Chi ha ucciso Mara Cagol? Indagato nella nuova indagine sulla sparatoria alla cascina Spiotta di 48 anni fa, Curcio chiede verità sulla uccisione della moglie

«Prima uccidono la moglie poi vogliono indagarlo», si riassume in queste poche parole l’iscrizione nel registro degli indagati da parte della procura torinese di Renato Curcio, tra i fondatori della Brigate rosse: 82 anni, 25 passati in carcere di cui 12 nel circuito di massima sicurezza, per lunghi periodi in articolo 90, il regime antesignano dell’attuale 41 bis.
I magistrati torinesi hanno riaperto le indagini su una sparatoria avvenuta 48 anni fa davanti alla cascina Spiotta di Arzello, in provincia di Alessandria, dove la colonna torinese delle Brigate rosse aveva nascosto da appena 24 ore, dopo averlo rapito, l’industriale dello spumante Vallarino Gancia, scomparso lo scorso 14 novembre 2022.

La sparatoria
All’arrivo di una pattuglia dei carabinieri in perlustrazione nella zona si scatenò un conflitto a fuoco tra due brigatisti, un uomo e una donna, che custodivano l’ostaggio e i militi dell’arma. Nello scontro morì l’appuntato Giovanni D’Alfonso e rimase gravemente ferito il tenente Umberto Rocca e più leggermente il maresciallo Rosario Cattafi. La donna, Mara Cagol, ferita e seduta a terra ormai disarmata, venne uccisa in circostanze mai chiarite con un colpo sotto l’ascella. L’altro brigatista riuscì a fuggire in modo rocambolesco lanciandosi in un boschetto circostante e facendo perdere le proprie tracce. In una relazione, poi ritrovata all’interno della base di via Maderno a Milano, dove Curcio si nascondeva dopo l’evasione dal Carcere di Casale Monferrato, il brigatista fuggito e mai individuato raccontava la sua versione dei fatti spiegando di aver visto Mara Cagol ancora viva dopo essersi lanciato nel bosco. Nascosto nella boscaglia aveva scorto la donna seduta a terra con le mani alzate che si rivolgeva al quarto carabiniere, l’appuntato Pietro Barberis, rimasto di copertura in fondo al viottolo che portava alla cascina. Ecco il suo racconto:

«Urlai a M. Di svignare e corre verso il bosco. Mentre correvo zigzagando nel campo, sentii tre colpi attorno a me. Riuscii ad arrivare al bosco e con un tuffo mi buttai nella macchia piena di spini. Di sopra sentivo la M. che urlava imprecando contro i Cc. Presi l’altra Srcm dalla tasca e pensai di centrare il Cc. Mi affacciai dalla buca e vidi la M. seduta con le braccia alzate che imprecava contro il Cc. Nel vedere la M. Ancora seduta e la mia impossibilità di arrivare a tiro decisi di sganciarmi velocemente, pensando che i rinforzi sarebbero arrivati a minuti. Corsi giù per il pendio e quando stavo per arrivare dall’altra parte della collina, vicino ad un bosco sotto il castello (saranno passati cinque minuti dal momento della mia fuga), ho sentito uno, forse due colpi secchi, poi due raffiche di mitra. Per un attimo ho pensato che fosse stata la M. a sparare con il suo mitra, poi ebbi un brutto presentimento…».

Il confidente della Ferretto
In via Maderno i carabinieri erano arrivati grazie al ruolo di un confidente, un operaio interno all’Assemblea autonoma di Porto Marghera, un ex della Brigata Ferretto (antesignana della colonna veneta della Br) “gestito” dal Centro Sid di Padova tra il 1975 e il 1976. Il confidente fu all’origine di molti arresti: oltre a Nadia Mantovani e Renato Curcio, fece catturare lo stesso giorno Angelo Basone e Vincenzo Guagliardo. Le sue soffiate provocarono la caduta di diversi militanti Br di Porto Marghera; fu sempre lui a consegnare ai carabinieri Giorgio Semeria che dal Veneto rientrava a Milano. E probabilmente la necessità di coprire questa fonte molto importante per l’efficacia dimostrata giustificò il tentativo di omicidio di Semeria al momento della sua cattura sulla banchina della stazione centrale.

Quarantotto anni dopo
Le nuove indagini sono partite proprio dal testo del brigatista superstite, cercando di individuare impronte e tracce di dna presenti sui fogli dattiloscritti e sulla macchina da scrivere impiegata, ritrovata sempre nella base di via Maderno.
Sono stati ascoltati come testi informati dei fatti molti ex brigatisti della prima ora ma nessuno ha fornito elementi utili all’inchiesta: c’è chi si è avvalso della facoltà di non rispondere, chi ha richiamato la compartimentazione, chi era già in carcere o apparteneva ad altre colonne non coinvolte nel sequestro. In un primo momento anche Curcio è stato ascoltato come teste ma lo scorso 20 febbraio è stato convocato una seconda volta come indagato per il reato di concorso in omicidio, in ragione della sua «figura apicale» all’interno dell’organizzazione brigatista. Posizione che lo avrebbe reso responsabile delle direttive fornite ai militanti che hanno materialmente condotto il sequestro e gestito l’ostaggio, tra cui quella che prevedeva in caso di avvistamento del nemico di sganciarsi prima del suo arrivo e se colti di sorpresa «ingaggia[r]e un conflitto a fuoco per rompere l’accerchiamento». Passaggio ripreso da un numero del giornale Lotta armata per il comunismo del 1975, senza firma.

Premeditazione
Sulla base del principio giuridico del «dolo eventuale» e di una estensione iperbolica del concorso morale, i tre pubblici ministeri che conducono l’inchiesta hanno ritenuto Curcio responsabile dei fatti accaduti che egli in qualche modo avrebbe messo in conto, ivi compreso a questo punto non solo la morte dell’appuntato D’Alfonso e il ferimento degli altri carabinieri ma anche la morte della moglie. Circostanza che in passato aveva giustificato il mancato approfondimento della vicenda. Gli organi di polizia, infatti, avevano preferito glissare sull’identità mai accertata del brigatista fuggito per evitare di attirare l’attenzione sulla reale dinamica della morte della Cagol, episodio che all’epoca suscitava ancora dell’imbarazzo tra le fila dell’antiterrorismo.
Eravamo nel 1975, lontani da quel 1980 quando nella notte del 28 marzo i carabinieri non esitarono ad infliggere il colpo di grazia alla nuca ai quattro brigatisti presenti nella base di via Fracchia a Genova, dove avevano fatto irruzione sorprendendoli nel sonno. Tra di loro c’era anche la giovane proprietaria dell’appartamento, Anna Maria Ludman.

Una cattivo sempre utile per tutte le stagioni
La nuova indagine è scaturita da un esposto presentato da Bruno D’Alfonso, figlio dell’appuntato deceduto nello scontro a fuoco, anche lui carabiniere, dove si chiedeva di fare luce sulla identità del brigatista sfuggito alla cattura. L’esposto, realizzato dopo anni di ricerche personali sulla vicenda, ha ispirato la realizzazione di un volume, Brigate rosse – L’invisibile, scritto da Berardo Lupacchini e Simona Folegnani, edizioni Falsopiano. I due autori si dicono convinti di aver individuato con la loro ricerca l’identità dell’«invisibile» nella persona di Mario Moretti, azzardando sulla base di una ricostruzione alambiccata e l’uso del termine «presa» per indicare la cattura dell’industriale Gancia, utilizzato nel rapporto trovato nella base di via Maderno e «diciotto anni dopo nel libro firmato da Moretti», l’individuazione della prova che incastrerebbe quest’ultimo. Certi della solidità della loro prova i due autori ispirati dalle sirene franceschiniane si dilungano nel tratteggiare un presunto movente che avrebbe guidato il comportamento senza scrupoli del cattivissimo Moretti: ormai al riparo nella folta vegetazione un subitaneo pensiero, una preveggenza strategica, l’avrebbe indotto ad abbandonare Mara Cagol al suo destino per prendere così il suo posto alla guida dell’organizzazione. Una quadra della vicenda che ha entusiasmato il giudice Salvini nel corso din una presentazione del volume avvenuta su Fb.
I giudici torinesi non sembrano tuttavia aver apprezzato molto il suggerimento indirizzandosi verso altre strade.

La memoria difensiva
In una memoria molto dettagliata Curcio ha spiegato che in quel periodo, successivo all’evasione dal carcere di casale Monferrato, per ragioni di sicurezza non era più organico ad alcuna colonna e dunque all’oscuro delle singole operazioni che queste portavano avanti. Ha ricordato che nelle Brigate rosse non esistevano ruoli apicali e militanti subalterni. Ha chiesto poi che le nuove indagini facessero finalmente luce sulle circostanze della morte della moglie, Mara Cagol, facendo leva sul referto autoptico che riferiva del colpo mortale portato sotto l’ascella della donna.

Lo stratagemma per evitare la prescrizione
L’accusa così formulata a Curcio serve soprattutto a puntellare un fondamentale requisito giuridico necessario per scongiurare la prescrizione dei reati maturata da lungo tempo, e dunque l’improcedibilità: la premeditazione. L’invenzione della presenza di una direttiva generica tratta dalla citazione di un foglio d’area, la cui paternità viene attribuita a Curcio eletto “monarca assoluto” delle Brigate rosse in spregio alle conoscenze storiche sul funzionamento di quella organizzazione, serve a creare la presenza della premeditazione in una vicenda del tutto occasionale, dove è la stessa dinamica dei fatti e il racconto del superstite sfuggito a dimostrare che i brigatisti non si accorsero dell’arrivo della pattuglia e reagirono in modo del tutto impreparato e confusionario.

Sciacalli e agnelli, le mail di Fioravanti-Mambro a Anna Di Vittorio e Giancarlo Calidori sulla strage di Bologna /1

E’ nell’aprile del 2012 che l’allora parlamentare ex Msi Enzo Raisi, poi An e Fli, accenna per la prima volta al «ragazzo di Autonomia operaia» morto nella strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Nella intervista rilasciata a Gilberto Dondi sul Resto di Carlino quel giovane non veniva descritto come una vittima della esplosione ma come un possibile complice del massacro. Raisi fondava la sua convinzione sulla base di alcune testimonianze provenienti dall’interno dell’istituto di medicina legale bolognese. Tre medici che prestavano servizio nell’obitorio della città gli avevano riferito che nei giorni successivi all’esplosione due giovani erano entrati nell’istituto per visionare i corpi delle vittime ma giunti davanti al volto del presunto autonomo erano fuggiti immediatamente. I tre medici non erano presenti ma seppero dell’episodio anni dopo da Piergiorgio Sabattani, il primario che raccontava di essere corso dietro i due fuggitivi rimasti ignoti: una ragazza e un giovane dalle sembianze mediorientali, assieme al brigadiere Giancarlo Ceccarelli, morti entrambi nel frattempo e dunque nella impossibilità di confermare. Eppure in un istituto di medicina legale non si entra per effettuare delle ricognizioni senza declinare le proprie generalità.

