Berlinguer non ti voglio bene

Sembra che al terzo piano di viale del Policlinico 131 abbia fatto molto discutere un mio articolo (Caso Penati: l’ipocrisia del Pd ha radici lontane) sull’inchiesta per corruzione, finanziamento illegale e altri reati, che ha coinvolto Filippo Penati, capo della segreteria politica di Luigi Bersani, già sindaco di Sesto san Giovanni, presidente della provincia di Milano, vicepresidente del consiglio regionale della Lombardia, uscito su Liberazione del 28 agosto 2011.
Nei giorni successivi sono arrivate le repliche di Imma Barbarossa, 31 agosto, e Guido Liguori, 4 agosto.

Se Barbarossa ha definito «qualunquista» la mia ricostruzione delle modalità “parallele” di finanziamento a cui era ricorso il Pci, poi Pds-Ds, già prima che terminasse il sostegno economico di Mosca (a quanto pare sono cadute nell’oblio le testimonianze dei dirigenti di primo piano che hanno gestito quella fase e raccontato per filo e per segno come funzionava il sistema di finanziamenti occulti del Pci poi Pds);
per Liguori (autore nel 2009 di un esercizio di storia controfattuale sulla fine del Pci, La morte del Pci, Manifestolibri, interamente votato alla venerazione di Enrico Berlinguer, dipinto come una figura abbandonata ad una tragica solitudine da un ceto empio e traditore di dirigenti che l’attorniavano), la mia sarebbe una «narrazione» distante dai fatti storici e di chiaro segno «berlusconiano».

In attesa di una mia risposta, potete leggere una interessante replica all’intervento di Liguori da parte di Gianluca Schiavon. Per chi non avesse orrore di questa discussione e volesse approfondire (siamo in piena epoca di revival e dal 15 al 17 settembre si terrà alle terme di Caracalla una festa con dibattiti, musica, spettacoli, interamente dedicata al ricordo di Luciano Lama ed Enrico Berlinguer…): tutti gli interventi con relativi commenti sono riportati in basso al post su Penati e su Liberazione.it

Caso Penati, l’ipocrisia del Pd ha radici lontane
La questione morale e la diversità comunista di Imma Barbarossa

Comunisti italiani diversi fino alla morte di Enrico Berlinguer di Guido Liguori
No, la segreteria di Berlinguer fu all’insegna del compromesso non del conflitto di Gianluca Schiavon

No, la segreteria di Berlinguer si svolse all’insegna del compromesso non del conflitto

Gianluca Schiavon
Liberazione.it 8 settembre 2011

Riflettere sulla linea del Pci negli anni 70 non può prescindere dall’evoluzione della sua organizzazione e del suo finanziamento. Sono quindi stato stupito dalla polemica tanto ruvida che un ricercatore confermato, illustre studioso di Gramsci, ha fatto dalle colonne del nostro giornale domenica 4 settembre 2001.
Guido Liguori nell’articolo comparso ha sostenuto la tesi di fondo che la questione morale fosse un problema marginale nel Pci di Berlinguer grazie al suo carisma e, persino, al suo “cesarismo”. Fino alla morte del Segretario «la barra venne tenuta coraggiosamente a sinistra – scrive Liguori – e notevoli furono i frutti raccolti, sul piano del consenso, nella società e anche a livello elettorale». Una tesi certamente suggestiva ma poco aderente ai fatti, che a differenza delle ‘narrazioni’, nutrono la storia. Cominciamo col dire che la segreteria Berlinguer fu quella in cui il Pci espanse al massimo la sua vocazione di governo, non solo in Comuni e Province, ma anche, per la prima volta, in organi legislativi – quali sono le Regioni – in tutto il territorio nazionale. Il Pci per la prima volta espresse nell’ultimo lustro degli anni 70 la maggioranza dei componenti delle giunte delle principali aree metropolitane, delle quattro Regioni del centro Italia, del Lazio, della Liguria, del Piemonte. In quegli stessi anni il Partito riorganizzò la sua presenza largamente maggioritaria nel sistema delle cooperative di consumo, edilizie e agricole, al contempo consolidò una grande compagnia assicurativa e un sistema bancario locale come forze collaterali a sé. La fine dell’esperienza della solidarietà nazionale per nulla condivisibile, ma non ingiustificata, non modificò la linea politica su questo tema. L’idea espressa dal gruppo dirigente quasi nella sua interezza era che il Partito dovesse dirigere i processi economici e sociali sintetizzandone le spinte. In un’intervista televisiva a Giovanni Minoli, Berlinguer il 27 aprile 1983 dichiarava non casualmente «mi dispiace che il nostro potere [del Pci] sia ancora insufficiente sa realizzare i nostri obbiettivi». Non si può dire quindi che il Segretario del Pci subisse passivamente le posizioni più realiste o compromissorie di altri dirigenti a lui vicini. Né si può dire che grazie a Berlinguer il Pci «non si faceva “omologare” nel sistema politico allora vigente, quello del Caf». La prima ragione è che il Caf non esisteva perché la Dc – a parte la brevissima stagione della segreteria di Flaminio Piccoli – era diretta dalla sinistra interna (da Zaccagnini a De Mita, da Prodi a Galloni) e perché il Psi lanciava in quel periodo la sfida alla Dc sul sistema di potere apparendo come una forza di sinistra di governo antidemocristiana e acomunista. La seconda ragione è che fino al referendum sul punto unico di contingenza Berlinguer e il Pci aprirono alle ragioni di alcune vertenze operaie (la FIAT nel 1980) e di alcuni movimenti, ma si guardarono bene dal rompere i rapporti col Psi o le giunte locali con la Dc. In una temperie dei primi anni 80 in cui la ristrutturazione economica stava modificando il sistema industriale e finanziario e in cui le grandi lotte segnavano il passo, un Partito che aveva scelto di ricollocarsi e di rimodulare la sua organizzazione sul governo – lato sensu – molto più che sul conflitto scelse di rafforzare le relazioni, e i compromessi, con alcune strutture economiche. E nella citata intervista del 28 luglio 1981 a Repubblica Berlinguer polemizzò sulla questione morale implicitamente anche con il Partito da lui diretto per alcuni di questi compromessi. Non facendo il poliziotto o il magistrato non so dire se queste relazioni e mediazioni produssero un sistema di illegalità, certamente gli episodi corruttivi sono stati più sporadici degli altri Partiti. Gli episodi ci sono tuttavia stati e per questo l’opinione maggioritaria delle compagne e dei compagni che fondarono il Partito della rifondazione comunista nel 1991 partì dalla consapevolezza di questi episodi negativi per costruire un’intrapresa politica nuova, impresa, almeno sulla questione morale, riuscita.

Il diritto al default come contropotere finanziario

L’intervento – Una finanza mondiale grande otto volte l’economia reale non è sopportabile. La politica monetaria aiuta la speculazione e solo il diritto all’insolvenza degli stati potrebbe smontarne il potere. L’Europa potrebbe cambiare le regole e unire le sue politiche fiscali

Andrea Fumagalli*
il manifesto 1 settembre 2011


In queste settimane di crisi finanziaria e di pressione speculativa sui paesi mediterranei, l’Europa non ha fatto una bella figura. E non poteva essere altrimenti, dal momento che la costruzione di un’Europa politica, economica e sociale è ancora lungi dall’essere raggiunta. Al momento, siamo di fronte solo all’unione monetaria europea, che è cosa diversa dall’Europa. I poteri sono in mano alla Bce, non ad un parlamento regolarmente eletto a suffragio universale in grado di legiferare con poteri superiori a quelli nazionali. E, infatti, è la Bce che detta legge, tramite l’oligarchia dei poteri forti oggi rappresentati dall’asse Merkel – Sarkozy (un neo Berlusconi in salsa oltralpe!).
Eppure, ci potrebbero essere gli spazi per creare le premesse della costruzione di quell’Unione europea, sociale, economica, solidale e federale che tutti auspichiamo, in grado di essere superiore agli opportunismi nazionalistici. Un’ Unione europea che è del tutto antitetica a quella che viene rappresentata dalla lettera “segreta” o “confidenziale” di Trichet e Draghi al governo italiano, nella quale vengono dettate le linee di politica economica che l’Italia dovrebbe seguire se vuole ottenere un aiuto per evitare il rischio di default e l’aumento degli oneri d’interesse.
Il diktat della Bce si basa su due false ma comode convenzioni, che derivano dal dogma neo e social-liberista: a. neutralità dei mercati finanziari e fiducia nel loro ruolo di arbitro imparziale dell’efficienza del libero mercato e b. la possibilità che politiche fiscali recessive del tipo lacrime-sangue possano raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio pubblico e quindi contrastare la speculazione.

