Milei usa l’estradizione di Bertulazzi per riabilitare la dittatura

Leonardo Bertulazzi nell’atelier di liutaio dove lavorava prima di essere arrestato e sottoposto a procedura di estradizione

La mattina di lunedì 16 luglio è stato esaminato davanti la corte suprema federale di cassazione argentina il ricorso presentato dalla difesa di Bertulazzi contro il nuovo arresto eseguito dopo il parere favorevole alla estradizione concesso dalla corte suprema di giustizia. La corte si è riservata e la decisione finale verrà comunicata nei prossimi giorni.
In precedenza sempre la corte di cassazione aveva annullato la sua incarcerazione, concedendo la misura dei domiciliari, perché il ricorso presentato contro la revoca dello status di rifugiato politico, riconosciutogli nel 2024, sospendeva l’effetto della decisione unilaterale intrapresa del governo fascista di Javier Milei. L’avvocato di Bertulazi, Rodolfo Yanzón, ha ribadito che nonostante il parere favorevole concesso alla estradizione: «Bertulazzi continua ad avere lo status di rifugiato presso le Nazioni Unite, poiché è pendente un causa presso il tribunale amministrativo su questa questione». E la corte suprema è stata molto chiara sul punto: l’estradizione non può essere materializzata finché non verrà chiarita in modo definitivo la questione del rifugio. Milei ha introdotto una nuova legge su misura che impedisce di concedere protezione alle persone implicate in reati di terrorismo (anche se il sequestro dell’armatore Costa per cui è stato condannato Bwrtulazzi non lo è perché realizzato prima dell’introduzioni delle aggravanti speciali antiterrorismo). Norma antiBertulazzi che tuttavia non ha valore retroattivo e non può incidere su una decisone presa ventuno anni prima.

Estradare Bertulazzi per riabilitare la dittatura
Nei giorni scorsi, prima la ministra della sicurezza nazionale, Patricia Bullrich, e successivamente Maria Florencia Zicavo, capo gabinetto del ministero della Giustizia argentino e responsabile della Commissione nazionale per i rifugiati (Conare), oltre a rilanciare la menzogna sul ruolo «importante che Bertulazzi avrebbe avuto nell’operazione che portò al rapimento e al successivo omicidio di Aldo Moro», nonostante in quel momento si trovasse nelle carceri italiane da quasi un anno, fake agitato con forza nello spazio pubblico argentino per rafforzare il dossier fragile che sostiene le ragioni della estradizione, hanno proposto un ribaltamento del giudizio storico sul recente passato dittatoriale argentino.
L’estradizione di Bertulazzi fa parte di una più generale riscrittura e cancellazione della storia e dei crimini della dittatura, all’interno della quale i soli colpevoli e responsabili diventano gli oppositori, coloro che hanno combattuto la dittatura e da questa sono stati perseguitati: ex prigionieri politici, i militanti assassinati, le migliaia di desaparecidos, i minori rapiti e adottati dalle famiglie dei militari del regime. L’operazione Bertulazzi serve ad aprire una prima breccia, ribaltando la responsabilità della violenza e dei crimini attribuendola a chi provò ad opporsi alla dittatura o nemmeno fece in tempo a farlo. Un po’ come se oggi in Italia il governo Meloni iniziasse a dare la caccia ai superstiti ancora in vita della resistenza antifascista.

Il gioco delle tre carte
D fronte a questa operazione la sinistra italiana, il Pd, i «democratici», tacciono, fanno finta di non sentire o capire, per soddisfare la pretesa punitiva della giustizia dell’emergenza di cui sono stati i padrini. La procura genovese in mano a giudici di Md, si è portata garante davanti alla giustizia argentina sulla possibilità che una volta in Italia Bertulazzi possa essere riprocessato nuovamente, e giudicato stavolta correttamente, correggendo le pesanti e inique condanne ricevute all’epoca (leggere l’intervista di Mario Di Vito del manifesto). Una bella promessa che purtroppo non è una garanzia poiché la legge italiana dice altro, prevede solo 30 giorni per fare la richiesta di riapertura del processo, ma poi sarà la corte d’appello a decidere. E l’intera giurisprudenza passata ci dice che una cosa del genere non è mai avvenuta. Addirittura in alcuni casi analoghi i giudici hanno fatto partire il conteggio dei trenta giorni non dal momento della riconsegna all’Italia dell’estradato ma da quando questi avrebbe avuto notizia ufficiale delle condanne pendenti. Ovvero in questo caso oltre venti anni fa, quando la giustizia argentina decise di non estradarlo perché condannato in contumacia.
Il sistema giudiziario italiano non ha mai voluto rimettere in discussione i processi di quegli anni. E così la nuova destra argentina oggi al potere potrà sbiancare la storia della dittatura sulla pelle dell’ex brigatista Leonardo Bertulazzi con la complicità delle anime bella della sinistra italiana.