Voci d’obitorio
Con una formula retorica Raisi si interrogava sull’identità dei due fuggiaschi ma subito dopo lasciava intendere di aver già trovato una risposta quando aggiungeva: «perché il giovane di Autonomia aveva in tasca un biglietto della metropolitana di Parigi, città dove all’epoca viveva Carlos?». Sei giorni dopo fu ancora più preciso rivelando il nome di Mauro Di Vittorio che da quel momento divenne «l’autonomo romano», su cui sarebbe ricaduto il sospetto di essere l’autore della strage. Si capì molto presto che quella identità politica era posticcia e la storiella dell’obitorio completamente falsa. Quella scena era presente in un romanzo di Loriano Machiavelli, uscito nel 1990 con uno pseudonimo, frutto di un gioco di fantasia – chiarì successivamente l’autore. Il carabiniere Ceccarelli non aveva mai stilato una relazione sull’accaduto e il primario non aveva mai rivelato alle autorità che conducevano le indagini quella vicenda. Il racconto dei tre medici depositari del segreto confidato solo a Raisi e taciuto per decenni a magistratura e inquirenti era dunque un classico de relato di una persona defunta. Davanti alla Procura bolognese, che aprì una inchiesta sulla pista palestinese dopo le forti pressioni della destra, Antonio Jesurum, uno dei tre medici ascoltati dopo le rivelazioni di Raisi, aggiunse un dettaglio ulteriore sull’abbigliamento di uno dei fuggitivi per connotarne meglio la provenienza politica: avrebbe portato un Eskimo in pieno agosto. (Leggi qui)

Il Perdono
In quei giorni di aprile Anna Di Vittorio, sorella di Mauro, e Giancarlo, suo marito, erano del tutto ignari della sortita di Raisi, nessuno li aveva ancora informati. Ci penserà con un messaggio di posta elettronica, il 24 giugno successivo, la persona meno adatta: Valerio Fioravanti. Francesca Mambro, moglie di Fioravanti e coimputata nel processo per la strage, aveva ottenuto appena quattro anni prima, nel settembre del 2008, la liberazione condizionale. Nel provvedimento si faceva esplicito riferimento al perdono ricevuto da Anna Di Vittorio, unico dei familiari delle vittime della strage bolognese ad averlo concesso e ritenuto dal Tribunale di sorveglianza una delle prove del percorso di ravvedimento e riconciliazione compiuto dalla donna. Il gesto era arrivato dopo uno scambio epistolare e degli incontri con la coppia condannata per la strage. Nonostante avessero sempre protestato la loro innocenza sulla vicenda, la coppia fece uso del perdono: la Mambro allegò la lettera, dal peso simbolico notevole, nella richiesta della condizionale.

Abiezione parte prima
Nella mail del 24 giugno 2012 inviata a Giancarlo Calidori, dopo una serie di convenevoli in cui forniva informazioni sulle condizioni della propria famiglia partita in vacanza per festeggiare la fine dell’anno scolastico, Fioravanti arrivava al dunque:

«Io sono rimasto qui, al computer, e sto leggendo le bozze dell’ultimo libro di Andrea Colombo incentrato sul “Lodo Moro”, e dell’ultimo libro di Enzo Raisi, deputato bolognese prima del Msi, poi di An, poi del Pdl e infine di Fli, che racconta di come lui abbia vissuto “da destra” il processo per la strage, ma soprattutto racconta le molte cose scoperte se solo si va a guardare gli archivi con un po’ di attenzione… c’è qualche riga dedicata anche la fratello di Anna, ma poi mi ha detto Raisi che si sta consultando con alcuni esperti per capire meglio alcuni passaggi che gli sembrano ambigui.forse un giorno, se ne avrete voglia e tempo, potreste incontrarlo. è vero che abbiamo tutti a cuore la trasparenza e la verità, am proprio in nome della trasparenza meno cose confuse si mettono in circolazione, meglio è! Ce ne sono già abbastanza di cose confuse!!!Intanto, spero di avere da voi se non notizie eccezionali, almeno “tranquillizzanti”! Un forte abbraccio, Valerio»

Il testo dell’ex appartenente ai Nar era sibillino e reticente nonostante la trasparenza invocata nel messaggio: non diceva tutto quel che già era uscito, in particolare sui social dove si era battagliato aspramente sul nome di Di Vittorio. L’accenno agli «esperti» consultati da Raisi è da tenere a mente, perché vedremo apparire una serie di nomi appoggiare, alcuni almeno solo inizialmente, la pista Di Vittorio: un avvocato romano e un gruppo di «sherpa», come verranno etichettati da Ugo Maria Tassinari nel suo blog, che insieme ad Insorgenze.net ne seguiranno attentamente tutta la vicenda smontandola completamente. Ma soprattutto le poche righe su Mauro erano in realtà un intero capitolo, il 10 bis, dove si lanciavano accuse pesantissime: Eccone un piccolo estratto:

«Questo collettivo in cui militava il povero Di Vittorio, era collegato, operativamente parlando, al Collettivo di Via dei Volsci, lo stesso dei tre arrestati a Ortona con Abu Saleh mantre trasportavano i lanciarazzi dell’Fplp Un collettivo che, come ci dimostrano gli atti di sequestro della Digos di Roma, in occasione della loro sede, era una vera e propria “succursale” dell’Fplp. So già che qualcuno si attiverà subito per spiegare quante quali differenze ci fossero tra quelli del Pigneto, di Centocelle e di Via dei Volsci. Ma la strage di Bologna, a mio avviso non è una storia di quartiere. La chiave per capire è un’altra, chiama in causa le ragioni, tuttora da appurare, per cui Di Vittorio si trovò alla stazione di Bologna la mattina dell’esplosione; nessuno ha mai dato una spiegazione logica in questo senso, nessuno ha mai indagato» (Enzo Raisi, Bomba o non bomba, alla ricerca ossessiva della verità, Minerva edizioni, ottobre 2012, p. 186).

Quale meccanismo possa spingere la psiche umana ad un comportamento del genere è difficile da spiegare. Cercarne una ragione nella malvagità e nel sadismo che può celarsi nell’animo o all’interno di personalità turbate sembra rivelarci solo una parte di verità plausibile. Dietro quella mail e le successive (che vedremo nella prossima puntata) emerge qualcosa di più sofisticato e ancora più perverso legato alla vicenda del perdono ricevuto e utilizzato. Girava voce in quel periodo che il gesto di Anna e Giancarlo celasse in realtà un sentimento di colpa per una verità indicibile: la piena consapevolezza della responsabilità di Mauro Di Vittorio nella strage.
Con quella mail la coppia condannata per la strage alla stazione, mal suggerita forse da qualche azzeccagarbugli, pensava di innescare una ammissione della colpa di Mauro Di Vittorio, o almeno il riconoscimento di un qualche dubbio, nella famiglia sul suo ruolo avuto nella strage. Circostanza che avrebbe clamorosamente riaperto la vicenda fornendo quella prova regina a discolpa che avrebbe consentito l’apertura di una procedura di revisione della condanna. Una prova di cinismo abissale che metteva in mostra anche delle personalità totalmente anetiche. Disposte a tutto, soprattutto ad infierire sui più fragili.

Fine prima puntata/continua

Raisi, il lezzo dei falsari di parola e la querela archiviata contro Anna Di Vittorio

Lo scorso ottobre 2022 il giudice per le indagini preliminari Angela Gerardi ha archiviato la querela presentata dall’ex vice segretario dei giovani missini e poi parlamentare di Alleanza nazionale e variabili successive, Enzo Raisi, contro Anna Di Vittorio, sorella di Mauro Di Vittorio, il ventiquattrenne romano ucciso insieme ad altre 84 persone dalla bomba esplosa il 2 giugno 1980 nella stazione di Bologna.

La notizia nel libro di Paolo Morando
A darne notizia è Paolo Morando nel suo libro appena uscito per le edizioni Feltrinelli, La strage di Bologna, Bellini, i Nar, i Mandanti e un perdono tradito. Un volume che riassume con grande perizia gli ultimi due processi sulla strage, le oltre duemila pagine della sentenza Cavallini, la memoria della procura generale e le udienze del processo Bellini (la sentenza non è stata ancora depositata), ma soprattutto racconta una «piccola storia ignobile» poco nota al grande pubblico. La storia di un tradimento, la definisce Morando, la storia di una manipolazione si potrebbe aggiungere: quella che Francesca Mambro e Giuseppe Valerio Fioravanti realizzarono sulle spalle di Anna Di Vittorio e suo marito Giancarlo Calidori. Storia che permise a Francesca Mambro di accedere alla liberazione condizionale grazie al perdono richiesto ad Anna Di Vittorio, per poi pugnalarla alle spalle. I due infatti sposarono la tesi, promossa da Enzo Raisi e altri esponenti della destra, che indicava il fratello di Anna come il responsabile della strage rimasto accidentalmente ucciso nell’attentato.

