Balzerani, Di Cesare e la polizia del pensiero

di Paolo Presichetti

L’associazione nazionale funzionari di polizia ha ritenuto doveroso inviare una lettera aperta alla professoressa Donatella di Cesare, docente di filosofia teoretica presso l’università di Roma La Sapienza, dopo le polemiche scatenate da un suo tweet di cordoglio per la morte della ex dirigente delle Brigate Rosse Barbara Balzerani, scomparsa domenica 3 marzo 2024. Nel suo breve messaggio la professoressa Di Cesare aveva scritto: «La tua rivoluzione è stata anche la mia. Le vie diverse non cancellano le idee. Con malinconia un addio alla compagna Luna».

Attacco al diritto di parola e di pensiero
L’Anfp è un’associazione di natura sindacale nata per tutelare gli interessi dei quadri direttivi della polizia di Stato. Nella lettera aperta, che potete leggere qui per intero (www.anfp.it/lettera-alla-prof-ssa-di-filosofia-teoretica) si rimprovera alla docente di aver dimostrato mancanza di rispetto verso le vittime e i familiari delle vittime, tra cui si enumerano anche quelle della strage di Bologna che nulla c’entra con la storia politica della Balzerani, anzi si pone in frontale antitesi con il suo percorso, dimenticando troppo in fretta quei funzionari di polizia e dei servizi segreti coinvolti nei depistaggi della strage e per questo condannati, ed a cui – a quanto pare – i funzionari di polizia fanno sconti. 
La lettera mette in discussione il diritto di parola e la libertà di pensiero della Di Cesare, punta il dito persino contro la pietas davanti alla morte, contestandole di essere mancata al suo ruolo istituzionale, al rispetto del gioco delle regole: una prova di infedeltà che nelle parole dei dirigenti di polizia sembra mostrare nostalgia verso un modello di università che espelleva chi rifiutava di giurare fedeltà al regime.

Il nuovo ministero dell’etica

Sorge immediatamente una domanda: quale è il ruolo e soprattutto il posto della polizia nel sistema politico-istituzionale italiano? Spetta a loro regolare il dibattito pubblico? Stabilire cosa e come si insegna all’interno delle Università, chi merita la cattedra o meno? Non sembrano questi i compiti che gli vengono attribuiti dalla costituzione, che pure dovrebbero rispettare alla lettera per mandato istituzionale. E’ davvero singolare pretendere di ricordare alla cittadina De Cesare che non può oltrepassare il suo ruolo istituzionale di docente, mentre una tale oltrepassamento viene largamente realizzato da parte dei funzionari di polizia con una simile lettera.
Per altro la professoressa Di Cesare ha espresso il suo pensiero su un social non all’interno della sua facoltà. Ha parlato da cittadina, non da docente davanti ai suoi studenti. Attenta a non confondere i due luoghi. Se dei funzionari di polizia si sentono liberi di andare oltre le loro funzioni, di additare in pubblico una persona, esercitando il magistero del pensiero e della parola, l’accaduto assume la fisionomia di una chiara intimidazione. Un invito a tacere manette alla mano.

Il volantino degli studenti e la stella volutamente fraintesa

Sempre nella lettera si contesta un volantino di solidarietà alla professoressa affisso da alcuni studenti sulle mura della facoltà di filosofia di Villa Mirafiori, subito etichettati come «pericolosi anarchici» (sic!) e filobrigatisti perché avrebbero firmato il testo con la stella brigatista. Come tutti possono vedere dall’immagine qui accanto, non si tratta della stella asimmetrica con le due punte allungate ma di una normale stella, simbolo storico della sinistra italiana, emblema nel 1957 del Fronte democratico popolare con l’effigia del volto di Garibaldi incastonato all’interno di una stella, appunto. Stella presente nel simbolo di molti partiti storici della sinistra che solo l’ottusa ignoranza questurina può ricondurre immediatamente allo stemma brigatista. Ma il clima è questo, l’ignoranza più gretta sale in cattedra.

Cosa ha detto di tanto scandaloso la professoressa Di Cesare?
Che le Brigate rosse sono nate in quel crogiolo di pensiero, ribellione e militanza che nel 1968-69 diede vita ad un nuovo spazio politico animato dalla sinistra rivoluzionaria. Nuova sinistra che contestava le forze storiche del movimento operaio concorrendo sul suo stesso terreno sociale: le fabbriche e le periferie delle grandi città.
Già Rossana Rossanda, nel 1978, ebbe a dire qualcosa del genere, suscitando scandalo per aver iscritto le Brigate rosse nell’«album di famiglia» del comunismo storico. Parole suscitate da volontà polemica non solo contro la posizione del Pci, che pur sapendo della loro vera origine le definiva «sedicenti», accusandole di essere manipolate, eterodirette, agenti Nato eccetera; ma con le stesse Br, ritenute un residuato culturale del veterocomunismo degli anni 50, più che una delle tante anime della nuova sinistra. Biografie politiche e inchieste sociologiche hanno poi dimostrato che sbagliava e di molto anche se più avanti cercò di capirle e raccontarle meglio di ogni altro.