Il caso Bertulazzi

Genova solidale contro l’estradizione di Leonardo Bertulazzi


di Leonardo Bertulazzi

Ci sono stati tempi in cui la prigione non è stata l’unico modo per epurare una condanna. L’esilio è stato per molti secoli il destino imposto ai trasgressori. Si considerava l’esilio, lo sradicamento come una pena, una pena senza ritorno, una rottura totale del corso della vita di una persona tra un prima nella propria terra, la terra della sua famiglia, e un dopo tutto da costruire, senza l’aiuto dei codici che la vita, relazioni e conoscenze di prima avevano sedimentato.
Questa rottura, questa separazione dell’albero dalle sue radici vive nel senso degli esiliati come una pietra miliare cruciale che segna il profondo della loro coscienza in modo più o meno doloroso, ma sempre presente. L’esilio è sempre stato considerato una pena, una punizione.
Nel 1951 con la convenzione di Ginevra i paesi del mondo hanno sottoscritto l’impegno di promuovere la protezione degli stranieri in cerca di un rifugio.
Ciò che nella convenzione di Ginevra spicca come impegno inderogabile è il principio di “Non Refoulement”: una volta che un paese riconosce un espatriato come rifugiato, offrendogli la sua protezione, si impegna a non mancare alla parola data, a non riportarlo nel paese in cui è in pericolo. Dare asilo significa dire: “Qui sei al sicuro. Qui puoi rifarti la vita».
La convenzione di Ginevra sancisce nel principio del “non refoulement” una prova che era già iscritta nella coscienza collettiva come espressione del valore della parola data, del dovere di uno stato di rispettare i suoi impegni e di non giocare con la vita delle persone e dei profughi, trasformandoli in moneta di scambio per gli affari tra paesi.
Il paese che concede la sua protezione a uno straniero lo mette in condizione di vivere nel suo territorio e nella sua società, dove porterà il granello di sabbia del suo lavoro, attività e relazioni umane.
Ecco perché il caso di Leonardo Bertulazzi fa così male. È arrivato 23 anni fa, ha lavorato, ha formato una casa, è invecchiato in pace. Oggi, a 73 anni, è in prigione e potrebbe essere estradato. Lo stesso paese che lo ha ospitato sembra disposto a cederlo, anche se il suo status di rifugiato è ancora in vigore.
Per giustificare il colpo di scena, viene dipinto come un “assassino”. Falso: mai è stato accusato o condannato per crimini di sangue. La cosa inquietante è vedere uno Stato cedere alle pressioni esterne e dimenticare la sua parola, lasciando un rifugiato alla mercé di coloro che lo hanno perseguitato.
Il “non-refoulement” o non-refoulement non è lettera piccola, è il muro che protegge le vite dalla diplomazia delle convenienze. Se lo abbattiamo, non tradiamo solo Leonardo: infrangiamo la fiducia in tutto il sistema di protezione internazionale.
Il caso Bertulazzi non è un altro dossier. È la prova vivente che la nostra parola vale qualcosa o se finisce fradicia e rotta, come carta bagnata.

L’ex Br Bertulazzi: «Sono in fuga dal 1980, ma non regalo mea culpa»

Oggi è un liutaio, per anni ha lavorato come grafico e traduttore, è stato un militante della colonna genovese delle Brigate rosse ai suoi esordi, nella pirma metà degli anni 70. Nel 1980 lascia l’Italia, quando viene processato vive già all’estero da tempo ma i giudici pensano sia un clandestino in attività così lo condannano ad una pena abnorme, 27 anni, nonostante fosse stato un irregolare, cioè mai clandestino, senza reati di sangue contestati. Dopo esser passato per la Grecia, approda in Salvador dove vive fino al 2002, quando entra in Argentina dove viene arrestato. La magistratura tuttavia nega l’estradizione perché condannato in contumacia. Poco dopo gli viene concesso l’asilo politico, procedura che interrompe il processo di estradizione annullando il rigetto già pronunciato. Nel 2013 la sua condanna va in prescrizione, la cassazione italiana conferma ma successivamente la procura di genova fa riaprire il procedimento ottenendo l’annullamento della decisione. Nell’estate 2024 la nuova giunta argentina del presidente Milei, un nostalgico delle dittature fasciste sud americane e del piano Condor, con una decisione arbitraria annulla la concessione dell’asilo politico. Il governo Meloni ne approfitta e rilancia l’estradizione avvalendosi della mancata conclusione della precedente procedura di estradizione, dove era stato espresso parere favorevole. I nuovi giudici, allineati col nuovo potere revanchista, concedono una estradizione col trucco accettando la promessa fatta dalla procura genovese che una volta in Italia Berrtulazzi sarà nuovamente processato: nonostante la legge e la giurisprudenza non lo prevedano.

Mario Di Vito, il manifesto 18 marzo 2025

Leonardo Bertulazzi, classe 1951, fino al 1980, anno in cui è cominciata la sua fuga, è stato un militante irregolare della colonna genovese delle Brigate rosse con il nome di battaglia di Stefano. Condannato in contumacia a 27 anni per il sequestro di Pietro Costa del 1977 e per banda armata, pur non avendo fatti di sangue a suo carico per l’Italia è uno dei maggiori ricercati internazionali: due settimane fa i giudici hanno detto sì alla sua estradizione dall’Argentina. Ad agosto gli era stato sospeso lo status di rifugiato politico ed è stato arrestato. Adesso è ai domiciliari con un bracciale elettronico e il suo destino è appeso all’ultimo grado di giudizio, quello della Corte suprema di Buenos Aires, città in cui vive dal 2002.

