento quando il mondo vi sembrava attraversato da una nuova ‘guerra civile’. Nella narrazione intonata in coro alla notizia degli arresti, non manca l’altra parte, il contesto? Contro chi e perché combattevano questi uomini e queste donne?
Sì, manca il contesto: si sta discutendo di vicende che risalgono a più di quarant’anni fa, ossia due generazioni, ma che non sono ancora “storicizzate”. Esse non sono depositate in un passato di cui si conosca il profilo e al quale, soprattutto, si riesca ad attribuire un senso. I rifugiati hanno ricostruito, fra molte difficoltà, la loro esistenza; hanno riflettuto sulla loro esperienza; continuano a fare i conti con la loro coscienza. Le vittime e le loro famiglie sono rimaste con il loro dolore. Ma la storicizzazione — l’elaborazione del passato per farlo entrare nella storia — significa appunto andare oltre i sentimenti. È questa la condizione perché questi stessi sentimenti possano trovare accoglienza in uno spazio collettivo, dentro una coscienza storica, dentro la consapevolezza che un ciclo è finito. La mia impressione è che in Italia la giustizia sia stata un ostacolo a questa elaborazione del lutto, a un processo di ricostruzione del passato che permetta finalmente di possederne una coscienza storica.
La violenza politica degli anni settanta era parte di una stagione politica che si è conclusa con una sconfitta della sinistra, del movimento operaio, dei movimenti alternativi. Questa sconfitta non è mai stata elaborata. Questo passato è stato rimosso. Ad alcuni decenni di distanza, il congresso con il quale il Pci decise di cambiare nome non appare come la sua “Bad Godesberg” ma piuttosto come una cerimonia di esorcismo. Potremmo parlare, in termini psicoanalitici, di “rimozione”. Gli anni di piombo sono stati inghiottiti da questa rimozione e sono entrati nelle cronache (e in archivi incompleti o inesplorati), non nella nostra coscienza storica.
Non voglio schivare la domanda personale, per quanto del tutto secondaria. Ricordo bene gli anni settanta, che sono gli anni della mia giovinezza. Ho partecipato alla mia prima manifestazione nel 1973, quando avevo sedici anni. Non ho mai avuto la tentazione del terrorismo e ho sempre criticato la scelta della lotta armata, non per ragioni di principio ma perché mi sembrava strategicamente e tatticamente sbagliata. A partire dal 1979, buona parte della mia attività politica consisteva nel partecipare ad assemblee e manifestazioni contro la repressione. Non mi piaceva lo slogan “né con le Br né con lo Stato” perché stabiliva un’equazione tra due entità incommensurabili che non potevano essere combattute con gli stessi metodi. Retrospettivamente, credo sia evidente non soltanto che la scelta della lotta armata fu nefasta e suicida, ma anche che contribuì largamente ad affossare i movimenti di protesta e a congelare una conflittualità politica diffusa. Le Br erano nate in una stagione di lotte come uno spezzone del movimento operaio, un gruppo che si considerava un’“avanguardia” e praticava l’“azione esemplare” o la “propaganda del fatto” per radicalizzare lo scontro sociale. Tendenze simili erano già apparse da almeno un secolo in diversi paesi, soprattutto in seno all’anarchismo. Uno storico come Mike Davis ne ha fornito un repertorio impressionante (2007). In Italia queste pratiche sono passate al setaccio della memoria della Resistenza e della cultura comunista, ed è per questo che le Brigate rosse non facevano esplodere bombe ma selezionavano i loro bersagli. A poco a poco, per sfuggire alla repressione poliziesca, quindi per ragioni pratiche che furono teorizzate soltanto a posteriori, le Br si trasformarono in un’organizzazione clandestina, separata dai movimenti, che conduceva da sola la sua guerra contro lo Stato. È così rimasta risucchiata da una spirale il cui esito non poteva essere che il suo annientamento da parte dello Stato. Una parte della sinistra radicale si illuse di poter “cavalcare” o “usare” il terrorismo: le Br scardinavano lo Stato, bisognava tenersi pronti alle sollevazioni che ne sarebbero seguite. Questi calcoli erano sbagliati e il prezzo di questi errori è stato molto alto. Ma questa è saggezza retrospettiva. Io ero trotskista, ossia facevo parte di un movimento che criticava la lotta armata. A differenza di altri paesi, il trotskismo era minoritario in Italia, dove rimaneva intellettualmente insignificante rispetto alla creatività teorica dell’operaismo e politicamente marginale rispetto a movimenti che sperimentavano pratiche nuove, come Lotta continua. Il trotskismo possedeva tuttavia una coscienza storica più profonda che metteva in guardia contro alcuni rischi, come una sorta di vaccino. Ma dire questo non significa vantare dei meriti. In quegli anni, l’adesione a un gruppo politico non era soltanto il frutto di una scelta ideologica, dipendeva da mille circostanze, spesso non immediatamente ideologiche (le emozioni e le forme della socializzazione svolgono un ruolo molto importante nella politica) e talvolta puramente casuali. Non ho difficoltà ad ammettere che, in circostanze diverse ma perfettamente possibili, mi sarei ritrovato non soltanto con un casco durante una manifestazione ma anche con una pistola nella borsa. Perciò non posso sentirmi estraneo a questa vicenda e credo che, facendo prova di un minimo di onestà intellettuale, lo stesso debbano dire alcune decine di migliaia di persone che appartengono alla mia generazione.