Le nuove calunnie contro Mauro Di Vittorio
La querela di Raisi traeva origine proprio da questa vicenda. In occasione del quarantennale della strage di Bologna l’ex missino era tornato ad accusare Mauro Di Vittorio di essere stato il trasportatore della bomba esplosa nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione, il 2 agosto 1980. Una «ossessione» la sua al punto da aver ripetutamente chiesto negli anni precedenti al cadavere vilipeso di Di Vittorio di dimostrare la propria innocenza dopo avergli attribuito una identità politica di comodo, quella di «Autonomo», membro del collettivo del Policlinico, per poter sostenere i suoi legami con il palestinese Abu Saleh e la vicenda dei missili di Ortona; aver poi diffuso notizie non corrispondenti al vero sulle condizioni del suo corpo al momento del ritrovamento, affermando che fosse completamente carbonizzato. Con questa bugia voleva affermare che fosse vicinissimo alla bomba, per meglio dire che la tenesse con sé, così insinuando che la perizia giurata di ricognizione del cadavere presente negli atti giudiziari fosse falsa; sostenere, inoltre, che non avesse documenti d’identità ma che viaggiasse in incognito e che la carta d’identità ritrovata dai soccorritori fosse giunta intonsa all’obitorio dalle mani dell’anziana madre; così dicendo aveva dato del falso ideologico al verbale di riconsegna dei suoi effetti personali redatto dalla Polfer accusando di conseguenza la madre per la consegna della carta d’identità; aveva giurato che il diario di viaggio di Mauro fosse un clamoroso falso e che il biglietto della metropolitana parigina che aveva nella tasca dei pantaloni fosse la prova provata che egli non si sarebbe mai diretto a Londra ma avrebbe fatto tappa a Parigi per prendere in consegna da Carlos la valigia con l’esplosivo.
Affermazioni reiterate in un lunghissimo elenco di interviste, conferenze stampa, interventi sui social, interpellanze parlamentari, in un libro, Bomba o non bomba. Alla ricerca ossessiva delle verità, Minerva edizioni 2012. All’epoca non era stato il solo a sostenere cose del genere. Poi, davanti alle evidenze (chi prima, chi poi, chi in modo netto, chi in maniera subdola) nessun altro ebbe il coraggio di evocare il nome di Di Vittorio.
Una inchiesta a puntate pubblicata proprio su questo blog (leggi qui) aveva dimostrato, prove alla mano, la malafede di chi accusava Di Vittorio. Successivamente anche la procura di Bologna si era occupata del caso e nella archiviazione della indagine bis sulla strage aveva definito Di Vittorio «vittima oggettiva» della bomba. Nonostante ciò, nell’agosto del 2020 le calunnie di Raisi hanno trovato nuovo ascolto e sono state raccolte tra le dieci domande poste da un intergruppo di parlamentari del centrodestra , ‘La verità oltre il segreto’. Si tratta del quesito numero 9: «Perché sulla vittima Mauro Di Vittorio, legato ad ambienti dell’estrema sinistra romana che per tutti quel giorno doveva essere in Inghilterra, rimasto a lungo non identificato perché senza documenti e stranamente riconosciuto da madre e sorella che in teoria non sapevano della sua presenza a Bologna, non sono mai state fatte ricerche approfondite ma ci si è accontentati di una semplice dichiarazione della sorella che per altro ha dato diverse versioni su come sia arrivata a sapere della notizia della morte del fratello nella strage di Bologna?».

La risposta della sorella Anna
A quel punto Anna Di Vittorio ha preso carta e penna per qualificare su L’Alter-Ugo, il blog di Ugo Maria Tassinari, la condotta umana e civile di Raisi con parole che ne riassumevano, certamente per difetto, l’ostinato atteggiamento tenuto nei confronti del fratello: «mi appaiono in lui – oggettivamente – alcune difficoltà umane che lui, forse, non ha mai avuto il coraggio di affrontare e risolvere. Raisi è assolutamente incapace di saper leggere, saper scrivere, saper parlare in pubblico […] sono certa che Raisi sia – oggettivamente – “inconscio” a se stesso» e più avanti sottolineava la «sua impura malvagità».

Raisi l’offeso
L’ex parlamentare non gradì quelle parole e seguendo l’avventato suggerimento dell’avvocato Valerio Cutonilli, uno di quelli che avevano partecipato fin dall’inizio alla costruzione della pista Di Vittorio, e del deputato Federico Mollicone, definiti «primi soggetti percettori della portata offensiva della pubblicazione», e che pare avvertirono Raisi in una telefonata del primo agosto 2020, come indicato nel fascicolo, presentò querela negando, addirittura, di aver mai indicato Mauro Di Vittorio quale responsabile della strage. Il 2 gennaio del 2021, la procura ritenne infondata la denuncia e chiese l’archiviazione. A quel punto Raisi, reiterando la propria ossessione, impugnò la decisione. Il 19 ottobre 2022 il Gip ha chiuso la vicenda dando torto a Raisi.

Il lezzo della calunnia
Non sappiamo se Dante fosse un uomo di destra come ha sostenuto l’attuale ministro della cultura Sangiuliano, certo è che collocò i falsari di parola nell’ottavo cerchio dell’ultimo girone (canto XXX) condannati ad emanare dal più profondo dei pozzi un lezzo insopportabile.

Per chi volesse saperne di più qui l’intera storia
Strage di Bologna, il depistaggio di Raisi, Fioravanti, Pelizzaro & company contro Mauro Di Vittorio

Punire il pensiero è la vera ragione del 41 bis per Alfredo Cospito

Un appello siglato da intellettuali, giuristi e personalità ha chiesto la revoca del regime penitenziario 41 bis a cui è stato sottoposto l’anarchico Alfredo Cospito in sciopero della fame dal 20 ottobre scorso. Tra i firmatari Alex Zanotelli, Donatella Di Cesare, Moni Ovadia, Massimo Cacciari, Luigi Ferrajoli, ma anche ex magistrati in pensione: tra questi Gherardo Colombo, Beniamino Deidda, Domenico Gallo, Nello Rossi, Livio Pepino, Franco Ippolito e l’ex presidente della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick. E’ un fatto di indubbia novità che alcune di queste figure abbiano preso pubblicamente posizione su un tema del genere.

Un salto nella escalation repressiva
L’applicazione del 41 bis a Cospito rappresenta un nuovo stadio nella escalation repressiva, un ulteriore passaggio nella politica di differenziazione penitenziaria. In questo caso infatti mancano tutti i requisiti generalmente indicati per l’applicazione di queste misura: l’interruzione del legame organizzativo con gli associati e la possibilità di ottenere informazioni.
All’inizio del decennio 90 il 41 bis (l’abolizione di ogni spazio vitale in carcere e l’ostatività a permessi, lavoro esterno, semilibertà e liberazione condizionale, evoluzione del precedente articolo 90) venne introdotto per interrompere i legami organizzativi mantenuti tra reclusi appartenenti a gruppi mafiosi e le associazioni criminali esterne di appartenenza. Successivamente nei primi anni 2000 la stessa misura venne estesa anche a tre militanti delle cosiddette “nuove Br”, condannati per degli attentati realizzati nel 1999 e nel 2002.

Nessun legame organizzativo da interrompere
Ciò che colpisce nella vicenda di Cospito è l’assenza del legame organizzativo. Cospito è in carcere da dieci anni per fatti che al momento della condanna non comportarono il ricorso al 41 bis, misura che gli è stata applicata solo nel 2022, a 16 anni di distanza. Dai fatti reato che gli sono attribuiti è trascorso un lungo periodo, nel frattempo non ci sono stati nuovi reati né una nuova organizzazione sovversiva è emersa che lo veda coinvolto, né ci sono state azioni illegali della stessa portata o dimensione per cui era finito in carcere, tali da giustificare un nuovo allarme sociale. A ciò si deve aggiungere che il settore anarchico di riferimento (Federazione anarchica informale) non era una organizzazione con una gerarchia, un organigramma, dei legami definiti e strutturati ma una pulviscolo di singole persone o nuclei separati e indipendenti l’uno dall’altro. Secondo la loro ideologia ognuno poteva agire come meglio credeva a prescindere dall’azione dell’altro. La misura del 41 bis pertanto non potrebbe interrompere nessun flusso informativo/organizzativo presunto o possibile in entrata e in uscita per il semplice fatto che semmai questa area – silente ormai da molti anni – dovesse agire, lo farebbe a prescindere dalla esistenza di Cospito e dalle sue personali posizioni. Alla resa dei fatti la misura del 41 bis risulta del tutto ineffettuale: non interromperebbe legami organizzativi che non sussistono; non bloccherebbe flussi informativi non previsti.
La permanenza del 41 bis anche in assenza del legame organizzativo non è una singolarità che riguarda solo Cospito. Anche per i tre ex appartenenti alle “nuove Br”, Marco Mezzasalma, Nadia Lioce e Roberto Morandi, il regime detentivo in 41 bis si protrate da circa 20 anni nonostante la scomparsa dell’originario gruppo politico di appartenenza.

Spezzare il legame con la società
Secondo la retorica riabilitativa la pena deve essere volta alla risocializzazione e questo perché gran parte dei comportamenti devianti sono ritenuti una conseguenza della marginalizzazione sociale. Nel caso dei detenuti politici la punizione ha l’obiettivo opposto: la militanza politica presuppone la presenza di reti sociali, connessioni e forte socializzazione. In questo caso è l’internità sociale che va rotta: desocializzare, isolare, spezzare i legami sociali è il vero obiettivo della sanzione che porta alla differenziazione carceraria, ai diversi regimi di isolamento in alta sicurezza ed ora in 41 bis.

Estorcere dichiarazioni
L’altra ragione richiamata per l’applicazione del 41 bis è la collaborazione con la giustizia, indurre il recluso a rivelare fatti e circostanze: altrimenti detto estorcere dichiarazioni. Una tortura bianca più lenta e silenziosa, diluita nel tempo e meno impattante per la sensibilità pubblica. Nella vicenda di Cospito anche questa possibilità viene a mancare poiché i fatti-reato per i quali è stato condannato sono stati accertati e sanzionati e lo stesso Cospito li ha riconosciuti. Oltretutto gli episodi-reato per i quali è stato condannato risultano di modesta gravità nonostante l’entità delle pene ricevute: una gambizzazione (lesioni), degli attentati dinamitardi che hanno prodotto danni lievi a cose. L’ipersanzione non è dovuta quindi alla portata effettuale dei fatti commessi ma alla loro valenza simbolico-politica: antistatale e antisistema. Non sfugge in questo caso la disparità di trattamento penale e penitenziario rispetto chi ha realizzato in questi anni reati di natura stragista, aggravati dal movente razziale, sanzionati con pene molto lievi che non prevedono il medesimo trattamento carcerario.

Il 41 bis serve a punire il pensiero
Appare chiaro che l’applicazione del 41 bis nei confronti di Alfredo Cospito mira a colpire la sua personalità, il suo pensiero, opinioni espresse pubblicamente, per altro senza aver mai violato le regole carcerarie poiché fino a ieri non era sottoposto censura o altra limitazione ma esercitava del tutto legittimamente la sua libertà di pensiero. Nel caso l’autorità penitenziaria avesse ravvisato la presenza di pericolosità nelle sue esternazioni, avrebbe avuto la facoltà di intervenire attraverso i normali strumenti del codice penale, denunciando eventuali reati di istigazione o apologia per i quali, se effettivamente riscontrati dalla magistratura, comunque non è prevista nessuna reclusione in regime di 41 bis ma un eventuale aggravio di pena. L’applicazione del regime di 41 bis costituisce in questo caso un attacco diretto ed esclusivo all’identità politica del detenuto.