«Quello è stato un anno terribilmente speciale per l’Argentina – dice al manifesto -. Terribile perché la bancarotta finanziaria provocò un impoverimento repentino di una porzione importante della società e speciale perché sviluppò un’immediata risposta in termini di auto-organizzazione e lotta: que se vayan todos era lo slogan».

E lei arriva lì.
Bettina, mia moglie, ed io arrivammo a Buenos Aires nel giugno del 2002 e iniziammo a conoscere i quartieri popolari e a frequentare le assemblee in cui i vicini discutevano l’organizzazione di mense e farmacie popolari, e altre forme di autogestione. Venivamo da molti anni vissuti in Salvador, dove avevamo lavorato in contesti simili. A novembre l’Interpol mi arrestò per una richiesta d’estradizione italiana. Le organizzazioni dei piqueteros e le assemblee di quartiere manifestarono una grande solidarietà nei miei confronti e ci fu una campagna in mio favore.

E poi?
Dopo sette mesi di detenzione, il giudice decise che l’estradizione di un condannato in contumacia non era ammessa e mi liberarono. L’anno seguente, con la presidenza Kirchner, mi venne riconosciuto lo status di rifugiato politico, perché le leggi speciali e le pratiche d’emergenza, il pentitismo, la tortura, i processi collettivi, le pene esorbitanti, i carceri speciali, il 41 bis e le condanne in contumacia non garantivano un funzionamento affidabile della giustizia.

Cosa ha fatto in Argentina in questi 23 anni?
Ho lavorato come disegnatore grafico e come traduttore fino al 2015, quando ho cominciato a frequentare una scuola municipale di liuteria. Si trattava di un grande magazzino in periferia dove, già in precedenza, operava una falegnameria con la sua attrezzatura. Abbiamo avviato un’impresa di produzione di strumenti musicali per le orchestre degli alunni delle scuole della periferia di Buenos Aires. Abbiamo chiamato quel grande magazzino Fabbricando Futuro, come le due effe sulla tavola armonica del violino, e questo è diventato il luogo d’incontro di alunni, studenti, genitori, professori, liutai e apprendisti liutai.

Da allora il paese è molto cambiato.
Lo spirito della mobilitazione sociale che abbiamo conosciuto al nostro arrivo si è affievolito a causa di delusioni, stanchezza, rassegnazione e repressione che, poco a poco, hanno tagliato le ali della speranza. Il governo Milei ha espulso dal mondo del lavoro centinaia di migliaia di lavoratori e ha represso con violenza ogni tentativo di resistenza. Oggi nella società argentina si percepisce la paura e insieme un senso di rabbia repressa che aspetta solo che la tortilla se de vuelta.

In Italia, intanto, c’erano già delle condanne che la riguardavano.
La legislazione speciale l’ha fatta da protagonista: la ricerca a tutti i costi della collaborazione del pentito, con la carota delle leggi premiali o, quando non bastava, con la tortura e poi le condanne a decine di anni che si basavano unicamente sulle dichiarazioni dei pentiti. Si tratta di un iter giudiziario che affonda le proprie radici nelle atrocità del fascismo e nella mancata epurazione della magistratura dopo la caduta del regime. Si tratta di una pesante eredità che è diventata un abito mentale, una mentalità radicata nel profondo. Non sorprende, quindi, che la legislazione speciale promulgata negli anni ’70, molto più forcaiola dello stesso Codice Rocco, non abbia provocato nessuna contraddizione in coloro che l’hanno applicata con tanta diligenza. 

Veniamo ai suoi processi.
Ho due condanne: 15 anni per il sequestro Costa e 19 per banda armata, poi unificate per una pena unica di 27 anni. I processi si sono svolti quando avevo già lasciato il paese da anni.

La procura di Genova scrive: «In conclusione, è ragionevole riconoscere che nessun elemento allo stato attuale può provare la conoscenza del processo in capo al condannato e delle accuse definitivamente formulate a suo carico e poi accertate in sua contumacia».
Lo stesso giudice argentino, che nel 2003, Kirchner presidente, aveva respinto la richiesta di estradizione, oggi, con Milei, ha accolto la richiesta, sostenendo che non c’è ragione di dubitare della parola della procura genovese che assicura che avrò diritto a un nuovo processo.