La violenza politica? Una risorsa condivisa
In questo nuovo spazio politico il ricorso alla violenza politica era considerato una risorsa legittima. La violenza rivoluzionaria era innanzitutto «parlata», in un libro uscito alcuni anni fa per Deriveapprodi, La lotta è armata, Gabriele Donato spiega quanto fosse condivisa e discussa questa opzione in tutte le formazioni della nuova sinistra, quanto questo orizzonte fosse discusso, percepito come inevitabile: alcuni lo ritardavano ma non lo escludevano e nell’immediato tutti si dotavano di servizi d’ordine, livelli illegali, molti si armavano, facevano «espropri», rapine per finanziarsi, difendevano i cortei dalle forze di polizia e dalle aggressioni fasciste mentre tutt’intorno si susseguivano le stragi e gli attentati della destra e dei Servizi, nelle piazze, sui treni. Si agitavano ombre di golpe e altrove si ribaltavano con le dittature militari governi democraticamente eletti, tanto da spingere il maggiore partito di opposizione italiano a convincersi che non si potesse più salire al governo, divenendo maggioranza alle elezioni, senza prima allearsi con quello stesso partito di governo dagli albori della repubblica, da sempre avversario, dando vita una società senza più opposizione, priva di dialettica, senza conflitti, moderando salari e rivendicazioni e che gli specialisti chiamarono «consociativa». Una democrazia a sovranità limitata, sottoposta al dominio dei vincoli esterni della geopolitica. Si è così arrivati a sparare, ed i primi, ci ricorda la cronaca, non furono le Brigate rosse.
Un qualunque studio serio su quegli anni si immerge in un clima del genere, anche se molti, sopravvissuti e scampati, ormai avanti nello loro carriere professionali, preferiscono dimenticare, non farsi riconoscere, mentire e nascondersi pavidamente.
Che cosa avrebbe detto allora di non vero la professoressa Di Cesare? Che non ha mancato di sottolineare come quel comune sentire iniziale si sia poi diviso in percorsi diversi, in scelte politiche ed esistenziali separate?

La stigmatizzazione etica
Nelle parole della Di Cesare non c’è traccia di stigmatizzazione etica, questo è il punto. Le si rimprovera la mancata riprovazione, la damnatio negata. Il regime della indignazione è l’unico possibile a cinquant’anni dai fatti: indignazione selettiva, per giunta, se è vero che uno come Franco Freda, ritenuto giudiziariamente e storicamente responsabile della strage di piazza Fontana, vive tranquillamente quello che gli resta della sua esistenza ignorato, dimenticato, senza che nessuno gli ricordi quello che è stato: uno stragista, una massacratore di umanità al servizio e per conto di alcuni apparati dello Stato italiano.
Come ha scritto Adriano Sofri, si può uscire ad un certo punto dalla lotta armata, ma non si entra mai da un’altra parte. Quella storia è stata dichiarata conclusa dai militanti delle Brigate rosse, Balzerani compresa, con un atto politico quasi quarant’anni fa. Ma non è mai esistito un dopo. Le classi dirigenti e le loro sponde mediatiche non lo hanno voluto perché hanno ancora bisogno di quelle icone per rappresentarvi il male. Una comoda esportazione di ogni colpa e responsabilità per tutti. Per la destra che in questo modo può sbiancare le proprie origini e collusioni golpiste e stragiste; per la sinistra che può così eludere i propri errori politici e fallimenti culturali consolandosi con l’alibi del complotto attuato da forze oscure che le hanno impedito di salire al potere.
Le Brigate rosse hanno incarnato in questo modo tutto il male del Novecento. Risultato paradossale davanti agli orrori del secolo breve, ma ancor di più del presente: ad una guerra russo-ucraina che ha fatto in due anni, stando alle stime del New York Times, 200 mila morti e circa 300 mila feriti, e agli oltre 30 mila morti di Gaza.

Una preda di sostituzione
Barbara Balzerani se n’è andata in silenzio, con una mossa di judo si è sottratta alla morsa di chi aveva bisogno del suo corpo per eleggerla a moderna strega, come periodicamente accadeva. La società della «bava e del fiele», orfana della sua persona e del suo funerale che si è tenuto nel più assoluto riserbo, lontano dagli sguardi morbosi dei media, frustrata e livorosa ha cercato affannosamente un’altra preda da azzannare. Ha trovato sulla sua strada Donatella Di Cesare, oggetto transizionale della furia vendicativa. A lei la destra oggi al governo, l’entourage più stretto della Meloni, rimprovera di essere stata colta in fallo, smascherata, per aver squarciato il velo con cui tenta di coprire le sue idee radicate nel razzismo della «sostituzione etnica». Per questo deve pagare.

La biblioteca del brigatista

Cosa leggeva un brigatista nel settembre 1978?

