Stupro del Quartaccio, scarcerato Racs 14

Scarcerato Karol Racs. Crolla anche la seconda accusa
Confessano i due veri autori dello stupro incastrati dal dna

Anita Cenci
Liberazione 24 marzo 2009

Karol Racz ha lasciato ieri sera il carcere di Regina Coeli. È caduta così anche la seconda accusa nei confronti del romeno già scagionato l’11 marzo scorso dalla violenza carnale commessa contro una minorenne il giorno di san Valentino nel parco romano della Caffarella.
Il tribunale del Riesame di Roma, presieduto da Giuseppe D’Arma, ha esaminato la nuova richiesta di scarcerazione per l’altra accusa che pesava nei suoi confronti, l’aggressione sessuale su una donna di 41 anni consumata la sera del 21 gennaio nel quartiere del Quartaccio, una zona di Primavalle nella periferia nord della capitale. Questa seconda imputazione era giunta all’apice della brutale campagna mediatica che aveva messo alla gogna Racz, insieme al suo coimputato Loyos Isztoika, decretati colpevoli dello stupro della Caffarella anzitempo. I due episodi erano tenuti insieme dal «teorema incolpativo» messo in piedi dalla questura e dalla procura, dopo aver abilmente pilotato testimoni facilmente suggestionabili e vittime e comprensibilmente confuse e sotto choc. I due ragazzi oggetto dell’aggressione – avevano scritto i giudici in sede di tribunale del Riesame – «hanno generato un quadro rappresentativo destrutturato, disomogeneo e contraddittorio».
Il tribunale ha deciso di rimettere in libertà Racz, nonostante il pm nel corso dell’udienza avesse richiesto la conferma del provvedimento restrittivo. Ma, contro l’accanimento persecutorio della procura, pesava come una montagna il risultato negativo dell’esame dna (come per l’episodio della Caffarella), il riconoscimento incerto realizzato dalla vittima in sede d’incidente probatorio, incertezza ribadita dalla donna in più di una occasione e poi l’alibi stesso fornito dal romeno, come nel caso della Caffarella. Alibi, va detto, mai tenuti nella giusta considerazione dagli inquirenti perché a fornirli erano persone ospiti nei campi rom della zona di Torrevecchia. Alcuni di loro, appositamente riuniti dalla polizia in una sala d’attesa della questura, erano stati intercettati con la speranza di coglierli in flagranza di falsa testimonianza mentre insieme, pensavano gli investigatori, sicuramente avrebbero concordato una versione di comodo che scagionasse il loro conoscente. Invece dicevano il vero. Un comportamento, quello degli investigatori e della procura, che in tutta questa vicenda ha dato più volte prova di un aperto pregiudizio.
