Strage di Ustica, «Fondata la tesi del missile». La Cassazione condanna lo Stato a risarcire i familiari delle vittime

La sezione civile della corte di cassazione ha stabilito che l’esplosione di un missile lanciato da un jet militare sia l’ipotesi più congrua per spiegare l’origine della strage di Ustica che provocò l’inabissamento in mare di un Dc-9 Itavia con 81 persone a bordo. Ipotesi «congruamemte motivata», sostengono i giudici della terza sezione civile, che esclude l’esplosione interna e il cedimento strutturale. Per questa ragione i magistrati della suprema corte hanno condannato lo Stato italiano a risarcire i familiari delle vittime che avevano citato in giudizio ben tre ministeri, individuando nell’autorità pubblica una responsabilità per non aver garantito, con sufficienti controlli dei radar civili e militari, la sicurezza dei cieli. 
Questa decisione, forse, aiuterà a mettere fine ad una pluridecennale guerra di depistaggi, ipotesi e ricostruzioni contrapposte che pezzi d’apparato, gruppi di potere, gangli delle istituzioni hanno cominciato a scagliarsi reciprocamente già nelle prime ore che hanno seguito la tragedia.
Ma cosa accadde veramente la sera del 27 giugno 1980?
L’unica cosa ormai accertata è che nei cieli del Mediterraneo si svolse una vera e propria battaglia aerea, uno «scenario bellico» che vide un jet militare occidentale lanciare un missile in direzione del Dc9. Perché?
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DC-9 ITAVIA CADUTO AD USTICA

I resti del Dc9 Itavia recuperati

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Strage di Ustica, quando Giovannardi fu sputtanato da wikileaks

Ustica trent’anni dopo l’anniversario delle verità contrapposte

Cosa è veramente accaduto quel 27 giugno 1980?

