Più case meno Pound

Preceduto da polemiche e appelli contrapposti, finisce in un flop il raduno nazionale del Blocco studentesco patrocinato da CasaPound. Tanto rumore per nulla

Paolo Persichetti
Liberzione 8 maggio 2010


Quarantaquattro gatti in fila per sei col resto di due
. E’ finita proprio così, come recita la filastrocca che vinse lo zecchino d’oro nel 1968, il sit-in nazionale del Blocco studentesco, emanazione di CasaPound, che si è tenuto ieri a Roma. Poche centinaia di militanti raggruppati nell’angolo di una piazza troppo grande per loro. In giro nemmeno l’ombra delle migliaia che avrebbero dovuto marciare sulla Capitale, come preannunciato alla vigilia. Era dunque infondato, oltre che molto discutibile, l’allarme lanciato nei giorni scorsi dall’Anpi (per altro ritiratasi all’ultimo momento dopo aver acceso la miccia), ripreso da un folto gruppo d’intellettuali e personalità che chiedevano l’esclusione del Blocco studentesco dalle elezioni universitarie, dalle forze politiche di sinistra e dai Centri sociali che hanno dato vita ad un presidio di protesta, anche questo senza grande partecipazione. La forte opposizione della sinistra romana aveva spinto la Questura a vietare il corteo chiesto dai «fascisti del terzo millennio» e autorizzato in precedenza dalla Prefettura. Scelta molto “maliziosa” che ha accresciuto le polemiche e acceso i riflettori su una vicenda che con tutta probabilità sarebbe passata quasi inosservata. La sinistra si è divisa, Piero Sansonetti e Massimo Bordin hanno firmato un appello in difesa del diritto di manifestare per chiunque, dunque anche per chi si richiama apertamente ad una delle tante sfumature del fascismo, in questo caso quello del programma di san Sepolcro. Ma quelli di CasaPound non sono gli abitanti di un campo Rom, di tanta solidarietà non avevano gran bisogno perché nel frattempo era arrivato l’appoggio di un bel pezzo di maggioranza, 32 parlamentari del Pdl (molti dei quali finiani), e di due fedeli consiglieri capitolini del centrodestra, Ugo Cassone e Luca Gramazio. Ricevuti dal comprensivo sottosegretario agli Interni, Alfredo Mantovano, hanno ottenuto la possibilità di una manifestazione stanziale, conclusasi prima del previsto. Tuttavia l’accorta messa in scena disposta in piazza, l’assenza di vessilli e cimeli del fascismo storico, le bocche chiuse e la comunicazione affidata solo ai portaparola ufficiali, lo sfoggio di retorica giovanilista e vitalista con un target studentesco ben preciso, l’estetismo autocontemplativo, il «siamo belli come il sole», «17 anni tutta la vita», «giovinezza al potere» che rinviano ad una sorta di impoliticità ormonale, di onanismo ideologico, di acne militante, le canzoni di Rino Gaetano e Vasco Rossi, non cancellano la lunga lista di aggressioni, iniziative contro i disabili, xenofobia e brindisi alla Shoa. Contrariamente a quanto accadeva alla destra radicale non stragista degli anni 70, questa formazione non vive ai margini del sistema ma è la micropropagine ultima del blocco politico-sociale attualmente al governo. Il 20 marzo aveva suoi uomini tra i ranghi del servizio d’ordine della manifestazione che il Pdl ha tenuto in piazza san Giovanni. Dietro l’aria scapigliata e le imitazioni futuriste s’intravede la voglia di poltrone negli assessorati e le municipalizzate. In attesa appalta per conto del Pdl, dietro copertura politica e sostegno materiale, il tentativo di penetrazione nel sociale e nelle scuole e racimola fondi grazie alle delibere comunali e ai servizi d’attacchinaggio durante la campagna elettorale. Insomma quelli di CasaPound non sembrano proprio avere l’aspetto d’un gruppo di perseguitati, al contrario frequentano i salotti buoni, addirittura aspirano a diventare uno di questi. Finito il raduno e svuotata la piazza sul selciato disadorno è rimasta solo una domanda: c’era davvero così bisogno di sollevare tanto allarme?

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Neofascismo, il millennio in provetta

Neofascismo, il millennio in provetta

Flop del raduno nazionale di CasaPound: «Chi ci attacca è infame come i partigiani»

Alberto Piccinini
il manifesto 8 maggio 2010

«Ecco perché abbiamo deciso che il 7 maggio scenderemo ugualmente in piazza. Con migliaia di uomini e di donne che hanno ancora ‘quella strana luce negli occhi’ e il sorriso degli invitti». Così Gianluca Iannone, leader di CasaPound Italia, a proposito del divieto della manifestazione del Blocco Studentesco, ieri a Roma. La lettera si intitola «una risata vi seppellirà». E’ in Rete. Uno pseudo-Mogol, un D’Annunzio liceale (invitti), gli indiani metropolitani: per entrare nel pantheon dei fascisti del terzo millennio c’è da far la fila. Per entrare a piazza Esedra, ieri mattina, molto meno.
 Sono scesi ugualmente in piazza in tremila, numero dichiarato dal sito di Blocco Studentesco ieri. I ragazzi e ragazze sulla ventina arrivati da mezza Italia a sostenere i candidati alle elezioni universitarie saranno pure un po’ meno di così [in realtà solo poche centinaia], ma non è questo il punto. Parla il candidato Francesco Polacchi, in camicia azzurra, aria vagamente skin, già immortalato nelle riprese e nelle foto degli scontri a piazza Navona: «Quelli che ci attaccano sono infami come i loro nonni partigiani – dice – il nostro cammino sarà la loro distruzione, perchè siamo noi il futuro». Attacca: «La chiamano Liberazione, in realtà è una sconfitta militare».
Apologia di fascismo? Più che altro sembrerebbe un rebus a chiave. Tra fascismo «e» terzo millennio, CasaPound ama camminare sul filo dei paradossi. E’ un movimento paradosso, quasi una boy-band creata in provetta. Kitsch fascio, cialtronesco pop come i gadget di Predappio, le madonne di Lourdes, i badge di Lenin. D’Annunzio, Marinetti. Marciare sì, ma sulle uova. È la versione radicale e liceale del “compagno Fini”, se volete una battuta facile. Orfani della politica come quasi tutti, prima che dell’Msi, quelli di CasaPound amano cercare e sedurre i propri interlocutori, meglio se di sinistra. Per ognuno che li ascolta segnano un punto a favore. 
Esibiscono striscioni. Vendono fanzine. Ascoltano gli ZeroZeroAlfa e Rino Gaetano, Il cielo è sempre più blu. Adorano le t-shirt: «Parte uno, partono tutti». Gli striscioni: «Giovinezza al potere». T-shirt: «Hate for breakfast» (Odio a colazione, è una band skin di Viterbo, sottotitolo fascist and furious). T-shirt: «Ritti sulla cima del mondo» (è il manifesto di Marinetti). Striscione: «17 anni per tutta la vita». Su un muro: «Una sola cosa: restare vivi in un mondo di rovine». E’ una subcultura che può vantare di avere un dono del cielo per scrivere lapidi.
 Quelli del Blocco, quelli di CasaPound sventolano bandiere tricolori con gesti da professionista, tipo sbandieratori di Cori. Fanno garrire le bandiere nere col cerchio e il lampo. Le loro bandiere. Tanto somiglianti al vessillo del British Union of Fascism, il movimento fascista inglese di Oswald Mosley, tifoso di Mussolini negli anni ’30. Per molto meno in altri tempi David Bowie, che osò mostrare il vessillo in un concerto degli anni ’70, dovette autoesiliarsi a Berlino, mentre in Inghilterra nasceva Rock against the racism. L’esempio non viene a caso perchè la sensazione prevalente, girando per la piazza e nonostante il nero prevalente, è quella di trovarsi in un vertiginoso labirinto di segni piovuti dal tempo. 
Qui le subculture inglesi mod, skin, casuals, si danno la mano con gli arditi e gli invitti, i legionari e tutte le falangi. Quelli di CasaPound, quelli del Blocco, si salutano stringendosi gli avambracci, come tanti camerati prima di loro prima che vendessero la casa a Berlusconi, compreso il sindaco Alemanno. A proposito di casa, occupano una casa nell’Esquilino multietnico e propugnano il mutuo sociale. Sostengono di non aver litigato mai con un immigrato, neppure per un parcheggio. Dicono di non essere contro nessuno, a parte il «pensiero unico». E i centri sociali. 
Militaristi nemmeno troppo, semmai alpinisti e camminatori. Sommozzatori (hanno un Gruppo Immersioni Subacquee), qualche pugile. Poca curva di stadio. Tifosi del West Ham (vista una sola maglietta, è un vecchio punto di riferimento dei naziskin). La loro capacità di attrazione nel disastrato mondo delle identità politico-giovanili devastate da trent’anni di marchi e mercato, è un fenomeno di per sè. Il rapporto con la revanche fascista è mediato. Meditato. Vorrebbe essere persino ironico, come si usa in tutte le estetiche postmoderne, anche quelle neosovietiche (fu Malcolm McLaren, prima di inventare i Sex Pistols, a ricoprire i New York Dolls di falci e martelli). Ma si può ricreare un’estetica neo-neofascista e sperare di essere accolti da un sorriso? Quale? Il sorriso degli invitti? 
Alla fine, il rebus non ha soluzione. Potrebbe voler dire quello che non si può dire. Potrebbe voler dire nulla. Pure questo fa parte del gioco. Non è successo quasi niente. Tutti a casa.