Sempre ieri, gli altri due romeni risultati positivi al test del dna, arrestati venerdì 20 marzo con l’accusa d’essere i veri stupratori della Caffarella, hanno confessato la loro partecipazione all’aggressione nel corso dell’interrogatorio di garanzia tenuto di fronte al pm e al gip. I due, Alexandru Jean Ionut, 18 anni, e Oltean Gavrilia, 28 anni, già detenuti per altre rapine contro delle coppiette, realizzate in un altro parco della capitale limitrofo a quello della Caffarella, nei giorni immediatamente successivi allo stupro, hanno affermato – ha spiegato il pm Vincenzo Barba – «di avere appreso dell’arresto di Loyos Isztoika e Racz dai giornali escludendo però di averli mai conosciuti o frequentati».
Insomma della prima inchiesta non resta nulla, se non molta cattiva coscienza e tanta disonestà intellettuale, come quella dimostrata dal questore Giuseppe Caruso che dopo la svolta nelle indagini, riprese da zero e finalmente condotte con criteri investigativi seri, non più obnubilati dalla necessità di offrire in fretta dei colpevoli alle richieste pressanti della politica, ancora sabato scorso si dichiarava convinto «che ci sia un legame diretto o indiretto» tra Loyos (il biondino) e i due nuovi arrestati. «È il filo che stiamo cercando di scoprire», ha aggiunto. Eppure, sempre il Riesame aveva liquidato l’autoconfessione di Loyos con parole inequivocabili: «Una trama che declina uno stato d’intrinseca inaffidabilità (…) d’infedeltà storico-rappresentativa», in quanto «è proprio la qualità soggettiva del dichiarante a deprivare il suo narrato della presunzione relativa di affidabilità e a influenzare il meccanismo ricostruttivo».
Ora che i presunti responsabili dello stupro sono stati assicurati alla giustizia e l’inchiesta sembra avviata su binari più consoni del rispetto del codice di procedura (con la rinuncia a far sfilare davanti ai media dei trofei da caccia), molti vorrebbero sapere come è stata estorta la confessione di Loyos, come è stato possibile che gli sia stato fatto dire «lo abbiamo fatto per dispetto», quando non aveva commesso nulla del genere.
Anche se le reazioni delle istituzioni vanno in tutt’altra direzione e difficilmente si arriverà a fare piena luce. Il sindaco di Roma Alemanno si è subito complimentato con la questura «per la tenacia e la determinazione» dimostrata.
E mentre le indagini sui nuovi inquisiti si allargano per verificare se Gavrilia, come ha sostenuto il suo coimputato più giovane, si sia macchiato di un altro stupro (di cui andava vantandosi) avvenuto nel mese di luglio 2008 nella zona del Pigneto, oggi si terrà l’udienza del Riesame per Loyos Isztoika ancora detenuto con l’accusa di calunnia, autocalunnia e diffamazione per una violenza che non ha mai commesso.
Intanto ieri sera all’uscita dal carcere del suo assistito, l’avvocato La Marca ha lanciato un appello: «Karol è un bravo pasticcere, se c’è qualche fornaio o pasticcere pronto a offrire un lavoro si faccia avanti».