Nonostante la semplicità della domanda pochi se la sono posta. Eppure la risposta avrebbe aiutato a comprendere meglio la storia di una delle componenti politiche più importanti che hanno dato vita alla lotta armata in Italia tra gli anni 70 e 80. I materiali ci sono, una documentazione immensa, repertata nelle migliaia di procedimenti penali e verbali di sequestro realizzati nel corso di oltre 20 anni di inchieste, operazioni di polizia e processi. Basterebbe andarli a cercare, leggerli, studiarli. Quanti lo hanno fatto? Io ne conosco solo due che hanno lavorato in questo modo: Marco Clementi e Miguel Gotor. Agli antipodi, ma non importa.
Cosa si ricava dal ricorso al metodo storiografico? Si smontano molte leggende, fandonie, luoghi comuni, crolla l’intera impalcatura dietrologica. La presenza di un libro della Kollontaj ridimensiona persino la critica femminista che tacciava la lotta armata di “machismo” nonostante nei gruppi armati di sinistra la presenza femminile sia stata di gran lunga più alta di qualsiasi altra formazione politica, extraparlamentare o istituzionale. Nell’appartamento di via Montenevoso 8, a Milano, c’erano i libri (sarebbe stato interessante poterli riavere tra le mani per osservarne le sottolineature, i commenti a margine, ma molto probabilmente saranno finiti al macero o forse in qualche armadio dei reparti antiterrorismo, i cui membri saccheggiavano senza scrupoli le librerie dei militanti arrestati)
impiegati come fonti per la realizzazione dei comunicati scritti durante il sequestro (il ritratto biografico-politico di Aldo Moro ripreso da un volume di Aniello Coppola, pubblicato da Feltrinelli due anni prima del rapimento) ed altri utilizzati per redigere le domande al prigioniero. Spiccano due assenze: non c’era L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato di  Engels, il libro de chevet dell’ex maoista Marco Bellocchio infilato come i cavoli a merenda in una scena demenziale del suo film (quella del mantra) sul rapimento Moro, Buongiorno notte (2003); non c’erano neanche liriche innegianti al calibro ben oliato o le bottiglie di Veuve Clicquot che riempivano i frigoriferi della case dove si nascondeva Sergio Segio.
Ancora più interesante è la genealogia della cultura politica brigatista che si può ricavare da queste letture. Certo è solo un primo elemento che andrebbe sovrapposto ad un lavoro di analisti dei testi. E’ l’inizio di una possibile, anzi utile pista di ricerca. In ogni caso è evidente come l’album di famiglia stalino-togliattiano richiamato come immagine dalla Rossanda, a dire il vero per polemizzare con chi diceva che i brigatisti erano dei “fascisti travestiti di rosso”, “agenti provocatori sotto controllo della Cia”, non era esatto. Altri dati poco studiati, le rilevazioni sociologiche sulle biografie politiche, ci dicono che la provenienza degli imputati per appartenenza alle Br non è riconducibile all’image d’Épinal del gruppo di fuoriusciti dalla Fgci di Reggio Emilia o agli studenti un po’ cattolici dell’università di sociologia di Trento. Ci sono le fabbriche milanesi, torinesi e genovesi. La diaspora di Potere operaio e di altre formazioni che operavano nelle borgate romane. L’onda lunga del 77. Pezzi di Autonomia veneta, Porto Marghera. L’area napoletana. E poi ancora le periferie romane degli anni 80.
Basta avere voglia di fare ricerca vera, libera, fuori dai preconcetti delle baronie universitarie lottizzate, dagli anatemi di re Giorgio e da chi ha messo in piedi quella rete di controllo della memoria che è il portale promosso dall’archivio Flamigni con la bendizione del Quirinale.

Ma torniamo al questito iniziale: cosa leggevano i brigatisti?

Via Montenevoso, 8: il nascondiglio segreto dietro un pannello rimosso nell’ottobre 1990 da un muratore

E’ la domanda a cui risponde Miguel Gotor esaminando con gli occhi dello storico il materiale repertato dai nuclei speciali del generale Dalla Chiesa dopo l’irruzione nell’appartamento di via Montenevoso 8, a Milano, il 1° ottobre 1978. Quella di Montenevoso era una base importante, una sorta di archivio delle Brigate rosse, scelta per conservare e preparare l’opuscolo che avrebbe dovuto raccogliere i materiali dell’interrogatorio (il cosiddetto “memoriale”) del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro. Al suo interno vivevano due esponenti dell’esecutivo nazionale della Brigate rosse: Lauro Azzolini e Francesco Bonisoli, entrambi “clandestini”. Il primo, trentacinquenne ex operaio della Lombardini di Reggio Emilia; il secondo, ventitreenne ed anche lui di Reggio Emilia, aveva preso parte nel marzo precedente all’azione di via Mario Fani, dove venne prelevato Aldo Moro. Insieme a loro da pochi giorni era arrivata anche Nadia Mantovani, venticinquenne, originaria di Padova e studentessa in medicina, latitante da poche settimane dopo che si era sottratta al domicilio coatto (confino) a cui era stata assegnata dopo un primo arresto. L’appartamento era stato individuato in agosto e tenuto sotto stretta sorveglianza per alcune settimane, il tempo di agganciare gli altri contatti, scoprire altre basi e farvi irruzione.

Dalle sessanta fitte pagine del verbale di sequestro, redatto dai carabinieri dei reparti speciali che occuparono l’appartamento nei  5 giorni successivi, prima di essere sloggiati con modi alquanto bruschi da altro personale dell’Arma appartenente alla struttura territoriale di Milano che faceva capo alla caserma Pastrengo (1), si ricava un interessante profilo della bibliografia brigatista che Miguel Gotor (2) descrive in questo modo (cfr. Il memoriale della Repubblica, Einaudi 2011, pp. 51-54):

Il lungo elenco consente di scattare una radiografia della vita quotidiana dei militanti delle Brigate rosse e di catalogare oggetti «comuni a un’intera generazione di giovani: non marziani, come sono diventati lentamente nel ricordo obliquo e reticente dei loro compagni di strada, man mano che costoro si separavano da quell’esperienza umana e politica che li aveva lambiti come un’onda improvvisa, senza travolgerli. Più che dalle intenzioni, spesso salvati dal puro caso: un appuntamento mancato, un amore improvviso, un figlio inatteso, la cartolina del servizio militare».