Hai vissuto per molti anni in Francia prima di emigrare di nuovo, questa volta negli Stati uniti. La retata del 28 aprile ha più a che fare con le prossime elezioni presidenziali francesi oppure si inscrive in logiche interne alla politica italiana?
Credo che i rifugiati italiani in Francia siano oggetto di un mercanteggio politico assai meschino. Draghi vuole legittimarsi come statista e provare che in poche settimane è riuscito a ottenere ciò che i governi italiani chiedevano da anni. In vista di una sua futura elezione alla presidenza della Repubblica, la mossa è astuta. Macron vuole fornire un’ulteriore conferma della svolta autoritaria che lo induce oggi, in vista di una possibile rielezione, a mostrarsi più repressivo della destra e perfino dell’estrema destra. Nessuna indulgenza nei confronti dei “terroristi”, anche quelli che hanno cessato di esserlo da oltre quarant’anni, che non si sono mai nascosti, che rispettano le leggi della Francia, il paese in cui vivono legalmente da decenni, dove hanno messo le loro radici, e dove avevano ricevuto ospitalità. Nessuno, neppure Marine Le Pen, gli chiedeva di estradare i rifugiati italiani. Probabilmente pensava, con questa misura, di rendere più credibile la sua lotta contro l’“islamo-gauchisme”. Come la stragrande maggioranza dei politici che ci governano, Macron si preoccupa dei sondaggi d’opinione, non certo di “fare i conti col passato”. Per vincere le elezioni, sarebbe disposto a qualunque “politica della memoria”.

Bibliografia
Davis, M.
(2007) Breve storia dell’autobomba: dal 1920 all’Iraq di oggi. Un secolo di esplosioni, Einaudi, Torino [I ed. London 2007]Fisher, M.
(2018) Realismo capitalista, Nero Editions, Roma [I ed. Ropley 2009]
Ginsborg, P.
(1989) Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, Einaudi, Torino
Ginzburg, C.
(1991) Il giudice e lo storico: considerazioni a margine del processo Sofri, Einaudi, Torino
Moretti, M., Mosca, C., Rossanda, R.
(1994) Brigate rosse una storia italiana, Anabasi, Milano
Rousso H.
(1998) La hantise du passé. Entretien avec Philippe Petit, Textuel, Paris
Traverso, E.
(2006) Il passato: istruzioni per l’uso: storia, memoria e politica, Ombre corte, Verona [I. ed. Paris 2005]
(2007) A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, il Mulino, Bologna