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Quartaccio-Caffarella, l’uso politico dello stupro 1
È razzismo parlare di Dna romeno 2
L’inchiesta sprofonda 3
Quando il teorema vince sulle prove 4
Tante botte per trovare prove che non ci sono 5
Non esiste il cromosoma romeno 6
L’accanimento giudiziario 7
La difesa di Racs denuncia maltrattamenti 8
Parlano i conoscenti di Racs 9
Non sono colpevoli ma restano in carcere 10
Racs non c’entra 11
Negativi i test del Dna fatti in Romania 12
Stupro della Caffarella 13
Cosa si nasconde dietro la confessione di Loyos? 15
Racs innocente e senza lavoro 16
La fabbrica dei mostri 17
Loyos picchiato dalla polizia per confessare il falso 18

Stupro Caffarella 13

Dimmi come parli…

di Klaus Mondrian
Liberazione
15 marzo 2009

Il questore Giuseppe Caruso

“Dimostreremo che i due romeni sono coinvolti nello stupro della Caffarella”.

È vero, il dna dimostra che non sono stati loro.
È vero, le vittime li avevano riconosciuti pur non essendo stati loro.

È vero, il reato in italiano si chiama stupro e non stuprom.
Ma bisogna essere ottimisti: non è vero ciò che è vero, ma è vero ciò che piace!
Lo dice anche il proverbio: tutte le strade portano a rom

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Quartaccio-Caffarella, l’uso politico dello stupro 1
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Caffarella: negativi i test del Dna fatti in Romania 12/continua

Tutti negativi i test del Dna fatti in Romania, si indaga sui telefonini ritrovati