La favola dei mercati finanziari concorrenziali, imparziali e neutri.
Il biopotere dei mercati finanziari si è grandemente accresciuto con la finanziarizzazione dell’economia. Se il Prodotto interno lordo del mondo intero nel 2010 è stato di 74 mila miliardi di dollari, la finanza lo surclassa: il mercato obbligazionario mondiale vale 95 mila miliardi di dollari, le borse di tutto il mondo 50 mila miliardi, i derivati 466 mila miliardi. Tutti insieme (al netto delle attività sul mercato delle valute e del credito), questi mercati muovono un ammontare di ricchezza otto volte più grande di quella prodotta in termini reali: industrie, agricoltura, servizi. Tutto ciò è noto, ma ciò che spesso si dimentica di rilevare è che tale processo, oltre a spostare il centro della valorizzazione e dell’accumulazione capitalistica dalla produzione materiale a quella immateriale e dello sfruttamento dal solo lavoro manuale anche a quello cognitivo, ha dato origine ad una nuova “accumulazione originaria”, che, come tutte le accumulazioni originarie, è caratterizzata da un elevato grado di concentrazione.
Per quanto riguarda il settore bancario, i dati della Federal Reserve ci dicono che dal 1980 al 2005 si sono verificate circa 11.500 fusioni, circa una media di 440 all’anno, riducendo in tal modo il numero delle banche a meno di 7.500. Al I° trimestre 2011, cinque Sim (Società di Intermediazione Mobiliare e divisioni bancarie: J.P Morgan, Bank of America, Citybank, Goldman Sachs, Hsbc Usa) e cinque banche (Deutsche Bank, Ubs, Credit Suisse, Citycorp-Merrill Linch, Bnp-Parisbas) hanno raggiunto il controllo di oltre il 90% del totale dei titoli derivati (fonte: http://www.occ.treas.gov/topics/capital-markets/financial-markets/trading/derivatives/dq111.pdf).

Nel mercato azionario, le strategie di fusione e acquisizione hanno ridotto in modo consistente il numero delle società quotate. Ad oggi, le prime 10 società con maggiore capitalizzazione di borsa, pari allo 0,12% delle 7.800 società registrate, detengono il 41% del valore totale, il 47% del totale dei ricavi e il 55% delle plusvalenze registrate. In tale processo di concentrazione, il ruolo principale è detenuto dagli investitori istituzionali (termine con il quale si indicano tutti quegli operatori finanziari – da Sim, a banche, a assicurazioni,– che gestiscono per conto terzi gli investimenti finanziari: sono oggi coloro che negli anni ’30 Keynes definiva gli “speculatori di professione”). Oggi, sempre secondo i dati della Federal Reserve, gli investitori istituzionali trattano titoli per un valore nominale pari a 39 miliardi, il 68,4% del totale, con un incremento di 20 volte rispetto a venti anni fa. Inoltre, tale quota è aumentata nell’ultimo anno, grazie alla diffusione dei titoli di debito sovrano (mai nome è più mistificatorio nell’epoca della crisi della sovranità nazionale!). Ad esempio, per quanto riguarda il debito pubblico, italiano, circa l’87% è detenuto da investitori istituzionali, per oltre il 60% all’estero (a differenza di quanto avviene in Giappone).
Da questi dati, possiamo arguire che in realtà i mercati finanziari non sono qualcosa di imparziale e neutrale, ma sono espressione di una precisa gerarchia: lungi dall’essere concorrenziali, essi si confermano come fortemente concentrati: una piramide, che vede, al vertice, pochi operatori finanziari in grado di controllare oltre il 70% dei flussi finanziari globali e, alla base, una miriade di piccoli risparmiatori che svolgono una funzione meramente passiva. Tale struttura di mercato consente che poche società (in particolare le dieci, tra Sim e banche, citate in precedenza) siano in grado di indirizzare e condizionare le dinamiche di mercato. Le società di rating (spesso colluse con le stesse società finanziarie), inoltre, ratificano, in modo strumentale, le decisioni oligarchiche che di volta in volta vengono prese.
Quando si leggono affermazioni del tipo “sono i mercati a chiederlo”, “è il giudizio dei mercati” e amenità del genere, dobbiamo renderci conti che tali cosiddetti mercati, presentati ideologicamente come entità metafisica, non sono altro che espressione di una precisa gerarchia e potere. E la Bce lo sa bene.

La farsa del pareggio di bilancio
Il deficit pubblico è costituito da due componenti: il disavanzo o avanzo primario, pari alla differenza tra il totale delle spese e il totale delle entrate dello Stato (al netto degli interessi) e le spese per interessi sui titoli di stato emessi negli anni precedenti. Le leggi finanziarie possono intervenire solo sull’avanzo o del disavanzo primario, non sulle spese per interessi. In seguito all’adozione di misure draconiane, si può creare anche un avanzo primario, ma se in contemporanea aumenta l’onere del debito e quindi la spesa per interessi, lo sforzo per ridurre il deficit di bilancio può essere del tutto vanificato. Ed è proprio questo ciò che è successo e sta succedendo oggi in Europa per i paesi Piigs. Al momento attuale, in seguito ai vari declassamenti che le agenzie di rating hanno inflitto ai titoli di stato, il divario (spread) con i bond tedeschi (quelli considerati più affidabili) è fortemente aumentato. Di fatto, al di là delle validità e affidabilità o meno delle manovre draconiane, l’ultima parola spetta sempre, come si confà al moderno capitalismo, al biopotere dei mercati finanziari.

In secondo luogo, occorre ricordare che ogni politica fiscale restrittiva ha come conseguenza immediata la contrazione del Pil. E’ cosi possibile che l’effetto negativo di tali cure sul Pil sia maggiore dell’effetto positivo di riduzione del deficit, con il risultato che l’obiettivo di ridurre il rapporto deficit/Pil non possa mai venir conseguito. E’ il classico caso in cui la cura è talmente forte da ammazzare il paziente, utilizzando una nota metafora di Keynes. Tale rischio è tanto più elevato tanto più la politica fiscale restrittiva avviene all’indomani di una fase recessiva così pesante come quella del 2009. Ed è veramente ipocrita che gli economisti che fino a ieri chiedevano a gran voce tali misure restrittive oggi paventino il rischio della doppia recessione.
Non è necessario essere esperti di economia per capire che difficilmente tali manovre di politica economica potranno avere successo. Al contrario, il rischio è che la situazione si avviti in una spirale viziosa senza uscita con la necessità ogni anno di adottare politiche fiscali ancor più recessive.
I grandi investitori istituzionali sanno perfettamente tutto ciò. Il raggiungimento del bilancio in pareggio dell’Italia o degli altri paesi europei non interessa. Ciò che a loro interessa è, in primo luogo, che lo spazio per la speculazione finanziaria rimanga sempre aperto e in secondo luogo che nuova liquidità venga continuamente e costantemente iniettata nel circuito dei mercati finanziari, al fine di accrescere la solvibilità delle transazioni. Infine, in terzo luogo, si vuole che venga garantito il pagamento delle tranches di interessi. La Bce mente sapendo di mentire.