Le marché de la vérité

La recherche d’une vérité manquant encore à l’appel aura été une des justifications les plus rappelées dans l’orgie de commentaires ayant accompagné la nouvelle de la rafle des exilés italiens des années 1970, à Paris ces jours-ci. Parmi les voix les plus autorisées, on aura remarqué celle du nouveau ministre de la Justice, Mme Marta Cartabia, accompagnée de nombreux représentants du “parti des victimes du terrorisme”. La page historique des années 1970 ne peut être encore fermée -soutiennent ces nouveaux soldats de la vérité- sans que ne soit d’abord fait la lumière sur les faits de la lutte armée. Cet établissement de la vérité ne peut du même coup être séparé de l’exécution de la peine, unique moyen -à ce qu’on comprend de leurs arguties- d’arriver à la vérité.
Affirmation à la portée implicite inquiétante : rappeler que la vérité serait ontologiquement liée à la punition ouvrirait des scenarii totalitaires qui ne semblent pourtant pas avoir déclenché d’alarmes. Qui demande la vérité de cette façon ne promeut en aucune façon un parcours de connaissance mais cherche une confirmation de ses propres préjugés, par addition autoritaire. Une vérité préconçue dont les présumés coupables devraient s’accommoder. Soit l’exact inverse de la vérité historique, qui est, au contraire, un processus libéré des conditionnements, où l’on creuse à la recherche de sources nouvelles, et où se réélaborent et se confrontent dans l’espace publique les sources les plus dignes d’intérêt. Ce qui est en revanche proposé par les milices de la vérité punitive est un marché des vérités, le marché des vérités opposables, vérités qui changent avec les changements de majorités électorales et de couleurs politiques.
La chose la plus absurde consistant à voir la plus haute autorité de la Justice promouvoir la demande d’extraditions, en utilisant pour ce faire tous les subterfuges possibles pour contourner les prescriptions là où l’inexorable écoulement du temps les a déjà sanctionnées (au vu de l’invention de la délinquance habituelle), sur la base de sentences qui reconstruisent une vérité judiciaire avec de lourdes conséquences pénales, et, immédiatement après, entendre dire que ces coupables doivent encore dire la vérité, une vérité qui ne peut donc être différente de celles qui ont été sanctionnées dans les sentences rendue (quand on pense au fait qu’il soit illégal de discuter publiquement de décisions de Justice, une fois celles-ci rendues).
Mais s’il est ainsi que vont les choses, quelle légitimité ont donc les demandes d’extraditions fondées sur des sentences de justice établies sur des semblants de vérités?
Une fois en prison après mon extradition de l’été 2002, je rétorquai la même question au magistrat de surveillance qui, en s’érigeant en 4° degré de jugement, me demandait la vérité, qui se serait, à défaut, toujours opposée à la concession de quelque mesure alternative que ce soit. «Si vous me formulez cette demande -répondis-je-, je voudrais bien savoir sur la base de quelle vérité judiciaire ai-je été condamné?». Cela ressemblait à une de ces pages de Lewis Carrol, dans Alice au pays des Merveilles, «d’abord la condamnation, puis l’établissement des faits». Evidemment, ça s’est terminé de la pire des façons. 
Qui prétend qu’il y ait encore des mystères ait au moins la cohérence de briguer l’annulation des vieilles condamnations et des vieux procès. On ne peut pas demander à la fois une vérité nouvelle et s’entêter à maintenir d’aussi vieilles accusations de culpabilité. 

Traduit de l’italien par Boudjemaa Sedira, samedi 1er mai 2021

Il mercato della verità

La richiesta di una verità ancora mancante è stata una delle giustificazioni più richiamate nell’orgia di commenti che hanno accompagnato la notizia della retata degli esuli degli anni 70 a Parigi. Tra le voci più autorevoli si è distinta quella del nuovo ministro della Giustizia Marta Cartabia, accompagnata da numerosi esponenti del partito delle vittime. La pagina storica degli anni 70 non può ancora essere chiusa – sostengono questi nuovi soldati della verità – senza che prima non sia fatta chiarezza sui fatti della lotta armata. Di pari passo questo accertamento della verità non può essere separato dalla esecuzione della pena, unico modo – par di comprendere – per arrivare alla verità. Affermazione dalla portata inquietante: ritenere che la verità sia ontologicamente legata alla punizione apre scenari totalitari che non sembrano tuttavia aver creato allarme. Chi chiede verità in questo modo non sta promuovendo un percorso di conoscenza ma semplicemente una conferma, per giunta autoritaria, del proprio pregiudizio. Una verità precostituita a cui i colpevoli dovrebbero adeguarsi. L’esatto contrario della verità storica che invece è un processo libero da condizionamenti, dove si scava alla ricerca di fonti nuove e si rielaborano e si confrontano nello spazio pubblico quelle note. Quello che invece viene proposto dalle milizie della verità punitiva è un mercato della verità, il mercato delle verità contrapposte, verità che cambiano col cambiar delle maggioranze e dei colori politici.La cosa più assurda è vedere la massima autorità della Giustizia promuovere la richiesta di estradizioni, per giunta utilizzando tutti i sotterfugi possibili per aggirare le prescrizioni lì dove l’inesorabile decorso del tempo le ha già sancite (vedi l’invenzione della delinquenza abituale), sulla base di sentenze che ricostruiscono una verità giudiziaria con pesanti conseguenze penali, e subito dopo sentir dire che quei colpevoli devono ancora dire la verità, una verità che dunque non può che essere diversa da quanto sancito nelle sentenze. Ma se così stanno le cose, che legittimità hanno delle richieste di estradizione fondate su sentenze che non dicono il vero?
In carcere, dopo la mia estradizione, rivolsi la stessa domanda al magistrato di sorveglianza che erigendosi a quarto grado di giudizio mi chiedeva la verità, altrimenti si sarebbe sempre opposta alla concessione di qualsiasi misura alternativa. «Se lei mi fa questa domanda – risposi – vorrei sapere in base a quale verità giudiziaria sono stato condannato?». Sembrava una di quelle pagine di Lewis Carrol in Alice e il paese delle meraviglie, «prima la condanna poi l’accertamento dei fatti». Ovviamente finì nel peggiore dei modi. Chi dice che ci sono ancora misteri abbia almeno la coerenza di pretendere l’annullamento delle vecchie condanne e dei vecchi processi. Non può al tempo stesso chiedere una nuova verità e confermare quelle vecchie colpe.