Anita Cenci
Liberazione
18 marzo 2009

Evapora definitivamente l’indagine che ha portato all’arresto di Karol Racs e Alexandru Loyos Isztoika, i due romeni accusati del brutale stupro avvenuto il giorno di san Valentino nel parco romano della Caffarella.
Ve la ricordate la storia del cromosoma Y? Uno dei tanti depistaggi investigativi che hanno segnato questa vicenda?
Erano i giorni in cui i test del dna scagionavano Racs e Isztoika. Le indagini si trovavano sotto schiaffo e allora qualcuno venne in soccorso dicendo che attraverso un esame genetico sperimentale, si era riusciti a identificare l’etnia romena degli aggressori. Un modo per dire che i poliziotti avevano solo preso i romeni sbagliati. La dottrina giuridica chiama questo tipo di responsabilità: “colpa d’autore”, una colpa per il modo d’esser della persona non per quello che avrebbe eventualmente commesso. In realtà, i tecnici della polizia scientifica avevano rilevato delle coincidenze con il cromosoma Y di Jon F., 25 anni, detenuto già prima della violenza nella prigione di Bucarest. Gli esperti azzardarono un’idea: poiché il cromosoma Y è ereditario occorreva verificare il dna degli altri maschi della sua famiglia.
Vi ricordate poi dell’uomo senza tre dita? Quel Ciprian C., il primo che fu riconosciuto nell’album fotografico mostrato all’adolescente violentata? Di lui si disse di tutto: che aveva un alibi poi divenuto incerto; che era un informatore della polizia, per questo protetto; che era introvabile. E vi ricordate dei pastori nomadi, i parenti del “biondino” Isztoika, il clan sperduto nei villaggi dell’est romeno, anche loro in fuga, forse?
Insieme fanno una lista di 22 persone, tutte ricercate per essere sottoposte al test del dna. Ebbene attraverso una rogatoria internazionale, gli esami sono arrivati e l’esito è risultato inesorabilmente negativo. Nessuno di loro c’entra con lo stupro della Caffarella.
Ora vi ricordate delle parole del questore Giuseppe Caruso dopo il riesame? «Le evidenze probatorie restano tutte», e più in là, «bastava quello che ci aveva detto Isztoika per sbatterlo dentro». Ora invece sappiamo che la confessione del “biondino”, poi ritrattata, fa acqua da tutte le parti. Il fidanzatino dell’adolescente violentata ha dato tre versioni diverse dei fatti. Isztoika fu indottrinato, a suon di botte, sulla prima. Da qui le discrepanze con quanto precisato, ma solo dopo, dal giovane aggredito.
Lentamente stanno emergendo anche le prime indiscrezioni sul “trattamento” subito dai due romeni. Chi le ha ascoltate, dice che assomigliano molto ai protocolli d’interrogatorio in uso nei territori di guerra.
 Mentre le indagini, a un mese di distanza dalla violenza, sembrano imboccare per la prima volta una pista seria, quella che ha portato al ritrovamento dei due telefonini rubati durante lo stupro, molte domande attendono risposta. Chi e perché ha “forzato” le indagini in una determinata direzione fin dalle prime ore? Pressioni della politica? Oppure eccessiva voglia da parte di alcuni funzionari di compiacere certi pregiudizi ideologici dell’attuale maggioranza? Eccesso di onnipotenza? Ora gli investigatori hanno tutto l’interesse a far fruttare la nuova pista dei cellulari tornati a funzionare dopo un silenzio durato settimane. La traccia dei numeri imei ha portato subito a identificare i nuovi possessori, uno in Italia e l’altro in Romania. I due sono estranei alla violenza ed hanno acquistato gli apparecchi da un ambulante in un mercato di Boccea. Questi, a sua volta, li aveva ricevuti da un’altra persona di cui la polizia conosce già l’identità. Residente nella borgata Finocchio, l’uomo per il momento è irreperibile. È soltanto il ricettatore? Solo ripercorrendo l’intero percorso fatto dai due telefoni, si verrà a capo della domanda.
Lunedì prossimo è prevista l’udienza del tribunale del riesame che dovrà pronunciarsi sulla seconda richiesta di scarcerazione presentata dal difensore di Racs. Questa volta verranno esaminate le accuse per lo stupro del Quartaccio. Dopo un riconoscimento incerto della vittima, anche qui l’esame del dna ha scagionato il romeno. C’è chi ha scritto che i due se fossero stati romani, invece che romeni, sarebbero già fuori. La decisione è importante anche perché, molto probabilmente, l’incipit che ha fuorviato le indagini sulla Caffarella nasce da lì, da chi non ha mai tolto gli occhi dal gruppo di romeni e rom di Primavalle, monitorati fin dai giorni che seguirono il primo stupro di via Andersen, al Quartaccio. È lì che furono individuati i colpevoli più facili, quelli politicamente più fruibili per la campagna politica che si scatenò immediatamente dopo e portò all’ennesimo decreto sicurezza.