Nella base i militi «trovano centinaia di dattiloscritti fitti di analisi economiche e numerose rassegne stampa, in particolare sulla realtà industriale lungo l’asse Milano-Torino, non solo auto, ma anche chimica e siderurgia. Diari mensili riguardano lo stabilimento della Lancia di Chiasso (maggio e giugno 1978), una Relazione Fiat Mirafiori carrozzeria e presse, uno scritto intitolato La Fiat degli Agnelli, un documento politico sull’Ansaldo, il cui stabilimento è adesso a Milano uno spazio espositivo per l’alta moda (3). E poi i libri: non molti, ma ben scelti. Una piccola biblioteca portatile di edizioni recenti. Un vero e proprio campionario dell’internazionalismo rivoluzionario operaio e studentesco, oggi sopravvissuto tra le bancarelle dei bibliofili o negli scomparti virtuali di eBay a testimonianza di un’antica vitalità ormai dispersa; ieri strumenti preziosi per capire un mondo in ebollizione tra rivolte anticapitaliste, resistenze a regimi dittatoriali neofascisti e processi di decolonizzazione in atto con le loro speranze di giustizia e di riscatto: un altro socialismo sembrava ancora possibile».

Il mobiletto di via Montenevoso 8, dietro il quale si celava il pannello-nascondiglio come venne fotografato dai carabinieri nei primi giorni dell’ottobre 1978

Tupamaros, Kollontaj, Pisacane, Weather Underground, Bettelheim , Brecht, Mao…
Lotta armata in Iran di Bizhan Jazani, teorico socialista iraniano morto nel 1975;  La resistenza eritrea di Piero Gamacchio e, dentro un baule, Prateria in fiamme, ossia il programma politico dei «Weather Underground» il movimento di ispirazione marxista statunitense; Tupamaros: libertà o morte di Oscar José Dueñas Ruiz e Mirna Rugnon de Dueñas; La rivoluzione in Italia di Carlo Pisacane, eroe risorgimentale che la riscoperta resistenziale di Giaime Pintor (4) aveva riportato alla considerazione dei movimenti rivoluzionari italiani in maniera ben più radicale di quanto la scolastica Spigolatrice di Sapri avrebbe mai lasciato supporre con la sua apparentemente innocua cantilena. E poi l’edizione einaudiana del Dialoghi di profughi di Bertolt Brecht a cura di Cesare Cases e il classico del femminismo Vassilissa: l’amore, la coppia, la politica. Storia di una donna dopo la rivoluzione dell’eroina sovietica Aleksandra Kollontaj. Non manca l’attenzione al tema delle partecipazioni statali e della riorganizzazione dell’impresa pubblica italiana (Lo Stato padrone, La borghesia di Stato), al mondo della nuova televisione (L’antenna dei padroni), alla realtà delle multinazionali quando il termine globalizzazione non era ancora entrato in voga (Multinazionali: tutto il loro potere in Europa, a cura di Stephen Hugh-Jones, e Multinazionali e comunicazioni di massa del sociologo francese Armand Mattelart). In camera, in un comodino di fianco al letto, «numerose riviste pornografiche», una Settimana enigmistica, la «Lotta di classe in Urss con annotazioni» del marxista critico Charles Bettelheim e le Opere scelte di Mao Tse-tung. Occhieggia persino «un libro dal titolo Carabinieri (di barzellette)», come registra con involontario senso dell’umorismo il verbalizzante, quello illustrato da Bertellier e pubblicato da Samonà e Savelli, forse come omaggio all’abusato slogan di quegli anni: «una risata vi seppellirà» (5).

Materiali e libri che servirono da fonti per redigere i comunicati e preparare le domande a Moro
Alla luce della lettura dei comunicati brigatisti divulgati nel corso dei cinquantacinque giorni non meraviglia la presenza della biografia di Aldo Moro scritta da Aniello Coppola (6), dal momento che il profilo dell’uomo politico contenuto nel secondo messaggio sembrò agli osservatori più attenti ripreso proprio da quel libro. E neppure stupisce, se si fa riferimento alle parti dell’interrogatorio in cui Moro fu costretto a rispondere sulle attività di antigueriglia della Nato in Italia e sulla cosiddetta strategia ella tensione, il rinvenimento di una relazione sulla «Rosa dei Venti», e di una copia del libro Il sangue dei leoni, edito nel 1969 da Feltrinelli (7). Il volume pubblicava nella prima parte un lungo discorso del leader congolese Édouard-Marcel Sumbu, ma dissimulava al suo interno il ben più intrigante «Manuale delle Special Forces», in cui erano riassunte le principali tecniche di antiguerriglia e di sabotaggio messe in pratica dai «Berretti verdi» statunitensi nei quadri bellici non convenzionali della guerra fredda. Desta interesse la copia di un discorso di Umberto Agnelli del 1976, poiché una delle domande a cui Moro dovette rispondere riguardò proprio i meccanismi che portarono alla sua elezione nelle file della Dc in quell’anno. Una serie di riscontri occasionali che confermano i rapporti organizzativi  intercorsi lungo la linea Roma-Milano, via Firenze, tra il nucleo operativo che gestì il sequestro e l’interrogatorio di Moro e il comitato esecutivo di cui facevano parte anche Azzolini e Bonisoli, ossia gli occupanti di via Montenevoso.

