Se la destra si spara addosso, cosiderazioni su Charlie Kirk, Tyler Robinson e Giorgia Meloni

I nipotini dello stragismo tentano di utilizzare la morte di Kirk per riscrivere la storia della destra fascista, additano i migranti come il male della società, lasciandoli annegare in mare o provando a rinchiuderli in carceri oltre-confine. Chiagni e fotti, odia, spara e fai la vittima, sono gli ingredienti di un trumpismo maccheronico a cui la Meloni da voce facendo la faccia cattiva

Odia, spara e poi fai la vittima è questo il credo della destra attuale che Giorgia Meloni interpreta sapientemente riprendendo l’antico adagio «chiagne e fotte». La nuova narrazione lanciata con forza dalla premier durante la festa nazionale dell’Udc e ripresa nel videomessaggio inviato alla kermesse EuropaViva di Vox, dove ha sostenuto che il «sacrificio di Charlie Kirk ci ricorda ancora una volta da che lato sta la violenza e l’intolleranza», ripropone l’autoassoluzione storica della destra fascista. Washing narrativo diffuso in un dossier, Chi soffia sull’odio politico, predisposto dall’organi di propaganda interna ad uso dei gruppi parlamentari di Fdl per istruirli sui contenuti da proporre nelle dichiarazioni pubbliche.
Addossare alla sinistra, intesa in termini talmente dilatati da togliere significato alla parola stessa, le colpe di un supposto clima di tensione, odio, escalation verbale e piccoli episodi, al cospetto dei quali persino i boyscout apparirebbero una gang del narcotraffico, è la trama del documento che elenca dichiarazioni di politici, alcuni uomini di cultura (pochi a dire il vero), qualche presa di posizione di collettivi, commenti social (sic!) e alcune scaramucce di strada che ovviamente dimenticano quanto sul versante opposto la destra fa e ha fatto, considerando anche alcuni omicidi e tentati omicidi contro migranti (ricordiaMo i 6 migranti feriti nel raid armato di Luca Traini a Macerata nel febbraio 2018, conclusosi al grido «l’Italia agli italiani» o i due migranti senegalesi uccisi a Firenze da Gianluca Casseri, ex militante di CasaPound, nel 2011; ed ancora la mappatura degli attiti violenza e delle agressioni omofobe e razziste realizzate da sigle o altri soggetti di estrema destra dal 2014 ad oggi, ben oltre il centinaio https://www.infodata.ilsole24ore.com/2021/06/25/la-lunga-ombra-nera-una-mappa-delle-aggressioni-fasciste/?refresh_ce=1). Una sbobba da caserma che mette insieme un improbabile Pd, passando per i 5S, Avs, i Centri sociali, generici ambienti antagonisti, gli anarchici, alcune testate social, evocando persino gli anni 70, definiti anni di piombo, la lotta armata e le immancabili Brigate rosse, tutti colpevoli di aver diffuso un tale clima di terrore e odio da aver armato – qui si passa improvvisamente dalla scala nazionale a quella mondiale – le mani del giovane Tyler Robinson, responsabile della morte, dell’agitatore politico Charlie Kirk, un rampante del trumpismo.

Un destro che spara sulla destra

Le notizie che giungono dagli Stati uniti ci raccontano tuttavia una situazione molto diversa. Il giovane proviene da una famiglia Maga, di religione mormone, totalmente schierata con il trumpismo. Non vi è alcuna traccia, anche lontana di cultura o posizioni politiche in circolazione nella sinistra americana, tra radical, Woke o antifa, come imprudentemente o volutamente era stato diffuso nelle prime ore, spingendo i nostri conigli nazionali, Saviano in testa a fare distinguo e straparlare a sproposito degli anni 70, dimenticando quello che diceva alcuni anni fa. Le foto apparse sui media mondiali mostrano un nucleo familiare che trovava normale recarsi al poligono di tiro e lasciarsi raffigurare con mitragliatrici tra le braccia. Fin da piccolo Tyler Robinson si è addestrato all’uso delle armi, ha imparato a sparare con fucili di precisione anche a lunga distanza, circostanza spiega l’abilità dimostrata nel centrare al primo colpo da circa 200 metri Kirk. Un personaggio che apparentemente detestava perché troppo moderato per i suoi gusti. 
C’è chi lo ha affiliato ai Groypers, una formazione dell’ultra destra, Alt-right, che prese parte all’assalto di Capitol Hill del gennaio 2021, in rotta con l’organizzazione di Kirk, Turning Point, perché in alcune foto era ritratto nella una posa di un pupazzo simbolo di quel movimento.
In attesa di capirne di più, appare forse più probabile che questo background da destra profonda americana si sia fuso col mondo virtuale dei videogame. Le frasi incise sui proiettili, stando a quanto si è potuto leggere, rinviano a codici tipici dei gamer e di alcuni giochi specifici, persino le parole «Bella ciao», inizialmente interpretate come una rivendicazione antifascista, sembrano indicare la familiarità con un gioco, Far Cry 6, ambientato in una dittatura e inserita pure nelle playlist online dei gruppi alt-right. Insomma la realtà appare più complessa di quel che si voleva far apparire all’inizio. 
L’unica cosa certa è che non vi è traccia di alcun progetto politico di sinistra che punti ad una aggressione armata del trumpismo, semmai quel che si osserva nella realtà è il contrario con la creazione di milizie governative dedite alla caccia allo straniero, l’uso della guardia nazionale per accerchiare le città governate dall’opposizione.
Qui in Italia invece si tenta di utilizzare l’episodio per riscrivere la storia della destra fascista e si additano i migranti come il male della società, lasciandoli annegare in mare o provando a rinchiuderli in carceri oltre-confine. Chiami e fotti, odia spara e fai la vittima sono gli ingredienti di un trumpismo maccheronico a cui la Meloni da voce facendo la faccia cattiva.