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Stupro della Caffarella: tante botte per trovare prove che non ci sono 5

Stupro Caffarella, nuove analisi: «Il dna non è dei romeni arrestati». Intanto uno dei due, Karol Racs denuncia maltrattamenti appena arrestato a Livorno e poi in Questura a Roma

Anita Cenci
Liberazione 6 marzo 2009

I nuovi test sulla comparazione del Dna, realizzati dal laboratorio dell’università di Roma diretto dalla professoressa Carla Vecchiotti, hanno confermato ancora una volta che le tracce biologiche rinvenute dopo lo stupro della Caffarella non appartengono a Alexandru Isztoika e Karol Racs, i due cittadini romeni accusati della brutale violenza.
Le situazione si aggrava per la squadra mobile e la procura di Roma che l’altro ieri hanno diffuso un comunicato congiunto nel quale, in sostanza, fanno quadrato attorno alle indagini fino ad ora svolte. Per il questore Giuseppe Caruso, che ha parlato anche a nome dei magistrati, «l’impianto accusatorio non cambia di una virgola».
Ma dire che nulla cambia giacché tutto si è svolto secondo le regole, non aggiunge prove a quelle che già mancano. Per giunta questa ricostruzione è contestata dai due imputati, che hanno dichiarato ai parlamentari in visita nelle loro celle di aver subito violenze perché confessassero. «La notte che sono venuti a prendermi – ha raccontato Racs -, sono entrati i poliziotti romeni e mi hanno riempito di botte. Poi sono arrivati quelli italiani, e giù altre botte. Mi hanno trasferito a Roma, e gli investigatori mi hanno picchiato di nuovo». All’arrivo in carcere pare che fosse accompagnato da un verbale di pronto soccorso ed fosse pieno di contusioni.
Ora, nonostante il doppio esame del Dna li abbia scagionati, i due rimarranno comunque sotto custodia cautelare. Anche se lunedì prossimo il tribunale del riesame dovesse accogliere per entrambi la richiesta di scarcerazione avanzata dagli avvocati, procura e questura avrebbero comunque trovato il modo di mantenerli in detenzione.
Dal 5 marzo scorso, infatti, Racs è incriminato anche per la violenza sessuale compiuta su una donna, la sera del 21 gennaio in via Andersen, al Quartaccio. Il bassino stempiato che è entrato nella vicenda della Caffarella solo perché tirato in ballo dal suo connazionale, si è ritrovato travolto da una catena di sospetti nonostante la giovane vittima della violenza e il suo fidanzatino avessero inizialmente indicato un’altra persona e fornito un identikit completamente diverso dalla sua figura. Un micidiale dispositivo inquisitorio dove l’accusa ha trovato forza unicamente perché supportata da una seconda e così via. Una di quelle situazioni kafkiane in cui le smentite, piuttosto che indurre un po’ di buon senso, indispettiscono ancora di più chi muove le accuse. Il rischio è che la verità venga sacrificata di fronte alla necessità di tutelare la credibilità dell’autorità.
Intanto un nuovo colpo alle indagini è arrivato anche dalla donna di 41 anni, vittima dello stupro del Quartaccio, che ieri non ha confermato l’identificazione avvenuta durante l’incidente probatorio. «Era buio, avevano il cappuccio», ha detto la donna al Messaggero . La sensazione è che anche in questo caso Racs non c’entri nulla, ma sia stato coinvolto a causa di una potente suggestione mediatica che l’ha trasformato in un mostro da sbattere in prima pagina.
Più complicata è la posizione di Isztoika, il «biondino», a causa della sua confessione. Secondo gli investigatori non vi sarebbe nessun conflitto tra le «parole» e le «risultanze» scientifiche oggettive (il Dna), perché Isztoika avrebbe dimostrato di conoscere dettagli ancora ignoti alle indagini prima di esser ascoltato e solo successivamente verificate.
Per la polizia, anche se non fosse l’autore diretto del fatto, sarebbe comunque a conoscenza di come si è svolto e di chi l’avrebbe commesso. Per questo sarebbe pronta per lui, e per Racs, una nuova imputazione di favoreggiamento, oltre che di calunnia (per aver detto di aver subito violenze) e autocalunnia (per essersi accusato dello stupro).
Isztoika invece ribadisce che la confessione gli è stata estorta e il suo contenuto suggerito in dettaglio dai poliziotti romeni. Resta da capire se davvero egli abbia riferito circostanze ignote fino a quel momento. Lo varebbe fatto durante la videoregistrazione? Oppure prima? Vanno verificate anche le dichiarazioni di Racs, riportate da alcuni quotidiani, e nella quali spiega le confessione del suo coimputato perché: «terrorizzato da due romeni molto potenti, forse coinvolti nella vicenda».
Insomma le voci si accavallano e gli inquirenti, dietro la difesa delle loro indagini, sembrano in realtà confusi. Un cappotto con tracce di sangue, “dimenticato” nel bar dove i due fidanzatini erano stati soccorsi, è stato recuperato per essere sottoposto ad analisi. La sequenza del Dna di uno degli aggressori avrebbe trovato una parziale corrispondenza con quella di un altro cittadino romeno, in carcere nel suo paese da mesi.
Nel frattempo l’ingrato mondo della politica, quei partigiani della tolleranza zero che avevano in precedenza osannato gli investigatori, ora scaricano su di loro il flop di una politica “razzista” della sicurezza che crea invece insicurezza, perché la gente ha capito che alla fine i veri stupratori sono fuori. Il sindaco Alemanno, che si era precipitato ad indicare negli immigrati delle est i naturali colpevoli, ora dice che non vuole innocenti in carcere. Indagini e politica, un intreccio fatale. In questura avranno capito la lezione?