Vogliono cancellare l’esilio perché è stato la prova di un’alternativa possibile alla pena, alla sanzione e alla repressione

Paolo Persichetti, Adnkronos 28 aprile 2021

“Questo Paese appena cinque anni dopo la guerra ha dato amnistia e indulto a membri delle bande di fascisti che torturavano. E vogliamo parlare dell’armadio della vergogna? Sembra che solo i reati degli anni ’70 siano imprescrittibili, perché i protagonisti di quegli anni sono i vinti della storia”. A parlare all’Adnkronos è Paolo Persichetti, negli anni ’80 nelle Brigate Rosse-Unione dei Comunisti, primo (e unico, al momento) ex terrorista estradato in Italia dalla Francia, che, commentando gli arresti di oggi, sottolinea: “La messa in discussione dello Stato, il crimine rivoluzionario, è quello che non perdonano, anche se quella rivoluzione è fallita e tutti lo sanno, dunque non c’è nemmeno un pericolo di ‘memoria’”.

“L”esilio’ – dice Persichetti, parlando di una esperienza che ha vissuto in prima persona – non dico che è una forma di pena ma è certamente un percorso di difficoltà, di sofferenza: vivi senza permessi, senza lavoro, non è che sei lì a fare la bella vita, anche se poi magari la propaganda ti dipinge a mangiare ostriche e champagne. In Francia non ho mai avuto assistenza medica, non avevo i soldi per fare nulla, quando vivi sans papier è così”. E tuttavia, racconta l’ex terrorista parlando dei fuoriusciti, “quelle persone anche restando lì sono riuscite a dare un valore aggiunto alla loro vita. Roberta Cappelli, ad esempio, lavora da tanti anni come educatrice in una scuola per bimbi disabili: era un architetto, si è riconvertita, ha acquisito nuove competenze ed è diventata una riabilitatrice, una figura fondamentale per tante mamme con figli in difficoltà. Marina Petrella, invece, ha un’associazione che fa un lavoro sociale enorme, si occupa di anziani e persone in difficoltà, fa attività di sostegno sul territorio”.
“Che senso ha ora distruggere tutto ciò? La pena deve avere una funzione socializzante, riabilitativa. E in qualche modo l”esilio’ ha avuto lo stesso effetto – sottolinea Persichetti, oggi ricercatore storico -: è stata la prova di un’alternativa possibile alla pena, alla sanzione e alla repressione, e una prova vincente. Il problema è che questo dimostra l’inutilità del sistema sanzione e del sistema giustizia come lo concepiamo. Ecco allora che dopo 40 anni lo Stato riafferma un potere su persone di 65 anni e più, che minimo dovranno fare 10 anni di carcere per avere benefici. Che senso ha? Il rapporto tra il tempo e la giustizia non può essere infinito”.

Peggio dei nazisti. Parte oggi “Mos maiorun”, la retata europea contro i migranti

Fronte-modificato-1-copia-212x300Una retata su scala europea in nome della tradizione. Parte oggi, sotto l’egida del semestre di presidenza italiano dell’Unione, “Mos maiorun”, un’imponente operazione di polizia e intelligence contro i migranti. Per due settimane, dal 13 al 26 ottobre, le forze di polizia cercheranno di fermare e arrestare i migranti in situazione irregolare e raccogliere il massimo di informazioni sulle reti clandestine, le rotte e i percorsi utilizzati per entrare e spostarsi in Europa. 18 mila poliziotti saranno mobilitati per rafforzare i controlli alle frontiere, negli aeroporti, le stazioni e i porti. Il coordinamento dei lavori sarà affidato alla direzione centrale per l’immigrazione e alla polizia di frontiera del Ministero dell’Interno italiano, affiancati da Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne nei paesi dell’area Schengen che, secondo quanto precisato all’Ansa dal direttore esecutivo dell’agenzia, Gil Arias Fernandez, fornirà solo un contributo di tipo statistico senza aver avuto alcun ruolo nella pianificazione e nell’implementazione dell’operazione.