Ancora la procura di Genova: «L’ipotesi che la mancata presenza del Bertulazzi ai suoi processi per esercitare i suoi diritti possa essere stata involontaria, anziché frutto di una libera scelta, è da scartare CATEGORICAMENTE (sic, ndr)».
Speravano che la mia contumacia “volontaria” potesse giustificare l’estradizione. Ma non è andata così. Il giudice argentino ha respinto la richiesta di estradizione e sono stato riconosciuto come rifugiato politico. Ma ecco che nel 2024 cambiano i rapporti fra i governi, e Milei e Meloni si abbracciano. Mi viene revocato lo status di rifugiato e la procura di Genova presenta la stessa richiesta d’estradizione di 22 anni prima. Ma con quale giustificazione? Nessuna. Basta avere la faccia tosta di dire che non sapevo di essere sotto processo e che, una volta estradato in Italia, avrò diritto a un nuovo processo. 

Sugli anni della lotta armata, in una delle risposte al questionario per ottenere lo status di rifugiato politico in Argentina, lei scriveva: «Nel 1968 è apparso un movimento sociale, sorprendente nelle sue dimensioni, che per più di 10 anni ha messo in discussione le relazioni sociali e politiche del Paese e ha determinato il destino di molte persone, me compreso. Il movimento stava conquistando sempre più spazio nella società, generava speranze di cambiamento e stava già producendo cambiamenti di mentalità. Per me e per molti della mia generazione era una festa, la festa della speranza, in cui si incontravano studenti e lavoratori di tutte le categorie, donne e uomini, vecchi combattenti antifascisti e nuovi».
Il percorso ascendente della parabola ha resistito per anni, e poi? Poi c’è l’oggi, fatto di lavoro precario, disoccupazione, sanità che risponde al motto “più ricco, più sano”, un Mar Mediterraneo che accoglie i cadaveri degli emigranti, povera gente che muore perché cerca una vita degna di essere vissuta, mentre si incita al riarmo, si abitua la gente all’idea della guerra e dilaga il fascismo. Io ho lottato per un presente diverso. Nel giudicare il passato, non si può prescindere da questo presente, che è quello a cui hanno condotto coloro che ci hanno sconfitto. Non regalerò un mea culpa ai guerrafondai, a quelli che hanno provocato il rigurgito fascista.

Lei non è il primo caso di ricercato per fatti di mezzo secolo fa. Ricordiamo, per ultimi, i dieci di Ombre rosse in Francia. Non crede che i fatti di quel periodo storico siano una ferita ancora aperta per l’Italia?
Bisogna rileggere le parole dei giudici francesi: “I fatti sono molto vecchi. Senza trascurarne l’eccezionale gravità, in un contesto di estrema e ripetuta violenza che non può essere legittimata da esigenze politiche, si deve ritenere che il turbamento dell’ordine pubblico causato si sia esaurito”. Questa considerazione esprime lo spirito della prescrizione. Nella società italiana, il tempo della ferita aperta è scaduto. Ho letto di inchieste sugli “anni di piombo” che rivelano che tantissimi non sanno nemmeno di cosa si stia parlando.

Perché allora c’è ancora tanta attenzione su quei fatti?
Penso che un perché vada ricercato in quell’eredità di cui parlavo. Nel 2016, un avvocato ha fatto richiesta di prescrizione delle mie condanne. Il 12 giugno 2017 la Corte d’Appello di Genova dichiara l’estinzione delle pene. Il 23 febbraio 2018 la sentenza va in Cassazione e diventa definitiva. Intanto, però,la Suprema Corte aveva assunto un nuovo orientamento secondo cui anche l’arresto a seguito della richiesta d’estradizione interrompe la prescrizione. La procura di Genova se n’è accorta in ritardo, quando la sentenza che riconosceva la prescrizione delle mie pene era diventata definitiva. Ma la procura chiede che si riapra il processo, adducendo come giustificazione un fatto nuovo che non era stato preso in considerazione. 

Quale sarebbe il fatto nuovo?
Il mio arresto del 3 novembre 2002 a Buenos Aires.

La Cassazione aveva annullato la prescrizione.
Ironia della persecuzione: la mia richiesta di prescrizione delle pene, iniziata nel 2016 e conclusasi nel 2018 con il no alla prescrizione, è il pretesto usato da Milei per cessare il mio rifugio, perché avrei tentato di avvalermi volontariamente della protezione del paese di appartenenza. C’è poi tutto un dispositivo composto da politici e comunicatori che per rendere digeribile ai più la persecuzione attuata dallo Stato, si incaricano di descrivere il perseguitato come un diavolo. Quando nel 2017 mi è stata riconosciuta la prescrizione, si gridò allo scandalo. In realtà, stavano chiedendo di ribaltare la sentenza, cosa che è avvenuta poco dopo.

Lei è in fuga dal 1980. Ha rimpianti?
Ci sono cose che importano e che però non ho potuto fare. Ricordo un articolo di qualche anno fa su un giornale. Parlava dei fuoriusciti degli anni ’70 che si erano rifugiati in America Latina, facendo un’allusione particolare ai genovesi. L’articolo ne descriveva la bella vita ai Caraibi, fra amache, palme e mojito. Mi chiedevo come fosse possibile che una persona potesse immaginare un esiliato in quel modo, come fosse possibile che un giornalista, senza nessuna conoscenza diretta delle persone di cui parlava, scrivesse un articolo del genere. Ma ho pensato anche che, nella sua ignoranza, ci aveva azzeccato: è vero che ho vissuto bene, ma di un bene che non ha niente a che vedere con la sua immaginazione. Ho conosciuto tante persone, molte delle quali in situazioni esistenziali complesse. Le loro storie e la loro memoria sono il libro più bello che abbia mai letto e costituiscono la mia ricchezza.