La polizia della Storia tra Kafka e l’angoscia della realtà

Recensioni – La Polizia della storia, la fabbrica delle fake news dall’affaire Moro, Paolo Persichetti, Deriveapprodi aprile 2022, pp. 281


Vincenzo Morvillo, 14 dicembre 2022 Contropiano

«Qualcuno doveva aver diffamato Josef K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato». Si tratta, com’è noto, del celebre incipit de Il Processo di Franz Kafka.
E queste parole ci tornano alla mente sin dalle prime righe di La Polizia della Storia, il libro-denuncia scritto dal compagno ed amico Paolo Persichetti:

«La mattina dell’8 Giugno, dopo aver lasciato i miei figli a scuola,sono stato fermato per strada da una pattuglia della Digos e scortato nella mia abitazione, dove ad attendermi c’erano altri agenti appartenenti a tre diversi servizi della Polizia di Stato: Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione, Digos e Polizia Postale».

Da quel momento, la vita di Paolo si è trasformata in una traslazione realistica e angosciante della vicenda di Josef K, narrata dallo scrittore praghese.
Accusato in prima istanza di “associazione sovversiva”, senza che abbia messo in atto alcuna azione tesa al sovvertimento dello Stato.
Poi, di aver divulgato fantomatico “materiale secretato” della Seconda Commissione Moro: materiale che secretato non era, considerato che le bozze delle diverse relazioni stese dalla Commissione circolavano tra le redazioni dei giornali e che tutta la documentazione dell’inchiesta era destinata alla divulgazione pubblica.
Infine, di “favoreggiamento” per aver tenuto contatti con ex brigatisti – nella fattispecie Alvaro Loiacono che a sua volta conversava con Alessio Casimirri – condannati per il sequestro Moro oltre quarant’anni fa.
Il primo ha scontato la pena in Svizzera in quanto cittadino elvetico. Il secondo è fuggito in Nicaragua fin dall’inizio degli anni ’80, dove vive  da uomo libero.
Il primo ha scontato la pena in Svizzera in quanto cittadino elvetico. Il secondo è fuggito in Nicaragua fin dall’inizio degli anni ’80, dove vive  da uomo libero.
Ex Br oramai settantenni, che Persichetti utilizza come “fonti vive” per il suo lavoro di ricercatore e storico. Ma che per la Polizia della Storia e per la Magistratura italiana altro non sarebbero che sovversivi “in servizio attivo” che Paolo starebbe “favorendo”, passando loro informazioni.
Ex Br oramai settantenni, che Persichetti utilizza come “fonti vive” per il suo lavoro di ricercatore e storico. Ma che per la Polizia della Storia e per la Magistratura italiana altro non sarebbero che sovversivi “in servizio attivo” che Paolo starebbe “favorendo”, passando loro informazioni.
Informazioni di cui, naturalmente, l’intera cittadinanza italiana può venire a conoscenza, semplicemente con un click su Google.
Una trama grottesca e surreale, come quella del kafkiano processo intentato ai danni di Josef K.
Ed infatti, a Persichetti, nel narrare la sua assurda vicenda – nella prima parte del libro – non difettano toni ironici e sarcastici, indirizzati agli organi repressivi e di prevenzione di uno Stato che, francamente, si fa fatica a definire “democratico”.
Organi inquirenti, repressivi e di prevenzione i quali, più che individuare una fattispecie di reato, sembrano andare all’astratta ricerca di una qualsivoglia colpa da addebitare a Paolo. Una colpa che andrebbe ricercata, ça va sans dire, tra le carte e i documenti del suo archivio.
Archivio nel quale, tenetevi forte, sarebbe celato l’ultimo dei misteri sul Caso Moro. La madre di tutte le cospirazioni. La Verità di tutte le Verità.
Difficile evitare un po’ di sarcasmo nei confronti dell’azione di Polizia e Magistratura, leggendo le pagine in cui Paolo racconta questa sua surreale vicenda.
Come quelle in cui scrive del modo in cui gli inquirenti siano addirittura arrivati a clonare il cellulare dell’avvocato Davide Steccanella. Importante penalista meneghino, scrittore, autore di un corposo volume sulla storia della lotta armata in Italia, difensore di Cesare Battisti, Steccanella si è trovato intercettato sol perché in contatto con Persichetti.
Come quelle in cui scrive del modo in cui gli inquirenti siano addirittura arrivati a clonare il cellulare dell’avvocato Davide Steccanella. Importante penalista meneghino, scrittore, autore di un corposo volume sulla storia della lotta armata in Italia, difensore di Cesare Battisti, Steccanella si è trovato intercettato sol perché in contatto con Persichetti.
Conclusione, come scrive lo stesso Paolo: «Digos e Polizia di Prevenzione ascoltavano le nostre conversazioni telefoniche che riferivano al Pm. Per tutti quei mesi, l’intera strategia difensiva costruita dall’avvocato Steccanella è stata intercettata permettendo alla Procura di conoscerla in anticipo ed entrare nei segreti della difesa».
Tecniche da Stato totalitario. Strategie da Stato di Polizia. Vietate espressamente da ogni codice di procedura, perché invalidano ogni possibile difesa giudiziaria; ossia legale.
Altro che Urss e Ddr, Le vite degli altri sono qui. Sono le nostre!

La seconda parte del libro, volutamente più rapsodica, discontinua, non sempre coerente sul piano formale, ma disseminata di notizie fondamentali, dettagli storiografici significativi ed essenziali spunti di riflessione, è interamente dedicata al cosiddetto Caso Moro.
Paolo sembra voler dar fondo a tutta la sua intensa attività di ricerca, sembra quasi grattare la crosta della memoria per riversare sul foglio ogni micro-frammento storiografico riguardante quella vicenda.
La sua ci appare un’opera di resistenza e di sfida democratica ad istituzioni totalitarie, che vorrebbero mettere il bavaglio a lui e alla Storia.
Istituzioni orwelliane che pretenderebbero di tacitare la libera espressione del pensiero, soprattutto se essa riguarda un passato che il Potere deve necessariamente porre nell’oblio dei tempi.
Pena il riconoscimento politico di una forza rivoluzionaria che mise in crisi le fondamenta stesse dello Stato borghese.
Ricercatore e Storico, Paolo è dunque vittima, dal giugno 2021, di un attacco concentrico e senza precedenti, portato da Polizia di Prevenzione, Digos e magistratura inquirente, contro la sua persona e la propria famiglia.
Il sequestro di tutto il materiale documentale, dell’archivio, delle fonti storiografiche, dei dispositivi elettronici e addirittura delle cartelle cliniche riguardanti Sirio, il figlio tetraplegico di Paolo e della compagna Valentina Perniciaro – anch’essa non risparmiata dal sequestro – costituiscono un intollerabile attentato alla libertà personale e alla ricerca storiografica, sciolta dai vincoli oppressivi imposti dal pensiero dominante.
Un attacco repressivo, il cui unico scopo “razionale” sembra quello di mettere il guinzaglio all’attività di ricostruzione della Verità storica – che Paolo conduce tenacemente da anni, insieme ad altri validi studiosi – incentrata sull’insorgenza degli anni ’70 e sul più clamoroso evento rivoluzionario, messo a segno da una organizzazione guerrigliera nel cuore dell’Occidente capitalista: il rapimento del Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, ad opera delle Brigate Rosse.
Un evento che, da quaranta e più anni, è diventato la pietra angolare per la costruzione di una narrazione artificiosa della Repubblica Italiana, da cui viene espunto il conflitto di classe e completamente cancellato il quindicennio che – dall’inizio degli anni ’70 alla prima metà degli anni ’80 – ha visto un’intera generazione sollevarsi, anche in armi, contro il regime democristiano, lo Stato, la cultura borghese e contro il modello produttivo del Capitale imperante.
Un attacco repressivo, insomma, per continuare ad imporre una narrazione mistificante, preda del senso di colpa e dei deliri auto-vittimizzanti escogitati, dopo la morte di Moro, dagli ex dirigenti di Pci e Dc.
Una narrazione costruita a tavolino, con il piglio ottuso dell’ossessione cospirazionista, da parte di politici di basso profilo ma con l’ambizione di apparire, come il senatore Sergio Flamigni, il presidente della Seconda e inutile Commissione Moro – Giuseppe Fioroni – il senatore Gero Grassi.
Narrazione perpetuata anche da parte di magistrati posseduti dall’ideologia del complotto.
Da parte di “storici” al servizio di un partito. E di una pletora infinita di giornalisti – un paio di generazioni almeno, con poche ma molto apprezzabili eccezioni – tutti attratti dai facili guadagni (le “consulenze” con la trentennale “commissione parlamentare di inchiesta”), nonché dalla notorietà che la stesura di un libro o un surreale docufilm, infarciti di dietrologia sull’affaire Moro, hanno fin qui garantito.
Una narrazione, infine, il cui vero obiettivo è di natura eminentemente politica: il controllo dalla memoria collettiva rispetto a quel passato rivoluzionario, allo scopo di ipotecare presente e futuro.
Un presente e un futuro che – il potere spera – non abbiano mai più a confrontarsi con genuine aspirazioni o istanze di sovversione e di conflitto, contro l’impero della merce e del profitto. Contro il conformismo dell’intelletto e dell’anima. Affinché sia il Capitale l’unico orizzonte di senso.
Il libro di Paolo, come dicevamo, è quindi un coraggioso atto di testimonianza e di resistenza personale contro tutto questo.
E contro la repressione storiografica preventiva messa in campo dallo Stato Italiano.