Contro il potere finanziario: diritto al default
La speculazione finanziaria è un meccanismo che nulla ha di parassitario, anzi. Da quando non sono più in vigore gli accordi di Bretton Woods, il potere finanziario stabilisce in modo autonomo e sovranazionale il valore della moneta, sulla base delle gerarchie e delle aspettative che gli speculatori istituzionali di volta in volta definiscono. La pervasività dei mercati finanziari sulla vita economica e sociale degli abitanti della terra (dai contadini del Sud del mondo, agli operai e ai precari dell’Est e dell’Ovest del mondo, dagli studenti ai migranti) è tale che l’accesso a porzioni (sempre più decrescenti) di ricchezza sia condizionato direttamente e indirettamente dagli effetti distributivi e distorsivi che gli stessi mercati finanziari generano. Qui sta il loro biopotere e la loro governance. Ogni euro di plusvalenza generata virtualmente nell’attività speculativa ha effetti reali sull’economia per circa un 30% (secondo i dati della Bri), mettendo in moto un moltiplicatore finanziario che incide direttamente sulle capacità di investimento e di distribuzione del reddito che stanno alla base dell’attuale processo di accumulazione. Tale 30% di fatto è creazione netta di moneta, al di fuori di qualsiasi forma di signoraggio statuale oggi esistente. La produzione di moneta a mezzo di moneta implica una ridefinizione della legge del valore-lavoro e nuove regole di sfruttamento (cfr http://www.ephemeraweb.org/journal/10-3/10-3index.htm) ed è per questo potere che i mercati finanziari sono oggi il centro della valorizzazione.

A fronte di questo contesto, è necessario operare per restringere il campo d’azione dei mercati finanziari: non tramite l’illusione di una loro riforma, ma tramite la costituzione di un contropotere, in grado di erodere la loro efficacia. E’ necessario rompere il circuito della speculazione finanziaria andando a colpire la fonte del loro guadagno, ovvero favorendo la completa svalutazione dei titoli sovrani che sono di volta in volta al centro dell’attività speculativa. Tale obiettivo può essere ottenuto solo tramite uno strumento: il non pagamento degli interessi (o la loro dilazione temporale) e la dichiarazione di default (bancarotta). In tal modo, lo strumento stesso della speculazione verrebbe meno: i titoli sovrani diventerebbero di conseguenza carta straccia, junk bondsGli investitori istituzionali speculano sul rischio di default ma sono i primi a non volere il default. In tal modo, la speculazione non potrà avere come mira il welfare, soprattutto se si perseguisse una strategia di default controllato, ovvero accompagnata, a livello europeo e di concerto con la Federal Reserve, da una politica comune di gestione della crisi, finalizzata non solo a creare un fondo di intervento a sostegno dei paesi in difficoltà , ma soprattutto a emettere Eurobonds in grado di sostituire i titoli sovrani entrati in default a tassi d’interessi fissi (in linea con il Libor, ad esempio), garantendo i rendimenti solo ai titoli in possesso delle famiglie e con interventi di controllo della libera circolazione dei capitali.

Il diktat della Bce, accompagnato dall’immissione di liquidità ex-nihilo, ha come scopo quello di favorire la speculazione, non di contrastarla. Solo il diritto alla bancarotta degli stati europei può rappresentare una prima risposta efficace, da coniugare con la ripresa di un movimento transnazionale europeo che ponga al primo punto la costruzione di un budget fiscale europeo unico, una politica fiscale e di spesa pubblica che travalichi i confini nazionali. I principali punti di una simile strategia programmatica possono essere i seguenti:

  1. Costituzione di un fondo di garanzia europeo finanziato prevalentemente dalla Banca Centrale Europea
  2. Aumento progressivo del contributo di ogni stato europeo (ora all’1% del Pil) per costituire un budget gestito a livello europeo in grado di favorire una politica sociale comune;
  3. L’avvio di piano europeo per la definizione di una politica fiscale comune.

Tali punti rappresentano solo un programma minimo per consentire il passaggio della sovranità fiscale dal livello nazionale e quello europeo e consentire, in tal modo, di porre un contropotere al potere monetario e finanziario oggi dominante. Ma per raggiungere tali obiettivi è necessario che si sviluppino movimenti sociali fra loro coordinati in grado di incidere nello spazio pubblico e comune europeo. Dai sommovimenti ancora nazionali finalizzati a estendere il diritto all’insolvenza è ora di passare, tramite le reti studentesche, dei migranti, dei precari, delle donne, degli “indignati”, al diritto alla bancarotta su scala europea. Perché il diritto alla bancarotta significa ipotizzare che la moneta è un bene comune.

* Collettivo UniNomade, Università di Pavia

Link
Fumagalli: Il diritto al default come contropotere finanziario
Emiliano Brancaccio: “Il pareggio di bilancio non impedirà il default”

Gallino: “Dove prenderà i soldi Obama se resta vincolato al pareggio di bilancio”
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Le banche centrali sono diventate le discariche della finanza tossica

Discariche di rifiuti tossici per il Credito

by Robert Kurz

Testo ripreso da http://francosenia.blogspot.com/2011/08/rifiuti-tossici.html

Chiunque abbia conservato un po’ di capacità di memoria potrebbe essersi chiesto dove sia andata a finire l’enorme massa di crediti irrecuperabili. Questi debiti non sono mai stati pagati e, al contrario, ogni forma immaginabile di debito ha continuato a crescere. Il gioco di far finta di pagare i vecchi prestiti per mezzo di quelli nuovi, e quelli nuovi per mezzo di quelli ancora più recenti, è finito da tempo, nel settore privato. E, a causa della loro enorme grandezza, i famosi “toxic assets” non potevano essere ammortizzati interamente (salvo alcune operazioni cosmetiche fatte dalle banche). Secondo le parole dei guru finanziari, questo avrebbe causato la “fusione del nucleo” del sistema finanziario globale. Ai fini contabili delle banche è stato permesso loro di gettare a mare i rifiuti tossici. Ma nulla è stato detto a proposito della “banche cattive”, che dovevano fare affidamento sulle garanzie statali per compensare temporaneamente il crollo del “sistema bancario ombra” dopo lo scoppio della bolla immobiliare. La speranza ufficiale e l’aspettativa erano che le garanzie statali potessero rapidamente ripristinare la “fiducia” in modo che i titoli, a lungo senza valore, riuscissero ancora una volta a spuntare un prezzo decente. La condizione era che il settore immobiliare statunitense, dove era cominciata la crisi, si riprendesse con forza. Nulla da dire su questo. Ma le garanzie dello Stato non erano pagabili. Non potevano essere pagati, per il semplice motivo che questo avrebbe causato la “fusione del nucleo” nel bilancio statale. Perciò, dove sono andati a finire i rifiuti tossici del sistema finanziario? Sono finiti nella discarica finale: le banche centrali. Come tutti sanno, queste banche stanno attualmente inondando il mondo di dollari, euro, ecc., al fine di dare ossigeno ad un’economia mondiale clinicamente morta. Non sono ancora al punto di stare buttando il denaro con gli elicotteri, ma stanno praticando l’estensione del credito, alle banche commerciali, a tassi di interesse bassissimo, o addirittura senza alcun interesse. Proprio come per ogni prestito, le banche devono fornire “garanzie”. E dove sono queste garanzie? In queste pile di carta tossica, che le banche centrali accettano con gioia, come se fossero gioielli della corona. Nemmeno tre anni sono passati dal crollo dei mercati finanziari, ed ora le finanze pubbliche di un numero crescente di paesi saltano in aria, dopo essere state sovraccaricate di politiche anti-crisi. Fondamentalmente, quello che è successo ai bond privati sta ora succedendo ai titoli pubblici di stato. Un parte crescente, e difficile da controllare, del debito è stata trasferita su bilanci ombra. Come accaduto in precedenza con i mutui per la casa, le partecipazioni al debito sovrano si sono trasformate in rifiuti tossici. E le banche centrali con entusiasmo acquistano anche questi. Allora, le banche asiatiche stanno comprando meno buoni del tesoro degli Stati Uniti? Non importa, dal momento che la stessa Federal Reserve americana se li accaparra, come grano in tempo di carestia. Inoltre, la crisi del debito sovrano europeo avrebbe continuato ad aggravarsi, nonostante tutti i pacchetti di salvataggio, se la Banca centrale europea non avesse cominciato a comprare mucchi di titoli senza valore provenienti dai paesi in crisi. Ironicamente, le banche centrali, guardiane della presunta stabilità finanziaria, sono diventate discariche di rifiuti tossici per il sistema finanziario globale. Sono esse la sede definitiva di questi beni, la loro ultima dimora, perché non esiste nessun ente, che si cela dietro le banche centrali, in grado di liberarle da questo peso. La facciata della normalità eretta dopo il 2008 si basa su un avventurismo politico che ha creato soldi da “garanzie” basate su un debito che non può essere pagato.