«Sì all’estradizione di Bertulazzi in cambio di un nuovo processo in Italia», i giudici argentini accolgono la promessa fatta dalla procura di Genova che non verrà mantenuta

Si fonda su una bugia l’avviso favorevole concesso dalla magistratura argentina alla estradizione dell’ex brigatista Leonardo Bertulazzi, riparato negli anni 80 in America Latina, prima in Salvador e poi dal 2002 in Argentina, dove vent’anni fa gli era stato riconosciuto l’asilo politico, ritirato con una decisione arbitraria dopo l’arrivo al potere del governo fascio-revanchista Milei. La procura generale di Genova ha fatto sapere ai giudici di Buoneos Aires che una volta in Italia Bertulazzi avrà sicuramente diritto ad un nuovo processo, tanto è bastato per concede l’ammissibilità alla estradizione.
Sono state pubblicate ieri, 7 marzo, le motivazioni giuridiche che hanno portato a questa decisione sancita nella udienza del 27 febbraio scorso. I giudici argentini sono tornati sui loro passi, smentendo l’avviso contrario espresso 21 anni fa, il 5 giugno del 2003, quando rifiutarono l’estradizione perché l’Italia non forniva sufficienti garanzie sullo svolgimento di un nuovo processo contro Leonardo Bertulazzi. Va detto che l’ordinamento penale argentino non prevede la contumacia. Purtroppo l’iter decisionale dei giudici argentini non venne completato perché nel frattempo giunse il riconoscimento dello status di rifugiato, che secondo la legislazione argentina, e la convenzione sui diritti dei rifugiati, impedisce la consegna e persino il processo di estradizione quando lo status di rifugiato è in vigore. Situazione che portò la corte suprema a revocare quella prima decisione e non dichiarare irricevibile la domanda di estradizione. Così al governo Milei è bastato ritirare con un pretesto lo status di rifugiato per riaprire la partita.
Bertulazzi era stato condannato nel 1985 in due diversi processi – quando già da diverso tempo aveva lasciato l’Italia – a 15 anni di reclusione per complicità nel sequestro Costa del 1977 e 19 anni per il reato associativo, condanne che una volta cumulate, nel 1997, hanno portato a una pena definitiva di 27 anni. Una enormità considerando la breve militanza all’interno della colonna genovese, interrotta anche da un periodo di detenzione, e il fatto che fosse un «irregolare» a cui non sono stati mai contestati reati di sangue.
Secondo i giudici, in questa nuova procedura sarebbe intervenuto un fatto nuovo che avrebbe cambiato le carte in tavola: ovvero le garanzie fornite dal procuratore generale della Repubblica di Genova, in una nota del 9 settembre 2024, in merito alla possibilità per Bertulazzi di ottenere un nuovo processo una volta riconsegnato all’Italia.
Le garanzie della procura genovese tuttavia contrastano con l’ordinamento italiano, art. 175 comma 2 cpp, che non prevede automatismi in caso di condanne in contumacia ma soltanto la possibilità per il condannato estradato, entro 30 giorni dalla consegna, di poter chiedere la riapertura del processo a certe condizioni.
Dominus della decisione resta la corte di appello non la procura generale. Corte che non si è ancora pronunciata e non ha inviato alcuna rassicurazione ai giudici argentini. Sul punto poi esiste una costante giurisprudenza di cassazione che scoraggia le richieste di riapertura. Il principio di intangibilità della cosa giudicata resta fortemente radicato nel sistema giudiziario italiano e nella cultura giurisprundenziale, un muro invalicabile, un tabù intoccabile.
A favore di Bertulazzi tuttavia postrebbero giocare altri passaggi presenti nell’ordinanza dei giudici argentini, lì dove si afferma esplicitamente che «per la Repubblica Argentina, dal punto di vista dell’estradizione, [Bertulazzi} è un accusato, tenendo conto che queste condanne devono essere riaperte nella Repubblica Italiana». Altro passaggio da sottolineare è quello dove i giudici ricordano che, «la persona condannata in contumacia deve essere considerata un imputato e godere di garanzie sufficienti per esercitare il suo diritto alla difesa una volta arrivata nel suo paese».
Insomma per i giudici argentini Bertulazzi, poiché condannato in contumacia, non va considerato e non può essere estradato in qualità di condannato ma solo di persona imputata, ovvero in attesa di giudizio.
Il concetto è molto chiaro, meno chiara è l’interpretazione che ne sarà data in Italia se la corte suprema federale dovesse confermare l’estradizione e il Conare rigettasse il ricorso contro l’abolizione del status di rifugiato politico.
Cosa farà allora la magistratura italiana che sciopera in questi giorni contro il progetto di separazione delle carriere voluto con forza dal governo Meloni? Cosa diranno l’opposizione, l’avvocatura, i giuristi?