Un destro che spara sulla destra
Le notizie che giungono dagli Stati uniti ci raccontano tuttavia una situazione molto diversa. Il giovane proviene da una famiglia Maga, di religione mormone, totalmente schierata con il trumpismo. Non vi è alcuna traccia, anche lontana, di cultura o posizioni politiche in circolazione nella sinistra americana, radical, Woke o antifa, come imprudentemente o volutamente era stato diffuso nelle prime ore, spingendo i nostri conigli nazionali, da Saviano in su, a fare distinguo e straparlare a sproposito degli anni 70 (qui un audio di Saviano quando anni fa diceva cose ben diverse sulla lotta armata).
Le foto apparse sui media mondiali mostrano un nucleo familiare che trovava normale recarsi al poligono di tiro e lasciarsi raffigurare con mitragliatrici tra le braccia. Fin da piccolo Tyler Robinson si è addestrato all’uso delle armi, ha imparato a sparare con fucili di precisione anche a lunga distanza, circostanza che spiega l’abilità dimostrata nel centrare Kirk al primo colpo da circa 200 metri. Un personaggio che apparentemente detestava perché troppo moderato per i suoi gusti. 
C’è chi lo ha affiliato ai Groypers, una formazione della Alt-right, l’ultra destra che prese parte all’assalto di Capitol Hill del gennaio 2021, in rotta con l’organizzazione di Kirk, Turning Point, perché in alcune foto era ritratto nella posa di un pupazzo simbolo di quel movimento.

In attesa di capirne di più, ci sembra probabile che questo background da destra profonda americana si sia fuso col mondo virtuale dei videogame. Le frasi incise sui proiettili, stando a quanto si è potuto leggere, rinviano a codici tipici dei gamer e di alcuni giochi specifici, persino le parole «Bella ciao», inizialmente interpretate come una rivendicazione antifascista, sembrano indicare la familiarità con un gioco, Far Cry 6, ambientato in una dittatura e inserita pure nelle playlist online dei gruppi Alt-right. Insomma la realtà appare più complessa di quel che si voleva far apparire all’inizio. 
L’unica cosa certa è che non vi è traccia di alcun progetto politico di sinistra che punti ad una aggressione armata del trumpismo, semmai quel che si osserva nella realtà è il contrario con la creazione di milizie governative dedite alla caccia allo straniero, l’uso della guardia nazionale per accerchiare le città governate dall’opposizione.
Qui in Italia invece i nipotini dello stragismo tentano di utilizzare l’episodio per riscrivere la storia della destra fascista e additano i migranti come il male della società, lasciandoli annegare in mare o provando a rinchiuderli in carceri oltre-confine. Chiagni e fotti, odia, spara e fai la vittima, sono gli ingredienti di un trumpismo maccheronico a cui la Meloni da voce facendo la faccia cattiva.

Il ruolo avuto dagli apparati statali nella stagione iniziale dello stragismo degli anni 70

Intervento – A proposito della recente polemica tra Paolo Morando e Vladimiro Satta sul ruolo avuto da parte di apparati e settori dello Stato nella stagione iniziale dello stragismo degli anni 70

di Paolo Persichetti

Il 6 settembre scorso in un post sulla sua pagina faceboock Paolo Morando ha segnalato una serie di errori fattuali commessi da Vladimiro Satta nella appendice della edizione aggiornata del suo I nemici della repubblica, Rizzoli, 2024 (prima edizione Rizzoli 2016). Inesattezze contenute in alcuni passaggi che criticavano il suo libro del 2019, Prima di Piazza Fontana. La prova generale. Ad avviso sempre di Morando, quegli errori non erano veniali poiché, oltre a chiamarlo in causa, avrebbero ingannato il lettore.

Nella sua replica Satta ha riconosciuto che vi erano delle imprecisioni per poi aggiungere che il vero oggetto della divergenza portava nella diversa «valutazione storica degli attentati minori che nel 1969 precedettero la strage di Piazza Fontana a Milano».

Se per Morando si trattava, con la scrupolosa citazione degli episodi, della prova che le indagini furono orientate volutamente nella direzione degli anarchici, valutazione fatta soprattutto alla luce di quanto poi avvenne il 12 dicembre in piazza Fontana, a Milano, all’interno della Banca nazionale dell’agricoltura dove morirono 17 persone dopo l’esplosione di una bomba e altre 88 rimasero ferite. Per Satta invece l’Ufficio politico della questura avrebbe agito senza secondi fini, indotto nell’errore dall’abitudine di alcuni ambienti anarchici a commettere piccoli attentati dinamitardi e soprattutto l’esito finale dei processi, che condusse all’assoluzione di gran parte degli inquisiti, avrebbe smentito la teoria della macchinazione o per meglio dire del pregiudizio politico da parte della questura. Insomma si sarebbe trattato di una legittima indagine che grazie alle garanzie processuali e ai contrappesi costituzionali, commisurò le reali responsabilità sui fatti accaduti.

Il secco botta e risposta (lo potete leggere in fondo) che i due studiosi si sono scambiati, riveste una certa importanza poiché solleva una rilevante questione storica sul ruolo avuto da parte di apparati e settori dello Stato nella stagione iniziale dello stragismo degli anni 70.

L’esplosione di due bombe il 25 aprile 1969, alla fiera campionaria (20 feriti) e alla stazione centrale di Milano, provocò l’arresto di sei persone di area anarchica su impulso di una indagine condotta dal commissario Calabresi. Ai sei vennero contestati complessivamente 18 attentati esplosivi, 12 dei quali considerati «stragi» (ricordo che il reato di strage, trattandosi di reato di pericolo, è punibile sulla sola base delle intenzioni anche se la strage non viene poi commessa e vi sono solo danni materiali, addirittura senza feriti), Vennero anche incriminati per falsa testimonianza e rinviati a giudizio l’editore Feltrinelli e la moglie.

La prima circostanza singolare di questa inchiesta sta nel fatto che nonostante gli arresti siano scaturiti dopo la bomba alla fiera campionaria, i sei non vennero accusati di strage per questo attentato, l’unico che ebbe feriti. Alla fine solo tre dei sei arrestati vennero condannati, tutti a pene molto lievi, per sei episodi minori avvenuti in ore notturne unicamente con danni materiali. Delle altre 12 esplosioni: le due più importanti, quelle del 25 aprile alla fiera campionaria con 20 feriti, e alla stazione centrale, furono – solo anni dopo – attribuite in via definitiva alla cellula ordinovista di Padova guidata da Freda e Ventura; delle altre 10 (minori avvenute in ore notturne, senza feriti), nulla si è mai più saputo.