Genealogia politico-culturale della rivoluzione brigatista: non c’erano Togliatti e Zdanov, anzi non c’era nemmeno “l’album di famiglia”, di cui scrisse Rossanda, ma le correnti del neomarxismo degli anni 60 del Novecento
Si tratta di un pachetto di libri assai lontani dall’armamentario tipico del militante comunista iscritto al Pci, piuttosto sono letture tipiche della nuova sinistra extraparlamentare di quel decennio, con suggestioni anticapitalistiche, terzomondiste, trockjiste, maoiste, guevariste, genericamente rivoluzionarie e libertarie, di sicura ispirazione antistalinista. Ben lungi quindi dall’immagine dell’«album di famiglia» – il sapore staliniano e zadnoviano degli anni Cinquanta avvertito da Rossana Rossanda nel linguaggio del secondo comunicato delle Br dopo il rapimento di Moro (8) – un’immagine che tanto consenso trasversale e duraturo ebbe presso l’opinione pubblica italiana da cui fu utilizzata per accreditare la tesi di una filiazione diretta della Brigate rosse dal Pci. La formula ebbe un successo propagandistico duplice che meriterebbe di essere approfondito nel suo sviluppo e radicamento nel dibattito nazionale: alla destra del Pci, perché amplificava una generale ossessione anticomunista e permetteva di riattualizzare lo stereotipo della doppiezza togliattiana; alla sinistra di quel partito, in quanto consentiva di rimuovere, o almeno stemperare in una vaga aria di famiglia, il nodo centrale del rapporto di contiguità culturale e generazionale tra il variegato  mondo extraparlamentare, la lotta armata e la pratica della violenza politica nel suo complesso. Un nodo intricato e scivoloso, strettosi  sempre più nel corso degli anni anche grazie  a una serie di ambiguità, reticenze, omissioni e qualche indulgente connivenza. Zdanov e il Moloch sovietico degli anni Cinquanta, in realtà c’entravano assai poco  e rischiavano di trasformarsi in un comodo alibi catarchico per non guardare in faccia la realtà[…].
Anzi , quei libri sono lì a ricordare che quel manipolo di giovani brigatisti era a modo suo, con granitica intransigenza e allucinata coerenza, dentro la cultura, le letture, le pratiche politiche e valoriali del movimento, come se le due realtà fossero attraversate da uno stesso sistema di vasi comunicanti.

Quanto accadeva in Italia rifletteva un contesto sovversivo insurrezionale di dimensione europea. Non a caso, due fitte pagine del verbale raccolgono i documenti della tedesca «Rote Armee Fraktion», ad attestare la solidità dei rapporti con le Br (9): strutture del gruppo, atti relativi al processo di Stammheim, dichiarazioni dei detenuti dell’organizzazione del 1977 fra cui Andreas Baader, lettere dattiloscritte di Ulrike Meinhof e altri, una pubblicazione in lingua tedesca datata settembre-ottobre 1977, una cartella contenente documenti relativi alla storia della Raf (memoriali, verbali dibattimentali, strategie di guerriglia), due «cassette di cui una iniziata con una voce femminile che parla lingua tedesca» (10).

Note

1. La rivendicazione della competenza sull’inchiesta, che ebbe conseguenze disciplinari interne, fece emergere le forti tensioni e rivalità tra fazioni opposte che si confrontavano dentro l’Arma dei Carabinieri e nei Servizi. Il repentino avvicendamento tra gli uomini di Dalla Chiesa e quelli della Pastrengo fu una delle probabili cause – a meno che non si voglia ritenere valida la tesi avanzata (ma non suffragata ancora da elementi totalmente convergenti) da Miguel Gotor, della mancata scoperta del nascondiglio celato dietro un pannello di gesso, a sua volta coperto da un mobiletto posto sotto il davanzale di una finestra, nel quale dodici anni dopo un muratore napoletano scoprì, mentre stava realizzando dei lavori di ristrutturazione, le fotocopie del manoscritto di Aldo Moro insieme a copie fotostatiche di altre lettere,  soldi e delle armi avvolte in giornali del 1978. Materiale, la cui “scomparsa”, la mancata verbalizzazione nel carte del sequestro giudiziario, era stata ripetutamente denunciata in sede processuale e di fronte ai magistrati nel corso degli anni successivi dai brigatisti che occupavano l’appartamento, Franco Bonisoli e Lauro Azzolini.

2. Miguel Gotor in più occasioni ha dimostrato di avere uno sguardo per nulla compiacente nei confronti della storia delle Brigate rosse e più in generale della Lotta armata e delle formazioni rivoluzionarie degli anni 70, come dimostrano i diversi libri, saggi e articoli dedicati al sequestro Moro, in particolare alla produzione scritta del dirigente democristiano (lettere e memoriale).

3. Acss, Legione carabinieri di Milano, Processo verbale di perquisizione e sequestro di via Monte Nevoso di Milano, 1° ottobre 1978, ore 10, pp. 8, 15-17, 22, 31, 42, 45.