Brasile: stralci della decisione del ministro della Giustizia Tarso Genro

Mentre in Italia proseguono le proteste ufficiali, dopo le lettere del presidente della repubblica Napolitano e del presidente della Camera Fini al presidente brasiliano Lula, ecco alcuni stralci salienti del testo con il quale il ministro della giustizia brasiliano Tarso Genro ha concesso l’asilo politico a Cesare Battisti, ripresi dal blog


http://lapattumieradellastoria.blogspot.com/

Tarso Genro

Tarso Genro

La decisione del Ministro di giustizia brasiliano è stata ricoperta da insulti da mezza Italia. Quasi nessuno l’ha letta, i giornali ne hanno riportato più nulla che poco. Vale forse la pena di segnalare il documento originale (destaque do Diario Oficial ripreso dal sito del governo brasiliano) che molto probabilmente è opera di pugno dello stesso ministro Tarso Genro.
Preliminarmente, va ricordata la differenza tra concessione di asilo (diplomatico) e di rifugio (territoriale – i dettagli sul sito del ministero di giustizia), e che la decisione del Ministro è il risultato del ricorso contro la decisione precedente del Conare (Comitê Nacional para os Refugiados, organo tecnico del ministero che aveva rifiutato lo statuto di rifugiato).


La decisione in dettaglio

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Il presidente brasiliano Lula