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Ancora un episodio di violenza e tortura in una caserma dei carabinieri

Da Federico Aldovrandi e Stefano Cucchi, da Aldo Bianzino a Giuseppe Uva, la lunga lista dei morti ammazzati dalle forze dell’ordine dopo brutali pestaggi

Paolo Persichetti
Liberazione 21 marzo 2010

E’ stato rincorso e poi picchiato prima di essere caricato su una macchina delle forze dell’ordine. Giunto in caserma è stato pestato di nuovo. Un testimone racconta di un lasso di tempo lunghissimo nel quale si sentivano distintamente le urla del malcapitato provenire da un’altra stanza. Stiamo parlando del fermo di Giuseppe Uva morto il 14 giugno 2008 dopo le percosse subite in una stazione dei carabinieri e il ricovero coatto in una struttura psichiatrica. La vicenda è stata resa nota ieri da Luigi Manconi dopo che l’avvocato Fabio Anselmo, lo stesso che ha seguito il caso di Federico Aldovrandi e Stefano Cucchi, ha assunto il patrocinio legale a nome della famiglia. Giuseppe Uva aveva 43 anni e la sera del fermo aveva fatto le ore piccole. Alle tre di notte forse era un po’ brillo mentre si aggirava per le strade di Varese a fare “bischerate”, come in Amici miei. Ricordate il film di Mario Monicelli, girato nel 1975, dove cinque amici ormai cinquantenni si divertono a organizzare scherzi goliardici in giro per la città? Una delle ultime pellicole della commedia all’italiana dove si descriveva un paese ancora in grado di ridere di sé. Una risata piena e disperata, consapevole di una condizione umana ormai persa in un mondo senza grandi prospettive. Le «zingarate» dell’allegra brigata erano una fuga per non morire di tristezza. Un tentativo d’annegare la disillusione in un riso intriso di malinconia. In quell’Italia lì si poteva finire in caserma o in carcere per tante ragioni, spesso politiche, ma non ancora per ridere. Non erano tempi terribili e cupi come quelli dell’Italia attuale, dove un ragazzo che rientra da un concerto, com’è accaduto a Federico Aldovrandi, viene fermato sul ciglio del marciapiede di una strada di Ferrara e massacrato da alcuni poliziotti. Dove un artigiano mite che lavorava il legno come Aldo Bianzino, uno che viveva nel suo casolare umbro senza dare disturbo a nessuno, viene arrestato perché nel suo orto crescevano delle piante di marijuana che consumava solo per sé. Portato in carcere lo ritroveranno morto in cella. L’autopsia segnalerà la presenza di traumi interni, lacerazioni del fegato e degli altri organi dell’addome, manifesta conseguenza di percosse subite. A Riccardo Asman non è andata meglio. Affetto da problemi psichiatrici, mostra segni di forte euforia spogliandosi e tirando petardi dalla finestra di casa, da dove fuoriesce anche musica ad alto volume. L’intervento del 113 finisce in tragedia. L’uomo muore soffocato con le caviglie legate da fil di ferro, le pareti dell’abitazione sporche di sangue e il corpo devastato da brutali percosse praticate con oggetti contundenti. Stefano Cucchi invece è morto disidratato, segnalano i referti, nell’indifferenza e l’incuria di un ospedale penitenziario. Il suo corpo era martoriato da lesioni, fratture ed ematomi. Traumi subiti dopo il suo fermo mentre era nelle mani di chi doveva assicurarne la custodia.
Giuseppe Uva pare avesse spostato delle transenne in mezzo alla via. Non aveva commesso reati, al massimo una violazione al codice della strada. Per questa bischerata è morto. Il suo decesso ricorda quello di Francesco Mastrogiovanni, il maestro anarchico di Castelnuovo Cilento anche lui fermato per futili motivi e condotto nell’ospedale di Vallo della Lucania dove è deceduto durante un Tso. L’autopsia ha rivelato la presenza di un edema polmonare. Mastrogiovanni era rimasto legato per giorni su un letto di contenzione, lacci ai polsi, contro ogni regola. Qualcosa del genere è accaduta anche a Giuseppe Casu, l’ambulante cagliaritano fermato e poi ricoverato a forza perché non voleva lasciare la sua bancarella vicino al municipio. Sette giorni di letto di contenzione, farmaci somministrati contemporaneamente e in dosi elevate l’hanno ucciso. Queste morti hanno tutte un filo comune: colpiscono piccoli consumatori di droghe, persone con disagi psichiatrici o individui percepiti dalla comunità come “diversi”, troppo originali. Insomma segnalano un problema d’intolleranza e disprezzo verso popolazioni stigmatizzate, fasce considerate immeritevoli di rispetto e diritti. Sollevano poi l’irrisolto problema degli apparati di polizia pervasi da culture sopraffattrici, specchio di un’epoca dove la spoliticizzazione ha aumentato a dismisura il grado di violenza che pervade i rapporti sociali. Infine sollevano un paradosso: una legalità eretta a tabù si rovescia nel suo esatto contrario.

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Caso Giuseppe Uva: dopo tre anni finalmente la superperizia
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La vendetta dei carabinieri contro Giuseppe Uva: “Il racconto choc dell’amico”

Valerio Verbano, l’epoca dei becchini

Un articolo recensione del libro di Carla Verbano, Sia folgorante la fine, ha suscitato alcune reazioni in rete. Riporto solo il primo intervento critico, postato in forma anonima su Indymedia lombardia e Bellaciao.org a cui segue la replica. Per chi fosse interessato alla querelle, basta cliccare i link

Lun, 15/02/2010 – 20:04
by Anonimo

Risposta all’articolo https://insorgenze.wordpress.com/2010/02/14/valerio-verbano-a-trentanni-d

…Si auspica a torto lo stesso trattamento, da ingenui quali siamo, spesso noi, a sinistra. Le lotte sono differenti, le mete altrettanto così gli obiettivi. Ma se per scagionare qualcuno ci vuole prima un’accusa e una sentenza, già qui si parla di amnistia. Mi spiace che il compagno Persichetti si sia azzardato a tanto, pur consapevole di essere in acque torbide e la vista non gli conceda di poter gridare (seppur sommessamente) “terra”. Non si può chiedere giustizia giusta e applicata in maniera tanto sbrigativa quando ancora non è stata ascritta e decretata colpevolezza. Inoltre ribaltando i termini l’amnistia non è così che è osservata, come un patteggiamento fra le parti, senza che quella primariamente coinvolta si sia espressa come colpevole o abbia fatto ammissione di correità. Niente di tutto questo. Mettere perciò le mani avanti è scorretto verso chi chiede quella giustizia doverosa, necessaria verso chi ha atteso tanto tempo. Che venga dalle vittime e non dal carnefice. E non illudiamoci che basti mettere il verme sull’amo perché la balena abbocchi. E’ tutto molto più complicato, ci sono sinergie che devono saltare come un domino e rapporti di potere ricattatori che non è dato sapere se sono attuali o meno. Quando il braccio armato è ancora potente e il movente lungi dallo svelarsi, nessuno dovrebbe esprimersi con tanta leggerezza e superficialità. Si rischia di essere fraintesi, come virtuali conniventi o destinatari di un valore aggiunto che sono quelle briciole che cadono dalla tavola, come per sbaglio.