Ora secondo Satta, l’iter giudiziario con l’assoluzione finale dei più proverebbe che non vi fu alcun intento persecutorio ma solo un fisiologico funzionamento dell’azione di controllo repressivo delle forze di polizia e di verifica della giustizia. «Non si può dire – scrive – che il procedimento giudiziario sia stato persecutorio, e ancor meno che fossero stati dolosamente colpevolizzati gli anarchici per arrivare a Feltrinelli e alla sinistra tutta». Ed è qui che le sue argomentazioni suscitano le prime perplessità: perché se è vero che in sede di dibattimento tutto si sgonfiò, non fu la stessa cosa durante l’inchiesta di polizia e l’istruttoria, che all’epoca era nelle mani del giudice istruttore, il quale – cito le parole di Morando: «si limitò a vidimare l’esito l’esito delle indagini dell’Ufficio politico della Questura di Milano, condotte dal commissario Calabresi, e a rinviare a giudizio tutti gli arrestati, tranne due due, una coppia di amici di Feltrinelli, ritenuti i vertici della cellula terroristica, prosciolti dopo oltre sei mesi di carcere». Ci sono poi altri dettagli che per brevità tralascio rinviando alla lettura completa dei due post chi fosse interessato. Poiché Morando conclude il suo post con un esercizio retorico che lascia al lettore valutare se i fatti accaduti siano stati «una macchinazione o che gli inquirenti fossero tutti dei gran cialtroni, giudichi il lettore», nella replica Satta fa notare che dolo, «la macchinazione», e cialtronaggine non sono la stessa cosa, invitando Morando a decidere su quale delle due optare.

Ha ragione Satta a sottolineare che il dolo presuppone intenzionalità mentre la cialtronaggine solo colpa, anche se ciò non esclude che le due cose possano marciare insieme. La vita reale è piena di “dolosi cialtroni” e viceversa. Vengono alla mente alcuni esempi clamorosi di altre famose inchieste, come la telefonata di Mario Moretti del 30 aprile 1978 attribuita alla voce di Toni Negri o quella del 9 maggio successivo di Valerio Morucci imputata a Pino Nicotri… Il risultato finale cambia poco.

In realtà quello che più sorprende negli argomenti proposti da Satta è la convinzione che l’assoluzione finale dissolva ogni cosa impedendo di evocare il dolo.

Questa convinzione mostra una certa confusione tra attività di polizia, funzione inquirente (all’epoca vigeva il rito istruttorio) e attività giudicante. Ora, se la funzione giudicante corregge in sede di dibattimento i comportamenti scorretti, inesatti o altro che possano accadere nelle prime due istanze, il dolo permane sempre seppur ridimensionato. Un arresto, una perquisizione, un sequestro, una indagine e figuriamoci un periodo di carcere, anche in presenza di un’assoluzione finale non sono elementi neutri sia sul piano del danno personale che dell’effetto politico e sociale, nella fattispecie lo stigma gettato sulla sinistra e gli anarchici.

Lo Stato non è un corpo unico, ma un apparato complesso attraversato da forze, campi, culture e tensioni. All’epoca poi stava emergendo un rinnovamento sociologico all’interno della magistratura, grazie ai nuovi concorsi che avevano permesso l’ingresso di nuovi ceti sociali che avevano interrotto la continuità di ceto e cultura con l’epoca fascista, cosa che non era avvenuta ancora nella polizia e nei servizi. Questo spiega le ragioni della rottura di quella omogeneità d’ambiente che in precedenza compattava la sfera statale e la presenza di possibili divergenze finali sugli esiti processuali.

Per un democratico-liberale di scuola rosselliana come Satta, l’indagine, l’arresto e l’incarcerazione di una persona, peggio più persone, anche se alla fine si conclude con un’assoluzione dovrebbe apparire come un fattore patologico, non fisiologico del sistema giustizia e del funzionamento dello Stato.

Nella vicenda di cui trattiamo, oltre all’ufficio politico della questura di Milano a un certo punto interviene in massa l’Uaarr che nei giorni di piazza Fontana si sposta da Roma e occupa gli uffici della questura meneghina. Una circostanza tenuta riservata per quasi 30 anni e venuta alla luce solo dopo il ritrovamento dell’archivio Russomanno in Circonvallazione Appia. Cosa ci sarebbe di nornale – come sostiene Satta – in una presenza mantenuta segreta anche dopo le idangini sulle circostanze della morte del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli? Neppure Calabresi ne fece mai cenno, eppure rivelarla l’avrebbe sollevato dal sospetto di un ruolo diretto nella morte dell’anarchico. Il ferroviere fermato, anzi che aveva seguito col suo motorino il commissario Calabresi che conosceva e gli aveva chiesto di venirgli dietro in ufficio, dove rimase trattenuto illegalmente, cioè oltre i termini legali previsti dalla legge – per il codice penale si dice sequestrato – per poi volare da una finestra del quarto piano. Sappiamo che un confidente del Sid (i Servizi segreti dell’epoca) era infiltrato in una cellula ordinovista (gruppo neofascista). Elementi, circostanze, che mostrano in tutta questa vicenda una ingombrante e anomala presenza di corpi dello Stato: tutto regolare, tutto fisiologico?

Satta – semplifico per i lettori – suggerisce la tesi di un ufficio politico che ignaro delle malefatte e dei progetti delle cellule neofasciste, sia stato indotto nell’errore dal fatto che alcuni anarchici facevano esplodere piccoli ordigni e quindi trova normale che il sospetto degli inquirenti si rivolgesse all’inizio nella loro direzione. Sembra dire che il pregiudizio accusatorio fosse in qualche modo fondato: alcuni anarchici mettono le bombe, allora tutti gli anarchici e i loro amici – nella fattispecie Feltrinelli, stiamo parlando del 1969 non del 1972 – le mettono o comunque sono sospetti. Un dispositivo che abbiamo visto in azione con le numerose retate giudiziarie negli anni successivi.

Sappiamo che è questione storiografica aperta il problema del massacro di piazza Fontana: voluto solo dalla cellula padovana di Ordine nuovo, che frustrata dall’indecisione mostrata dalle autorità di governo democristiane nel varare un giro di vite autoritario, avrebbe innalzato il livello della violenza passando alla strage diretta, abbandonando la lunga e documentata serie di attentati con bombe a basso potenziale funzionale alla creazione di un clima di tensione e paura nel Paese? Oppure scelta anche degli apparati, i nostri o di alcuni settori operanti nelle basi Nato? Le domande restano, ci sono risposte diverse ma un fatto certo è il fetente puzzo di omertà, il silenzio, le omissioni, le compromissioni e i non detti che chiamano in causa pesantemente i contesti statali dell’epoca.