È sempre giallo sui due rumeni arrestati
Il Dna non c’è, ma per gli inquirenti: «L’accusa regge»

Stefano Galieni
Liberazione
5 marzo 2009

La Procura della Repubblica di Roma e la questura, con un comunicato congiunto, hanno confermato l’impianto accusatorio nei confronti dei due cittadini rumeni accusati dello stupro ai danni di una ragazzina, la sera del 14 febbraio a Roma. Il fatto che dai primi riscontri il Dna dei due risulti incompatibile e che le prove a carico sembrino sgretolarsi giorno dopo giorno, non sembra portare verso la ricerca di altre piste per assicurare alla giustizia i responsabili di questo odioso delitto. Mihai Muntean è segretario generale del Partito dei rumeni in Italia (8.000 iscritti che in questo periodo stanno aumentando considerevolmente), con contatti in tutti i Comuni in cui è forte la concentrazione rumena. Si sente nell’occhio del ciclone e non accetta che la sua comunità passi per essere composta da delinquenti e stupratori. «L’accanimento è iniziato con l’atroce omicidio della signora Reggiani – racconta – I reati sono diventati un pretesto per accanirsi contro una comunità composta per la maggior parte da lavoratori che pagano le tasse e vogliono vivere in pace, rispettando le leggi. Ma si è deciso di fare campagna politica e informativa facendo leva sulla sensibilità delle persone, arrivando a confermare l’equazione immigrato=delinquente». Mihai denuncia come su questo si sia costruito un “capitale elettorale” e si sia creata una tensione difficile da smorzare, in cui crescono il sospetto e la paura reciproca, ma anche veri e propri gravi e mai sufficientemente condannati episodi di xenofobia e di razzismo: «Hanno incendiato negozi gestiti da rumeni, sono stati picchiati cittadini inermi e si è arrivati ad emanare un decreto assurdo come quello sulle ronde che a mio avviso rappresentano una vera e propria dichiarazione di impotenza e di fallimento da parte dello stato». Sono in molti nella sua comunità a denunciare l’inutilità e la pericolosità delle ronde nate su questa isteria generale, sono molti a dire che aumentano il senso di criminalizzazione di una intera comunità, ad accorgersi di come le istituzioni che dovrebbero rassicurare l’opinione pubblica, scelgano di sostituire le forze dell’ordine demandate alla prevenzione e alla repressione dei reati con dei pensionati. E’ infuriata anche Halina Harja, giornalista di “Realitatea tv”, una emittente in lingua molto seguita in Italia: «Non mi sembra normale o giusto organizzare una conferenza stampa, come ha fatto la questura di Roma, all’inizio e non alla chiusura delle indagini, sbattendo i “mostri rumeni in prima pagina”. Si è violata la fondamentale presunzione di innocenza, potevano aspettare l’esito degli esami e dei riscontri. Ma non è la prima volta che accade: nel settembre del 2007 due fratelli rumeni vennero arrestati per lo stupro di una donna a Torino. Dopo tre mesi di carcere sono stati prosciolti, anche allora l’esame del Dna provò che erano innocenti. La corte di appello ha condannato lo Stato italiano ad un risarcimento per ingiusta detenzione dei due, ma questa notizia è finita in un trafiletto nascosto fra le tante notizie mentre all’atto dell’arresto i giornali avevano parlato ampiamente del caso». Tanto Mihai quanto Halina sono allarmati degli effetti concreti di questa campagna mediatica e politica contro i rumeni: dicono che diventa sempre più difficile per i propri concittadini trovare casa in affitto, un lavoro, mantenere relazioni stabili con gli italiani con cui invece c’è storicamente una vicinanza storica, culturale e linguistica. Oltre 200 anni fa si andava in Romania per cercare fortuna e molti italiani rimasero lì, tanto che i discendenti sono considerati minoranza linguistica a cui garantire diritti fra cui un deputato in parlamento. Ma questo si dimentica, come si dimenticano, è ancora Mihai a ricordarlo, i tanti e biunivoci rapporti di partenariato economico: imprenditori italiani che hanno delocalizzato la propria produzione in Romania, e imprenditori rumeni che si stanno affermando in Italia. Ma questi non fanno notizia, di loro non si parla. Colpa anche del fatto che la comunità rumena è ancora frammentata e cerca scarsamente di essere presente sia politicamente che per riacquisire spazio nell’informazione. «Io mi chiedo perché siamo arrivati ad una legge fatta di due pesi e due misure – domanda retoricamente Sebastian Zlotea, del Prc – Certi reati vanno puniti con severità estrema indipendentemente dal paese di provenienza di chi li commette. Ma in Italia non solo questo non vale più, ma se è un mio connazionale a commettere un reato perché la responsabilità deve ricadere sull’intera comunità?». I tre concordano sulla necessità che la comunità rumena sia maggiormente presente nella politica e nella società, anche visto l’avvicinarsi di scadenze elettorali. Ma intanto oggi ci potrebbero essere due innocenti in galera e due stupratori liberi, non importa di quale nazionalità, in grado di ripetere il reato.