Gli spacciatori di passioni tristi

Quando ai soggetti vivi della storia si sostituiscono i testimoni risentiti della memoria comincia l’epoca dei becchini. La memoria assume così le sembianze del morto che agguanta il vivo, del vampiro che succhia la vita futura

Paolo Persichetti

Le normali regole del contraddittorio prevedono che la tenzone avvenga ad armi pari. In questo caso invece il mio contraddittore interviene in forma anonima. Basterebbe questo per deconsiderare le parole di chi non ha nemmeno il coraggio delle proprie idee. Per altro questo signore mi da del “compagno”, ma io non sono suo compagno. I miei compagni stanno in carcere con l’ergastolo non a fare gli assessori per qualche giunta di centrosinistra o i parolai. Chi mi contesta pare che sappia con certezza chi sono gli assassini di Verbano, allora perché non procede. Gli manca il coraggio?
Potrei chiuderla qui questa polemica, anche perché, come diceva Oscar Wilde, se litighi con un cretino l’unico risultato che ottieni è sembrare cretino pure tu.
Resta che questi post vengono letti comunque da un certo numero di persone; è solo per rispetto di queste che mi costringo ad una replica.

1) Nella storia sono esistite diverse tipologie di amnistia. Quelle politiche applicate in Italia fino al 1970 indicavano nel loro articolato le fattispecie di reato commesse all’interno di un determinato periodo storico. Le persone denunciate, e/o processate, e condannate per quei fatti repressi dalla legge usufruivano dell’amnistia. Lì dove non vi era stata ancora azione penale, veniva meno nel futuro la possibilità di svolgere il processo. L’azione penale restava nella discrezione del pubblico ministero che avrebbe potuto comunque agire conducendo un’inchiesta nell’interesse pubblico dell’accertamento dei fatti (poiché possono sussistere reati non amnistiati), dichiarando alla fine la non procedibilità per sopravvenuta amnistia.
Tuttavia per ovviare al rischio dell’amnistia cosiddetta “preventiva”, che può creare ostacoli all’accertamento della verità (qui ovviamente bisogna ricordare che la “verità giudiziaria” è una mera convenzione che non può essere in alcun modo sovrapposta alla verità storica. Troppi oggi pensano che l’unica via per raggiungere la verità sia quella di fare processi e scrivere sentenze), soprattutto dopo le esperienze delle auto-amnistie dei regimi dittatoriali del Sud America, in Sud Africa è stato sperimentato un modello alternativo denominato “Ubuntu”. Attuato dalla commissione riconciliazione e verità, questo sistema prevedeva il riconoscimento dei fatti-reato da parte dei loro autori, una verifica della loro veridicità attraverso i normali riscontri da parte dell’autorità pubblica, il riconoscimento dell’amnistia e una riparazione materiale e simbolica per le parti lese. Chi riteneva di non dover accedere a questo tipo di procedura conciliativa era passibile in futuro, se individuato, di azione penale secondo i normali criteri procedurali senza possibilità di amnistia.
Nel mio articolo messo sotto accusa pensavo a questo tipo d’ipotesi. Dopo 30 anni senza risultati e con un’esigenza, che dovrebbe imporsi, di storicizzazione, mi sembra ovvio cercare di creare le condizioni che possano facilitare un percorso di verità. Non è scontato che ciò avvenga su ogni episodio rimasto oscuro o parzialmente oscuro, ma esiste la prova contraria. Fino ad oggi non si sono fatti passi avanti. Aggiungo che ai tempi di Valerio si faceva ancora controinchiesta (quella che lui stava conducendo nel famoso dossier). I responsabili di misfatti venivano cercati autonomamente. Non si aspettava la chiamata della polizia giudiziaria. Oggi siamo in grado di fare questo? Non mi sembra, visto che s’invoca l’azione della magistratura. L’amnistia quantomeno ripristinerebbe un principio di autonomia politica da parte nostra.

2) Il 22 febbraio 2010 saremo a 30 anni esatti dalla morte di Valerio. La vecchia normativa ammetteva la prescrizione dei reati più gravi dopo 30 anni dai fatti, riconoscendo un vecchio principio cardinale del diritto che prevede tempi certi e ragionevoli alla durata dei processi e delle condanne. A distanza di troppi decenni, infatti, si riteneva: per un verso, troppo difficile accertare le responsabilità e ricostruire l’esatto contesto dell’epoca; dall’altro, inefficace una condanna contro un individuo diverso da quello che aveva commesso il reato.
La cultura dell’imprescrittibilità dei reati più gravi ha guadagnato terreno negli ultimi decenni e dagli iniziali crimini di genocidio e contro i diritti umani si è via via passati anche ai normali reati del codice penale. Oggi non sono prescrittibili i reati che prevedono la pena automatica dell’ergastolo (praticamente buona parte dei reati politici previsti nel nostro codice). L’omicidio sarebbe tecnicamente prescrittibile solo nel caso in cui non venissero contestate le circostanze aggravanti. La materia è diventata complessa poiché s’intrecciano vecchia e nuova normativa: lì dove il reato è stato commesso sotto la vigenza della vecchia norma ma il processo verrebbe svolto con la nuova, dovrebbe in teoria prevalere la norma più favorevole al reo eventuale, ma non è detto che sia più così. In sostanza oggi, per il gioco delle aggravanti e delle attenuanti, la prescrittibilità del reato d’omicidio sarebbe tutta nelle mani del giudice che potrebbe decidere a seconda dei casi con criteri diversi (proviamo ad immaginare quali?), ingenerando discriminazioni. Il pm agirebbe automaticamente ipotizzando la fattispecie più grave, non foss’altro per poter esercitare l’azione penale. Non mi sembra eccezionale questa situazione.

3) Evase queste noiose note tecniche, vengo alle questioni più politiche:

a) Dovremmo saper fare buon uso della memoria. La vicenda di Valerio è immersa in un contesto storico e sociale ben preciso. La sua morte è legata ad un filo di episodi, di rappresaglie e contro rappresaglie. Chi oggi si lancia in nuove teorie del complotto, ipotizzando chissà quali oscuri agenti, azzera la dimensione storica di quegli anni. La morte di Verbano scatenò una rappresaglia durissima, come avvenne anche per Walter Rossi, contro un militante missino noto picchiatore, Angelo Mancia (che con la sua morte non c’entrava nulla). Omicidio rimasto anche questo, come avrebbe scritto il mio contraddittore, “impunito”. Se per Valerio ci sono stati degli indagati, per Mancia nemmeno l’ombra. Seguendo lo schema di pensiero di chi contesta il mio articolo, dovremmo ricavarne che esiste un “doppio stato comunista” che impedisce l’accertamento della verità sui fascisti uccisi dai rossi.
C’è qualcosa che il mio contestatore fantasma non dice perché la sua logica monca si ferma prima: vorrebbe in galera anche gli assassini di Mancia? Oppure sogna una polizia e una magistratura che fanno giustizia solo per Valerio e non per i fascisti (quella stessa contro la quale magari sbraita (?) quando uccide Carlo Giuliani o Federico Aldovrandi e assolve i poliziotti di Genova)?