Stando a quanto descritto nel documento del consiglio dell’Unione europea, reso pubblico dall’associazione britannica Statewatch, i Paesi partecipanti all’iniziativa sono invitati a raccogliere per ogni persona fermata il profilo (nazionalità, genere, età, luogo e data d’ingresso nell’Unione), il percorso effettuato, il tipo di trasporto impiegato, la data di partenza, le tappe intermedie verso la destinazione finale, con particolare attenzione alle tendenze ed eventuali rapidi cambiamenti. Altresì vanno segnalati nel corso delle operazioni: il modus operandi, la falsificazione dei documenti, le somme versate e la tracciatura dei soldi usati per i viaggi, l’identificazione dei collaboratori, la nazionalità e il Paese di residenza dei “facilitatori”. Un report finale sulla retata sarà presentato l’11 dicembre.

Presentata come un’operazione volta ad «indebolire la capacità dei gruppi criminali organizzati che gestiscono le vie dell’immigrazione illegale», l’iniziativa è stata duramente criticata dalle associazioni che si occupano d’assistenza, sostegno e integrazione dei migranti. Il documento del consiglio europeo, infatti, nulla dice sulla sorte che sarà riservata alle persone fermate. Saranno internate, ricondotte alla frontiera, incarcerate? Inoltre i controlli su base razziale, sottolineano ancora la associazioni per i diritti dei migranti, «sono metodi assolutamente illegali secondo il diritto europeo» e l’operazione messa in piedi non sarebbe altro che «una vera e propria caccia al migrante su scala continentale».

Retate del genere non sono rare in Europa, spiega Chris Jones dell’associazione Statewatch, «Operazioni del genere vengono svolte più o meno ogni sei mesi sotto la direzione del Paese che presiede l’unione europea. Prima di “Mos maiorum”, c’era stata “Aerodromos”, pilotata dalla presidenza greca, e ancora prima “Perkuna”, diretta dalla presidenza lituana».
Il ricorso a nomi classici, greci o latini, per designare queste operazioni di polizia non ha solo ragioni linguistiche (la radice comune con molte lingue dell’Unione), serve anche a conferire loro magnificenza, un prestigio quasi mitologico e una retorica di potenza. In taluni casi i nomi hanno delle connotazioni più accentuate che rinviano ad implicazioni di tipo morale o guerresco, come è accaduto con “Mare Nostrum”, l’operazione umanitaria condotta dalla marina militare italiana conclusasi recentemente. “Mare nostrum” era il nome che i Romani avevano dato al mar Mediterraneo quando ne dominavano l’intero bacino, dalla Spagna all’Egitto. Il termine era stato ripreso nel XIX° secolo dai nazionalisti per poi condire la retorica espansionista di Mussolini. L’uso che se ne è tornato a fare oggi, al di là degli importantissimi salvataggi in mare, rinvia ancora una volta ad un immaginario di supremazia e possesso delle acque. Siamo gentili ed umani con voi, o genti disperate che nei flutti cercate salvezza dalle vostre terre martoriate, ma i padroni di questo mare restiamo noi…

La stessa cosa si può dire per l’utilizzo ancora più inquietante dell’espressione latina “mos maiorum”. Non siamo di fronte ad un freddo acronimo o ad un termine descrittivo ma ad una precisa scelta. Si tratta del riferimento più che esplicito a quella morale degli antenati che alimentava le correnti più conservatrici dell’antica società romana. Una visione dei costumi e del sistema di valori che nella battaglia ideologico-culturale della Roma antica era opposta alla decadenza del nuovo. Ciò vuole dire che la politica migratoria deve intendersi innanzitutto come un affare morale, di difesa dei valori, di tutela identitaria di fronte alle invasioni barbariche. Una rappresentazione che rinvia senza mezzi termini ad una visione dell’Europa come fortezza assediata, messaggio di chiusura culturale, di difesa di una purezza immaginaria contro la contaminazione del caos. E’ chiaro, qualcuno pensa ancora che sui nostri bagnasciuga si gioca uno scontro di civiltà.

Una campagna di allerta per i migranti è stata preparata nelle scorse settimane. Volantini in otto lingue sono stati diffusi sulla rete e nelle strade d’Europa per mettere sull’avviso i migranti dai rischi supplementari incorsi in questo momento. Un invito ad utilizzare SMS e social network per segnalare controlli, retate e posti di blocco è venuto dalle reti militanti di solidarietà. Su Twitter, Fb eccetera chi vuole può utilizzare l’hashtag #StopRaids#nomedellacittà per segnalare controlli, retate, posti di blocco.

Cronache migranti

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