Paolo Persichetti
27 giugno 2010

A trent’anni dalla strage di Ustica è ancora guerra feroce. Lo «scenario bellico», che secondo una delle ricostruzioni – che attualmente appaiono più plausibili – avrebbe portato un missile lanciato da un aereo militare occidentale a colpire la sera del 27 giugno 1980, il Dc9 dell’Itavia deflagrato in volo (si parla anche di un razzo ad implosione) e poi inabissatosi tra le isole di Ponza e Ustica con 81 persone a bordo, si è tramutato in una pluridecennale guerra di depistaggi, ipotesi e ricostruzioni contrapposte che pezzi d’apparato, gruppi di potere, gangli delle istituzioni hanno cominciato a scagliarsi l’uno contro l’altro già dalle prime ore che hanno seguito la tragedia.
In questa babele di verità e ragion di Stato contrapposte, il presidente della Repubblica è intervenuto con un messaggio indirizzato alla presidente dell’Associazione parenti vittime della strage di Ustica, senatrice Daria Bonfietti, ricordando come «i processi sin qui celebrati non hanno consentito di fare luce sulla dinamica del drammatico evento e di individuarne i responsabili», auspicando per questo «il contributo di tutte le istituzioni a un ulteriore sforzo per pervenire a una ricostruzione esauriente e veritiera di quanto accaduto, che rimuova le ambiguità e dipani le ombre e i dubbi accumulati in questi anni». Chi ha voluto leggere nelle prudenti parole di Napolitano una replica alle dichiarazioni del sottosegretario alla presidenza del consiglio Giovanardi, che ha provato a rilanciare, a nome del governo, la tesi dell’esplosione interna e dunque della bomba a bordo, è rimasto deluso. In effetti Napolitano non cita solo la mancata individuazione dei responsabili, ma anche la mancata chiarezza sulle dinamiche, nonostante sul piano processuale sia stata accertata l’infondatezza dell’esplosione a bordo e quella del cedimento strutturale, madre di tutti i depistaggi.
Per questo ragione Giovanardi ha dichiarato di «condividere» l’appello del Quirinale, aggiungendo che «fra le opacità non possono essere annoverati i comportamenti degli uomini dell’Aeronautica militare italiana». Priorità dell’attuale governo, infatti, è difendere il comportamento omertoso della lobby militare, il cinismo in stellette della ragion di Stato che ha portato i vertici militari a distruggere prove, far sparire i registri delle presenze nelle postazioni di controllo e i tracciati radar, tappare la bocca ai sottoposti che quella notte hanno visto cosa è accaduto in pieno Mediterraneo. Anche Giuliana De Faveri Tron, che perse la madre nella tragedia di Ustica, e che non fa parte dell’Associazione dei parenti presieduta da Daria Bonfietti, ha voluto ringraziare «il capo dello Stato per l’affettuoso messaggio» ma soprattutto il senatore Carlo Giovanardi, «per l’impegno profuso dal Governo nella ricerca di una verità troppe volte sacrificata a pregiudizi di parte». Ormai anche i familiari delle vittime sono lottizzati. Ci sono i governativi e gli antigovernativi. Il vittimismo divenuto uno dei repertori legittimi della politica non ha più un solo colore e si declina in forme partigiane opposte. Con la sua formula salomonica Napolitano ha evitato di prendere partito nella disputa delle “verità contrapposte”, ripiegando sulla retorica dei misteri.
Ma se la via che può portare alla verità va ormai cercata, come sembrano suggerire le parole del Presidente della repubblica, in quella sfera riservata dello Stato che Alessandro Pizzorno ha chiamato “nucleo cesareo della politica”, Napolitano dovrebbe usare ben altri toni e trarre ben altre conseguenze. Rosario Priore, giudice istruttore che ha condotto l’inchiesta, sostiene che dietro la «verità indicibile» sulla strage di Ustica vi sarebbe la politica estera mediterranea condotta dall’Italia in autonomia rispetto alle direttive Nato. Il nostro sostegno a Gheddafi, la guerra segreta con Francia e Inghilterra per l’influenza nel Nord Africa, l’intervento dei nostri piloti nei bombardamenti in Ciad, la rappresaglia francese contro i mig libici (autorizzati segretamente dall’Italia a sorvolare alcuni corridoi Nato non sorvegliati) che dovevano scortare Gheddafi. Rappresaglia che avrebbe involontariamente provocato la tragedia. Priore estende il suo paradigma interpretativo ben oltre la vicenda di Ustica per retrocederlo all’intera storia degli anni 70. Vicissitudini che troverebbero una spiegazione all’interno dei conflitti geopolitici: non quelli della guerra fredda ma tra rive opposte del Mediterraneo, rispolverando quelli che erano stati gli assi tradizionali del conflitto interimperialistico europeo del primo Novecento. Tuttavia più che un nuovo canone storiografico quello proposto sembra un’ennesima declinazione del paradigma dietrologico. La complessità evocata si perde in mille rivoli inconcludenti e contraddittori fino a diventare dissolvenza. Priore non fornisce alcuna prova decisiva, nessun fatto nuovo, ma chiede in qualche modo di affidarsi al principio autoritativo ricavato della sua esperienza. Di piste internazionali sulla strage di Ustica ne esistono diverse e sul piano logico tutte egualmente plausibili: da quella francese, indicata da Priore come la più certa, a quella statunitense. Ne esiste addirittura una israeliana (l’aviazione di Telaviv avrebbe voluto colpire un velivolo francese che portava uranio arricchito in Iraq).