Questa è la posta in gioco storiografica che Satta contesta, commettendo anche errori in punto di fatto, poiché egli parte da un presupposto, un assioma da cui discendono le sue conclusioni: lo Stato, o meglio stando al titolo del suo libro «I nemici della Repubblica» (vista l’assenza di aggettivazione anche qui ci sarebbe da ridire, perché i «nemici» da sinistra non erano certo monarchici e dunque la loro ostilità si rivolgeva alla forma statale in sé e al sistema economico-sociale non certo al dispositivo politico repubblicano…), è sempre illibata, pulita, candida e proba. Le istituzioni sono sacre e i suoi uomini santi, guai a lanciare contro di loro qualsiasi accusa, questo a prescindere da qualunque prova. Non a caso Satta gira la testa dall’altra parte davanti alle torture praticate dalle forze di polizia durante le indagini, documentate e oggi anche confessate da uomini dello Stato, per stare ad un solo esempio.

Da qui nasce anche la sua critica alla «dietrologia» mossa unicamente dalla esigenza di tutelare solo la probità delle istituzioni e solo in un secondo momento la verità dei fatti, dei processi sociali, delle dinamiche storiche, sempre se queste non contrastano e mettono in discussione la limpidezza dello Stato. Altrimenti silenzio.

Lo dico con cognizione di causa e un certo dispiacere, essendo stato uno dei pochi, forse addirittura il primo ad aver recensito e valorizzato Satta – (dal carcere) sul quotidiano Liberazione, suscitando polemiche dentro Rifondazione comunista (dove allignavano vecchie posizioni del Pci) nel lontano settembre 2003, (Caso Moro, l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico) e averlo continuato a fare negli anni a venire, apprezzando moltissimo i suoi due volumi sulla questione, scritti quando ancora – fresco del suo lavori di documentarista della commissione Stragi – si cimentava con la ricerca documentale. Ma criticare la dietrologia, sacrosanta attività, fondamentale impegno in questo Paese intossicato, non vuol dire rinunciare alla critica sempre e comunque.

Ps: qui sotto potete trovare in ordine cronologico gli interventi dei due studiosi.

Paolo Morando
*Post lungo, per fatto personale*

Nell’edizione aggiornata di “I nemici della Repubblica” (BUR La Storia Le Storie giugno 2024, prima edizione Rizzoli 2016), lo studioso Vladimiro Satta commette una notevole serie di errori fattuali. Sono errori che ingannano il lettore e che per me risultano ancora più gravi, poiché su di essi l’autore basa una serie di critiche al mio libro del 2019 Prima di Piazza Fontana. La prova generale.
A pagina 871, la prima della “Appendice 1 – Dal 2016 a oggi” in cui Satta si occupa delle novità storiografiche e giudiziarie intervenute dopo la prima edizione del proprio libro, l’autore cita l’inchiesta ripercorsa in “Prima di Piazza Fontana”, scrivendo così: «Essa verteva su una serie di attentati minori susseguitisi nel 1969 a Milano, prima del 12 dicembre. Furono arrestate persone quasi tutte appartenenti all’area anarchica, rinviate a giudizio il 24 luglio 1970 e il 28 maggio 1972 assolte in ordine a dodici dei diciotto episodi in questione e condannate per i restanti sei, mentre Feltrinelli, che nel corso dell’istruttoria era stato sospettato di falsa testimonianza in favore di una coppia di coniugi suoi amici, era stato prosciolto a conclusione dell’istruttoria stessa come pure i coniugi».
Al di là dell’errore sulla data dell’assoluzione in assise, che avvenne nel 1971 e non nel 1972, l’intera ricostruzione di Satta è gravemente imprecisa. Giangiacomo Feltrinelli non venne sospettato di falsa testimonianza “in favore di una coppia di coniugi suoi amici”, bensì a favore dei due giovani anarchici accusati degli attentati del 25 aprile 1969 alla Fiera campionaria e alla Stazione centrale (il primo provocò una ventina di feriti), e che quella sera erano invece a cena proprio a casa Feltrinelli. Ma soprattutto, l’editore non fu affatto prosciolto in istruttoria. Venne invece rinviato a giudizio e fu processato in contumacia assieme alla moglie Sibilla Melega, accusata dello stesso reato. Entrambi furono poi assolti con la formula più ampia, tanto che la Procura nemmeno ricorse in appello.
È quindi del tutto infondato, oltre che quanto meno pretestuoso, il ragionamento di Satta per cui «Non si può dire, quindi, che il procedimento giudiziario sia stato persecutorio, e ancor meno che fossero stati dolosamente colpevolizzati gli anarchici per arrivare a Feltrinelli e alla sinistra tutta». L’andamento dell’inchiesta e del processo dimostra invece quanto Satta nega. Il giudice istruttore Amati, infatti, si limitò a vidimare l’esito delle indagini dell’Ufficio politico della Questura di Milano, condotte dal commissario Calabresi, e a rinviare a giudizio tutti gli arrestati, con l’esclusione della coppia di amici di Feltrinelli (Giovanni Corradini ed Eliane Vincileoni), ma solo dopo sei mesi abbondanti di carcere e ripetuti no alle loro richieste di scarcerazione per totale assenza di indizi.
Sul tema peraltro Satta è pervicace nel commettere errori, visto che a pagina 872 scrive così: «Quanto al presunto tentativo di risalire dagli anarchici e da Feltrinelli fino al maggiore partito della sinistra, proprio dal libro di Morando si apprende che due di coloro che furono coinvolti nell’inchiesta ma prosciolti a fine istruttoria, Clara Mazzanti e Giuseppe Norscia, non erano anarchici bensì erano iscritti al Pci». Falso pure questo. Mazzanti e Norscia furono arrestati nell’autunno del 1969 e non vennero mai prosciolti, bensì rinviati a giudizio e processati: rimasero continuativamente in carcere fino all’assoluzione del maggio ’71, con formula dubitativa che pure per loro in appello diverrà ampia.
Circa l’iscrizione della coppia Norscia-Mazzanti al Pci, Satta ne trae lo spunto per sostenere che «Questo dato di fatto è incompatibile con l’idea che l’intenzione degli inquirenti o addirittura di manovratori politici alle spalle degli inquirenti fosse danneggiare il Pci; in quel caso, approfittando di Mazzanti e Norscia si sarebbe scatenata subito una pretestuosa campagna anticomunista, che invece non ci fu per niente». Ed è vero, non ci fu, ma proprio perché l’appartenenza della coppia al Pci fu del tutto marginale nelle loro vite, come scrivo ampiamente nel libro. Che Satta ha dunque letto quanto meno distrattamente.
L’esito complessivo di quella disastrosa inchiesta di Calabresi e dell’ancora più disastrosa istruttoria di Amati è attestato dalla sentenza finale: due prosciolti in istruttoria, cinque assolti con formula piena e tre condannati a pene fra i 3 anni e 4 mesi e 1 anno e 4 mesi, ma a fronte di accuse che, per i sei imputati dei diciotto attentati, prevedevano una dozzina di ergastoli. Che sia stata una macchinazione o che gli inquirenti fossero tutti dei gran cialtroni, giudichi il lettore.