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Stupro della Caffarella: non esiste il cromosoma romeno 6/continua

Emiliano Guardina genetista Università Tor Vergata (Roma)
«Il cromosoma y non è sufficiente per tracciare un profilo genetico»

Stefano Galieni
Liberazione
7 marzo 2009

Da molto tempo, di fronte a omicidi efferati o a reati predatori come gli stupri, si scatena l’uso spettacolarizzante della genetica come disciplina in grado di comprovare definitivamente la colpevolezza o l’innocenza di chi è indagato. Ultimo, in ordine di tempo, il caso della brutale violenza inflitta ad una minorenne a Roma il 14 febbraio scorso.
Emiliano Guardina, genetista presso l’Università di Tor Vergata di Roma, spiega: «Le analisi del Dna si basano sulla comparazione di specifichesequenze variabili nella popolazione. Ognuno di noi ha specifiche variabili, analizzandone un certo numero (15 o 16) è possibile evidenziarne una per ogni individuo. Il profilo che se ne ricava è unico e deve combaciare perfettamente con quello di chi è accusato».

C’è chi ha parlato di Dna che si sono mischiati e di cromosoma y identificativo. Che significa?
Nel caso di violenze in cui i reperti sono presi da tamponi vaginali, il materiale esaminato è misto (vittima e aggressori) allora è utile isolare il cromosoma y – esclusivamente maschile – per ricavare un profilo dell’aggressore. Il cromosoma non è discriminativo ma è parentale.

Ma il cromosoma y è sufficiente per tracciare un profilo genetico?
Assolutamente no. Serve l’intero profilo che deve comprendere anche gli altri cromosomi e l’intera sequenza genetica. Nei
paesi in cui in seguito a matrimoni sono le donne ad andare a vivere nella località in cui vivono gli uomini, il cromosoma y non migra, spesso è simile per molti individui. Se io vado a vivere da mia moglie a Milano, sposto il mio cromosoma a Milano e la variabilità è ridotta ma il cromosoma y di per se non è identificativo né può portare come unica prova ad un legame di parentela.

E pensare che c’è stato anche chi ha scritto di Dna diversi in base alla provenienza nazionale.
Non esistono varianti genetiche esclusive di singole entità geografiche. Posso dire che certe sequenze sono più frequenti in Spagna piuttosto che in Italia ma non posso e non debbo utilizzare questo come prova identificativa. So che esistono probabilità ma nessun elemento certo. Senza dimenticare che la specie umana è sopravvissuta solo grazie alla capacità di migrare, di mescolare i propri patrimoni genetici in maniera tale da sopravvivere in qualsiasi condizione. Pensi che una autorità riconosciuta come la Società Americana di Genetica Umana si è sentita in dovere di dire che certe ricerche che pretendono di trovare le proprie origini nel tempoattraverso una analisi del profilo genetico, non hanno alcun valore. Eppure c’è ancora chi crede questo.

Beh c’è anche chi utilizza la genetica per definire la predisposizione a comportamenti specifici.
Mi scusi per il termine ma questa è una cazzata. C’è una distanza siderale fra il comportamento individuale e il patrimonio genetico, ogni ricerca lo conferma ma basti pensare alla differenza che c’è fra gemelli monozigoti per capirlo. Solo
che le persone vorrebbero una certezza rassicurante come questa, sapere che un tale gruppo nazionale ha lo stupro nel Dna, per potersela prendere con il gruppo.

Si, l’unica certezza è che lo stupratore è uomo?
Si perché prevalgono approcci riduzionismi che non possono trovare voce nel terzo millennio. Eppure quanti plastici di Bruno Vespa continuo a vedere, quante spiegazioni contorte. Basterebbe dire che il dna è democratico non differenzia bianchi e neri, uomini e donne. Ma stiamo tornando alle teorie lombrosiane.

Si sopravvaluta la genetica forense?
Chi la esercita è molto prudente e prima di affermare con certezza che il Dna di un sospettato è quello rinvenuto sul luogo di un delitto ci pensa bene. Tutto deve combaciare anche se siamo in grado di recuperare l’intero profilo da una sola cellula. Ma non la si può considerare come unica prova per il castello accusatorio. Si rischiano errori e quando abbiamo dubbi sulla perfetta comparazione del profilo noi non ci permettiamo di emettere verdetti certi.