Tuttavia il motivo per cui oggi alcuni settori dello Stato, di cui il giudice Priore si fa portavoce, privilegino apertamente la pista francese non è dettato dall’emergere di circostanze nuove. Si tratta piuttosto di una vecchia ossessione portata avanti fin dalle inchieste sulla lotta armata. Secondo l’ex giudice istruttore del pool antiterrorismo della Capitale le insorgenze armate apparse nell’Italia degli anni 70 avrebbero trovato complicità culturale e aperto sostegno materiale nelle autorità parigine. Quella somma di fattori che presero forma nel dopoguerra, congelando per lungo tempo il sistema politico italiano fino a renderlo privo d’alternanza per 49 anni, una fissità di sistema che secondo la sociologia più avvertita non poteva che facilitare l’apparizione di spinte rivoluzionarie in presenza di una potente tradizione sovversiva e di condizioni sociali ed economiche particolari, contesto riassunto nella formula dell’«anomalia italiana», si capovolge nel suo contrario: l’«eccezione francese». In Intrigo internazionale, Chiarelettere 2010, la Francia viene dipinta come un «santuario del terrorismo», una centrale che avrebbe sistematicamente promosso la destabilizzazione della democrazia italiana. L’obiettivo preso di mira è la cosiddetta «dottrina Mitterrand»: Ancora prima della caduta del muro di Berlino, Parigi sarebbe stata un vero incrocio d’intrighi internazionali, sostituendosi a Washington e Mosca nel ruolo di piattaforma destabilizzante dell’Italia. Un asse socialdemocratico, guidato da Mitterrand, avrebbe tentato di giocare il ruolo della “terza forza” tra le due maggiori potenze, destabilizzando volutamente la penisola italiana grazie alla protezione offerta ai militanti della lotta armata.
Deciso a seguire le tracce de l’abbé Augustin Barruel, il giudice Priore trasforma il vecchio istituto di lingue Hyperion in una nuova loggia degli Illuminati di Baviera. «Con ogni probabilità – aveva affermato in precedente pubblicazione nella quale anticipava le tesi esposte in Intrigo internazionale * – il cervello parigino è esistito. In accordo con le istituzioni di questo paese, come fu provato dalle inchieste romane, esercitava una funzione d’assistenza e di controllo, quando non agiva come una guida, nel mondo eteroclita della sovversione politica. E’ a Parigi che hanno luogo questi grandi incontri di forze venute dai quattro angoli del pianeta[…] Quella che potrebbe apparire una semplice riunione tra amici, si rivela, in realtà, una macchina efficace diretta da istanze istituzionali, e serve a distribuire armi, individuare luoghi dove nascondersi e prepararsi, suddividere le risorse finanziarie[…] si tratta del luogo in cui si decidono il livello dell’attacco, il grado delle tensioni e, conseguentemente, quello della destabilizzazione, cioè quello dell’indebolimento di paesi o intere zone, in diversi continenti[…] Si può pensare molto seriamente – numerosi indizi conducono in tal senso – che un terzo giocatore sia intervenuto: un asse europeo guidato dalla Francia, ancora presente nello scacchiere mondiale. Questo asse si presentava come una terza forza, accanto all’ideologia capitalista dell’Ovest e all’ideologia comunista dell’Est. Un asse a forte dominante socialista, al quale avrebbero sicuramente cooperato i paesi scandinavi, con la Svezia di Olof Palme in testa, la Germania e l’Austria guidate da socialdemocratici, oltre ad Israele, governata dalla sinistra. Senza dimenticare i grandi paesi non-allineati, a cominciare dalla Iugoslavia, che fin dagli anni 40, ha condotto una propria strategia indipendente nello scenario europeo e svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo di conflitti all’interno di diverse regioni italiane».
Quando la storia si trasforma in noir, il racconto può avvalersi di facili licenze narrative e trascurare persino il rigore cronologico degli eventi, fino a dimenticare che negli anni 70 la Francia era sotto la presidenza di Giscard D’Estaing e Palme arriva al governo nel 1982. Lo scenario proposto dall’ex giudice istruttore è privo di pudore e richiama il vecchio mito fascista del complotto pluto-giudaico-massonico, con l’aggiunta questa volta di una componente socialista giustificata dalla presenza della Iugoslavia. Un agglomerato assai fantasioso che mette insieme Paesi con politiche estere, attività d’influenza e d’intelligence in netto contrasto strategico, in fortissima competizione e aperto conflitto tra loro.