4. Carlo Pisacane, Saggio su la Rivoluzione, a cura di Giaime Pintor, Einaudi, Torino  1942.

5. Si tratta delle seguenti edizioni: Bizhan Jazani, Lotta armata in Iran, Calusca, Milano 1977; Piero Gamacchio, La resistenza eritrea, Lerici, Cosenza 1978; Prateria in fiamme: il programma politico dei Weather Underground, Collettivo editoriale libri rossi, Milano 1977; Oscar José Dueñas Ruiz e Mirna Rugnon de Dueñas, Tupamaros: libertà o morte, isapere edizioni, Milano-Roma 1974; Carlo Pisacana, La rivoluzione italiana, a cura di Aurelio Lepre, Editori Riuniti, Roma 1975; Bertolt Brecht, Dialoghi di profughi, prefazione di Cesare Cases, Einaudi, Torino 1977; Aleksandra Kollontaj, Vassilissa: l’amore, la coppia, la politica: storia di una donna dopo la rivoluzione, Savelli, Roma 1978; Pietro Guizzetti, Stato padrone. Le partecipazioni statali in Italia, Mondadori, Milano 1977; Antonio Mutti, La borghesia di Stato: struttura e funzioni dell’impresa pubblica in Italia, G. Mazzetta, Milano 1977; Francesco Siliato, L’antenna dei padroni: radiotelevisione e sistema di informazione, G. Mazzetta, Milano 1977; Stephen Hugh-Jones (a cura di), Multinazionali tutto il loro potere in Europa, Poligrafico G. Colombi, Milano 1977; Armand Mattelart, Multinazionali e comunicazioni di massa, prefazione di Ivano Cipriani, Editori riuniti, Roma 1977; Mao Tse-tung, Opere scelte, Casa editrice in Lingue Estere, Beijing 1969-75; Bertellier, Carabinieri: le più celebri barzellette sulla “Benemerita” per la prima volta raccolte e illustrate, introduzione di Sandro Medici, Savelli, Roma, Milano 1977.

6. Aniello Coppola, Moro, Feltrinelli, Milano 1976.

7. É-M. Sumbu, Il sangue dei leoni: appello politico a tutto il popolo congolese per una riscossa in massa contro la reazione Kinshasa. Discorso al Congresso culturale dell’Avana. Cultura e indipendenza nazionale. Manuale delle Special forces, Feltrinelli, Milano 1969.

8. Per l’espressione si veda Rossana Rossanda, Discorso sulla Dc, in il manifesto 28 marzo 1978, p. 1, e Id., L’album di famiglia, ivi, 2 aprile 1978, pp.1-2. Sul dibattito di quei giorni si rinvia a Gotor, Processo all’album di famiglia, pp. 53-58.

9. Sul processo, iniziato il 21 maggio 1975, cfr. Aust, Rote Armee Fraktion, pp. 283-370.

10. ACSS, Legione carabinieri di Milano, Processo verbale di perquisizione e sequestro di via mOntenevoso di Milano, 1° ottobre-5 ottobre 1978, ore 10, a firma Giovanni Scirocco e altri, ff. 7, 33-34. 39, 41, 49. 56, 58, 60 anche per le seguenti citazioni.

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Caso Moro, l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico
Il caso Moro
Mario Moretti, Brigate rosse une histoire italienne
Vincenzo Tessandori, “Ci chiameremo la Brigata rossa
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Dietrologia: chi spiava i terroristi
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Lotta armata e teorie del complotto
Doppio Stato, teorie del complotto e dietrologia
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Doppio Stato? Una teoria in cattivo stato – Vladimiro Satta
La teoria del doppio Stato e i suoi sostenitori – Pierluigi Battista
La leggenda del doppio Stato – Marco Clementi
Italie, le theme du complot dans l’historiographie contemporaine – Paolo Persichetti
I marziani a Reggio Emilia – Paolo Nori

Lotta armata e teorie del complotto

Libri – Alberto Franceschini, a cura di Giovanni Fasanella, Che cosa sono le Br, Bur 2004 (Brigades rouges. L’histoire secrète des BR racontée par leur fondateur, Éditions du Panama 2005)