 * Il libro sarà presentato a Napoli, presso i locali del Civico7 Liberato, Giovedì 15 Dicembre, a partire dalle ore 18:30. Saranno presenti, con l’autore, il giornalista Fulvio Bufi (Corriere della Sera) e l’avvocato penalista Biagio Gino Borretti. Introduzione di Vincenzo Morvillo, della redazione di Contropiano

Bugiardi con la scorta

Saviano usa la parola come strumento di potere non come leva di libertà

Roberto Saviano ha sempre utilizzato la parola come uno strumento di potere mai come una leva di libertà. Lo dimostrano le tante querele da lui intraprese in passato contro persone che la pensavano diversamente da lui o ne criticavano le affermazioni perché inesatte, infondate, approssimative (leggi qui una rassegna delle sue querele). Saviano ha sempre rivendicato per sé quello che nega agli altri, si tratta di una sua caratteristica peculiare derivata dalla presunzione di esser il testimone della verità. Egli è colui che dice il vero, un sorta di nuovo messia venuto a illuminare gli uomini con il suo verbo. C’è chi lo ha descritto in passato come qualcuno che vorrebbe correggere le bozze di Dio e così se Saviano è l’incarnazione del vero, gli altri per forza di cosa sono altro dal vero e chi lo critica e non la pensa come lui un ostacolo alla verità. Dei nemici da abbattere. C’è una intolleranza costitutiva nel modo di porsi, un fanatismo profondo.

Nel gennaio del 2010 sono stato querelato da Roberto Saviano perché su Liberazione avevo scritto che i familiari di Peppino Impastato contestavano la veridicità di una telefonata da lui raccontata in un volume appena pubblicato da Einaudi, La parola contro la camorra (Non c’è verità storica, il centro Peppino Impastato diffida l’ultimo libro di Roberto Saviano). Secondo Saviano la madre di Impastato l’aveva chiamato per incoraggiarlo quando lui era ancora un aspirante scrittore del tutto sconosciuto, molti anni prima del successo di Gomorra e che gli fosse concessa la scorta di polizia. Telefonata che Saviano rappresentava come una sorta di passaggio di testimone che l’avrebbe condotto a prendere il posto di Impastato nell’immaginario collettivo dell’antimafia.

(Fonte https://www.nazioneindiana.com/2004/12/08/felicia/?fbclid=IwA)

I familiari di Impastato obiettavano che la signora Felicietta non avesse telefono e che le chiamate a lei dirette passassero attraverso il figlio Giovanni o la nuora e che di questa telefonata non avevano mai saputo nulla. Saviano avrebbe potuto rivendicare un diritto di replica, Liberazione glielo avrebbe senza dubbio concesso. La querelle era pubblica, c’era stato un comunicato stampa della famiglia. Molto attento a non entrare in polemica diretta con i familiari di Impastato e senza mai chiedere alcun diritto di replica, Saviano querelò invece me. Ero in semilibertà da appena due anni e facevo il giornalista nella redazione di Liberazione. La querela non arrivò mai in giudizio perché prima il pm e poi il gip, nel 2013, mi diedero ragione: avevo fatto correttamente il mio lavoro citando fonti attendibili (Persichetti ha utilizzato fonti attendibili, il gip archivia la querGipela di Saviano contro l’ex-brigatista). Fu uno smacco per lo scrittore che vide così incrinata la sua immagine di testimone della verità.

Saviano mentiva, stavolta lo diceva anche la magistratura. Tuttavia della sentenza non parlò quasi nessuno: un importante giornalista di cronaca giudiziaria mi disse che i grandi quotidiani nazionali non potevano scrivere di una vicenda che dava torto a Saviano e ragione a un brigatista. Fu il web a rompere il silenzio pochi mesi dopo. Il giorno dell’anniversario della morte di Impastato improvvisamente iniziò a circolare la notizia della sentenza che dava torto allo scrittore.

In difficoltà, Saviano tirò fuori sui social una nuova versione dei fatti: non aveva mai ricevuto la telefonata direttamente dalla signora Felicia, come aveva fino ad allora raccontato, ma era stata una sua amica che incontrandola l’aveva chiamato e le aveva passato la donna

(Fonte https://www.facebook.com/RobertoSavianoFanpage/posts/10151452425176864)

Perché non averlo detto prima e raccontato ai giudici? Perché non averlo spiegato direttamente ai familiari di Impastato? A quel punto chiesi pubblicamente a Saviano il nome della sua amica, se ci fossero stati altri testimoni, se l’episodio era avvenuto in strada o in casa di Felicietta?
Da allora sono passati otto anni e Saviano non ha mai risposto. Il testimone del vero tace.

Anche se i giudici alla fine mi avevano dato ragione, cosa molto rara, la vicenda della querela ebbe comunque gravi ripercussioni a livello carcerario. All’arrivo della denuncia venni convocato dalla direzione del carcere che mi chiese copia degli articoli incriminati, ritenuti – dalla responsabile di reparto – fondamentali per una compiuta valutazione dell’osservazione trattamentale. Qualcosa di analogo era già accaduto nel carcere di Viterbo alcuni anni prima, quando il  magistrato di sorveglianza si oppose ai permessi di uscita per un mio libro, Esilio e castigo (Negato un permesso all’ex-br Paolo Persichetti per il libro che ha scritto Permessi all’ex Br? No, se non abiura). Anche se i giudici alla fine mi avevano dato ragione, cosa molto rara, la vicenda della querela ebbe comunque gravi ripercussioni a livello carcerario. All’arrivo della denuncia venni convocato dalla direzione del carcere che mi chiese copia degli articoli incriminati, ritenuti – dalla responsabile di reparto – fondamentali per una compiuta valutazione dell’osservazione trattamentale.
Nel febbraio 2011 non ero ancora a conoscenza del contenuto della querela e quindi degli articoli denunciati (in procura nonostante le ripetute richieste avevano sempre opposto il segreto istruttorio), poiché mi era stato notificato un semplice verbale di elezione di domicilio – di cui avevo fornito copia alla Direzione – nel quale si indicava unicamente il numero di protocollo del procedimento senza altre informazioni. Per giunta la richiesta della responsabile di reparto (se è vero che gli articoli dovevano essere analizzati per redigere l’osservazione scientifica della personalità) aveva una tale portata formale che non era possibile indicare dei testi prima di averne ricevuto comunicazione ufficiale da parte della procura. A ben vedere, dunque, è alla procura che la Direttrice avrebbe dovuto rivolgere la sua richiesta, non certo a me. Di fronte ad una tale oggettiva impossibilità, trattandosi in ogni caso di articoli diffusi nello spazio pubblico, consigliai alla Direttrice di recarsi sul sito web di Liberazione per avere completa visione di tutti i miei testi.Il suggerimento venne recepito come un rifiuto di «rapportarsi correttamente con l’Amministrazione». Ecco come l’episodio venne raccontato nella Relazione di sintesi sulla osservazione della personalità:

«Si è accennato alla diatriba con lo scrittore Roberto Saviano. All’inizio del 2011, come riportato sulla stampa e in internet (che ospita vari articoli al riguardo), si è verificata una schermaglia tra il Persichetti ed il suo editore da una parte, ed il Saviano dall’altra, nascente da affermazioni di quest’ultimo sul caso dell’omicidio di Giuseppe Impastato, affermazioni ritenute dalla controparte false o, quanto meno, superficiali. La vicenda è sfociata nella presentazione di una querela per diffamazione da parte del Saviano nei confronti del Persichetti e del suo editore. La Direzione dell’Istituto ne è stata informata formalmente dalla Polizia di Stato. Il 02.03.2011 il Persichetti, durante un colloquio col Direttore di Reparto riguardante proprio tale vicenda, è stato invitato a produrre gli articoli relativi alla querelle, al fine di avere un quadro della situazione; ha percepito come atteggiamento “censorio” la richiesta formulatagli dal dirigente e per tutta risposta gli ha detto chiaramente che gli scritti sono liberamente accessibili su internet e che non vedeva la necessità di doverli produrre lui. Si è pertanto ritenuto di dover informare dell’accaduto e dell’atteggiamento tenuto dal semilibero il Sig. Magistrato di Sorveglianza».

Per dare luogo a questa considerazione finale:

«La forma mentis del Persichetti lo conduce ad avere talora, un atteggiamento “paritario” (anche se tale aggettivo rischia di acquisire una valenza negativa) nei confronti di un’Amministrazione verso la quale, comunque, egli deve rispondere del proprio comportamento e non trattare da pari: il tutto, ovviamente, nel rispetto del diritti della persona. Talora però nel soggetto pare vi sia una difficoltà a rendersi conto che, a differenza di quanto accade in un rapporto tra persone fisiche, rapportarsi con l’Amministrazione richiede una diversa “dialettica”, fatta – anche obtorto collo – di una puntuale esecuzione delle direttive o anche, delle sole indicazioni fornite dalla stessa e dai suoi operatori». (Fonte La relazione del Got Rebibbia).

Leggi anche L’ex-br persichetti, io querelato da Saviano, gip mi diede ragione

Archivio Persichetti, dopo 16 mesi per il Gip «l’imputazione ancora non c’è ma l’inchiesta continua»

«L’accusa ancora non c’è e addirittura potrebbe non esserci mai» è questo il passaggio decisivo che riassume la sostanza di un’inchiesta che ha messo sotto accusa la libertà di ricerca storica. Lo scrive il Gip del Tribunale di Roma Valerio Savio in chiusura del provvedimento in cui si nega per il momento la riconsegna delle copie forensi, ovvero il clone digitale del mio archivio sequestrato ormai 16 mesi fa: «rilevato ancora come non si pongano questioni in ordine alla riservatezza dei dati, tuttora coperti da segreto investigativo; laddove per altro profilo ogni questione di “utilizzabilità“ dei dati medesimi è semplicemente prematura e allo stato non importabile, in assenza di una imputazione che tuttora potrebbe ancora non essere mai formulata».

La procura inizialmente aveva contestato il reato associativo
Il 9 giugno del 2021 una nutrita truppa di poliziotti di tre diversi servizi della polizia di Stato aveva occupato il mio appartamento con un mandato di perquisizione e sequestro dei miei strumenti di lavoro: l’archivio di materiali storici raccolto in anni di ricerche, computer, tablet, telefoni, pendrive, hard disk e schede di memoria di ogni tipo. Sotto la guida di funzionari della Polizia di prevenzione, gli agenti della Digos e della Polizia postale in realtà portarono via anche l’intero archivio di famiglia: cartelle scolastiche e cliniche dei miei figli di cui uno disabile, l’archivio amministrativo, l’intero archivio fotografico della mia compagna. Le imputazioni iniziali, mosse dalla Procura della repubblica e dalla Procura generale, erano l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo (270 bis cp), rapidamente evaporata dall’inchiesta, e il favoreggiamento (378 cp).