b) Un minimo di onestà intellettuale porterebbe a riconoscere che tra le fila della destra ci sono molti più morti senza esito giudiziario di quanti ne sono rimasti a sinistra. Tra le nostre fila invece abbondano i morti senza colpevoli perpetrati dalle forze di polizia. Che strano che non ci si ostini per niente a cercare la verità su chi ha sparato a Giorgiana Masi, a Fabrizio Ceruso, a Pietro Bruno? Contro i fascisti si, ma contro lo Stato no! Come la chiamiamo sindrome legalitaria, statolatria?

c) «Chiedere giustizia», «decretare colpevolezza», «ammissione di correità», «vittime», «carnefice», sono questi alcuni dei termini utilizzati dal fantasma. Denotano una cultura giustizialista intrisa di populismo penale. Dubito che Valerio quando venne ucciso potesse riconoscersi in un linguaggio del genere. Era un giovane militante comunista rivoluzionario, non un criptodipietrista, uno che parla come Diliberto e i suoi Gom. Leggete il libro della madre quando racconta della battaglia pubblica che intraprese dopo l’uccisione a casaccio di Stefano Cecchetti davanti ad un bar di destra nella sua zona. Conosceva Cecchetti perché frequentava la sua scuola, sapeva che non era un militante fascista, aveva solo amici in comune da una parte e dall’altra. Era solo per caso in quel bar quel giorno. Una macchina si è accostata e dai finestrini sono partiti tre colpi. A Torino, anni prima, davanti all’Angelo azzurro accadde una cosa simile. Era un locale ritrovo di militanti di destra. Un corteo dell’estrema sinistra passava nei paraggi. Dal mucchio si sgancia un gruppetto che si mette a lanciare molotov. Invece di uscire, un cliente si rifugia nei bagni dove muore asfissiato. Non era fascista ma solo uno studente lavoratore non politicizzato. Questi episodi disturbano l’epica vittimistica dei becchini della memoria e quindi non dobbiamo raccontarli?

d) Verbano sapeva bene cosa voleva e levò la sua voce pubblicamente contro questo modo di agire simile a quello dei fascisti, dei Giusta Fioravanti che andavano a sparare a caso davanti a una piazza, come accadde per Roberto Scialabba, o nei locali di una radio durante una trasmissione di femministe. Quando ai soggetti vivi della storia si sostituiscono i testimoni risentiti della memoria comincia l’epoca dei becchini. La memoria assume così le sembianze del morto che agguanta il vivo, del vampiro che succhia la vita futura.

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Lega, banda armata «istituzionale». I paradossi dell’inchiesta di Verona contro la Guardia nazionale padana

Reati politici contestati alla Lega nord. Per l’accusa, il ministro degli Interni Maroni sarebbe stato il capo di un’associazione a carattere militare, denominata prima “Camicie verdi” e poi “Guardia nazionale padana”. Graziato dalla Consulta, arresta militanti della sinistra rivoluzionaria accusandoli degli stessi reati di cui lui non dovrà rispondere perchè coperto dall’immunità

Paolo Persichetti
Liberazione 24 gennaio 2010

«Costituzione di un’associazione a carattere militare», con questo capo d’imputazione previsto dall’articolo 1 della legge 243 del 1948, finalizzata a reprimere la creazione di milizie paramilitari, il gup di Verona Rita Caccamo ha rinviato a giudizio 36 esponenti della Lega nord, tra cui spiccano i nomi dell’attuale sindaco di Treviso Gian Paolo Gobbo, del deputato Matteo Bragantini, dell’ex sindaco di Milano Marco Formentini, che non hanno potuto avvalersi dell’immunità parlamentare come invece è accaduto per l’intero gotha leghista: Umberto Bossi, Roberto Maroni, Mario Borghezio, Roberto Calderoli, Francesco Speroni ed altri. A restare impigliati nelle maglie dell’inchiesta condotta dal pm Guido Papalia sono rimasti in prevalenza solo alcuni “caporali” e qualche “sergente”. La vicenda risale al 1996, epoca in cui la Lega perseguiva una strategia che rasentava l’insurrezionalismo secessionista. Diversa acqua è passata sotto i ponti da allora. Nel frattempo, il 25 gennaio 2006 una serie d’innovazioni legislative in difesa della libertà di espressione hanno fatto decadere tre delle 4 imputazioni su cui era incardinata l’inchiesta: l’articolo 241 (attentato contro l’integrità, indipendenza dello Stato) e 283 (Attentato contro la costituzione) del codice penale. E’ bastato che il Parlamento inserisse il requisito degli «atti violenti» perché la configurazione giuridica dei fatti contestati perdesse fondamento. Circostanza questa senza dubbio positiva, anche se non ci si può esimere dal sottolineare come altrove la manifestazione d’opinioni o propositi d’altra natura, anticapitalisti o antigovernativi per un verso, o ispirati a credi religiosi non conformi per l’altro, abbiano subito al contrario un inasprimento repressivo senza precedenti, ivi compreso la reintroduzione dell’offesa a pubblico ufficiale. I leghisti hanno ottenuto l’abolizione dei reati che mettevano a repentaglio le loro opinioni ideologiche e rafforzato quelli che colpiscono le opinioni degli avversari. Venuti meno i reati fine, oltre al 241 e 283 cp veniva contestata anche l’associazione antinazionale finalizzata a «deprimere e distruggere il sentimento della Nazione» (271 cp), dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale con sentenza del 5 luglio 2001, n. 243, la magistratura ha dovuto ripiegare sull’unico reato mezzo presente: «l’associazione a carattere militare denominata “Camicie verdi” poi confluita in un’altra struttura più complessa denominata “Guardia nazionale padana”». Secondo l’accusa «gerarchicamente organizzata e addestrata per un eventuale impiego collettivo in azioni di violenza e minaccia – presentate come azioni di legittima difesa di pretesi diritti violati – e utilizzata anche per intimidire gli aderenti contrari alle direttive politiche dei vertici del movimento, e quindi impedirne la partecipazione al dibattito interno, e così imporre attraverso la riduzione al silenzio dei dissenzienti una precisa linea politica». Il processo che si aprirà il primo ottobre 2010, riforma del processo breve permettendo, riserva notevoli paradossi. Alla sbarra sarà giudicata quella che qualcuno ha già definito una «eversione istituzionale». Basti pensare che il capo di questa struttura paramilitare altri non era che l’attuale ministro degli Interni Roberto Maroni, scampato al processo grazie alla Consulta. Tant’è che in molti invocano il tempo passato, oltre 13 anni, il percorso di costituzionalizzazione della Lega, eccetera. Tutto vero e tutto giusto. Peccato però che questi argomenti, del tutto condivisibili, valgano soltanto quando ad essere sul banco degli imputati sono lorsignori. Nei giorni scorsi, da ministro dell’Interno, Roberto Maroni si congratulava con il capo della polizia, Antonio Manganelli, per l’arresto di Manolo Morlacchi e Virgilio Costantino, accusati di fare parte di un’ennesima propaggine delle cosiddette «nuove Br». Ai due, che hanno contestato ogni addebito, è bastato molto meno di quanto fosse contestato al ministro per ritrovarsi in carcere. Scrivere un libro e avere un nome carico di storia. Ci sono poi detenuti politici rinchiusi da oltre trent’anni. Per alcuni il tempo si conta in minuti, per altri in secoli.

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Anatomia del discorso leghista
Camicie verdi di ieri, ronde di oggi
Le ronde non fanno primavera
Ronde: piccole bande armate crescono
Fantasmi dalla vita lunga, un altro Morlacchi dietro le sbarre

A CasaPound non piace la verità

CasaPound non gradisce la troppa pubblicità sui finanziamenti ottenuti dal comune di Roma
Botta e risposta con Liberazione

 

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Sponsor di CasaPound – Marcello Dell’Utri


Richiesta di rettifica ai sensi dell’art. 8 L. 47/48.