Qui in breve gli argomenti chiari e ben argomentati sollevati nei diversi punti della decisione, che:
– ricorda che l’Italia non si è opposta alla connotazione politica dei reati contestati a Battisti, che al contrario risulta esplicita nelle sentenze di condanna, che parlano di «finalità di sovversione» (punto 8 e 26) ;
– si pone la questione se Battisti abbia un «fondato timore di essere perseguito per motivi politici» (questa è la formula della legge per lo statuto di rifugiato, punto 7) e per rispondere ricorre all’analisi usuale degli aspetti soggettivi ed oggettivi (9-11);
– descrive la «legittima repressione, da parte dello Stato italiano, della militanza di sinistra che voleva abbattere il regime con le armi durante gli anni di piombo». «Durante quel periodo, la società italiana e lo stato di diritto in Italia furono assediati da un insieme di movimenti politici, azioni armate e mobilitazioni sociali alcuni dei quali pretendevano l’affermarsi di un nuovo regime politico-sociale». Le organizzazioni rivoluzionarie che si formarono agivano «in zone “grigie”, nella stretta fascia tra l’azione politica insurrezionale di carttere armato e l’azione marginale del “banditismo sociale”» (12-13);
– ricorda la reazione dello stato italiano come legittima per uno stato democratico di diritto, e che questa si fece «non soltanto applicando norme giuridiche in vigore all’epoca, ma anche creando “eccezioni”, attraverso leggi di difesa dello Stato, che ridussero le prerogative di difesa degli accusati di sovversione e/o azioni violente, compresa l’istituzione della delazione premiata» (14);
– considera che «nei momenti di estrema tensione sociale e politica è comune e prevedibile che si attivino, anche nello stato di diritto, apparati illegali o paralleli allo stato» il che a volte «configuara una forte crisi di legalità: “la legge perde il primato politico nel sistema”. In tali casi paradossalmenete la giudiziarizzazione della politica intacca le garanzie democratiche senza che il regime democratico sia posto in dubbio», e riporta, dopo un riferimento ad Habermas, una citazione dal Futuro della democrazia di Norberto Bobbio (15); e che
– anche in «situazioni d’emergenza come quella italiana» è fondamentale «che non si accetti mai deroga dai principi giuridici che sostengono i diritti dell’uomo», e «nel caso italiano le possibilità di abusi erano date dallo stesso ordinamento giuridico forgiato negli “anni di piombo”» ovvero nell’arsenale di poteri di polizia e di leggi d’eccezione, descritti ricorrendo ad un approfondimento di Jacques Mucchielli (pubblicato in un lavoro sul ricorso al carcere nelle crisi politiche) (16);
– aggiunge che «è pubblico e non controverso il fatto che i meccanismi di funzionamento dell’eccezione operarono, in Italia, anche fuori delle regole della propria eccezionalità prevista dalla legge». È così che si formarono quelle forme di «potere occulto», «tanto più potente quanto meno si lascia vedere». E ciò «è professato in nome della preservazione dello Stato contro gli insorti, che non è meno illeggittima delle azioni sanguinarie degli insorti contro l’ordine». (17, 18);
– come argomento a contrario, richiama Carl Schmitt tra i teorici del diritto che non credono nella democrazia liberale, per dire con Bobbio che «quanto più eccezioni, tanto meno democrazia e diritto» (19);
– rileva che alcune misure d’eccezione adottate in Italia negli “anni di piombo” figurano ancora nei rapporti di Amnesty International e del Cpt (Comitato europeo di prevenzione della tortura, con esplicito riferimento a questo rapporto 2007) (20); e che
– altre persone fuggite dall’Italia per «motivi politici legati alla situazione del paese nella decade del 1970 ed inizi anni 80», come Battisti, non sono stati estradati dal Supremo Tribunale Federale poiché le condanne italiane attribuivano loro l’intenzione di sovvertire violentemente l’ordine socio-economico italino, con esplicito riferimento al diniego di estradizione nel caso di Luciano Pessina (21);
– nota che il ricorrente (Battisti) ha subito direttamente gli effetti della legislazione d’eccezione italiana, e che le accuse contro di lui non si fondavano su prove periziali ma sulla testimonianza del «delatore premiato Pietro Mutti» (23, 24);
– contesta l’argomentazione che si tratti di delitti penali comuni, poiché la violazione della legge penale «costituisce, in alcuni casi, la “giustificazione” giuridica dello Stato richiedente, senza la quale le possibilità di consegna del cittadino richiesto sarebbero senz’altro pregiudicate» (25);
– richiama la lettera di Cossiga, che attesta che i «sovversivi di sinistra vennero trattati, nell’Italia degli anni di piombo, come semplici terroristi e talvolta assolutamente come delinquenti comuni. La lettera conferma la qualità impropria di questa classificazione imposta» a Battisti (28);
– appoggiandosi sulla dottrina (F. Rezek, Direito internacional publico), conclude che «Non resta il minimo dubbio che, indipendentemente dalla valutazione del carattere politico o meno dei crimini imputati – comunque inaccettabili in ogni ipotesi, dal punto di vista dell’umanesimo democratico – costituisce fatto irrefutabile la partecipazione politica del ricorrente, il suo coinvolgimento politico insurrezionale et la pretesa, sua e del suo gruppo, di istituire un potere sovrano “fuori dall’ordinamento”» (29, 30);
– afferma che è un «aspetto molto importante per l’esame della pertinenza della concessione di rifugio, il fatto che il ricorrente riparò sul suolo francese per ragioni politiche assunte per decisione sovrana del capo di Stato di quel paese», ricordando che «Mitterrand accolse i ‘sovversivi’ alla categorica condizione che facessero una rinuncia formale alla lotta armata» e che Battisti, «dopo la rinuncia alla lotta armata resto in Francia per una decade. Fondò una famiglia, sposandosi e facendo due figlie, e visse pacificamante lavorando come portiere e scrittore». La situazione cambiò durante il governo Chirac, che annullò l’ospitalità “per ragioni eminentemente politiche. Il cambiamento di posizione dello stato francese, che gli aveva conferito rifugio come militante politico dell’estrema sinistra, fu il solo motore della sua venuta in Brasile». Sicché il Brasile «è divenuto il “depositario” di un cittadino, di fatto espulso da un territorio per decisione politica che si contrappone ad una decisione precedente che l’aveva riconosciuto come perseguitato politico (31-35);
– riassumendo che Battisti «per motivi politici si coinvolse in organizzazioni illegali perseguite penalmente nello Stato richiedente. Per ragioni politiche fu rifugiato in Francia ed anche per motivi politici, da cui scaturì la decisione politica dello Stato francese, decise, più tardi, di fuggire ancora», conclude che «L’elemento soggettivo del “fondato timore di persecuzione” necessario per il riconoscimento della condizione di rifugiato è pertanto chiaramente configurato» poiché l’elemento soggettivo è basato su fatti oggettivi (36, 37).
– riafferma, con la dottrna, che la qualificazione di individui come rifugiati, ovvero come “persone che non sono delinquenti comuni”, è un atto sovrano dello Stato, e che anche nel contesto della protezione umanitaria vale il principio in dubio pro reo : «nel dubbio, la decisione di riconoscimento dovrà inclinarsi a favore di chi sollecita il rifugio» (38, 39);
– richiama infine la normativa Costituzionale e dei Diritti dell’uomo, segnalando che «non sussitono impedimenti giuridici per riconoscere il carattere di rifugiato del ricorrente. Benché si richiami a diversi illeciti che sarebbero stati commessi dal ricorrente, in nessun momento lo Stato richiedente (l’Italia) ha notificato uno dei crimini che impedirebbero il riconoscimento della condizione di rifugiato» (40-42);
– aggiunge in conclusione che «il contesto in cui ebbero luogo i delitti di omicidio imputati al ricorrente, le condizioni in cui si tennero i suoi processi, la sua potenziale impossibilità di un’ampia difesa a fronte della radicalizzazione politica in Italia, provocano come minimo un profondo dubbio sul fatto che il ricorrente ebbe diritto al dovuto processo legale» (43).