La giostra delle accuse
Nel corso dell’inchiesta si sono succedute ben 5 imputazioni: prima della perquisizione l’indagine si era aperta ipotizzando una violazione di segreto d’ufficio (prima imputazione), successivamente lievitata in associazione sovversiva a scopo di terrorismo (seconda imputazione) e favoreggiamento (terza imputazione). Nel luglio del 2021 il Tribunale della libertà, sollevando dubbi sulle precedenti incolpazioni, evocate – a suo dire – «senza indicare precise condotte di reato», suggerì una nuova accusa: «violazione di notizia riservata» (quarta imputazione), che si sarebbe consumata l’8 dicembre 2015, quando attraverso la posta elettronica avevo inviato alcuni stralci della prima bozza di relazione annuale della commissione Moro 2. Testo che sarebbe stato pubblicato dall’organo parlamentare meno di 48 ore dopo e sul quale non era mai stato posto alcun segreto, nemmeno funzionale. Pagine destinate a un gruppo di persone coinvolte insieme a me nel lavoro di preparazione di un libro sulla storia delle Brigate rosse (leggi qui), poi uscito nel 2017 con Deriveapprodi (Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera). Nell’ottobre successivo, cioè un anno fa, il Gip scrisse in uno dei suoi provvedimenti che, in realtà, mancava «una formulata incolpazione anche provvisoria» (leggi qui). Insomma le uniche certezze dell’indagine erano il sequestro del mio archivio, le intercettazioni della posta elettronica, ma non l’esistenza di un reato per cui tutto ciò avveniva. A quel punto la procura sposando la richiesta di incidente probatorio sul materiale sequestrato, avanzato in precedenza dal mio avvocato, si attestò nuovamente sull’accusa di favoreggiamento (quinta imputazione).

La perizia accerta l’assenza di materiale riservato ma la procura non si arrende
A fine aprile 2022 il perito del tribunale dopo aver clonato i 27 supporti sequestrati estrae 725 elementi attinenti all’indagine: 589 pdf, 117 immagini, 1 video, 13 files testo e 5 folder, per buona parte scaricati dal sito di un ex membro della Commissione Moro (i (https://gerograssi.it/b131-b175/#B131). In nessuno di essi è presente materiale riservato. Per la procura è un clamoroso buco nell’acqua (leggi qui) ma nonostante ciò il pm si oppone alla riconsegna dell’archivio e il Gip lo appoggia. La procura chiede alla Polizia di prevenzione di analizzare il materiale estratto dal perito e a fine maggio dispone la riconsegna dei 23 supporti nei quali il perito non aveva trovato elementi attinenti all’indagine ma trattiene le copie forensi.

La Procura riconsegna il materiale sequestrato ma trattiene le copie forensi dell’archivio
Nel frattempo la Polizia di prevenzione analizza il materiale individuato dal perito e il 9 luglio 2022 invia una informativa alla pubblico ministero Albamonte, titolare dell’indagine, nel quale «si da riscontro dei contenuti dei file estrapolati dal perito nel corpo dell’incidente probatorio». In seguito a questa informativa il 26 luglio il pm dispone la riconsegna dei due telefonini, del tablet e del computer e dello spazio cloud ancora sequestrati ma anche in questo caso trattiene le copie forensi, ovvero il clone digitale dell’intero materiale presente nei quattro supporti, «in quanto – scrive il pm – costituiscono necessario compendio del fascicolo fino alla sua definizione e risultano tutt’ora utili ad approfondire le indagini circa la provenienza del materiale riservato trovato nella disponibilità del Persichetti».

Un’inchiesta senza più reato
L’avvocato Francesco Romeo chiede la visione dell’informativa della Polizia di prevenzione che aveva provocato l’improvviso cambio di atteggiamento della Procura ma la Procura oppone un rifiuto. A quel punto solleva un nuovo ricorso contro la decisone del pm per riavere le copie forensi dell’intero materiale portato via il 9 giugno 2021. L’impugnazione viene discussa lo scorso 30 settembre, per il Gip nonostante «l’assenza di una imputazione», che addirittura «potrebbe non essere mai formulata», le copie forensi dell’archivio devono restare in mano alla procura fino alla conclusione dell’indagine. Con buona pace della libertà di ricerca storica.

«Il Tipografo», Le torture della repubblica in un film di Stefano Pasetto

«Il Tipografo», il lungometraggio realizzato da Stefano Pasetto che racconta le torture praticate contro le persone arrestate per fatti di lotta armata tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80, in particolare la storia di Enrico Triaca arrestato il 1978 maggio 1978 perché gestiva una tipografia delle Brigate rosse, vince il premio Miglior Lungometraggio Italiano Visioni dal Mondo 2022 con la motivazione: «è un’opera molto interessante sia come testimonianza che come occasione di riflessione su un periodo complesso della nostra storia recente anche perché quanto accaduto viene presentato con una molteplicità di testimonianze non necessariamente univoche».
Una scelta coraggiosa quella della giuria che non ha avuto paura di porre all’attenzione pubblica un tema da sempre occultato, quello della tortura. Recentemente anche Sky ha messo in onda una docuserie di quattro puntate sul sequestro Dozier in cui si ricostruisce senza censure l’attività svolta tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80 da un apparato del Ministero dell’Interno specializzato nella pratica del waterboarding per estorcere dichiarazioni agli arrestati. Un segnale importante che si spera spinga a fare piena luce su quegli anni sfatando la narrazione ufficiale che racconta l’insorgenza politica e sociale di quel periodo sconfitta solo con gli strumenti dello Stato di diritto.

https://www.rai.it/raicinema/news/2022/09/I-vincitori-dell8-Festival-Internazionale-del-Documentario-Visioni-dal-Mondo-c9c1a341-e7b4-4368-ab96-3c7bee2ff0bf.html?fbclid=IwAR1igkb2pVuSigiuzEOKaZFdIXIFljfr1CY-TUyCazl1al7LN9wt4Rulrd4

La proposta indecente: verità sulle torture solo se gli irriducibili vengono in commissione Moro

La morte dell’ex ministro dell’Interno Virginio Rognoni che nel 1982 diede il via libera all’uso della tortura contro le persone arrestate per fatti di lotta armata, decisione deliberata dopo una riunione del Comitato interministeriale per l’informazione e la sicurezza dell’8 gennaio 1982, rimette al centro dell’attenzione un episodio accaduto durante i lavori della Commissione Moro 2. Un baratto fu proposto da alcuni esponenti di rilievo della Commisssione parlamentare d’inchiesta che stava nuovamente indagando sul sequestro e l’uccisione dello statista democristiano: l’organo parlamentare d’inchiesta si sarebbe occupato per la prima volta delle torture inferte a Enrico Triaca, il tipografo delle Brigate rosse romane arrestato il 17 maggio 1978, e della struttura del ministero dell’Interno guidata da Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, che praticò in maniera sistematica il waterboarding e altre violenza durante gli interrogatori contro gli inquisiti per lotta armata arrestati nel corso del 1982. In cambio si chiedeva agli ex brigatisti «irriducibili» (non dissociati e non collaboranti) che in passato avevano rifiutato ogni contatto con le commisssioni parlamentari d’inchiesta di mutare atteggiamento accetando le convocazioni. La proposta appariva tanto più ipocrita perché formulata proprio da quei settori politici che con più forza denunciavano l’esistenza di un patto di omertà stipulato in passato tra brigatisti e settori dello Stato, accordo che avrebbe «tombato la verità sul sequestro Moro».
La vicenda è stata raccontata nei dettagli nel volume La polizia della storia, la fabbrica delle fake news nell’affaire Moro. pp. 209-219.