Fonte: http://linternationale.blogspot.com/2011/08/real-debt-crisis.html

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Gallino: «Barbarie sociale e recessione, ecco l’effetto della manovra»

Intervista a Luciano Gallino, sociologo, autore di Finanzcapitalismo, Einaudi 2011

Paolo Persichetti
Liberazione 14 agosto 2011


Colpire al cuore lo Statuto dei lavoratori. Questo progetto ultradecennale perseguito con una ferocia ideologica senza pari è forse giunto al suo traguardo. I ripetuti tentativi, sempre falliti o respinti in passato, hanno trovato nel grande golpe della finanza in corso il mezzo per assestare la mossa finale. La misura, richiesta nella lettera della Bce scritta da Mario Draghi, come lo stesso Giulio Tremonti ha lasciato intendere, è stata introdotta nella manovra aggiuntiva del governo in una maniera del tutto subdola e artificiosa. Abbiamo chiesto al sociologo Luciano Gallino, che in un suo lungimirante saggio uscito lo scorso marzo per Einaudi, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, ha descritto l’attuale crisi finanziaria, un giudizio sulle scelte del governo.

Quando parliamo dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (divieto di licenziare senza giusta causa) ci riferiamo ad una norma di legge che sancisce un diritto soggettivo del cittadino lavoratore. Possono le parti sociali espropriare questo diritto della persona derogando la legge con un accordo aziendale? Non si tratta di una elementare violazione della gerarchia delle fonti del diritto? Prim’ancora che incostituzionale sembra l’ennesima alchimia antigiuridica. Una furberia architettata da un malandrino.
Non sono un giurista e lascio a loro una valutazione tecnica sulla questione. Ma come ho detto in una precedente intervista, rimuovere la persona come titolare dei diritti, mettendo invece al centro la prestazione o il contratto, è un aberrazione giuridica, il segno di una forte regressione in direzione di una smodata rimercificazione del lavoro. Sono le persone che hanno titolo, per usare un termine di Amartya Sen, per ottenere reddito o veder difesa la loro dignità.

Cosa accadrà con lo smantellamento dei contratti nazionali e la possibilità di derogare le norme di legge che tutelano i diritti dei lavoratori?
Intanto bisogna vedere come va a finire, manca ancora il voto finale del parlamento. In ogni caso l’idea che il centro della contrattazione debba essere l’azienda significa veramente non rendersi conto di come è organizzata oggi la produzione nel mondo. Si sarebbe dovuto parlare di contrattazione di filiera, di contrattazione estesa alle cosiddette catene di produzione del valore, perché ciò che fa ogni singola azienda dipende da ciò che fanno le aziende a monte e quelle a valle. Praticamente nessuno produce più nulla per intero. Tutto il prodotto, anche il più piccolo elettrodomestico, qualunque tipo di servizio per non parlare dei manufatti più grandi, è composto da centinaia di produttori situati in decine di Paesi diversi. L’idea che si possa contrattare la produttività in una sola azienda significa non aver capito nulla di come da decenni la produzione è organizzata nel pianeta. E poi mi preoccupano due cose.

Quali?
La scelta del governo è regressiva dal punto di vista sociale, civile e giuridico. I governi di destra ci hanno abituato a interventi del genere ma qui si è andati molto oltre. ma c’è ancora di più, questi interventi sono recessivi anche dal punto di vista economico, sono un limite allo sviluppo, alla cosiddetta ripresa. Queste misure non fanno altro che porre le premesse per una recessione che non sarà inferiore a 5-10 anni. Per un Paese che ha già una media di sviluppo dello 0,5% si tratta di un intervento molto ottuso. La fermentazione delle contrattazioni, la disarticolazione dei contratti fa si che a soffrire sarà la stessa produttività, l’organizzazione aziendale, la formazione dei lavoratori. Sono tutte premesse per un peggioramento e un prolungamento della recessione. il ministro Sacconi interpreta gli aspetti più deteriori dell’ideologia neoliberale.

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Gianni Rinaldini: “Cgil stop! Basta Marcegaglia è tempo di rilanciare il conflitto”
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Parla Bernard Madoff: «Le banche e la Sec sapevano tutto» 
Le disavventure girotondine nel mondo della finanza

«Chiudere i paradisi fiscali e abolire la finanza tossica»

Intervista a Pietro Raitano direttore di Altreconomia

Paolo Persichetti
Liberazione 10 agosto 2011

«Siamo di fronte ad un problema di debito totale, non solo finanziario ma anche ecologico. Debito generazionale di un Paese che riesce solo a saccheggiare il proprio territorio ma è incapace d’investire in lungimiranza, ad esempio nella scuola». Pietro Raitano, direttore di Altreconomia, non ne fa una semplice questione di contabilità. Questa crisi mette in discussione un modello di società, in altri tempi si sarebbe detto di sviluppo, termine caduto in disuso per la sua natura ambivalente che suscita critiche. «La crisi che abbiamo davanti viene da lontano: il primo dato è che abbiamo il quarto debito mondiale ma non siamo la quarta potenza economica del mondo, dall’altra con l’incremento del debito crescono anche gli interessi da restituire ed essendo ormai divenuti un Paese vecchio, che non punta più su tecnologia, innovazione e ricerca, vacilla la fiducia sulla nostra capacità di esser solvibili».

Non bastano soluzioni contabili per il declino?
Non si può pensare di continuare a rispondere con la ricetta della crescita ad una crisi della crescita, una crisi di sovrapproduzione. Siamo di fronte ad un sistema economico che non sa più come spendere la propria liquidità. Una liquidità conseguenza anche dello sganciamento avvenuto negli anni 70 della moneta dall’oro. Questa liquidità ha creato una bolla gigantesca su tutti i comparti del mercato finanziario, dall’immobiliare all’energetico, che adesso sottrae risorse. Ma lo fa con un ritardo clamoroso perché ormai siamo abituati a quel denaro, ci contiamo anche se non c’è più. E così siamo giunti alla resa dei conti. Bisognerebbe invece investire sulla lungimiranza: efficienza energetica, fonti rinnovabili, tecnologia. Uno studio della Banca d’Italia ha dimostrato che investire sulla scuola porta un rendimento del 7%. Valorizzare le nostre risorse rilanciando la filiera corta agroalimentare.