 

 

 


Qualche nota

Come chiunque può vedere, non v’è nella decisione del ministro alcun riferimento a rischi per la vita di Cesare Battisti, ed ancor meno a mafia o Cia.
La decisione di accoglierlo come rifugiato si fonda solo sull’esistenza di un «ragionevole dubbio sui fatti che, secondo il Battisti, sono alla base del suo timore di persecuzione», né più né meno. Anche le reazioni di Cossiga non possono essere seriamente riferite alla decisione, che, al pari degli altri politici, non ha letto.
Le reazioni, politiche e generali, meritano un’attenzione separata. Vale qui notare che il vero centro dello scontro è la memoria degli “anni di piombo”, ovvero la sua configurazione come storia politica.
Attraverso il caso Battisti il tentativo di criminalizzazione assoluta della violenza politica degli anni 70 ha raggiunto un apice senza precedenti; l’insistenza nel volerlo configurare come un “criminale comune”, vuoi per la sua biografia o per le azioni dei Proletari armati per il comunismo (Pac), forte della riuscita campagna di mostrificazione (vedi il dossier su Carmilla) ma non confermata dagli atti, mirava e mira ad affermare una memoria storica calcata su quella soggettiva dei magistrati anti-terrorismo (che ovviamente hanno condotto dei processi legalmente perfetti e non hanno mai fatto politica).
La decisione del ministro brasiliano, mostra, forse per la prima volta esplicitamente in un atto ufficiale, che la lettura di quell’epoca non può prescindere dalla constatazione dell’esistenza di un violento conflitto nel paese. Si noti che tutti i riferimenti al “rischio di persecuzione” che tanto fanno inalberare i benpensanti, sono relativi all’epoca dei fatti e dei processi (fine anni 70 ed inizio 80!) e non all’attualità.

Caso Battisti, scontro tra Italia e Brasile per la concessione dell’asilo politico

Anni 70: «furono reati politici». Il ministro della Giustizia brasiliano Tarso Genro concede l’asilo politico a Cesare Battisti

Paolo Persichetti

Liberazione 16 gennaio 2009

Cesare Battisti, l’ex esponente dei Pac condannato all’ergastolo dalla giustizia dell’emergenza italiana e riparato in amnistiaj3pocvBrasile dopo l’estradizione concessa dalla Francia, non verrà estradato. Il ministro della Giustizia Tarso Genro, anch’egli con un passato di esiliato politico durante gli anni della dittatura e per questo rifugiatosi in Uruguay, gli ha concesso l’asilo politico (sarà libero entro 4 giorni). Decisione che ha capovolto il parere fornito a stretta maggioranza (tre contro due) dal Conare (l’organismo abilitato a fornire un avviso tecnico) il 28 novembre scorso. Arrestato a Copacabana il 18 marzo 2007, Battisti non era riuscito inizialmente a far valere le sue ragioni. Le prime tappe della procedura aveva preso una brutta piega. Insomma l’esito positivo della vicenda non sembrava affatto scontato. Il 2 aprile 2008, il procuratore generale, raccogliendo le pressioni diplomatiche e soprattutto degli ambienti giudiziari italiani, aveva espresso parere favorevole all’estradizione. Per questo la difesa aveva rinunciato a proseguire la sua battaglia sulla via strettamente giudiziaria, che prevedeva il ricorso al tribunale supremo federale (l’equivalente della nostra corte costituzionale), per interpellare direttamente il potere politico. Così in ragione dello “statuto dei rifugiati del 1951” e di una legge del 1997, il ministro della Giustizia ha ritenuto che esistessero tutti i requisiti richiesti per la concessione dell’asilo politico. Tra questi il fatto che gli episodi contestati a Battisti poggiassero tutti sulle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia, Pietro Mutti, lautamente remunerato con l’impunità, senza altri fondati elementi di prova; la presenza di una legislazione penale speciale, cioè di una giustizia d’eccezione che sovrasanziona i delitti politici e riduce le garanzie processuali e la sussistenza di un contesto storico caratterizzato da un conflitto sociale acceso. Il mantenimento, a distanza di tanti decenni, di un intento ultrapersecutorio che ha reso tabù qualsiasi chiusura politica delle eredità penali degli anni 70, avrebbe così suscitato quel rischio di «persecuzione politica», evocato per giustificare l’asilo, che tanto scandalo ha suscitato nel ceto politico-giudiziario italiano. A confortare la decisione è intervenuto anche il parere di Francesco Cossiga, già ministro degli Interni e presidente del consiglio negli anni più duri dello scontro tra istituzioni e sovversione di sinistra (nonché promulgatore della legislazione speciale). Alcuni decisivi passaggi della lettera dell’ex presidente della Repubblica sono stati ripresi nello stesso provvedimento emesso dal ministro Genro. Vi si può leggere infatti che «i sovversivi di sinistra venivano considerati nell’Italia degli “anni di piombo”, come semplici terroristi e talvolta criminali comuni. L’autore della lettera – conclude il provvedimento – sostiene, tuttavia, l’impropietà di questa classificazione attribuita al ricorrente». La decisione del Brasile, che si aggiunge a quella della Francia sul caso Petrella, rappresenta un smentita cocente delle arroganti pretese della magistratura e del ceto politico italiano. La dottrina Mitterrand ha trovato in questo modo una rinnovata legittimazione internazionale. L’italia con la sua eccezione giudiziaria resta sempre più sola.

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Su amnistia e dottrina Mitterrand vedi anche i seguenti link

Storia-della-dottrina-mitterrand
Una-storia-politica-dell’amnistia
un-kidnapping-sarkozien
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