Vladimiro Satta
REPLICA A PAOLO MORANDO

Paolo Morando, un anno e mezzo dopo l’uscita dell’edizione aggiornata del mio libro “I Nemici della Repubblica”, mi ha attaccato pesantemente con un post nella sua bacheca FB. Il tema è la valutazione storica degli attentati minori che nel 1969 precedettero la strage di Piazza Fontana a Milano, vicenda cui lui ha dedicato una monografia qualche anno fa. Qui di seguito, la mia risposta a Morando. Chi fosse interessato, potrà leggere cosa ha scritto Morando e commenti vari presso la bacheca sua. << L’indicazione del 1971 come data dell’assoluzione in Assise è stata un refuso, mentre è stato un errore scrivere che Feltrinelli, Mazzanti e Norscia furono prosciolti in istruttoria, poiché in realtà furono assolti in primo grado e, per Feltrinelli, la Procura non ricorse in appello. Prendo atto delle puntualizzazioni di Morando al riguardo e provvederò alle opportune correzioni nelle prossime edizioni de “I nemici della Repubblica”, se ce ne saranno. Detto ciò, la questione fondamentale è – come riconosce Morando stesso nel suo post su FB di sabato 6 settembre- stabilire se il procedimento giudiziario fu persecutorio e colpevolizzò dolosamente gli anarchici per arrivare a Feltrinelli e alla sinistra tutta, oppure no. Nel post, Morando dapprima afferma che <<l’andamento dell’inchiesta e del processo>> dimostrano il dolo a fini politici che io invece nego, ma poi conclude senza prendere posizione tra <<macchinazione>>, che è sinonimo di dolo, e cialtroneria, che è altra cosa dal dolo. Come si vede, l’unica certezza ravvisabile nella visione di Morando è l’avversione nei miei confronti. In attesa che in merito all’interpretazione della vicenda storica e processuale Morando si metta d’accordo con sé stesso, faccio notare innanzi tutto che la presunta dimostrazione del dolo addotta da lui non sta in piedi. Un esito assolutorio non dimostra affatto che ci sia stato dolo da parte degli inquirenti; diversamente, dovremmo immaginare che i complotti orditi quotidianamente in Italia con la complicità della magistratura siano innumerevoli. Neanche Berlusconi arrivava a tanto. Davvero Morando pensa invece che, pur in mancanza elementi quali intercettazioni, testimonianze inoppugnabili, confessioni da parte dei responsabili, documenti probanti eccetera, le assoluzioni siano segno di dolo e ragiona così anche per altri casi? Davvero, ad esempio, di fronte alla pioggia di assoluzioni del secondo processo contro Ordine Nuovo basato su indagini di Vittorio Occorsio (c.d. processo dei 119) Morando parlerebbe di persecuzione dolosa ai danni dei neofascisti? Ha mai sostenuto che i molteplici processi nei quali Paolo Signorelli venne assolto servivano a tentare di screditare il MSI? Se Morando facesse questo, io dissentirei ancora una volta ma, almeno, potrei riconoscergli un po’ di coerenza.
Sull’ipotesi della cialtroneria, piuttosto, in qualche misura potrei essere d’accordo con Morando, come lui ben sa, poiché ne abbiamo parlato più volte, anche pubblicamente. Ma nel post, egli se ne dimentica.
Purtroppo, i buchi nel post di Morando non si limitano a questo. Egli, citando la pag. 872 del mio libro “I nemici della Repubblica”, ha omesso una serie di brani significativi, che qui riporto:
<<la sentenza (…) recepì quasi interamente le richieste del pubblico ministero, Antonino Scopelliti, il quale tempo dopo, ospite di un programma televisivo, dichiarò che il dibattimento aveva “chiarito centomila cose che l’istruttoria non aveva chiarito né forse poteva chiarire. Ecco perché il dibattimento è la fase illuminante del processo” (…) Oltre tutto, all’epoca Feltrinelli aveva già dato prova di non essere un personaggio legalitario e innocuo e perciò, se si fosse voluto colpire lui, lo si sarebbe potuto fare senza bisogno di montature contro gli anarchici. Persino Feltrinelli stesso trovava logico che le inchieste per attentati andassero in direzione degli anarchici; in un’intervista rilasciata alla rivista “Compagni”, datata aprile 1970, egli pur dichiarandosi convinto che tra i “giovani più o meno anarchici” si fossero infiltrati “agenti provocatori e fascisti”, riconosceva che coloro i quali “amano con facilità parlare di bombe, che di tanto in tanto possono anche far esplodere (…) facendo più rumore che danni (…) prestano facilmente il fianco per essere indiziati di atti criminosi come gli attentati di Milano e di Roma” (…) >>.
E sì che Morando conosce l’autorevole parere di Feltrinelli stesso, in quanto -se stranamente gli era sfuggito il noto libro di Panvini “Ordine nero e guerriglia rossa” dove le parole di Feltrinelli sono citate- non può però avere dimenticato il prolungato scambio di commenti su FB tra noi due, con la partecipazione di altri, avvenuto ai primi di marzo del 2022.
A cosa alludeva nel 1970 Feltrinelli, che conosceva personalmente parecchi anarchici e tra questi i giovani Braschi e Della Savia accusati -e infine condannati- per attentati minori effettuati prima della strage di Piazza Fontana? Rispondo con estratti dal volume di Morando “Prima di Piazza Fontana”: l’anarchico Paolo Braschi rivelò all’A. che <<noi non lo abbiamo mai ammesso, ma in effetti c’era questo quantitativo di esplosivo, 40-50 chili, tanta roba (…) una piccola parte la presi io e l’altra la si andò a sotterrare (…) Di attentati ne ho fatti due, più uno che si fece insieme>> ad un <<anarchico di Canosa>> non nominato, poi ancora <<lui ha fatto quelli di Roma>>. Un altro anarchico, Angelo Della Savia, <<ammette gli attentati romani e quelli di Genova con Braschi, racconta anche la sua prima “bombarella” a Milano>>, peraltro stralciata dal processo. Sempre Della Savia a Morando: <<le bombe le abbiamo messe, per cui innocenti innocenti non è che eravamo>>.
Quanto all’appartenenza della coppia Mazzanti-Norscia al PCI, un briciolo di esperienza di vita e/o di conoscenza del passato permette a tutti (o quasi) di comprendere che, ai fini della montatura di una campagna pretestuosa, importa poco o nulla se la suddetta appartenenza utilizzabile come pretesto fosse marginale o centrale.
Per inciso, Feltrinelli non era anarchico, ed era uscito dal PCI circa dieci anni prima dei fatti in oggetto. I suoi rapporti con il partito erano tali da far pensare a molti che lo scopo dell’attentato ad un traliccio a Segrate che lui stava preparando, nel quale perse la vita, fosse provocare un blackout per disturbare il congresso nazionale comunista che si teneva nella vicina Milano. Pertanto, fare leva su Feltrinelli per colpire gli anarchici, o il PCI, o tutti e due, sarebbe stato vano. Infatti non accadde, cosa che Morando non contesta ma dalla quale è incapace di trarre le conseguenze.
In conclusione, ricordiamoci sempre che indagare non è sinonimo di “incastrare” né di dichiarare colpevolezze prima delle sentenze, evitiamo di anteporre sospetti meramente congetturali di macchinazioni alle evidenze e, per quanto possibile, sforziamoci di ricondurre i fatti storici e gli errori iniziali delle inchieste alle loro reali dimensioni e cause.