La proposta indecente

ll 21 gennaio 2016 il deputato Fabio Lavagno depositò in Commissione una richiesta di audizione di undici testimoni sul tema delle torture. «Come anticipato in varie sedi – scriveva Lavagno – ritengo che il tema delle torture sia d’interesse per la Commissione». Nel testo si chiedeva la convocazione dell’ex tipografo Enrico Triaca, torturato il 17 maggio 1978 nell’ambito delle indagini sul sequestro Moro. Si indicava il nome di Nicola Ciocia, che in diverse circostanze ammise di essere stato il torturatore di Triaca: ex funzionario dell’Ucigos in pensione, conosciuto col soprannome di «De Tormentis», titolo di un trattato medievale che regolamentava l’uso delle torture per realizzare gli interrogatori.(1) Il nomignolo gli era stato attribuito da Umberto Improta, (anch’egli importante dirigente dell’Ucigos, protagonista delle inchieste contro i gruppi armati), per le indiscutibili competenze dimostrate da Ciocia in materia di interrogatori non ortodossi. Immortalato alle spalle di Cossiga, in via Caetani, davanti al cadavere di Moro rannicchiato nel portabagagli della Renault 4 color amaranto, Ciocia era un indubbio personaggio: di simpatie dichiaratamente fasciste, nel gennaio 2001 su un mensile massonico, «Il razionale», aveva esaltato le tesi del giurista del regime mussoliniano Giorgio Del Vecchio, elogiando lo Stato etico («il diritto è il concentrato storico della morale»), rivendicando per la polizia i «poteri di fermo, interrogatorio e autonomia investigativa». Nel 2004 aveva avuto rapporti con Fiamma tricolore di cui era stato commissario per la Federazione provinciale di Napoli e, dulcis in fundo, aveva partecipato come difensore di un funzionario di polizia, tra il 1986-87, ai processi contro la colonna napoletana delle Br-Partito guerriglia, che non molto tempo prima aveva lui stesso smantellato senza risparmio di metodi “speciali”. Una singolare commistione di ruoli tra funzione investigativa, emanazione del potere esecutivo, e funzioni di tutela all’interno di un iter che appartiene al sistema giudiziario, che solo in uno stato di eccezione, come quello italiano, si è arrivati a consentire. Su Ciocia raccolsi uno sconcertante aneddoto dalla voce di Massimo Bordin, compianto conduttore della rassegna stampa di Radio radicale e memoria storica dei maxi processi dell’emergenza antiterrorismo. Massimo mi spiegò che l’ex questore, divenuto avvocato, Nicola Ciocia aveva tenuto la difesa di un poliziotto, suo subordinato quando era ancora in servizio, nel processo sul rapimento Cirillo: «Come si può dimenticare quel personaggio!», esclamò quando gli chiesi di lui. Ciocia – mi raccontò Bordin – «aveva iniziato il controinterrogatorio di un imputato che lui stesso aveva interrogato durante le indagini. Con fare aggressivo lo incalzava dicendogli: – ma come, non ti ricordi quando con le lacrime agli occhi mi dicevi queste cose? E l’imputato: – Avvoca’ ma quelle non erano lacrime, erano i suoi sputi!». (2) In una intervista parlando delle torture inflitte ai brigatisti, Ciocia dichiarò: «la tortura – se così si può definire – è l’unico modo, soprattutto quando ricevi pressioni per risolvere il caso, costi quel che costi. Se ci sei dentro non ti puoi fermare, come un chirurgo che ha iniziato un’operazione devi andare fino in fondo. Quelli dell’Ave Maria esistevano, erano miei fedelissimi che sapevano usare tecniche “particolari” d’interrogatorio, a dir poco vitali in certi momenti». (3) Tra le richieste di convocazione c’erano anche tre giornalisti: Matteo Indice, Nicola Rao e Fulvio Bufi, che avevano svolto un importante lavoro d’inchiesta sulle torture; (4) altri due poliziotti, Carlo De Stefano e Michele Finocchi, che gestirono Triaca prima e dopo il waterboarding; (5) il magistrato Imposimato che ignorò le sue denunce. C’erano, inoltre, il nome dell’avvocato Romeo, che si era occupato di far riconoscere dalla Corte di appello di Perugia l’uso della «tecnica dell’annegamento simulato», impiegato contro Triaca durante l’interrogatorio realizzato nella notte del 17 maggio 1978; (6) infine Marco Pannella, che aveva denunciato, in Parlamento e fuori, la stagione delle torture e raccolto le ammissioni del Ministro dell’Interno dell’epoca, Virginio Rognoni: «Ricordo – aveva scritto Pannella – la mattina in cui, dinanzi al tabaccaio di noi deputati, a Montecitorio, incontrai il Ministro dell’Interno e “amico” Virginio Rognoni. Gli dissi che avevamo registrato la sera prima una tribuna autogestita, con Emma Bonino che aveva dietro di sé una gigantografia, che la sovrastava, con il membro torturato di Cesare Di Leonardo, un brigatista arrestato e torturato nelle ultime ore del rapimento del generale americano Dozier. Gli chiesi se fosse a conoscenza del fatto, e dei documenti che noi in tal modo rendevamo televisavamente “pubblici”. Virginio mi ascoltava rabbuiato e attento, e dopo un istante sbottò: “Questa è una guerra. E il primo dovere, per difendere la legge e lo Stato, è quello di coprire, di difendere i nostri uomini…”. La tribuna autogestita andò in onda. Nessuno, ripeto nessuno, sulla grande stampa, in Parlamento, nella magistratura, a sinistra e a destra, sembrò accorgersene». (7) Nicola Ciocia era sfuggito alle poche inchieste della magistratura che si erano occupate delle violenze contro i fermati e gli arrestati. Nelle maglie degli ingranaggi processuali finirono invece Salvatore Genova, un commissario della Digos genovese che aveva contribuito alle indagini e alcuni agenti dei Nocs che avevano direttamente partecipato alla liberazione del generale James Lee Dozier, il 28 gennaio 1982. Il generale americano vicecapo della Fatse, il Comando delle forze terrestri della Nato per il Sud Europa, era stato rapito dalla colonna veneta delle Brigate rosse il 17 dicembre 1981. L’inchiesta accertò le violenze commesse contro Cesare Di Lenardo, catturato insieme a Emanuela Frascella, Emilia Libèra, Giovanni Ciucci e Antonio Savasta, all’interno della base di via Pindemonte 2 a Padova, dove era tenuto prigioniero il generale statunitense. Di Lenardo, che ha raggiunto il suo quarantesimo anno di detenzione in una struttura di Massima sicurezza, fu portato all’esterno della caserma della celere di Padova, dove era trattenuto con gli altri quattro coimputati, e sottoposto a una finta fucilazione, a un tentativo di waterboarding che gli causò una rottura del timpano, a ripetute bruciature di sigaretta e posizionamento di elettrodi sul corpo e sui genitali in particolare. (8)
Salvatore Genova nel 2007 ruppe il si lenzio sulla vicenda e iniziò a raccontare quanto era accaduto durante le indagini che portarono alla liberazione di Dozier: rivelò nel corso del tempo l’esistenza di un apparato del Ministero dell’Interno dedito agli interrogatori non ortodossi, ricostruì alcuni episodi precedenti la liberazione del generale Usa. Le torture vennero impiegate a largo raggio durante i rastrellamenti negli ambienti dell’Autonomia veneta per raccogliere informazioni che portassero sulla pista giusta. In un villino, un residence tra Cisano e Bardolino, vicino al lago di Garda, di proprietà del parente di un poliziotto (lo ha rivelato al quotidiano «L’Arena» del 12 febbraio 2012 l’ex ispettore capo della Digos di Verona, Giordano Fainelli, circostanza confermata dallo stesso Genova) furono condotti e «trattati» Nazzareno Mantovani e successivamente Ruggero Volinia, che aveva svolto il ruolo di autista nel sequestro del generale Dozier. A condurrre l’interrogatorio a base di acqua e sale Nicola Ciocia e la sua fedelissima squadra della Mobile napoletana, detti nell’ambiente gli «acquaiuoli». Volinia, dopo il waterboarding condusse la polizia sotto la base-prigione di via Pindememonte dove era tenuto Dozier. Si torturava anche all’ultimo piano della questura di Verona, requisita dalla struttura speciale coordinata da Umberto Improta, diretta dall’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci, su mandato del capo della Polizia Giovanni Coronas che rispondeva al Ministro dell’Interno Virginio Rognoni. Qui – ha raccontato sempre Salvatore Genova – fu seviziata da Oscar Fiorolli la brigatista Elisabetta Arcangeli. Ultimamente, anche alcuni degli agenti dei Nocs, il reparto speciale delle Polizia di Stato che fece irruzione nell’appartamento dove era trattenuto Dozier, hanno abbandonato il riserbo e iniziato raccontare nuovi particolari sulle violenze praticate contro i brigatisti catturati. Si è venuto a sapere che le torture realizzate contro Ennio Di Rocco e Stefano Petrella, appartenenti al Partito guerriglia, arrestati in via della Vite nel centro di Roma, dove da alcuni giorni erano appostati per tentare di rapire Cesare Romiti, Amministratore delegato della Fiat, avvennero all’interno di una caserma di Monterotondo.La commissione avrebbe potuto offrire un importante servizio alla storia italiana se avesse squarciato la cortina di silenzio calata su questi aspetti della lotta contro le formazioni della sinistra armata. Una rimozione che ha visto la complicità estesa della magistratura, salvo rare eccezioni, la copertura del sistema politico e il bavaglio messo ai media che provarono a denunciare gli episodi venuti alla luce e che assomigliò pericolosamente, in alcuni momenti, a quanto succedeva nello stesso momento in Argentina.Si arrivò addirittura all’arresto di due giornalisti, PierVittorio Buffa e Luca Villoresi, che in due articoli apparsi su «l’Espresso» del 28 febbraio 1982 dal titolo evocativo, «Il rullo confessore», e su «Repubblica» del 18 marzo successivo, «Ma le torture ci sono state? Viaggio nelle segrete stanze. Quei giorni dell’operazione Dozier», avevano raccolto da fonti interne alla Polizia indisponibili ad accettare il ricorso alla tortura le informazioni per denunciare quanto stava accadendo.

Il baratto della verità
Inizialmente la richiesta delle audizioni sulla tortura non sortì reazioni, poi trapelò una singolare offerta di scambio: la Commissione avrebbe convocato Triaca e Ciocia se i brigatisti «irriducibili» avessero accettato di venire a testimoniare. La responsabilità di avviare finalmente il riconoscimento della stagione delle torture ricadeva dunque sulle loro spalle, non sul mandato istituzionale che la Commissione d’indagine parlamentare si era dato. L’offerta che arrivò, a me e a Marco Clementi perché ce ne facessimo carico e la comunicassimo agli ex brigatisti, con cui eravamo in contatto nel periodo di preparazione del volume sulla storia delle Brigate rosse, era ovviamente irricevibile. Né io, né Clementi, riferimmo la proposta. Approfondire la vicenda delle torture, convocare Triaca e Ciocia, interrogarli e ricostruire quel periodo, fare luce sugli organigrammi, risalire la scala delle responsabilità, oltretutto ormai penalmente prescritte, per sapere da dove venne l’ordine di impiegare anche mezzi illeciti di interrogatorio, perché fu presa quella scelta, il ruolo e le connivenze col mondo politico e la magistratura, il peso avuto dagli Stati Uniti, spettava alla Commissione. Prevalse invece la cultura del sotterfugio, l’anima torbida di un potere che si percepisce al disopra del bene e del male. Nel gennaio 2020 Nicola Ciocia è deceduto portando con se i segreti di quella stagione: «Non sono segreti che riguardano la mia persona – aveva spiegato a Nicola Rao nel 2011 – sono segreti che riguardano qualcosa di ben più grande e di molto più importante: sono segreti che riguardano lo Stato […] Quelli dell’Ave Maria esistevano, erano miei fedelissimi che sapevano usare tecniche “particolari” d’interrogatorio, a dir poco vitali in certi momenti […] non sono cose mie, ma sono cose che riguardano lo Stato, non posso dire nulla di più di quello che ho detto. Me le porterò nella tomba».

Note
1 P. Persichetti, «Liberazione», 11 dicembre 2011, Nicola Ciocia, alias professor “De Tormentis”, è venuto il momento di farti avanti, in https://insorgenze.net/2011/12/10/de-tormentis-e-venuto-il-momento-di-farsi-avanti/.
2 P. Persichetti in, https://insorgenze.net/2019/04/18/massimo-bordin-e-quel-ricordo-di-un-torturatore/.
3 M. Indice, «Il Secolo XIX», Così ai tempi delle Br dirigevo i torturatori, 24 giugno 2007.
4 M. Indice, «Il Secolo XIX», interviste a Salvatore Genova, 17 giugno 2007; De Tormentis, 24 giugno 2007; Virginio Rognoni, 25 giugno 2007; N. Rao, Colpo al cuore, Sperling & Kupfer, Milano 2011; F. Bufi, Sono io l’uomo della squadra speciale anti Br, «il Corriere della Sera», 10 febbraio 2012. Tutte queste interviste e altro materiale sulla storia delle torture si possono trovare nella rubrica «Le torture della repubblica» in, https://insorgenze.net/la-polizia-della-storia/.
5 P. Persichetti, https://insorgenze.net/2012/03/29/le-bugie-del-governo-le-torture-possibili-del-sottosegretario-allinterno-prefetto-carlo-de-stefano/.
6 Corte di appello del Tribunale di Perugia, numero sentenza 1130/13. Reg. 70/2013 rev. del 15 ottobre 2013. Si può leggere in, https://insorgenze.net/2014/01/17/gli-anni-spezzati-dalla-tortura-per-la-seconda-volta-una-sentenza-della-magistratura-riconosce-luso-della-tortura-contro-gli-arrestati-per-fatti-di-lotta-armata/.
7 M. Turco, S. D’Elia, Prefazione di M. Pannella, Tortura democratica – Inchiesta sulla comunità del 41 bis reale, Marsilio 2002.
8 Per una esposizione completa delle torture contro Cesare Di Leonardo si rinvia a Le torture affiorate, Sensibili alle foglie pp. 275-308, (Prima edizione ottobre 1998, seconda edizione febbraio 2002), dove sono presenti alcuni atti istruttori del procedimento penale n. 1040/82A PM e 253/82A GI, tra questi la perizia e il supplemento di perizia medio legale, la requisitoria dl Pm Vittorio Borraccetti e la sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio del Gi Mario Fabiani.