Che ruolo svolgono i mercati in questa crisi?
Tutta l’attenzione è concentrata sui famosi umori dei mercati, tanto che ci dicono “bisogna ristabilire la fiducia degli investitori”. Ma chi sono questi mercati? Il 53% degli scambi a Wall street sono fatti in regime di high frequency trading (hft), cioè di scambi iperveloci, si tratta di algoritmi matematici gestiti da computer. Attenzione dunque, la finanza sta diventando qualcosa di differente da un gruppo di persone che investe del denaro. Abbiamo a che fare con un sistema che non ha più legami con l’economia reale.

Però dietro ai programmi di calcolo c’è sempre la mano dell’uomo. Dunque è un problema di logica?
Quella stessa per cui se una una banca è ritenuta troppo grande per fallire si deve immediatamente intervenire per sostenerla mentre per gli Stati si può contemplare l’idea che possono andare in default. Con molto ritardo si è intervenuti in favore della Grecia e dell’Italia. Per giunta la Bce al posto del fondo salva Stati non ha fatto altro che emettere altri bond. E’ un po’ paradossale che si risponda ad una crisi finanziaria con la finanza. La traduzione di tutto questo è molto semplice: come ha chiesto la Bce al governo, avremo meno servizi e dovremo pagarli di più, avremo meno pensioni e dovremo lavorare maggiormente. Si spalmerà  sulla popolazione l’incapacità del governo e più in generale dei governi internazionali di fronteggiare la rapacità del sistema economico finanziario.

Cosa servirebbe?
La patrimoniale, non è più tollerabile che venga tassato sempre di più il lavoro quando chi specula in borsa paga un’imposta del 12%, se non nasconde addirittura i suoi profitti nei paradisi fiscali. Quei paradisi dove anche le nostre aziende di Stato hanno insediato delle società. Un fatto inaccettabile. Non crederò mai alla possibilità di risolvere questa crisi senza avere prima messo mano  a livello internazionale almeno a due operazioni: abolizione totale dei paradisi fiscali; abolizione di quegli strumenti finanziari deleteri come alcuni derivati, tipo i credit default swap (cds) che permettono di scommettere sui fallimenti degli Stati. C’è chi guadagna sul fatto che ad un certo punto in Italia si privatizzi l’acqua, non ci siano sono più asili e si vada in pensione a 75 anni. Questo è un clamoroso furto nei confronti delle popolazioni a favore di una minoranza di alcune centinaia di speculatori. Ci potrà salvare solo un sistema economico basato sulla sobrietà, sulla sostenibilità e sulla distribuzione del potere che non permette accumulazioni di ricchezza in poche mani.

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Gianni Rinaldini: «Cgil stop. Basta Marcegaglia, è tempo di rilanciare il conflitto»

L’intervista al responsabile dell’opposizione interna della Cgil: «Siano di fronte ad una crisi che ricorda quella del ’29. Basse retribuzioni, precarietà di massa e smantellamento dello stato sociale. Non si può uscire dalla crisi rilanciando questo modello sociale»

Paolo Persichetti
Liberazione 7 agosto 2011

«Questa crisi è paragonabile solo a quella del 1929. Sono saltati interi equilibri internazionali. Non esiste più un sistema monetario internazionale fondato sul dollaro. Oggi è tutto rimesso in discussione». Gianni Rinaldini ce l’ha in particolare con la miopia generale dimostrata di fronte alla natura della crisi dei mercati finanziari. «Penso proprio che ci sia un deficit di analisi», sostiene.

Sia il ministro degli esteri che il direttore della banca centrale della Cina, dirigenti espressi dal partito comunista, sono saliti in cattedra spiegando a Stati uniti e Unione europea come ci si deve comportare nel mercato capitalista. D’accordo, in Cina ormai vige il “socialismo di mercato”, un ibrido che sembra particolarmente adatto agli animal spirits del capitalismo più brutale. Nonostante ciò questa sortita ricorda il mondo rovesciato di Alice nel “Paese delle meraviglie”. Non è un paradosso?
Secondo me fa parte della situazione che stiamo attraversando. Credo proprio che ci sia un deficit di analisi rispetto ad una crisi come quella attuale. Come non vedere che l’Europa così come è stata costruita non sta più in piedi e che per riuscire a salvarne l’idea bisogna ridiscuterne le caratteristiche stesse? Pensare che questa crisi si possa risolvere adottando alcune misure per poi riprendere tutto come prima, significa non avere capito niente. Questa è la crisi innanzitutto del modello sociale che si è affermato nel corso degli ultimi decenni, fondato sulle basse retribuzioni, la precarizzazione di massa e lo smantellamento dello Stato sociale. Se non si cambia indirizzo la crisi si aggraverà sempre di più. Il compito della sinistra e della Cgil è quello di essere riferimento e punto di aggregazione di un’altra idea di uscita dalla crisi. Non si può continuare a ragionare come se si fosse in una normale trattativa sindacale dove occorre trovare dei punti di mediazione. Se sinistra e sindacato non scelgono di svolgere questo ruolo il disagio sociale si esprimerà in altri forme e modi. Il disagio sociale può andare da qualsiasi parte.

In questo bisogno di rifondare il progetto europeo intravedi anche la necessità di riformare i mercati finanziari? Ormai sono in molti, anche tra gli stessi analisti della stampa borghese, a ritenere il comportamento dei mercati, una sorta di prateria sconfinata senza argini e confini dove si pratica il far west, uno dei fattori scatenanti di questa crisi. Sono finite sotto tutela le sovranità nazionali. La stessa volontà elettorale non conta nulla di fronte ai listini e ai voti delle agenzie di rating, diventati i veri grandi elettori del globo.
Non c’è dubbio. Bisogna fare come quando si mise mano alla crisi del ’29 rifondando il sistema bancario. Altrimenti tutte le cose che si sono dette fino adesso sono soltanto propaganda. La realtà è però un’altra e tutto continua ad andare avanti come prima. L’unica variabile su cui si agisce è quella dei dei lavoratori: ridurre le retribuzioni e i diritti, aumentare la precarietà di massa. Si agisce allo stesso modo ovunque nei Paesi di vecchia industrializzazione, come Europa, Giappone e Stati uniti. Paradossalmente ciò che viene proposto è l’assunzione del modello sociale americano (dove il contratto nazionale non esiste e manca uno stato sociale), in un momento in cui gli Usa stessi sono uno dei soggetti scatenanti della crisi.

Prima i sei punti siglati nel documento unitario delle parti sociali, poi l’annuncio del governo di una nuova manovra che anticipa di un anno il pareggio di bilancio, addirittura il progetto di iscrivere questo comandamento della teologia  monetarista nella costituzione insieme alla riforma dell’articolo 41, per stabilirvi nuovi principi che legittimino la ferocia sociale dell’iperliberismo, infine l’attacco allo statuto dei lavoratori. Siamo di fronte ad una micidiale manovra a tenaglia?
E’ inquietante il fatto che ci si trovi di fronte alla Marcegaglia che parla anche a nome delle organizzazioni sindacali sulla base di un documento sottoscritto da banchieri e imprenditori. Credo che una cosa di questo genere non sia mai successa.

Sì, ai tempi del corporativismo fascista.
Nella Cgil tutto ciò sta avvenendo senza un mandato specifico mentre i contenuti dei sei punti sono l’opposto di quello che si è discusso. E’ necessario  sospendere immediatamente gli incontri previsti. Siamo in una situazione di assoluto arbitrio. Quanto all’azione del governo si prefigura un’operazione di massacro sociale, non solo dal punto delle condizioni materiali di vita ma anche di ridefinizione delle relazioni sociali e dell’assetto democratico del Paese. Pensare di uscire dalla crisi di questo modello sociale rilanciando lo stesso modello sociale è pura follia.