Paolo Morando
Tocca aggiungere che Satta anche nella risposta al mio post cita erroneamente il mio libro. Parla infatti di un “anarchico di Canosa” con cui Braschi avrebbe compiuto un attentato. Ma Braschi, intervistato (cfr. pagina 317), nel libro non dice affatto quanto Satta gli attribuisce, per giunta tra virgolette

Via Fani, indagini inadeguate e dietrologia, come è nata la leggenda del quinto sparatore

«La figura del “quinto” uomo, ovvero dell’attentatore 
che avrebbe dovuto sparare dal lato destro del convoglio 
all’inizio dell’azione, sconfessata dalle dichiarazioni dei terroristi stessi,
 ma decisamente supportata non solo dagli atti processuali 
ma da una gran parte della letteratura politica degli anni di piombo,
è una figura diventata emblema per l’idea stessa di generiche ombre sinistre 
su fatti accaduti. Quando oggi si sente parlare del “quinto” uomo, 
immediatamente si capisce che ci si riferisce a qualcosa di losco, nascosto, a qualcosa che mina la credibilità delle Istituzioni stesse. 
Una sorta di antesignano del complottismo».

Federico Boffi-Lucarelli, Grazia La Cava, Scienza e giustizia, Armando editore 2024

Un recente abbaglio dello storico Davide Conti ha aggiunto una nuova puntata alla interminabile saga dei misteri sul rapimento dello statista democristiano Aldo Moro. Su Domani del 23 e 24 agosto scorso, il ricercatore della Fondazione Basso, autore di diversi lavori sulla Resistenza, soprattutto romana, e di varie pubblicazioni sul fascismo e neo fascismo, nonché consulente delle procure di Brescia e Bologna nelle indagini sulle stragi e dell’archivio storico del Senato, ha rilanciato la tesi del quinto uomo che avrebbe preso parte alla sparatoria di via Fani (l’undicesimo brigatista del commando), la mattina del 16 marzo 1978.

Gli errori di Davide Conti

Come ormai accade da decenni a questa parte in tutti gli scoop sul rapimento Moro, le clamorose scoperte annunciate a titoli cubitali incappano sempre in clamorosi errori. Anche Conti non è scampato a questa regola: non è vero, infatti – come ha sostenuto – che le tracce di sangue ritrovate all’interno delle auto usate dai brigatisti per la fuga non vennero mai identificate. Il 14 novembre 1978 i professori Franco Marraccino e Giorgio Gualdi, incaricati dal pm Infelisi nel marzo precedente, consegnarono la loro perizia al consigliere istruttore Achille Gallucci. Le conclusioni apparvero subito inequivocabili: le tracce di sangue trovate nelle auto erano compatibili con quattro dei cinque uomini della scorta dello statista democristiano (Cm2 0470_001). Errata è dunque l’ipotesi avanzata da Conti, ovvero che alcune di quelle tracce appartenessero ad un quinto brigatista non identificato che avrebbe partecipato al rapimento. Un altro degli errori, che qui ci limitiamo a citare (per una disamina più ampia leggi: Il sangue degli uomini della scorta di Moro scambiato con quello di un brigatista immaginario), riguarda l’arbitrario spostamento di uno dei membri del commando (Prospero Gallinari) dai sedili anteriori a quelli posteriori di una delle due Fiat 128 utilizzate durante l’agguato. Un’artificiosa operazione che ha permesso a Conti, nonostante le evidenze storiche dicano il contrario, di aggiungere un passeggero e far quadrare la propria ricostruzione.