Nella qualità di Presidente e legale rappresentante pro tempore dell’Associazione di Promozione Sociale CasaPound Italia, Vi diffido a rettificare, nei termini e modi di legge, il contenuto dell’articolo «Roma, Giovane Italia dopo l’attentato vuol chiudere Radio Onda Rossa», a firma di Paolo Persichetti, da Voi pubblicato nell’edizione del 3 ottobre 2009, alla pagina 4, pubblicando con il medesimo rilievo e uguale posizione, il seguente testo in corsivo: «Si precisa che non è esatto quanto riportato, a pagina 4 dell’edizione del 3 ottobre 2009, nell’articolo “Roma, Giovane Italia dopo l’attentato vuol chiudere Radio Onda Rossa”, e cioè che l’azione politica di CasaPound sia architettata al solo scopo di garantire agli associati un ingresso nel Pdl per non restare fuori “dai giochi e soprattutto dalla torta dei soldi che arrivano dal sottogoverno”. Vero è, infatti, che l’attività politica, sociale e culturale dell’associazione, finanziata esclusivamente dai contributi degli associati, mira a proporre un nuovo rivoluzionario concetto politico, l’Estremocentroalto, e che, a tal fine, la stessa associazione è pronta a dialogare e confrontarsi con chiunque, senza volgari pregiudizi né puerili pregiudiziali». In mancanza di un Vostro riscontro entro i termini di legge, Vi preannuncio sin d’ora l’intenzione di adire l’autorità giudiziaria al fine di ottenere giusta tutela dei diritti dell’associazione.

Gianluca Iannone

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Perché avete così paura che si parli dei soldi ricevuti attraverso un bando comunale?

Perché mai negare così nervosamente l’evidenza? Che CasaPound faccia parte di quella sessantina di associazioni, che dopo un bando sono entrate nella graduatoria dei finanziamenti stanziati lo scorso agosto – con procedura del tutto anomala – dalla presidenza del consiglio comunale di Roma, è un fatto pubblico attestato da una delibera per «Attività culturali, sportive e folcloristiche». Per altro, in una risposta polemica alle dichiarazioni fatte dal sindaco Alemanno sulla necessità di ridiscutere il “finanziamento” a CasaPound, dopo che una giornalista si era vista vietare l’ingresso all’incontro-dibattito con Marcello Dell’Utri sui ”diari del Duce”, organizzato nella sede romana di via Napoleone III, lo stesso Iannone aveva precisato che «della vittoria di un bando» si trattava. Appunto!
Certo brucia non essere più i primi della classe, non poter più vantare l’aristocratica purezza di chi rivendica per se “etica, epica ed estetica”, ma si è piegato alla pratica plebea di ricevere denaro pubblico, come normali clientes. Quanto al resto, le coloriture futuriste, le provocazioni dannunziane, la postura superomista, lo stile scapigliato, spostano di poco la sostanza politica di un gruppo che agita simbologie tutte interne al blocco sociale della destra di governo e conduce con brio la marcia d’avvicinamento-dialogo con l’area multiforme del Pdl. Insomma siamo sempre lì, nel cortile del Palazzo, all’Estremocentroalto, come lo chiamate, che non è in politica quello che nel calcio ha rappresentato la «bizona» del mitico Oronzo Canà, col suo rivoluzionario modulo 5-5-5, ma qualcosa che dietro l’iperbole della formula nasconde una visione inquietante.
«Noi ci permettiamo il lusso di essere aristocratici e democratici; conservatori e progressisti; reazionari e rivoluzionari; legalitari e illegalitari; a seconda delle circostanze, di tempo, di luogo, di ambiente, in una parola di “storia” nelle quali siamo costretti a vivere e ad agire». Lo diceva un tale nel 1922. Anche lui cercava posizioni «regali e sovrane, al di là degli opposti sbandamenti», anche lui elogiava «la vita come ascesa», anche lui immaginava «la partecipazione per base, la decisione per altezza e la selezione per profondità» e rifiutava «l’attrazione morbosa per l’informe e il deforme». Anche lui praticava «l’Estremocentroalto». Si chiamava Benito Mussolini. Appunto.

Paolo Persichetti

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Lino Banfi nei panni del mitico Oronzo Canà

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Sbagliato andare a Casapound, andiamo nelle periferie
La destra romana, fascisti neo-ex-post, chiedono la chiusura di radio Onda rossa
Il nuovo pantheon del martirologio tricolore

Sbagliato andare a CasaPound, andiamo nelle periferie

A proposito di un dibattito che campeggia da alcune settimane sul quotidiano L’Altro su memoria, fascismo, omofobia, strage di Bologna…