Il rapimento Moro e l’uso pubblico della storia

Una recensione a La polizia della storia di Anna Di Gianantonio apparsa su http://www.pulplibri.it – L’uso politico della memoria serve dunque a dimostrare che nessuna strategia, nessuna organizzazione, nessuna motivazione politica che nasce dal basso può esprimersi senza essere manipolata e resa inefficace dalla presenza dei poteri dello Stato. In questo modo gli anni Settanta sono diventati anni di piombo da cui siamo usciti grazie all’azione determinata della politica della fermezza e della difesa della legalità (Paolo Persichetti, La polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, Derive Approdi, pp. 240)

Anna Di Gianantonio 15 luglio 2022
https://www.pulplibri.it/paolo-persichetti-la-dietrologia-sul-caso-moro-e-le-domande-a-cui-non-ce-risposta/

Il libro di Paolo Persichetti spiega il disagio di chi, appassionato alle vicende degli anni Sessanta e Settanta, legge i numerosi lavori usciti recentemente – grazie alla desecretazione delle carte decisa dal governo Renzi – sulla cosiddetta “strategia della tensione” e osserva che molte pubblicazioni, invece di chiarire, talvolta complicano il contesto. Per quanto riguarda le stragi di Ordine Nuovo si conoscono i nomi degli esecutori, ma su quelli dei mandanti vi sono molte e diverse ipotesi. Con il passare del tempo e con la produzione di inchieste televisive, film e nuove ricerche, il lettore ha la sensazione di trovarsi alle prese non tanto con pubblicazioni che, utilizzando fonti inedite, si avvicinano alla verità, ma utilizzando generi letterari simili alle spy-story o ai noir.

Per le Brigate Rosse il quadro è ancora più complesso: in un intreccio di fake news, luoghi comuni e veri e propri falsi storici. Il libro di Persichetti è un accurato e complesso smontaggio delle false notizie sul delitto Moro, che si basa sul suo lungo lavoro di ricerca e su quello di una nuova generazione di storici – tra cui Marco Clementi e Elena Santalena con cui ha scritto il primo volume sulla storia delle BR – che intende analizzare gli anni Settanta con gli strumenti della storia, senza sensazionalismi e false piste. Nel testo l’autore fa nomi e cognomi di famosi autori che sulla vicenda del sequestro e della morte di Moro hanno creato una vera e propria fortuna editoriale, alimentando false ipotesi e complottismi.

Di tutte le complesse questioni della vicenda Moro è impossibile fare una sintesi: è necessario leggere le carte e le prove che porta l’autore. Persichetti rovescia innanzitutto l’immagine di Moro traghettatore illuminato che voleva portare i comunisti al governo, illustrando i colloqui che lo statista ebbe con l’ambasciatore americano Richard Gardner. In quelle occasioni fu proprio Moro, spaventato dal consenso del PCI e convinto che le Brigate Rosse destabilizzassero il paese favorendo i comunisti, a chiedere  all’ambasciatore una maggiore attenzione e un attivismo statunitense in Italia. Per rassicurare il diplomatico, Moro garantì che nel nuovo governo Andreotti non ci sarebbe stato alcun ministro di sinistra, smentendo clamorosamente le assicurazioni che erano state fatte al PCI e che riguardavano la presenza di almeno tecnici di area nel nuovo esecutivo.

La scelta di Moro di depennarli dagli incarichi fu contestata dallo stesso futuro presidente del consiglio Andreotti e dal segretario nazionale Zaccagnini che si dimise dalla carica. Il PCI, furioso per la decisione, votò la fiducia solo dopo la notizia del rapimento dello statista. Dunque Moro non fu affatto l’uomo del compromesso storico o delle larghe intese, come fu rappresentato post mortem, quando lo si descrisse come lungimirante antesignano di politiche inclusive mentre durante la prigionia venne considerato incapace di formulare pensieri autonomi.

Altro luogo comune diffuso ancor oggi è la “leggenda nera” su Mario Moretti, considerato una personalità ambigua e legata in qualche modo ai servizi. Moretti sta scontando il quarantaduesimo anno di esecuzione di pena e dunque difficilmente può essere considerato un uomo al servizio dello Stato. I sospetti su di lui vennero diffusi da Alberto Franceschini e Giorgio Semeria, smentiti da indagini interne che rivelarono l’inattendibilità delle accuse, ugualmente utilizzate da ricercatori come Sergio Flamigni che sulla figura di Moretti e sui suoi presunti legami con i poteri forti ha costruito la sua fortuna politica ed editoriale.

La dietrologia sul caso Moro si è esercitata sulla presenza in via Fani di altri soggetti, in particolare su due motociclisti in sella a una Honda, visti sulla scena del rapimento dal testimone Alessandro Marini. I motociclisti scatenarono mille ipotesi sulla loro presunta identità di uomini dei servizi, killer professionisti o agenti di servizi esteri, dando luogo a nuove pubblicazioni. Fu il lungo e minuzioso lavoro storico di Gianremo Armeni nel saggio Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro che mise in luce in luce l’inattendibilità della testimonianza. In via Fani c’erano solamente le dieci persone indicate nei processi come responsabili del sequestro e dell’uccisione della scorta, tutte appartenenti alle Brigate Rosse.

Con una nutrita serie di documenti e di analisi Persichetti denuncia anche le incongruenze della seconda commissione Moro, istituita nel maggio del 2014 con la presidenza di Giuseppe Fioroni. Pur utilizzando tecniche di indagine nuove, come l’analisi del DNA e le ricostruzioni laser della scena del delitto, non si è giunti a nuove conclusioni.

Persichetti sostiene dunque che:

Cinque anni di processi, decine e decine di ergastoli erogati insieme a centinaia di anni di carcere, due commissioni parlamentari, le testimonianze dei protagonisti, alcuni importanti lavori storici, non hanno scalfito l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico che da oltre tre decenni alligna sul sequestro Moro e l’intera storia della lotta armata per il comunismo...

Qual’è il pregiudizio storiografico cui l’autore fa riferimento? Molto semplicemente l’idea che un gruppo armato abbia potuto, senza aiuti esterni, compiere un’azione di quel tipo mentre la lettura “politica” di quegli anni vuole dimostrare che dietro le lotte di massa degli anni Sessanta e Settanta c’erano strategie di potere orchestrate da forze occulte legate allo Stato, ai servizi segreti, a dinamiche internazionali.

L’uso politico della memoria serve dunque a dimostrare che nessuna strategia, nessuna organizzazione, nessuna motivazione politica che nasce dal basso può esprimersi senza essere manipolata e resa inefficace dalla presenza dei poteri dello Stato. In questo modo gli anni Settanta sono diventati anni di piombo da cui siamo usciti grazie all’azione determinata della politica della fermezza e della difesa della legalità.

Secondo Persichetti quali domande sarebbe lecito invece porsi sul caso Moro? Innanzitutto andrebbe fatta un riflessione sull’uso della tortura sui detenuti e sulle detenute delle BR ad opera del funzionario dell’UCIGOS Nicola Ciocia, chiamato professor De Tormentis, che applicò sui prigionieri, soprattutto sulle donne, azioni violente ed umilianti per costringerli a parlare, pur in presenza di una legislazione speciale che consentiva abbondanti sconti di pena a pentiti, collaboratori di giustizia, dissociati. Inoltre: perché la linea della fermezza fu mantenuta sino all’esito tragico della morte di Aldo Moro? Perché i due partiti di massa, DC e PCI, non intervennero per la sua salvezza, nonostante le BR si accontentassero di un riconoscimento della natura politica della loro azione? Perché Fanfani, che doveva pronunciare un discorso di minima apertura e riconoscimento, non parlò, tradendo l’impegno preso con il PSI che si adoperava per una trattativa?

Due ultime considerazioni. L’archivio di Paolo Persichetti, sequestrato l’8 giugno 2021 da agenti della Digos con accuse pretestuose deve essere  restituito al legittimo proprietario. Persichetti ha scontato la sua pena ed è l’unico a poter raccogliere testimonianze dei protagonisti di quegli anni avendo gli strumenti per ragionarci sopra. Non può esistere in Italia un organismo di “polizia di prevenzione” che intervenga sulla ricerca storica per orientarla in direzioni prestabilite. Scandaloso è il fatto che pochi intellettuali si siano mossi a difesa della libertà della ricerca storica, minacciata non solo per quanto riguarda gli anni Settanta. Si pensi alla criminalizzazione degli studiosi delle foibe, passibili del reato di negazionismo.

Infine un’osservazione. È doverosa la ricostruzione storica ma è necessaria anche una riflessione politica su quegli anni. Leggendo il volume, alcune figure di brigatisti come Franceschini emergono per la loro inadeguatezza politica e umana. A mio avviso il terreno autobiografico e psicologico non è un elemento secondario nel fare un bilancio di una fase storica. Inoltre vi sono stati degli errori: innanzitutto, come afferma l’autore, l’aver pensato che il rapimento avrebbe causato contraddizioni forti tra base e dirigenti del PCI riguardo al compromesso storico, contraddizioni che  vennero ridimensionate anche a causa del rapimento. L’uccisione di Guido Rossa nel 1979 non fece che rafforzare la condanna contro le azioni armate e prosciugare quella zona grigia che non si schierava con lo Stato. Sulla questione delle ragioni del consenso e sul tema della violenza sarebbe necessaria una discussione molto articolata.