Libri – Guillaume Perrault, Génération Battisti, Plon, Paris 2005

Paolo Persichetti
23 gennaio 2006

Due libri pubblicati negli ultimi tempi in Francia hanno rilanciato in termini estremamente polemici la tesi secondo cui copj13asple insorgenze armate apparse nell’Italia degli anni 70 avrebbero trovato una complicità culturale, se non aperto sostegno, nelle autorità di Parigi. È significativo dei tempi che corrono questo capovolgimento di prospettiva storica. Quella somma di fattori che presero forma nel dopoguerra, congelando per lungo tempo il sistema politico italiano, fino a renderlo privo d’alternanza per 49 anni, una fissità di sistema che secondo la storiografia più avvertita non poteva che facilitare l’apparizione di spinte rivoluzionarie in presenza di una potente tradizione sovversiva, contesto riassunto nella formula dell’«anomalia italiana», si capovolge nel suo contrario: l’«eccezione francese». Il problema non verrebbe più dalle carenze storiche di un paese che resta tuttora incapace di chiudere con un’amnistia stagioni da lungo tempo concluse, ma dalla sua vicina d’Oltralpe. Nell’intervista che Giovanni Fasanella ha fatto a Alberto Franceschini, la Francia viene dipinta come un «santuario del terrorismo», una centrale che avrebbe sistematicamente promosso la destabilizzazione della democrazia italiana. Siamo nel pieno di una narrazione storica che ripropone alcuni vieti cliché della retorica del complotto e della visione poliziesca della storia. L’obiettivo preso di mira è la cosiddetta «dottrina Mitterrand». Nel corso della sua grottesca testimonianza, un Franceschini ossessionato dalla cultura del sospetto racconta di come il padre, militante comunista ancora impregnato della mentalità staliniana, avuto sentore delle intenzioni bellicose del figlio, l’avesse messo sull’avviso: «ricordati che fuori dal partito c’è soltanto la Cia». Ancora prima della caduta del muro di Berlino, Parigi sarebbe stata dunque un vero incrocio d’intrighi internazionali, sostituendosi a Washington e Mosca nel ruolo di piattaforma destabilizzante dell’Italia. Così si arriva a sostenere che un asse socialdemocratico, guidato da Mitterrand, avrebbe tentato di giocare la terza forza tra le due maggiori potenze, destabilizzando volutamente la penisola grazie alla protezione offerta ai militanti della lotta armata. Quando la storia si trasforma in noir, il racconto può avvalersi di facili licenze narrative e trascurare il rigore cronologico degli eventi, fino a dimenticare che negli anni 70 la Francia era sotto la presidenza di Giscard D’Estaing.
Durante la guerra d’Algeria, l’Italia aveva sempre rifiutato di estradare i militanti dell’Oas e dell’Fln. Jean-Jacques Susini, coinvolto nell’attentato del Petit Clamart contro De Gaulle, rimase per molti anni sotto la protezione della polizia italiana. Non per questo il nostro paese venne accusato di essere una base antifrancese. Negli anni 80, Mitterrand ripagò l’Italia con la stessa moneta. Di fronte al flusso di rifugiati politici che traversavano le Alpi, fece del suolo francese una sorta di camera di decompressione del conflitto che dilagava in Italia, rifiutando le estradizioni nell’attesa di un’amnistia. «Al di la della risposta giudiziaria – ha spiegato una volta Louis Joinet, vero architetto di questa politica d’asilo (Libération del 23 settembre 2002) – si trattava di facilitare il cammino di chi tentava di uscire dalla lotta armata per andare verso una soluzione politica. L’importante era di non marginalizzare quelli che avevano una riflessione politica».
Per il giudice Rosario Priore, autore della postfazione, le cose non stanno affatto così. Deciso a seguire le tracce de l’abbé Augustin Barruel, afferma: «Con ogni probabilità il cervello parigino è esistito, agendo in perfetta intesa con le autorità di quel paese, come hanno provato le inchieste romane». L’istituto di lingue Hyperion avrebbe rimpiazzato la loggia degli Illuminati di Baviera. Ragione che lo spinse a sospettare dell’abbé Pierre, una delle personalità francesi più note, mentre il suo collega Ferdinando Imposimato voleva spiccare un mandato di cattura contro lo stesso Joinet, consigliere giuridico di Mitterrand. 9782755700206
Nel pamphlet scritto per denunciare la campagna di sostegno condotta dalla sinistra e da una parte degli intellettuali francesi contro l’estradizione di Cesare Battisti, chiesta dall’Italia nel febbraio 2004, Guillaume Perrault, convinto che «mai democrazia sia stata così liberale nell’affrontare il terrorismo», si dilunga nel descrivere un’Italia paradisiaca, vero giardino di giustizia e di diritto, rappresentazione che non coincide affatto con l’opinione della destra italiana a cui il suo quotidiano fa riferimento. Preso dall’entusiasmo del neofita, per giustificare il fondamento delle estradizioni richieste contro i fuoriusciti, spiega le meraviglie del rito semi-accusatorio, introdotto nel processo penale italiano con la riforma del 1989 e più volte ritoccato. Dimentica però di precisare che tutti i maxi processi per «terrorismo» sono stati condotti col vecchio rito istruttorio e che l’Italia è il paese più sanzionato dalla corte di giustizia di Strasburgo. Crede – per averlo letto da magistrati come Bruti Liberati – che si possa parlare di giustizia d’emergenza solo in presenza di corti speciali, che l’Italia non ha introdotto, e non sa che l’emergenza può darsi anche attraverso la produzione di una legislazione speciale, che mai abolita trasforma l’eccezione in regola. Come è accaduto fin dalla fine degli anni 70 e come la Corte costituzionale ha riconosciuto, giustificando l’adozione da parte del governo e del parlamento di una legislazione d’eccezione mai emendata. Ripercorre, quindi, la selva di prese di posizione sulla vicenda che gli intellettuali della rive gauche, e molti esponenti della letteratura noir, hanno preso – in realtà – a danno di Battisti stesso e degli altri rifugiati, un po’ come la medicina che uccide il malato. Perrault ha facile gioco nel ridicolizzare l’improvvisata ricostruzione storica degli anni 70 proposta da questi intellettuali. Emergono toni che trasudano risentimento, stucchevoli accenti da letteratura termidoriana, commenti codini e farisei, grottesche uscite scandalizzate che ricordano i gridolini d’orrore di madame la marquise, e argomenti che ricordano le accuse del Merlo, una gazzetta che l’Ovra (la polizia segreta fascista) pubblicava a Parigi per calunniare e denigrare i rifugiati antifascisti. Tratti di un generone cialtronesco che straparla senza pensare. Non sfugge al giornalista una recensione, apparsa su Libération dell’8 ottobre 1998 che, recensendo un libro di Battisti, presenta l’insurrezione sociale degli anni 70 come: «l’epopea di una generazione d’Italiani in secessione armata contro una società che non riconoscono più come la loro, raccontata sullo sfondo di un susseguirsi di rapine, alcool e donne[…] Il protagonista va alla guerra come all’amore, quasi fosse un solitario Don Giovanni».