Paolo Persichetti
L’Altro 7 ottobre 2009

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Siamo sicuri che per affrontare l’intolleranza, combattere contro i pregiudizi e l’omofobia, salvaguardare ed estendere lo spettro dei diritti civili, bisogna passare per il salotto di CasaPound, che nella piazza romana sembra ormai aver rimpiazzato quello televisivo di Vespa? Non esistono forse altre strade più salutari, intelligenti e efficaci?
La domanda la pongo a questo giornale, non solo perché in proposito ha pubblicato un articolo di Paola Concia, deputata del Pd, ex comunista che oggi si definisce «liberale di sinistra», mi auguro nel senso di John Rawls altrimenti – lo dico senza facili sarcasmi – non sarebbe un orizzonte culturale particolarmente innovativo (esistevano già alla fine dell’800 e si sono macchiati di numerosi misfatti coloniali e imperialistici nel corso della loro storia). Rivolgo la domanda a l’Altro anche perché la redazione ha finito per litigare a causa della pubblicazione di alcuni interventi scritti da esponenti dichiaratamente fascisti, dopo aver avviato con un inizio assai infelice ed alcuni passaggi decisamente sgangherati, una discussione sulla memoria degli anni 70, se essa debba essere condivisa o meno: ma perché, almeno per istruire la discussione, non ha dato la parola a degli storici o filosofi che lavorano sulla differenza fondamentale che distingue la storia dalla memoria?
Per quel che mi riguarda, ho trovato gli articoli di Mancinelli e Renzaglia (i due fascisti in questione) delle sfide culturali che come tali meritavano risposte di altro livello, anche perché in alcuni passaggi sollevavano problemi che sono stati oggetto di serio dibattito all’interno del movimento comunista (dai giudizi di Bordiga sul fascismo come processo di modernizzazione del capitale, in contrasto con Gramsci e altri dirigenti del Pcd’I, alla revisione critica del togliattismo fatta dal marxismo operaista negli anni 60). Per contro, l’intervista a Iannone apparsa tempo fa e il successivo articolo elogiativo su un noto picchiatore d’immigrati rasentavano la piaggeria. Assolutamente parziale è stata poi la parola concessa a Valerio Fioravanti sulla strage di Bologna, a cui è stato permesso di rispondere a un depistaggio con un altro depistaggio ancora più infondato e che getta fango su palestinesi e prigionieri delle Br. La critica che in tempi non sospetti, quasi un ventennio fa, sinistra garantista e prigionieri della lotta armata di sinistra muovevano alla magistratura bolognese era diretta all’impianto emergenzialista che aveva ispirato l’inchiesta sulla strage, non sposava certo i punti di vista degli imputati. C’è una bella differenza, al punto che oggi la destra cerca di cavarsela accollando quell’attentato, con una logica perfettamente speculare, al movimento palestinese e alla sinistra armata.
La deputata Concia ha spiegato la scelta di andare a CasaPound con il fatto che la sinistra italiana (quale? Il Pd suppongo) «su questi temi deve fare molta strada e, per esempio, imparare non dai progressisti europei, ma dai conservatori». Già qui qualcosa non quadra. Fino a poco tempo fa non era forse Zapatero l’uomo nuovo dei diritti civili in Europa? Non mi risulta che il premier spagnolo appartenga allo schieramento conservatore. Siccome nessuno si pone il problema di educare la destra italiana – sostiene sempre Paola Concia – bisogna andare a CasaPound per discutere con loro di diritti civili. «Perché una cosa del genere non dovrebbe essere fatta? – domanda. «Forse perché loro sono destra “fascista”, “estremista”, impresentabili, non da salotto buono?», si risponde da sola. A parte la pretesa velleitaria di educare quelli di CasaPound, i cui dirigenti non sono affatto degli sprovveduti, mi pare che sorga un secondo problema.
Che cosa sono la destra sociale e CasaPound in particolare? L’analisi proposta, che ricalca quella fatta da altri su questo giornale, a me sembra superficiale. CasaPound è una forza politica gerarchizzata, (che si presenta sotto forma di centro sociale), verticistica, con livelli riservati, un servizio d’ordine, nulla a che vedere con l’atmosfera spontaneistica, confusionaria, orizzontale e pressappochista dei centri sociali. CasaPound è certamente ai margini, non del sistema però, ma dell’area di governo della città (e non solo), di quello che un tempo si chiamava sottogoverno. Non stiamo parlando di culture politiche ghettizzate, discriminate, vittimizzate, ma di esperienze che hanno il vento in poppa, sono in sintonia con l’egemonia culturale che la destra, grazie al dispositivo berlusconiano, è riuscita a costruire in Italia. Questo anche per merito loro, per un’indubbia capacità politica messa in campo negli ultimi anni.
Varcare il portone del grande palazzo di via Napoleone III è oggi quanto di più conformista, omologato e subalterno possa esistere. Appartiene alla più classica delle ritualità conservatrici. Chi va a CasaPound vuole farsi accettare dai nuovi assetti culturali dominanti di questo Paese. Non rompe schemi, non innova, al contrario si accoda, si assimila, si acquieta. Infatti il dissociato Valerio Morucci è stato uno dei primi a precipitarsi, abituato ormai a tenere conferenze suggerite da funzionari del ministero degli Interni, come ha raccontato il professor Mariani della Sapienza. Anche lui, su queste pagine, facendo ricorso alla retorica dell’incontro tra reduci ha iscritto i fascisti nella categoria dei paria della storia proprio quando il trend si è rovesciato e concede loro il sopravvento.
Ma c’è qualcosa di ancora peggiore che questa vicenda rivela: l’abbandono del sociale. Per combattere intolleranza, razzismo e omofobia invece di tornare ad essere politicamente e culturalmente presenti nelle periferie, vera frontiera dove questi fenomeni vanno contrastati, si propaga l’idea che occorre recarsi in pellegrinaggio a CasaPound, cioè nella sede di un’organizzazione che si autoinveste espressione dei quartieri difficili, legittimando così questa rappresentatività. Non è forse particolarmente stupido tutto ciò?
Che una così balzana idea possa essere venuta a una liberale di sinistra, non stupisce. A questo tipo di cultura avulsa dal sociale appartiene una concezione elitaria della politica, dunque la sola ricerca di un rapporto tra gruppi dirigenti, tra ceti politici che si legittimano vicendevolmente. Quella sinistra che viene dalla storia del movimento operaio, come può assecondare tutto ciò? Perché non andare direttamente a Tor Bella Monaca davanti ai muretti dove stazionano bande di adolescenti e giovani e la cocaina brucia i cervelli? Il sindaco di Roma Alemanno sta tagliando i fondi a quelle cooperative sociali che da decenni e in piena solitudine affrontano in prima linea questa battaglia. Soldi dirottati verso l’arcipelago delle associazioni e cooperative amiche, tra cui le “Occupazioni non conformi” dirette dai ducetti di condominio che in quei quartieri sono presenti e certo non contrastano le sottoculture sessiste, omofobe, intolleranti e violente che crescono contro il diverso, il più fragile. L’Altro appunto.

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Casapound non gradisce che si parli dei finanziamenti ricevuti dal comune di Roma
Quando le lame sostituiscono il cervello
Il nuovo pantheon del martirologio tricolore
Fascisti su Marte
La destra romana, fascisti neo-ex-post, chiedono la chiusura di radio Onda rossa



La Destra romana (fascisti neo-ex-post) chiede la chiusura di radio Onda rossa

Nuova provocazione dopo la montatura giudiziaria costruita contro il movimento per la casa di Magliana. Approfittando di  un attentato incendiario contro una sede di Giovane Italia (ex Azione giovani), il deputato Marco Marsilio (An-Pdl) e il presidente romano di Giovane Italia Cesare Giardina, chiedono al ministero degli Interni di imbavagliare radio Onda rossa

Paolo Persichetti
Liberazione 3 ottobre 2009

C’è aria tesa nella destra romana. Giovedì notte una sede della Giovane Italia-Pdl (ex Azione giovani) è stata presa di mira da un attentato incendiario nel quartiere di san Giovanni a Roma, in via della Mirandola. Dopo aver praticato un foro nella saracinesca, gli attentatori hanno gettato all’interno del locale un ordigno rudimentale: una lattina contenente liquido infiammabile che nell’esplosione ha distrutto la porta d’ingresso. L’episodio segue di una decina di giorni un’altra incursione a colpi di molotov avvenuta durante l’inaugurazione di un altro circolo della destra, Gens romana, aperto proprio accanto alla storica sede di Acca Larentia, pantheon dei martiri e luogo di culto della memoria vittimaria ex-postfascista. La nuova sede è stata aperta da Giuliano Castellino, portavoce di “Popolo di Roma”, un gruppo fuoriuscito da Casa Pound per saltare sul carro vincente, e soprattutto appetitoso, della destra di governo. A dire il vero nella destra romana sono in pochi a essere rimasti fuori dai giochi e soprattutto dalla torta dei soldi che arrivano dal sottogoverno. L’estraneità rivendicata da Casa Pound è solo di facciata. Lo splendido isolamento è finito da tempo. L’operazione di avvicinamento all’area di governo è in stato avanzato. Casa Pound, organizzazione in fase di crescita (continua ad aprire sedi in altre città), per il momento resta sulla soglia della maggioranza di governo, una posizione vantaggiosa che gli consente di rivendicare un’alterità di facciata, una diversità inesistente, incamerando al contempo risorse materiali e d’immagine anche grazie a un’accorta regia mediatica “dialogante”. La chiamano destra del terzo millennio, quel “fascismo dei paraculi” che tanto sta ammaliando spezzoni un po’ confusi di una sinistra in pieno naufragio. Gli unici a non aver dato segni di resipiscenza nella destra radicale restano, invece, i membri di Militia, la sigla utilizzata dal gruppo di Boccacci ben insediato nella zona dei Castelli romani, le alture prospicienti la Capitale.
Oltre alle modalità diverse, i due attentati hanno a tutt’oggi in comune l’assenza di rivendicazioni. Una circostanza piuttosto anomala che ha spinto gli inquirenti a non escludere nessuna pista. In effetti, al di là della solita retorica vittimistica degli esponenti della destra, o di chi ha voluto rilanciare la teoria degli opposti estremismi legando questi episodi agli attentati contro alcuni locali frequentati dalla comunità Gltbq, sulla paternità di quanto è accaduto non c’è alcuna certezza. D’altronde lo stesso Castellino, dopo le dichiarazioni della prima ora, all’uscita dalla questura dove era stato convocato insieme ad altri testimoni ha notevolmente abbassato i toni. «Non vogliamo né colpevoli di comodo, né verità preconfezionate», ha rettificato. Di diverso avviso si è dimostrato il deputato ex An, oggi Pdl, Marco Marsilio che invece per l’attentato di lunedì notte ha tirato in ballo radio Onda rossa, l’emittente storica dell’autonomia romana, poi punto di riferimento dell’area antagonista e oggi luogo di parola dei movimenti. Marsilio ha chiesto esplicitamente che «il ministero dell’Interno verifichi con attenzione l’attività e i contenuti» dell’emittente romana, «che alimenta con i suoi irresponsabili proclami una spirale pericolosissima di violenza». Il deputato postfascista ha dichiarato che alcuni ragazzi di Giovane Italia gli hanno riferito che Onda rossa ha «fatto l’apologia dell’attentato invocando medaglie d’oro al valore per chi ha messo la bomba». Ed infatti in una nota diramata dal presidente romano di Giovane Italia, Cesare Giardina, si possono leggere una serie d’insulti rivolti all’emittente romana, «vicina agli ambienti dell’estrema sinistra che hanno invitato a premiare i vigliacchi autori dell’attentato», che si concludono con una pressante richiesta alle istituzioni per «la chiusura immediata della trasmissione radiofonica, radio Onda rossa». L’episodio, inventato di sana pianta come tutti gli ascoltatori dell’emittente hanno potuto verificare con le proprie orecchie, sembra pensato apposta dopo gli arresti e la pesante montatura giudiziaria che hanno colpito nel quartiere della Magliana il movimento per la casa. La sensazione è che vi siano forti spinte da parte di alcuni settori della destra per lanciare un’offensiva risolutiva contro gli spazi sociali, i luoghi di parola e comunicazione della sinistra radicale e antagonista a Roma.
In un comunicato Onda rossa ha smentito seccamente le accuse, precisando di non aver mai accennato all’episodio dell’attentato nel corso delle sue trasmissioni. Le registrazioni audio stanno lì a dimostrarlo. Se gli autori della calunnia saranno chiamati a risponderne nelle sedi opportune, l’intero movimento romano è allertato sulla necessità di vigilare su quanto potrà accadere contro la radio nei prossimi giorni.