* Che cosa sono le Br, Franceschini-Fasanella, Rizzoli 2004

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Strage di Ustica, quando Giovannardi fu sputtanato da wikileaks

Lotta armata e teorie del complotto

Libri – Alberto Franceschini, a cura di Giovanni Fasanella, Che cosa sono le Br, Bur 2004 (Brigades rouges. L’histoire secrète des BR racontée par leur fondateur, Éditions du Panama 2005)

Libri – Guillaume Perrault, Génération Battisti, Plon, Paris 2005

Paolo Persichetti
23 gennaio 2006

Due libri pubblicati negli ultimi tempi in Francia hanno rilanciato in termini estremamente polemici la tesi secondo cui copj13asple insorgenze armate apparse nell’Italia degli anni 70 avrebbero trovato una complicità culturale, se non aperto sostegno, nelle autorità di Parigi. È significativo dei tempi che corrono questo capovolgimento di prospettiva storica. Quella somma di fattori che presero forma nel dopoguerra, congelando per lungo tempo il sistema politico italiano, fino a renderlo privo d’alternanza per 49 anni, una fissità di sistema che secondo la storiografia più avvertita non poteva che facilitare l’apparizione di spinte rivoluzionarie in presenza di una potente tradizione sovversiva, contesto riassunto nella formula dell’«anomalia italiana», si capovolge nel suo contrario: l’«eccezione francese». Il problema non verrebbe più dalle carenze storiche di un paese che resta tuttora incapace di chiudere con un’amnistia stagioni da lungo tempo concluse, ma dalla sua vicina d’Oltralpe. Nell’intervista che Giovanni Fasanella ha fatto a Alberto Franceschini, la Francia viene dipinta come un «santuario del terrorismo», una centrale che avrebbe sistematicamente promosso la destabilizzazione della democrazia italiana. Siamo nel pieno di una narrazione storica che ripropone alcuni vieti cliché della retorica del complotto e della visione poliziesca della storia. L’obiettivo preso di mira è la cosiddetta «dottrina Mitterrand». Nel corso della sua grottesca testimonianza, un Franceschini ossessionato dalla cultura del sospetto racconta di come il padre, militante comunista ancora impregnato della mentalità staliniana, avuto sentore delle intenzioni bellicose del figlio, l’avesse messo sull’avviso: «ricordati che fuori dal partito c’è soltanto la Cia». Ancora prima della caduta del muro di Berlino, Parigi sarebbe stata dunque un vero incrocio d’intrighi internazionali, sostituendosi a Washington e Mosca nel ruolo di piattaforma destabilizzante dell’Italia. Così si arriva a sostenere che un asse socialdemocratico, guidato da Mitterrand, avrebbe tentato di giocare la terza forza tra le due maggiori potenze, destabilizzando volutamente la penisola grazie alla protezione offerta ai militanti della lotta armata. Quando la storia si trasforma in noir, il racconto può avvalersi di facili licenze narrative e trascurare il rigore cronologico degli eventi, fino a dimenticare che negli anni 70 la Francia era sotto la presidenza di Giscard D’Estaing.
Durante la guerra d’Algeria, l’Italia aveva sempre rifiutato di estradare i militanti dell’Oas e dell’Fln. Jean-Jacques Susini, coinvolto nell’attentato del Petit Clamart contro De Gaulle, rimase per molti anni sotto la protezione della polizia italiana. Non per questo il nostro paese venne accusato di essere una base antifrancese. Negli anni 80, Mitterrand ripagò l’Italia con la stessa moneta. Di fronte al flusso di rifugiati politici che traversavano le Alpi, fece del suolo francese una sorta di camera di decompressione del conflitto che dilagava in Italia, rifiutando le estradizioni nell’attesa di un’amnistia. «Al di la della risposta giudiziaria – ha spiegato una volta Louis Joinet, vero architetto di questa politica d’asilo (Libération del 23 settembre 2002) – si trattava di facilitare il cammino di chi tentava di uscire dalla lotta armata per andare verso una soluzione politica. L’importante era di non marginalizzare quelli che avevano una riflessione politica».
Per il giudice Rosario Priore, autore della postfazione, le cose non stanno affatto così. Deciso a seguire le tracce de l’abbé Augustin Barruel, afferma: «Con ogni probabilità il cervello parigino è esistito, agendo in perfetta intesa con le autorità di quel paese, come hanno provato le inchieste romane». L’istituto di lingue Hyperion avrebbe rimpiazzato la loggia degli Illuminati di Baviera. Ragione che lo spinse a sospettare dell’abbé Pierre, una delle personalità francesi più note, mentre il suo collega Ferdinando Imposimato voleva spiccare un mandato di cattura contro lo stesso Joinet, consigliere giuridico di Mitterrand. 9782755700206