Per spiegare la folgorazione della sinistra francese più snob verso questa caricatura culturale e politica degli anni 70, l’ex ambasciatore Martinet (autore della prefazione) evoca il «complesso del Marrano». Alla stregua di quegli ebrei spagnoli che per sfuggire alle persecuzioni si convertirono al cattolicesimo, rimanendo tuttavia intimamente fedeli alla vecchia religione, la sinistra francese orfana della rivoluzione cercherebbe ancora dei simboli capaci di rinfocolare i vecchi ideali di gioventù. Per Martinet si tratta ovviamente di un abbaglio sconcertante, che testimonierebbe della persistenza di un arcaismo politico novecentesco dentro la sinistra francese, causa di un clamoroso malinteso che l’avrebbe condotta a prendere lucciole per lanterne e chiamare «rivoluzionari» dei semplici «criminali». La controprova sarebbe venuta dalla reazione indignata della sinistra italiana, ai suoi occhi ben più moderna, riformista e liberale. L’ex ambasciatore di Palazzo Farnese guarda senza dubbio con favore al modello social-liberale blairiano, è singolare dunque che non si accorga di come il primo ministro inglese non abbia esitato a sporcarsi le mani con il conflitto irlandese, negoziando con l’Ira, liberando tutti i prigionieri politici, anche quelli con reati di sangue (e l’Ira, come gli altri gruppi irridentisti cattolici o protestanti, metteva le bombe), e stabilito le tappe di un processo politico che ha condotto alla fine del conflitto. In Italia, invece, il tanto decantato Blair viene guardato dai liberali e social-liberali di sinistra come di destra soltanto per le sue politiche di liberalizzazione e privatizzazione economica e sociale. resizephp2
Martinet compie anche altre omissioni, dimentica così di spiegare come dietro i rimproveri stizziti piovuti dai cugini d’Oltralpe, ci fosse una sindrome altrettanto curiosa: quella dell’«album di famiglia». Per fare fronte alla perenne carenza di legittimazione istituzionale, la sinistra italiana è posta di fronte alla continua necessità di far dimenticare il proprio passato. Le polemiche seguite all’apparizione del volume di Mirella Serri, I Redenti, hanno ricordato come una buona parte dell’intellighenzia ex comunista abbia vissuto diverse vite, passando il proprio tempo a cancellare le precedenti: dal fascismo della gioventù, al comunismo della maturità, al post o all’anticomunismo della senescenza. In un simile contesto culturale, appare chiaro allora perché i prigionieri e i rifugiati degli anni 70 debbano continuare ad essere relegati nel ruolo di capri espiatori, inchiodati ad una funzione cristica: pagare per tutti «la tragedia del Novecento», rispettando alla lettera il rito della esportazione della colpa.
Racconta ancora Perrault che nel pieno delle feroci polemiche che la stampa italiana aveva lanciato contro la sinistra francese, il sindaco di Roma Walter Veltroni si sarebbe precipitato a telefonare al suo omologo parigino, Bertrand Delanoë, per dissuaderlo dall’appoggiare Battisti. Un’ammirevole sensibilità etica che gli era mancata quando, direttore dell’Unità, fece campagna per la liberazione di alcuni neofascisti rei confessi di una decina di omicidi (e formalmente condannati anche per la strage di Bologna – che Perrault mette sul conto dei gruppi armati di sinistra). La clemenza, sembra dire Veltroni col suo gesto, vale per gli avversari della sponda avversa, non per quelli alla propria sinistra. Ma il doppio linguaggio venuto dall’Italia nei mesi di astiose polemiche sul caso Battisti non termina certo qui. Tra i giustizialisti della sinistra favorevoli alle estradizioni, viene citato anche Antonio Tabucchi, sublime personaggio che eccelle nell’arte di selezionare i pentiti: cattivi quelli che accusano i propri amici (Sofri); buoni quelli che chiamano in causa i nemici (Andreotti o Battisti). Dalle fila della magistratura non sono venuti discorsi migliori: mentre il segretario dell’Anm denunciava «i progetti di fascistizzazione dell’ordinamento giudiziario», fuori d’Italia ci si indignava con gli esponenti della rive gauche che ripetevano ingenuamente quanto letto sulla stampa della sinistra italiana. La destra non era da meno, in casa accusava la magistratura di totalitarismo, ma all’estero pretendeva che le sue sentenze fossero venerate, salvo evidentemente quando queste riguardavano Berlusconi.
Sembra finita qui, e invece ecco emergere un retroscena ancora più inquietante: il 13 giugno 2003, il magistrato della procura antiterrorismo di Parigi, Gilbert Thiel, aveva organizzato insieme alla Direzione nazionale antiterrorismo una retata che sarebbe dovuta scattare il successivo lunedì 23. L’obiettivo era quello di arrestare tre fuoriusciti, tra cui Battisti, insieme ad altri due italiani non latitanti, Maj e Czeppel, i soli che di fatto poi vennero catturati. Un’operazione concordata con i vertici del Viminale e la collaborazione della procura bolognese. L’intera operazione era finalizzata a propagandare un legame diretto con l’arresto, avvenuto nel marzo precedente, di una militante del gruppo autore degli attentati D’Antona e Biagi e validare così la leggenda della «centrale francese», proprio mentre questa era clamorosamente smentita dalle indagini. L’intervento di Chirac che, dopo l’estradizione lampo organizzata dal suo rivale Sarkozy, nell’agosto 2002, aveva accentrato i fascicoli sui rifugiati italiani sotto il controllo dei suoi uffici, fece saltare tutto. Il presidente della repubblica francese, infatti, temeva che la retata venisse interpretata come un regalo a Berlusconi che il primo luglio avrebbe assunto, tra i clamori mediatici della grande operazione antiterrorismo, la presidenza della Ue.

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Italie, le thème du complot dans l’historiographie contemporaine – Paolo Persichetti
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