Indagini inadeguate e dietrologia


Gran parte delle teorie dietrologiche costruite sul rapimento Moro traggono origine, dal punto di vista tecnico, dall’iniziale ricostruzione errata della dinamica dei fatti dovuta alle gravi carenze ed errori presenti nelle prime indagini condotte nel 1978. E’ quanto spiegano, in un volume pubblicato nel 2024, Scienza e Giustizia, la dinamica della scena del crimine, Armando editore, Federico Boffi Lucarelli, che ha diretto le sezioni di balistica e l’Unità di analisi dei crimini violenti della polizia scientifica, e Grazia La Cava. Il testo riprende la perizia sulla dinamica della sparatoria e del rapimento Moro consegnata il 12 giugno 2015 alla seconda commissione Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni (Cm2 0197_003). Documento che non venne accolto con favore dalla maggioranza dei membri della commissione, spiazzati dai risultati che confermavano le testimonianze inascoltate dei brigatisti.

«I dubbi emersi negli atti giudiziari dell’epoca – scrivono gli autori – e costantemente riportati negli anni successivi, sono invece un buon esempio di come è possibile trasformare una incertezza tecnica in un caso sociale e politico (ed anche giudiziario, in effetti)». Il combinato disposto tra questi errori e precisi interessi politici, hanno sedimentato il pregiudizio dietrologico, ovvero l’idea fattasi senso comune che mai un gruppo di operai del Nord e giovani delle borgate romane avrebbero potuto, contando sui propri mezzi, portare a termine un’azione del genere. L’alibi del complotto venne subito messo in campo dalle forze politiche che con maggiore forza e peso sostennero la «linea della fermezza» (Pci e Dc) per celare le responsabilità avute sulla mancata volontà di trattare la liberazione dell’ostaggio, sacrificando la vita di Moro sull’altare della ragion di Stato e del compromesso storico, inesorabilmente fallito nei mesi successivi. La costruzione della narrazione dietrologica è stata lo strumento di questo processo di esportazione della colpa: una rivisitazione storica dei fatti che mise d’accordo anche destra, la quale elaborò una propria narrazione che addossava alle forze del patto di Varsavia la regia del rapimento.

Gli errori iniziali sullo sparatore da destra


La ricostruzione iniziale dell’agguato proposta dal settimanale Panorama del 28 Marzo 1978. Con il numero 2 è indicato il brigatista che si ipotizzava avesse agito sulla destra

Nel corso delle indagini svolte nel 1978, perizia Ugolini-Jadevito-Lopez, e nella successiva Salza-Benedetti del 1994, non vennero svolti sopralluoghi all’interno delle autovetture coinvolte nella sparatoria per individuare gli impatti dei colpi esplosi. Non vennero nemmeno effettuati studi sui tracciati balistici. Questa circostanza – scrive Boffi – ha portato a individuare come «punti fissi» unicamente le traiettorie di ingresso rilevate sui corpi posti sul tavolo autoptico e per altro verso a rincorrere la posizione di singoli bossoli e ogive su una scena profondamente inquinata, sia dai movimenti effettuati dai brigatisti durante l’azione e dai mezzi impiegati, che dalle vetture delle forze di polizia che intervennero, i primi soccorritori, i numerosi inquirenti, giornalisti e curiosi che occuparono la scena calpestando reperti, spostandoli inavvertitamente, come le molte foto e immagini d’epoca dimostrano. 

Un approccio che ha impedito di contestualizzare le traiettorie balistiche sulla scena dell’agguato. Escusso nel marzo del 2015 dalla Polizia di prevenzione per conto della commissione Moro 2, l’autore della seconda perizia balistica, il perito Pietro Benedetti, ha confermato «di non aver mai effettuato attività di ricostruzione delle traiettorie balistiche né di aver mai esaminato le autovetture» (Cm2 0066_011). Ciò spiega perché dopo aver rilevato in autopsia che i colpi che uccisero il maresciallo Leonardi avevano attinto la parte destra del corpo, in sede processuale si elaborò una prima ricostruzione che individuava la presenza di uno sparatore da destra. Inizialmente si ipotizzò il ruolo di un brigatista uscito dallo sportello destro della Fiat 128 bianca con targa diplomatica che – si ricostruì erroneamente – anziché precedere aveva bloccato con una improvvisa marcia indietro il convoglio presidenziale allo stop con via Stresa. La mancata identificazione nel corso delle indagini successive di questo soggetto inesistente ha alimentato nel tempo le più diverse dietrologie sulla sua presunta identità e anche sulla sua esatta posizione. Come vedremo più avanti c’è chi lo voleva appostato dietro la Mini clubman parcheggiata sulla destra dell’incrocio, incurante dei tiri provenienti dal lato sinistro.

I nuovi accertamenti su Leonardi e Zizzi

Ricostruzione delle traiettorie dei colpi che hanno raggiunto il maresciallo Leonardi. Diapositive allegate alla nuova perizia balistica presentata nel 2015 alla nuova commissione Moro

I sopralluoghi effettuati nel 2015, su incarico della commissione parlamentare Fioroni, individuando numerosi impatti di arma da fuoco sul lato interno destro del veicolo che trasportava Moro e la contemporanea assenza di impatti sul lato opposto (verifica che non è stato possibile effettuare all’interno dell’Alfetta di scorta, conservata in pessime condizioni, perché gli interni furono divelti nel 1978 alla ricerca di bossoli e proiettili), hanno fornito prove in favore dell’attacco portato dal lato sinistro della via.

Ricollocando i corpi all’interno delle autovetture, grazie all’analisi tridimensionale fornita dalla moderna strumentazione forense, e studiando le traiettorie accertate dei colpi che hanno penetrato la carrozzeria del convoglio di Moro (trascurando le traiettorie disperse), i funzionari della scientifica hanno potuto ricostruire la dinamica effettiva dell’azione. Si è così potuto dimostrare come i tiri da sinistra, anche quelli con direzione più obliqua, erano compatibili con gli impatti sulle parti interne del mezzo e i fori di entrata sul corpo del maresciallo Leonardi, centrato mentre girandosi in protezione di Moro offriva il fianco destro allo sparatore.
Analogo discorso andava fatto – sempre secondo Boffi – per i tre colpi che attinsero il vicebrigadiere Zizzi alle spalle, con traiettoria basso-alto. Per alcune ricostruzioni dietrologiche questa circostanza avrebbe provato l’esistenza di un «super killer», situato a destra, nascosto dietro la Mini clubman. Il misterioso personaggio avrebbe neutralizzato il poliziotto che, una volta uscito dal’Alfetta per rispondere al fuoco dei brigatisti, avrebbe offerto le spalle al tiratore mai individuato. Allo stesso modo, il misterioso individuo avrebbe centrato anche l’agente Iozzino, che effettivamente riuscì a portarsi fuori dal mezzo e sparare due colpi in direzione di uno dei quattro brigatisti in abiti dell’aviazione civile.