Nel pamphlet scritto per denunciare la campagna di sostegno condotta dalla sinistra e da una parte degli intellettuali francesi contro l’estradizione di Cesare Battisti, chiesta dall’Italia nel febbraio 2004, Guillaume Perrault, convinto che «mai democrazia sia stata così liberale nell’affrontare il terrorismo», si dilunga nel descrivere un’Italia paradisiaca, vero giardino di giustizia e di diritto, rappresentazione che non coincide affatto con l’opinione della destra italiana a cui il suo quotidiano fa riferimento. Preso dall’entusiasmo del neofita, per giustificare il fondamento delle estradizioni richieste contro i fuoriusciti, spiega le meraviglie del rito semi-accusatorio, introdotto nel processo penale italiano con la riforma del 1989 e più volte ritoccato. Dimentica però di precisare che tutti i maxi processi per «terrorismo» sono stati condotti col vecchio rito istruttorio e che l’Italia è il paese più sanzionato dalla corte di giustizia di Strasburgo. Crede – per averlo letto da magistrati come Bruti Liberati – che si possa parlare di giustizia d’emergenza solo in presenza di corti speciali, che l’Italia non ha introdotto, e non sa che l’emergenza può darsi anche attraverso la produzione di una legislazione speciale, che mai abolita trasforma l’eccezione in regola. Come è accaduto fin dalla fine degli anni 70 e come la Corte costituzionale ha riconosciuto, giustificando l’adozione da parte del governo e del parlamento di una legislazione d’eccezione mai emendata. Ripercorre, quindi, la selva di prese di posizione sulla vicenda che gli intellettuali della rive gauche, e molti esponenti della letteratura noir, hanno preso – in realtà – a danno di Battisti stesso e degli altri rifugiati, un po’ come la medicina che uccide il malato. Perrault ha facile gioco nel ridicolizzare l’improvvisata ricostruzione storica degli anni 70 proposta da questi intellettuali. Emergono toni che trasudano risentimento, stucchevoli accenti da letteratura termidoriana, commenti codini e farisei, grottesche uscite scandalizzate che ricordano i gridolini d’orrore di madame la marquise, e argomenti che ricordano le accuse del Merlo, una gazzetta che l’Ovra (la polizia segreta fascista) pubblicava a Parigi per calunniare e denigrare i rifugiati antifascisti. Tratti di un generone cialtronesco che straparla senza pensare. Non sfugge al giornalista una recensione, apparsa su Libération dell’8 ottobre 1998 che, recensendo un libro di Battisti, presenta l’insurrezione sociale degli anni 70 come: «l’epopea di una generazione d’Italiani in secessione armata contro una società che non riconoscono più come la loro, raccontata sullo sfondo di un susseguirsi di rapine, alcool e donne[…] Il protagonista va alla guerra come all’amore, quasi fosse un solitario Don Giovanni».
Per spiegare la folgorazione della sinistra francese più snob verso questa caricatura culturale e politica degli anni 70, l’ex ambasciatore Martinet (autore della prefazione) evoca il «complesso del Marrano». Alla stregua di quegli ebrei spagnoli che per sfuggire alle persecuzioni si convertirono al cattolicesimo, rimanendo tuttavia intimamente fedeli alla vecchia religione, la sinistra francese orfana della rivoluzione cercherebbe ancora dei simboli capaci di rinfocolare i vecchi ideali di gioventù. Per Martinet si tratta ovviamente di un abbaglio sconcertante, che testimonierebbe della persistenza di un arcaismo politico novecentesco dentro la sinistra francese, causa di un clamoroso malinteso che l’avrebbe condotta a prendere lucciole per lanterne e chiamare «rivoluzionari» dei semplici «criminali». La controprova sarebbe venuta dalla reazione indignata della sinistra italiana, ai suoi occhi ben più moderna, riformista e liberale. L’ex ambasciatore di Palazzo Farnese guarda senza dubbio con favore al modello social-liberale blairiano, è singolare dunque che non si accorga di come il primo ministro inglese non abbia esitato a sporcarsi le mani con il conflitto irlandese, negoziando con l’Ira, liberando tutti i prigionieri politici, anche quelli con reati di sangue (e l’Ira, come gli altri gruppi irridentisti cattolici o protestanti, metteva le bombe), e stabilito le tappe di un processo politico che ha condotto alla fine del conflitto. In Italia, invece, il tanto decantato Blair viene guardato dai liberali e social-liberali di sinistra come di destra soltanto per le sue politiche di liberalizzazione e privatizzazione economica e sociale. resizephp2