Sono state riconvocate le Camere, pensate di presentarvi sotto Montecitorio?
Bisogna convocare gli organismi dirigenti, prendere atto che la strada intrapresa ci ha portato in una situazione inaccettabile e decidere proposte, iniziative e mobilitazioni da mettere in campo per contrastare le scelte del governo. La Cgil deve aprire una fase di grande mobilitazione, di grande conflitto generale che abbia come riferimento le condizioni dei lavoratori e degli strati sociali più deboli per tentare di impedire che vada avanti questa operazione.

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I signori della borsa: quei terremoti nei mercati finanziari creati ad arte dagli speculatori

Non esiste una finanza buona e una cattiva. Anche i fondi sovrani e i fondi pensione ricorrono alla speculazione per avere profitti immediati

Paolo Persichetti
Liberazione 22 luglio 2011

Di fronte all’ennesima tempesta che si è abbattuta sui mercati finanziari sono state riproposte grosso modo due chiavi di lettura. La prima, sostanzialmente assolutoria nei confronti dei circuiti borsistici, si ispira alla teoria liberista che postula la piena efficienza dei mercati finanziari. La ricerca sfrenata di ricchezza privata che muove le speculazioni borsistiche – sostengono i paladini di questa posizione – non entrerebbe in contrasto con l’interesse generale delle economie dei vari Paesi, perché il principio di concorrenza sarebbe in grado di generare delle mediazioni finanziarie efficaci. Insomma il giudizio dei mercati non si discute poiché sarebbe il solo in grado di produrre soluzioni razionali e performanti capaci di offrire quella liquidità monetaria indispensabile agli Stati per finanziare il debito pubblico interno. Più che una filosofia siamo di fronte ad una teologia che introduce nei fatti un nuovo fondamento della sovranità. Le implicazioni collegate a questo assunto sono gravide di conseguenze importanti. Esse fuoriescono dalla semplice sfera economica per investire dimensioni politico-filosofiche che modificano il funzionamento, oltre che il significato, dei modelli politici pluralisti che per comodità passano sotto il nome di democrazie. In Italia il Pd ha sposato integralmente questa lettura dei fatti cercando nella sanzione espressa dai gruppi speculativi che hanno attaccato i bond governativi una legittimità alla propria candidatura alla guida del Paese. Perplessità sull’operato dei mercati borsistici sono venute, invece, da settori della destra di governo fornendo l’ennesima prova di quel paradossale capovolgimento di senso dei punti cardinali della politica.

L’altra chiave di lettura ricorre, al contrario, alla tesi dell’anomalia dei comportamenti tenuti in Borsa, al mancato rispetto delle regole finanziarie. E’ grosso modo la strada perseguita dalle associazioni che hanno denunciato azioni di manipolazione del mercato, depositando degli esposti presso la magistratura nei quali additano il ruolo ambiguo delle agenzie di rating, ritenute le capofila della filiera speculativa. In questo caso il profitto speculativo, oltre ad essere ritenuto un vettore che provoca danni per la comunità, bruciando risorse, impedendo investimenti keynesianamente virtuosi nel ciclo produttivo, è percepito come immorale. Posizione ideologica che trae legittimità dalla vecchia etica calvinista del capitale e rispecchia gli interessi dei ceti medi, dei piccoli azionisti e risparmiatori vittime delle bufere che traversano i mercati finanziari. Un atteggiamento ammantato d’ipocrisia morale poiché trova al contrario accettabile l’estrazione di plusvalore, la spremitura della forza lavoro umana.

Esiste tuttavia una terza interpretazione che non considera le ricorrenti crisi dei mercati finanziari degli ultimi 30 anni l’effetto di errori, incidenti o comportamenti irrazionali ma il risultato del pieno rispetto del libero gioco borsistico. E’ la tesi sostenuta in particolare da André Orléan, studioso francese di scuola regolazionista, che in un volume apparso nel 2010 (Dall’euforia al panico. Pensare la crisi finanziaria, Ombre corte) ritiene le crisi conseguenza «non del fatto che le regole del gioco finanziario siano state aggirate ma del fatto che sono state seguite». A differenza di quel che accade nell’economia reale, sui mercati finanziari domanda e offerta agiscono in modo diverso, nota l’autore. L’aumento della domanda di un bene non ne fa aumentare solo il prezzo ma anche la richiesta, a causa dei rendimenti accresciuti che lo rendono ancora più attraente. Le crisi, in sostanza, sarebbero il fondamento stesso del funzionamento del sistema borsistico che agisce in modo autoreferenziale, investendo su prodotti finanziari “derivati” alla ricerca di rendimenti decorrelati, cioè sempre più scollegati dall’economia reale. Orléan ne indaga in modo accurato la dimensione ideologica ed emotiva, la rincorsa mimetica dei diversi operatori che suscitano momenti di euforia (da cui fuoriescono la cosiddette “bolle”) e le fasi di panico che caratterizzano la sua strutturale volatilità. La finanziarizzazione dell’economia capitalistica agisce come un continuo processo d’inclusione-esclusione che per certi versi sembra una riedizione continua dell’accumulazione primitiva con i suoi caratteri brutali.

Esistono delle soluzioni? A parte l’oltrepassamento del capitalismo, utili ma non risolutivi sarebbero certamente degli interventi in favore della tassazione delle operazioni borsistiche, la messa al bando di alcuni prodotti finanziari e tecniche speculative. Gran parte del problema tuttavia riguarda il nodo del debito pubblico e del suo finanziamento, attorno al quale ruota – come abbiamo visto – il problema della sovranità. La globalizzazione finanziaria ha tolto agli Stati la capacità di controllo sull’andamento dei titoli un tempo confinati in prevalenza nel mercato nazionale. Le proposte fioccano: separare i circuiti bancari da quelli finanziari, ristabilire in controllo politico sulle banche centrali, favorire un fondo comune europeo per il finanziamento del debito pubblico, liberarsi dalla dittatura delle agenzie di rating, tornare all’economia reale.

2/fine

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Mercati borsistici, dietro l’attacco ai titoli di Stato l’intreccio tra fondi speculativi e agenzie di rating 1/continua
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Mercati borsistici: dietro l’attacco ai titoli di Stato l’intreccio tra fondi speculativi e agenzie di rating