I nuovi accertamenti hanno smentito queste ipotesi prive di conferme scientifiche: le traiettorie di tiro contro l’Alfetta mostrano come il grosso dei colpi siano stati portati da sinistra e da dietro in linea leggermente obliqua, in particolare dal quarto componente del comando (lo sparatore meno efficace e più disordinato) che si trovava più in alto. Considerando l’andamento in discesa della via, l’altezza dell’autovettura e la posizione del brigatista che ha sparato, i funzionari della scientifica hanno calcolato un dislivello di almeno 50 cm che spiegherebbe la particolare traiettoria dei colpi che hanno investito Zizzi dalla parte posteriore del mezzo. Il basso-alto identificato sul tavolo autoptico si trasforma così in alto-basso una volta ricollocato il corpo di Zizzi nella macchina mentre, sentiti gli spari, per proteggersi questi si abbassa in avanti accucciandosi sulle gambe.

Ricostruzione della dinamica dell’azione riportata nella nuova perizia del 2015

A confermare l’andamento dei colpi da sinistra-destra sopraggiungono anche i numerosi impatti presenti sui finestrini del lato sinistro della Mini clubman, parcheggiata sulla destra della Fiat 130, circostanza che dimostra come un eventuale tiratore collocato in quella posizione sarebbe stato crivellato dai colpi provenienti dal versante opposto. La controprova di questa ricostruzione sta nel fatto che eventuali colpi tirati dal lato destro avrebbero attinto, stando alle possibili traiettorie, i brigatisti posizionati a sinistra. Ad essi si aggiungono le tracce di impatto sul muretto destro e sulle pareti e all’interno degli immobili collocati sulla destra di via Fani. Mentre sono assenti impatti sul versante sinistro e sulla parte bassa della via, dove sarebbe stato presente l’ingegnere Alessandro Marini, testimone iniziale e ritenuto più importante nel corso dei processi, dimostratosi poi mendace (leggi qui), e da cui originarono le prime ricostruzioni dietrologiche.

Attacco dinamico e seconda fase?

Altra novità, proposta nel libro di Boffi, e ripresa dalla nuova perizia del 2015, è la tesi dell’attacco portato quando le vetture erano ancora in movimento, in fase di rallentamento sarebbe più corretto dire. Secondo l’autore questa ricostruzione si attaglia meglio con alcune traiettorie di tiro iniziale, in particolare il colpo singolo sul parabrezza della Fiat 130. Se l’ipotesi della vettura in rallentamento non trova smentite per l’Alfetta, lo spostamento sarebbe stato di pochi metri, non 10-15 come esageratamente scrive Guido Salvini – ostile alla nuova perizia (leggi qui) – nella relazione stilata per la commissione antimafia (XIII, n. 37, sez VII, settembre 2022), al contrario alcune testimonianze dei brigatisti che presero parte all’azione non confermano questa dinamica per la Fiat 130. Da questa, infatti, sarebbero partiti ripetuti colpi di clacson nei confronti dell’autista della Fiat 128 giardinetta che aveva bloccato il convoglio all’incrocio, traendo in inganno l’autista di Moro.

Nella nuova perizia è presente anche un errore di posizione della Fiat 128 bianca che ostruiva la parte superiore di via Fani. Nelle immagini viene rappresentata con l’avantreno rivolto verso la parte alta della strada, mentre nella realtà era posizionata con l’avantreno in discesa. Parcheggiata la sera prima sul lato destro, da quella posizione si erano mossi i due irregolari della colonna romana che vi prendevano posto, spostandosi di traverso sulla via. Circostanza che spiega come l’autista del mezzo, Alessio Casimirri, spesso chiamato in causa come possibile quinto sparatore, avrebbe poco agevolmente dovuto abbandonare il suo posto di guida e aggirare la Fiat 128 per mettersi in posizione di tiro e non restare scoperto alle spalle. In realtà lo sportello dell’autista era sul lato superiore della via, mentre l’altro irregolare, proteggendosi dietro la vettura sul lato basso della strada, voltava le spalle alla scena dell’azione intento a controllare possibili insidie provenienti dalla parte alta di via Fani. 


Punto fermo della nuova ricostruzione è anche l’esistenza di una «seconda fase» dell’attacco brigatista, intervenuta dopo aver bloccato la scorta e neutralizzato i suoi componenti. Le traiettorie di ingresso di alcuni colpi portati contro l’agente Iozzino e l’autista dell’Alfetta Rivera, colpito anche alla spalla destra dopo essere stato centrato sulla sua sinistra, e la presenza di alcuni bossoli su quel lato, dimostrano che il quarto brigatista in alto a sinistra si era portato verso destra aggirando l’Alfetta e sparando anche con la sua arma personale, una Beretta 51. Per i brigatisti la seconda fase dell’azione riguardava soltanto il prelievo dell’ostaggio e l’abbandono del luogo della sparatoria, tuttavia vi è sicuramente stato un momento di transizione in cui, mentre due bierre in basso facevano salire Moro sulla Fiat 132 e un altro prelevava le borse dalla sua macchina, gli altri due in alto si portavano sulla destra per accertare che dalla vettura di scorta non potessero arrivare sorprese

L’inesistente quinto uomo

«Accertare che non potessero reagire e passare alla seconda fase è tutt’uno», scrive Prospero Gallinari nel suo libro autobiografico (Un contadino nella metropoli, edizione Bompiani, p. 184). Ciò potrebbe spiegare anche la presenza su quel versante di tre degli otto bossoli Smith & Wesson esplosi dalla sua pistola personale e che tanto hanno fatto discutere, per questo segnalati anche nella già citata relazione (improbabile) di Salvini. L’arma, sequestrata a Gallinari al momento della sua cattura (24 settembre 1979), risultò impiegata non solo in via Fani (8 colpi) ma anche il 21 dicembre successivo (4 colpi), durante l’attacco portato dalle Brigate rosse a una volante sotto l’abitazione del presidente dei deputati Dc, Giovanni Galloni, e nell’assalto alla sede regionale della Dc del Lazio, in piazza Nicosia, il 3 maggio 1979 (6 colpi).