Martinet compie anche altre omissioni, dimentica così di spiegare come dietro i rimproveri stizziti piovuti dai cugini d’Oltralpe, ci fosse una sindrome altrettanto curiosa: quella dell’«album di famiglia». Per fare fronte alla perenne carenza di legittimazione istituzionale, la sinistra italiana è posta di fronte alla continua necessità di far dimenticare il proprio passato. Le polemiche seguite all’apparizione del volume di Mirella Serri, I Redenti, hanno ricordato come una buona parte dell’intellighenzia ex comunista abbia vissuto diverse vite, passando il proprio tempo a cancellare le precedenti: dal fascismo della gioventù, al comunismo della maturità, al post o all’anticomunismo della senescenza. In un simile contesto culturale, appare chiaro allora perché i prigionieri e i rifugiati degli anni 70 debbano continuare ad essere relegati nel ruolo di capri espiatori, inchiodati ad una funzione cristica: pagare per tutti «la tragedia del Novecento», rispettando alla lettera il rito della esportazione della colpa.
Racconta ancora Perrault che nel pieno delle feroci polemiche che la stampa italiana aveva lanciato contro la sinistra francese, il sindaco di Roma Walter Veltroni si sarebbe precipitato a telefonare al suo omologo parigino, Bertrand Delanoë, per dissuaderlo dall’appoggiare Battisti. Un’ammirevole sensibilità etica che gli era mancata quando, direttore dell’Unità, fece campagna per la liberazione di alcuni neofascisti rei confessi di una decina di omicidi (e formalmente condannati anche per la strage di Bologna – che Perrault mette sul conto dei gruppi armati di sinistra). La clemenza, sembra dire Veltroni col suo gesto, vale per gli avversari della sponda avversa, non per quelli alla propria sinistra. Ma il doppio linguaggio venuto dall’Italia nei mesi di astiose polemiche sul caso Battisti non termina certo qui. Tra i giustizialisti della sinistra favorevoli alle estradizioni, viene citato anche Antonio Tabucchi, sublime personaggio che eccelle nell’arte di selezionare i pentiti: cattivi quelli che accusano i propri amici (Sofri); buoni quelli che chiamano in causa i nemici (Andreotti o Battisti). Dalle fila della magistratura non sono venuti discorsi migliori: mentre il segretario dell’Anm denunciava «i progetti di fascistizzazione dell’ordinamento giudiziario», fuori d’Italia ci si indignava con gli esponenti della rive gauche che ripetevano ingenuamente quanto letto sulla stampa della sinistra italiana. La destra non era da meno, in casa accusava la magistratura di totalitarismo, ma all’estero pretendeva che le sue sentenze fossero venerate, salvo evidentemente quando queste riguardavano Berlusconi.
Sembra finita qui, e invece ecco emergere un retroscena ancora più inquietante: il 13 giugno 2003, il magistrato della procura antiterrorismo di Parigi, Gilbert Thiel, aveva organizzato insieme alla Direzione nazionale antiterrorismo una retata che sarebbe dovuta scattare il successivo lunedì 23. L’obiettivo era quello di arrestare tre fuoriusciti, tra cui Battisti, insieme ad altri due italiani non latitanti, Maj e Czeppel, i soli che di fatto poi vennero catturati. Un’operazione concordata con i vertici del Viminale e la collaborazione della procura bolognese. L’intera operazione era finalizzata a propagandare un legame diretto con l’arresto, avvenuto nel marzo precedente, di una militante del gruppo autore degli attentati D’Antona e Biagi e validare così la leggenda della «centrale francese», proprio mentre questa era clamorosamente smentita dalle indagini. L’intervento di Chirac che, dopo l’estradizione lampo organizzata dal suo rivale Sarkozy, nell’agosto 2002, aveva accentrato i fascicoli sui rifugiati italiani sotto il controllo dei suoi uffici, fece saltare tutto. Il presidente della repubblica francese, infatti, temeva che la retata venisse interpretata come un regalo a Berlusconi che il primo luglio avrebbe assunto, tra i clamori mediatici della grande operazione antiterrorismo, la presidenza della Ue.

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