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Diffondi radio Onda rossa

Diffondi radio Onda rossa

Strage di Bologna, per Giovanni De Luna: “Golpismo e stragismo non sono proponibili come un paradigma esaustivo della storia degli anni 70”

Dietro le cerimonie e le proteste rituali del 2 agosto a Bologna c’è una visione consolatoria di ciò che resta della sinistra. Ritenersi vittime di un progetto stragista per non vedere dove nasce la crisi e la sconfitta. Lo stragismo fu una risposta arretrata e scomposta che provocò molte vittime, ma con pochissima efficacia a livello strategico. Anche perché la partita vera si giocò altrove, nelle profondità socio-antropologiche del Paese. Vinse l’estremismo di centro dei ceti medi che si manifestò simbolicamente con la marcia dei 40 mila quadri Fiat a Torino, nell’autunno 1980

Paolo Persichetti

Liberazione 5 agosto 2009

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10 e 25 del 2 agosto 1980. La strage di Bologna segna un’epoca e seppellisce gli anni Settanta sotto il cumulo di macerie della sala d’aspetto di seconda classe della stazione ferroviaria, deflagrata sotto l’effetto di una micidiale miscela d’esplosivo di fabbricazione militare. Un decennio aperto da un’altra strage, quella del 12 dicembre 1969 alla banca nazionale dell’agricoltura di Milano, in piazza Fontana. Era questo che volevano gli attentatori? Chiudere col sangue gli anni più ribelli e sovversivi della storia del dopoguerra, quelli che hanno consentito con la loro spinta irruenta le maggiori avanzate sociali e civili dal dopoguerra: diritto del lavoro, salario, pensioni, accesso allo studio, diritto alla casa, promozione delle classi sociali più deboli, libertà individuali e collettive, liberalizzazione dei costumi e della sessualità, e molto altro ancora. O forse dietro quel massacro c’erano altri disegni, altri messaggi magari legati ai malumori che tra i nostri alleati suscitava la politica mediterranea condotta dall’Italia? Poche settimane prima, il 27 giugno, c’era stata la strage di Ustica. Un aereo dell’Itavia si era inabissato a largo dell’isola siciliana. Un altro mistero dissolto in parte solo in tempi recenti, quando si appurò che fu un missile lanciato da un aviogetto militare occidentale (non è chiaro se francese o americano) a colpire l’aereo di linea.
Su Bologna invece, nonostante i 29 anni trascorsi, la verità sembra rimasta ferma all’ora in cui esplose quella maledetta la bomba. Nel frattempo la verità giudiziaria ha fatto il suo corso, anche se un po’ contorto e tuttora molto discusso. Un iter complesso con condanne, assoluzioni e rinvii in cassazione. Alla fine i giudici hanno designato solo tre colpevoli, i presunti autori materiali, appartenenti a un gruppo neofascista, i Nar. Ma la verità storica dove sta? Ha fatto passi avanti? Lo chiediamo allo storico Giovanni De Luna.

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A quasi 30 anni di distanza dai fatti non è forse venuto il tempo di mettere da parte i tribunali e lasciare agli storici il compito di trovare la verità? Perché in Italia una cosa del genere non sembra possibile?

Intanto perché una delle ultime leggi varate durante il governo Prodi, e che ha avuto il merito di ridurre il segreto di Stato da 50 a 15 anni, prorogabili fino a 30 in casi eccezionali, manca delle norme attuative che ne prevedono la concreta applicazione. Senza quei regolamenti ad oggi è ancora impossibile consultare i documenti sui quali è stato apposto il segreto. Spetta al governo attuale completare finalmente l’iter legislativo di quella buona legge.

Ma non è che poi a forza di cercare segreti finirà che l’unico segreto svelato sarà che non esistono segreti?
La questione è per così dire sistemica e investe il rapporto tra segreto e democrazia. Se è vero che nessuna democrazia può permettersi una trasparenza totale, che il segreto ha una sua fisiologia e lo Stato ha bisogno dei suoi arcana imperii, il problema sorge quando questa fisiologia diventa patologia. Quando la dimensione dell’indicibile prevale su quella del dicibile, quando l’occulto sovrasta oltre ogni misura di tempo la trasparenza, il segreto diventa una ferita per la democrazia. Negli anni 70 questa dimensione dell’occulto ha superato la fisiologia che è propria di una democrazia matura. Una grossa parte di quel decennio è stata sottratta non solo alla giustizia ma anche alla storia. Per questo tutto ciò che può aiutare a sciogliere il segreto, a penetrare l’oscuro, è una risorsa per la democrazia. Diceva Bobbio che maggiore è il livello di trasparenza migliore è il grado si democrazia. Per la violenza politica di sinistra si sono raggiunti livelli importanti di verità giudiziaria, si conoscono nomi e circostanze e pesanti condanne sono state erogate, la stessa cosa non può dirsi per tutto ciò che riguarda lo stragismo. Questa assenza di certezze giudiziarie ha alimentato nel corso degli anni una esacerbazione dei sentimenti, una voglia di vendetta e risentimento, oltre ad un proliferare di memorie separate.

Oltre al risentimento, questa permanenza del segreto non ha forse contribuito a creare un effetto distorsivo nella comprensione della realtà. Mi riferisco all’idea che quella che è passata sotto il nome di “strategia della tensione” sia riconducibile sempre e comunque ad un’unica regia?
Il termine strategia della tensione è una definizione riassuntiva che condensa con un’immagine efficace una serie di episodi che però non sono riconducibili ad un’unica trama lucida e consapevole. In realtà parliamo di un insieme di atti contraddistinti da tre elementi costanti: la presenza di apparati dello Stato; un evento stragista e il ruolo di militanti neofascisti. Accanto abbiamo poi una costellazione di episodi che ripropongono questi tre fattori e che hanno per obiettivo d’introdurre elementi distorsivi nella gestione dell’ordine pubblico, favorendo la compattezza delle istituzioni contro i movimenti degli anni 70. Non credo ad un’unica regia, c’è in realtà una reazione scomposta alla spinta delle lotte operaie ma che nella sua sostanza fallisce. I tentativi di golpe e le stragi non hanno impedito al Pci di arrivare nell’area di governo, né a Craxi di diventare presidente del consiglio. Anche se ci hanno provato, non sono state le bombe a dettare il mutamento della società italiana.

È allora chi è stato?