Paolo Persichetti
Liberazione 21 luglio 2011

La magistratura ha cominciato a interessarsi alla “casta” dei mercati finanziari. Parlare di casta, in realtà, è improprio. Anzi per nulla esatto. Si tratta di una concessione all’imperante linguaggio populista. Però in una fase come quella attuale, dove grande è la confusione, una semplificazione del genere può tornare utile per chiarire alcune cose. Per esempio: al cospetto degli «uomini d’oro della finanza-ombra», come li ha definiti recentemente il Sole24 ore, la “casta dei politici” di cui tanto si parla dopo la manovra economica dei giorni scorsi, o quella dei magistrati, visti al contrario come l’alternativa ad un ceto politico autoreferenziale e corrotto, ma ai cui alti stipendi e privilegi di status sono agganciati i compensi dei parlamentari, sono tutto sommato poca cosa. Una realtà subalterna, epifenomeno i cui costi sono inferiori ai milioni di euro bruciati in una sola giornata di speculazioni borsistiche. Come al solito il populismo ha il grande demerito di stornare l’attenzione: si sofferma sul dito e perde di vista la luna; s’indigna per la pagliuzza e non s’accorge della foresta.
Su esplicita richiesta della Consob il procuratore aggiunto della Capitale, Nello Rossi, coordinatore del pool sui reati economici, ha aperto un fascicolo. L’autorità di controllo per le società quotate in Borsa ha inviato anche alla procura di Milano un dossier su quanto accaduto nei mercati finanziari a ridosso del varo della manovra correttiva. Sotto osservazione il comportamento tenuto dalle due maggiori agenzie di rating, Moody’s e Standard and Poor’s, nelle giornate più critiche della crisi borsistica, il 24 giugno, l’8 e l’11 luglio scorsi. Nel rapporto la Consob propone un’analisi complessa di quanto accaduto, identificando diverse cause che agendo congiuntamente avrebbero provocato una serie di movimenti anomali e il crollo dei titoli. Tra questi, alcuni ordini cospicui di “vendita allo scoperto”, a cui avrebbero fatto seguito una cascata di ordini automatici di vendita al ribasso, predeterminati sulla base di programmi informatici di acquisto e vendita gestiti da computer. Ad uno stato più avanzato è invece l’inchiesta condotta dal pm di Trani, Michele Ruggiero, che si è attivato dopo le denuncie presentate da Elio Lannutti, presidente di Adusbef, e Rosario Trefiletti della Federconsumatori, nelle quali si profilano i reati di insider trading e market abuse (manipolazione del mercato) e si chiede il blocco delle diverse tipologie di “vendita allo scoperto”. «Tutti sanno bene – affermano in un comunicato stampa Lannutti e Trefiletti – che la speculazione deriva soprattutto da fondi inglesi ed americani. In realtà lo sa anche la Consob, che interfacciandosi con Borsa Italiana (che ha i tabulati di tutte le contrattazioni) ben vede chi sono gli speculatori». I responsabili di Adusbef e Federconsumatori rompono un tabù, dicono ad alta voce quello che sanno tutti gli addetti ai lavori. il Sole24 ore del 10 luglio fa i nomi di alcuni hedge fund, confermati anche dal Financial Times, i super fondi speculativi ad alto rischio che hanno come propria ragione sociale il ruolo di corsari dei mercati borsistici e che nei giorni della manovra stavano vendendo importanti quote di titoli governativi italiani per comprare “credit default swap”, ovvero speciali polizze assicurative che proteggono dal rischio di default. Cosa significa?
Che alcuni potenti fondi speculativi specializzati nell’arricchimento attraverso la variazione dei prezzi futuri hanno deciso di guadagnare su un’operazione al ribasso dei titoli pubblici italiani. «Offrono al prezzo di oggi – ha spiegato Francesco Gesualdi sul manifesto del 17 luglio – titoli che si impegnano a dare fra una settimana, un mese o altra data futura». L’azzardo, e soprattutto il trucco, stanno nel fatto che questi fondi non possiedono ancora i titoli che offrono. Il mercato speculativo vende fuffa. Aspettative spacciate per previsioni razionali. La scommessa su cui si fonda l’intera operazione speculativa sta nel provocare un forte ribasso del prezzo dei titoli promessi quando il loro valore era più alto, in modo da poterli acquistare al momento del loro costo più basso e guadagnare sul differenziale. Ovviamente perché ciò sia possibile occorre saper manovrare in modo da orientare il mercato, influenzare le fonti d’informazione, attuando attacchi concentrici, movimenti di panico, giocando anche sugli automatismi tecnici. Una somma di fattori che fanno aperto ricorso a tecniche manipolative del mercato e alla raccolta e controllo di notizie riservate. Il confine con l’aggiotaggio e l’insider trading è praticamente impercettibile, anzi nullo se si tiene conto del livello di connivenza già accertata in passato tra operatori dei fondi speculativi e vertici delle grandi corporation. Un recente verdetto della corte federale di Manhattan ha evidenziato la natura sistemica di questa collusione che vedeva nel libro paga del fondo Galleon un consigliere d’amministrazione di Goldman Sachs, un alto funzionario della Ibm, un consulente della McKinsey. Visti con la lente d’ingrandimento i mercati si dematerializzano, perdono il loro vantaggioso anonimato. Dietro l’astrazione dei rapporti sociali capistalistici emerge un brullichio d’attori animati da spietati interessi, ambizioni, una sfrenata sete di ricchezza. Dove sta scritto che devono essere loro i nuovi detentori della sovranità?

1/continua

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I signori della borsa: quei terremoti nei mercati finanziari creati ad arte dagli speculatori/2 fine
Il sesso lo decideranno i padroni: piccolo elogio del film Louise-michel
Cometa, il fondo pensioni dei metalmeccanici coinvolto nel crack dei mercati finanziari
Parla Bernard Madoff: «Le banche e la Sec sapevano tutto» 
Le disavventure girotondine nel mondo della finanza