Golpismo e stragismo non sono proponibili come un paradigma esaustivo della storia di quel decennio. Il vero cambiamento, il terremoto è venuto dalle profondità socio-antropologiche del Paese. Mentre la società veniva traversata da conflitti era in corso una trasformazione delle strutture profonde del Paese, che alla fine degli anni 70 sarà evidente a tutti. Netto ridimensionamento, sia qualitativo che quantitativo, della classe operaia; incremento enorme dei servizi, del terziario e commercio; l’affacciarsi in massa di un nuovo ceto medio. In quegli anni il 70% delle nuove figure del ceto medio imprenditoriale appaiono in Lombardia. Sono quelle stesse figure che alla fine del decennio daranno vita ad altri percorsi e soggetti politici, attraverso la Lega fino allo sconquasso definitivo della prima repubblica. Nel 1979 si presenta alle europee la Liga Veneta di Rocchetta che farà da apripista a tutte le altre Leghe. Accanto emergeva  una galassia sociale di ceti medi a cui le Leghe daranno presto voce. Ricordo lo stordimento con cui a Torino assistemmo alla marcia dei 40 mila. Nessuno li aveva mai visti traversare una città prima occupata solo da operai e studenti.

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Vuoi dire che i tentativi stragisti e golpisti sono stati una risposta reazionaria di retroguardia ai movimenti di quelli anni?
Una risposta arretrata e scomposta che provocò molte vittime, ma con pochissima efficacia a livello strategico. Anche perché la partita vera si giocò altrove, fuori dal conflitto di superficie, quello del terrorismo, delle Brigate rosse, ma anche dei partiti istituzionali e dei movimenti. Il mutamento vero si organizzò nelle viscere più profonde del Paese, mentre la nostra parte di società non se ne accorgeva.

Eppure gli attori del conflitto degli anni 70 hanno permesso al Paese di fare un salto in avanti enorme. Come concili questi due processi che vanno in senso inverso?

Gli anni 70 ricordano un po’ la famosa teoria di Croce sul fascismo come parentesi. L’effetto del decennio precedente, del paese uscito dal boom economico rappresentato dalla metafora del personaggio di Gasman nel film “Il sorpasso”. Un’Italia vorace, famelica, ansiosa di consumare merci che non aveva mai visto e avuto. Un’Italia che nella dimensione del benessere e dello sviluppo aveva bruciato le sue identità dialettali e contadine che Pasolini lamentava quando aveva denunciato la scomparsa delle lucciole. E’ su quell’Italia che s’innesta una forte spinta al conflitto sociale e politico che sfocia nel biennio 68-69. Una sorta di risposta novecentesca che cerca di confrontarsi con questi cambiamenti sul terreno della politica come elemento decisivo per modificare le cose. C’è un fortissimo investimento nella politica, politica dei partiti e politica dei movimenti. E’ questa dimensione iperpolitica della mobilitazione che finisce con i 35 giorni di occupazione alla Fiat del settembre 1980. Da quel momento in poi ritorna la metafora di Gasman, i ceti medi, il riflusso. Svanisce la dimensione dell’impegno e prevale il “tengo famiglia”. Tutta la partita si è giocata in quel frangente.

Dunque tu non credi che abbia vinto la P2, che ci sia una continuità dei vincitori con l’epoca stragista?
Per niente. Sono i nuovi soggetti sociali non i servizi segreti, o le trame eventuali a loro attribuibili, che hanno cambiato le cose. Ha vinto la rivoluzione dei ceti medi caratterizzata dal loro estremismo di centro. Una lezione della storia che vale anche per l’avvento del fascismo, che non fu un complotto del capitale ma una rivolta dei ceti medi emergenti.

Ma anche i 40 mila alla fine pagarono. I più furono licenziati?
Si, perché quella prima generazione era ancora legata ad una dimensione novencentesca, fordista, apparato di comando della grande fabbrica. Di lì a poco anche al loro interno ci fu un salto di modello: dalla gerarchia di fabbrica al sistema casa-capannone delle popolo delle partite iva.

Torniamo di nuovo al problema della memoria che dicevi all’inizio.
In Italia c’è troppa memoria e poca storia. Se una ragazza di 29 anni crede che la strage di Bologna sia stata commessa dalle Brigate rosse è perché non ha conoscenza storica. Ma questa scarsità di storia nasce anche dall’assenza di istituzioni virtuose in grado di fornire al Paese verità e giustizia. Da questo vuoto è emersa una supplenza delle famiglie delle vittime che hanno preso su di sè il compito di fare memoria e giustizia. Al di là delle loro varie collocazioni, non sempre condivisibili nel merito, si tratta di un aspetto positivo. Emerge un “familismo virtuoso” differente dal familismo indifferente e cinico di chi guarda tradizionalmente al suo particulare, forte nella tradizione italiana. C’è un tentativo di declinate un lutto privato, un’ansia di dolore e giustizia come un bene pubblico.

Ma questa ennesima supplenza non fa emergere il rischio di una confusione di ruoli, di quella che i giuristi chiamano “privatizzazione della giustizia”? Non c’è il rischio che i familiari divengano gli arbitri delle decisioni giudiziarie, a cui si aggiunge anche la privatizzazione della narrazione storica? Mi sembra che si vada ben oltre un arricchimento del pluralismo delle posizioni e delle fonti. In questo modo si istituisce una figura privata depositaria della memoria legittima.
Se prima era stata la magistratura ad essere chiamata a sostituire la politica, ora si chiede ai familiari di scrivere la storia. Ma le signore Gemma Capra e Licia Pinelli non posso caricarsi sulle spalle questo compito. Spetta alla comunità intera, in particolare alla comunità dei ricercatori, il compito di fare storia. Ma questo ruolo improprio viene assunto dai familiari delle vittime proprio a causa dell’assenza nello spazio pubblico di istituzioni virtuose che si ripiegano e si nascondono dietro le memorie private.

Ma storia e memoria non sono la stessa cosa?
La memoria è sempre parziale, trasceglie. Stabilire che la giornata del ricordo della Shoah sia il 27 gennaio invece del 16 ottobre, significa fare una scelta ben precisa che fa lo sconto al rastrellamento del ghetto di Roma e alle leggi razziali del fascismo. Allo stesso modo scegliere il 9 maggio, giorno dell’uccisione di Moro, invece del 12 dicembre, quando esplose la bomba a piazza Fontana, risponde ad un orientamento politico ben preciso. Invece c’è bisogno di tornare alla conoscenza storica. La sovrabbondanza di memorie favorisce l’oblio e non il ricordo. La scuola non riesce più a trasmettere conoscenza storica…. In un test fatto dieci anni fa ho chiesto per quanti anni il Pci era stato al governo: 5, 10 o 30. Tutti risposero 30, perché sentivano Berlusconi dire che i comunisti sono stati sempre al governo. Non è nemmeno ignoranza, è il senso comune che pervade la memoria. Per sconfiggere il senso comune l’unica possibilità è la conoscenza storica. Questa è una vera emergenza educativa. Che non c’entra niente con la memoria. La storia è un’altra cosa, non è identitaria.

Link sulla strage di Bologna
Strage di Bologna, i palestinesi non c’entrano
Strage di Bologna, la montatura della pista palestinese
Strage di Bologna, l’ultimo depistaggio

Link sulle teorie del complotto
I limiti della dietrologia
Spazzatura, Sol dell’avvenir, il film sulle Brigate rosse e i complotti di Giovanni Fasanella
Lotta armata e teorie del complotto – Paolo Persichetti
Caso Moro, l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico – Paolo Persichetti
Il caso Moro – Paolo Persichetti
Stato e dietrologia – Marco Clementi
Doppio Stato, una teoria in cattivo stato – Vladimiro Satta

Dietrologia e doppio Stato nella narrazione storiografica della sinistra italiana – PaoloPersichetti
La teoria del doppio Stato e i suoi sostenitori – Pierluigi Battista
La leggenda del doppio Stato – Marco Clementi
Le thème du complot dans l’historiographie italienne – Paolo Persichetti
I marziani a Reggio Emilia – Paolo Nori

Link sul rapporto tra storia e memoria
Quando la memoria uccide la ricerca storica – Paolo Persichetti
Storia e giornate della memoria – Marco Clementi