Le disavventure girotondine nel mondo della finanza

Truffa dei Parioli, il guadagno facile che “incanta” anche a sinistra

Paolo Persichetti
Liberazione 8 aprile 2011

Quello che più colpisce del raggiro finanziario messo in piedi da Gianfranco Lande, un po’ troppo velocemente ribattezzato il “Madoff dei Parioli”, vicenda sulla quale si sono dilungate le cronache dei giorni scorsi, non è tanto lo schema truffaldino messo in piedi quanto il profilo di alcune delle vittime, quasi 1200, finite nella rete. La tecnica utilizzata da Lande e dai suoi sodali finiti a Regina Coeli insieme a lui, attraverso alcune società costituite inizialmente in Paesi europei dove vige una larga deregulation finanziaria, come l’Irlanda e la Gran Bretagna, riprende la tecnica resa celebre negli Stati uniti all’inizio del secolo scorso dal migrante italiano Charles Ponzi. Si tratta del vecchio trucco della piramide: attraverso la promessa di guadagni rapidi e lucrosi, grazie a interessi sugli investimenti vertiginosi, si rastrella denaro. Il segreto è quello di trovarsi sempre al vertice della piramide ed aspettare che questa allarghi la sua base. L’afflusso di denaro dei nuovi clienti permette di remunerare i lauti interessi promessi ai primi. Lo schema regge finché la base della piramide continua ad allargarsi, poi crolla tutto. Nel frattempo i promotori della truffa scappano con la cassa. Ponzi reclutava le sue vittime tra gli altri immigranti e nei ceti popolari. Con appena due dollari si entrava nella società. In questo modo raccolse diversi milioni di dollari truffando quasi 40 mila persone.
Bernard Madoff, che è stato presidente del Nasdaq, il listino più importante nel mercato degli affari degli ultimi decenni, è riuscito a condurre fino al sublime questo modello attirando nella sua rete non singoli clienti ma i maggiori istituti finanziari del mondo. L’entità della truffa stavolta è stata dell’ordine dei miliardi di dollari, oltre 50. Addebitare a lui il crack della finanza internazionale sarebbe comunque un errore anche se la giustizia americana ne ha fatto un capro espiatorio. Ceti medi in rovina e grande borghesia avevano bisogno di un colpevole. Ma la bolla del mercato immobiliare statunitense, da cui hanno avuto origine i “derivati finanziari” utilizzati dai fondi speculativi che hanno invaso la finanza mondiale dopando l’economia, il debito pubblico di molti Paesi, persino quello di regioni e comuni in Italia, non sono certo riconducibili all’azione di un singolo attore. Il problema evidentemente investe l’evoluzione sistemica del capitalismo.
Lande, molto più modestamente, ha beffato il gotha della Roma pariolina, quartiere d’eccellenza della Capitale. Ma anche qui ridurre tutto ad una semplice truffa è forse fin troppo riduttivo. Lande e i suoi associati hanno certo agito fraudolosamente con società non autorizzate alla raccolta del risparmio, ma la loro azione illecita ha trovato spazio nelle maglie per nulla illegali della finanza internazionale. Il denaro dei loro clienti veniva investito in portafogli finanziari di varia natura, con l’arrivo dello scudo fiscale di Tremonti, Lande ha avuto l’occasione di creare una nuova società, questa volta autorizzata a raccogliere risparmio, che si è occupata di riportare in Italia i capitali precedentemente trasferiti all’estero al nero per convogliarli in nuovi investimenti dai contorni incerti, finché il crack della finanza internazionale ha accelerato il crollo di tutta l’architettura finanziaria messa in piedi.
Molto più interessante appare invece il profilo socio-culturale dei truffati, tra vip, imprenditori, politici (diversi piddini), calciatori e persino affiliati del clan Piromalli, si annidano alcune figure di punta del fronte girotondino che hanno promosso in chiave essenzialmente moralista l’antiberlusconismo nell’ultimo decennio. Spicca il nome di Sabina Guzzanti (400 mila euro persi), a dire il vero, fatta eccezione per Corrado, c’è l’intera famiglia: padre (275 mila) e sorellina più piccola (88 mila). Significativo il coinvolgimento dei Piromalli, esponenti di un noto clan della ‘ndrangheta calabrese, arrestati per estorsione su denuncia di un terrorizzato Lande perché cercavano di recuperare i 14 milioni versati, mentre erano loro i truffati. Circostanza che sfata molti luoghi comuni sul libìvello d’integrazione delle organizzazioni criminali con i “terzi e quarti livelli” finanziari. Ma forse ancora più decisive appaiono le parole di Mario Adinolfi, il bloger già candidato alle primarie dell’Ulivo, anch’egli esponente della galassia girotondina, che i suoi soldi li ha recuperati per tempo guadagnandoci un bel gruzzolo. Come ha spiegato in una intervista al Messaggero, aveva capito che non bisognava essere tra gli ultimi della piramide. A leggerlo, anche lui tra i più accesi antiberlusconiani, sembra di sentire invece uno dei tanti yesmen di Arcore: «Sono uno dei pochi che ha vinto», esulta. Quando il cavaliere entrava in politica Adinolfi affidava il suo denaro a Lande, «tra il ’94 e il ’95 credo. Ho tenuto i soldi “fermi” per quattro anni e già mi sembrava tantissimo». Adinolfi non è fesso, capisce l’antifona e chiede in dietro il suo investimento. E’ presto e la base della piramide si sta ancora allargando, per lui è una fortuna. Si è studiato bene la questione, come confessa sempre al quotidiano romano, dove conclude: «ho avuto indietro il denaro e gli interessi. E’ andata molto bene». Pecunia non olet si sa.
Questa vicenda mette in mostra l’essenza dei protagonisti girotondismo, l’indignazione moralista dei salotti che dietro le virtù pubbliche declamate cela gli stessi vizi privati del berlusconismo. In pubblico se la pigliano con il Cavaliere e i suoi loschi affari ma in privato tentano di fare la stesa cosa, anche se poi non ci riescono solo per imperizia delle membra. Dove sta la diffrenza?

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Parla Bernard Madoff: “Le banche e la Sec sapevano tutto”
Il sesso lo decideranno i padroni, piccolo elogio del film Louise Michel
Cometa, il fondo pensioni dei metalmeccanici coinvolto nel crack dei mercati finanziari
Populismo penale

Parla Bernard Madoff: «Le banche e la Sec sapevano tutto»

Nell’intervista Madoff sostiene che i mercati finanziari ferano assolutamente al corrente della sua attività. Insomma par di capire che nel mondo della finanza vige una regola molto chiara: quando le speculazioni, anche le più avventate, vanno bene sei un grande broker. Se finiscono male diventi uno speculatore. La borghesia è inesorabile con chi brucia i propri capitali

Nicol Degli Innocenti
Il sole 24 ore 10 aprile 2011

LONDRA – Bernard Madoff è l’unico colpevole, ma tanti altri intorno a lui hanno peccato di omissione scegliendo di non vedere, non controllare, non verificare. L’ex finanziere americano responsabile della gigantesca frode da 65 miliardi di dollari sa di non avere nulla da perdere e così ha deciso di rivelare la sua verità, sparando a zero sulle banche, sulle autorità di controllo dei mercati e su alcuni ex collaboratori, tutti, a suo dire, complici silenziosi.
In un’intervista al Financial Times dal carcere del Nord Carolina dove sconta la condanna a 150 anni e dove molto probabilmente morirà, il 72enne Madoff ammette le sue colpe ma lancia anche molte accuse. «Nulla di quanto affermo deve essere considerato una giustificazione del mio comportamento, – dice il finanziere. – Mi assumo piena responsabilità per quello che ho fatto, ero pienamente conscio delle mie azioni». Azioni che lo hanno portato a mentire alla famiglia e agli investitori, creando il «Ponzi scheme» piú complesso mai realizzato, che usava i depositi dei nuovi clienti per pagare ricchi interessi (10% garantito) ai vecchi investitori.
Per almeno sedici anni Madoff ha mantenuto in piedi un castello di carta ingannando tutti: dalla moglie, conosciuta ai tempi dei liceo, fino all’ultimo investitore che gli aveva affidato i risparmi. Poi nel dicembre 2008, di fronte all’obbligo di rimborsare 7 miliardi di dollari che non aveva, l’improvvisa e drammatica decisione di confessare tutto e, ammette ora Madoff, togliersi un «peso insopportabile. Vorrei che mi avessero preso prima».
Fatto il mea culpa, Madoff passa all’attacco. Innanzitutto le banche: JP Morgan in primis, che gestiva i conti correnti della sua società, aveva a disposizione tutte le informazioni per individuare la frode o perlomeno avere qualche sospetto. «Non sono un banchiere, ma so che movimenti da 100 miliardi di dollari in entrata ed uscita da un conto dovrebbero metterti sul chi vive, – afferma il finanziere. – JP Morgan aveva tutte le note di pagamenti. C’erano dirigenti della banca che sapevano cosa stava succedendo». Madoff prevede che la causa intentata quattro mesi fa contro JP Morgan dal curatore fallimentare Irving Picard (la banca nega ogni addebito) finirà con la richiesta di restituzione di fondi per 6,4 miliardi di dollari o perlomeno con «un sostanzioso patteggiamento». Anche Hsbc e Ubs, altre due banche a cui Picard ha fatto causa, «avranno grossi problemi», secondo Madoff. Ubs sostiene di non avere mai avuto sospetti di illeciti e Hbsc sottolinea di avere perso 1 miliardo a causa della frode.
Madoff punta il dito anche contro le autorità di controllo, che «passano troppo tempo a inseguire piccole infrazioni e nessuno a seguire le grandi aziende e le banche di investimento». La Securities and Exchange Commission (Sec) ha ricevuto sei denunce su Madoff, una che lo accusava di gestire un Ponzi scheme, ma le indagini di circa cento esperti non hanno portato a nulla perché, secondo il finanziere, «la mia era considerata una società modello». Quanto a Price Waterhouse, afferma Madoff, «venivano nel mio ufficio una volta all’anno a fare tutti i controlli».
Infine, il finanziere non risparmia quattro dei suoi maggiori investitori, i primi ad affidargli i loro soldi, tre dei quali sono morti negli ultimi anni. «Erano complici, tutti quanti» e soprattutto «erano avidi». L’avvocato di Carl Shapiro, l’unico dei quattro ancora in vita, ribatte che «Madoff è un bugiardo». Il finanziere non porta prove ma fa solo affermazioni pressoché impossibili da verificare. Peró dipinge un mondo in cui la reputazione conta piú dei fatti e dove in pochi capiscono i complessi sistemi di investimento basati su algoritmi elaborati da computer, ma tutti sono lieti di non fare troppe domande se ricevono rendimenti a due cifre.