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Stupro della Caffarella e Quartaccio: l’accanimento giudiziario

Stupri, Racz: ecco i miei alibi ma il giudice conferma il carcere
Dopo l’esito negativo dei nuovi test, nomi e circostanze lo scaggionerebbero dalle violenze di Primavalle e della Caffarella

Anita Cenci
Liberazione 7 marzo 2009

Dopo che il Dna ha messo alla berlina le indagini della mobile romana sullo stupro della Caffarella, la magistratura continua ad accanirsi, in particolare contro uno dei due cittadini romeni accusati fino ad oggi senza prove.
Nonostante la donna di 41 anni stuprata la sera del 21 gennaio scorso in viale Andersen, nel quartiere del Quartaccio, periferia nord di Roma, non fosse più tanto sicura di aver riconosciuto in Karol Racs uno dei suoi aggressori, la Gip Silvia Castagnoli ha emesso nei suoi confronti una seconda ordinanza di custodia cautelare. Dopo un primo riconoscimento abbastanza indeciso, avvenuto in sede d’incidente probatorio, in cui la donna fortemente provata l’aveva indicato tra molte esitazioni, la vittima della violenza era tornata sulle sue affermazioni prima su un quotidiano e poi nel corso del programma Anno zero. «Era buio, avevano il cappuccio. Non sono più tanto sicura». Il ripensamento si è fatto strada, una volta divenuta di dominio pubblico la notizia che il test del Dna scagionava la responsabilità di Racs nello stupro della Caffarella. L’incidente probatorio si era invece svolto in gran segreto proprio nei giorni in cui maggiore era la pressione mediatica nei confronti del romeno, indicato assieme al suo connazionale Alexandru Loyos Isztoika come uno dei responsabili della brutale violenza sessuale. L’avvocato difensore ha precisato che la donna «non ha riconosciuto Racs, ma ha solo detto che assomiglia a uno dei suoi aggressori». Molti precedenti dimostrano che un’identificazione così fragile difficilmente può reggere in sede di confronto dibattimentale, anche perché l’immagine del romeno ha subito un inquinamento mediatico irreparabile dopo essere stata diffusa per giorni e giorni su tutti i media come l’icona del mostro. La decisione del Gip lascia ancora più sconcertati perché l’incerto riconoscimento, come è già accaduto per la vicenda della Caffarella, non ha trovato altre conferme. Il Dna recuperato dalle tracce biologiche dello stupro al Quartaccio non coincide con quello di Racs. Insomma nonostante le prove oggettive lo scagionino di nuovo, il romeno non solo resta incriminato ma non esce dal carcere. È questa la giustizia di chi vuole la certezza della pena al posto della certezza del colpevole. C’è qualcuno, in procura o in questura, che non vuole abbandonare la pista romena e riaprire le indagini a 360 gradi. Il pregiudizio raziale, la colpa d’autore, sembrano ispirare le indagini. Questo sospetto trova conferma anche dalla notizia che alcuni investigatori sono volati in Romania per verificare la coincidenza del cromosoma y, isolato in alcune tracce organiche repertate nello stupro della Caffarella, con quelle di un romeno rinchiuso nelle carceri del suo paese. Chi ha lasciato trapelare l’indiscrezione suggerisce che questa pista può condurre ad un suo familiare in libertà, di cui si dovrebbe verificare l’alibi. Ma per avere valore di prova, la sequenza del Dna deve essere completa, non parziale. Questa storia del cromosoma sembra l’ennesima bufola. Ed in questa inchiesta ce ne sono state davvero troppe, come quella sulla traccia genetica che avrebbe consentito l’identificazione razziale degli stupratori. Oppure si tratta di un diversivo per non perdere la faccia e diffondere una finta impressione di azione investigativa. In queste ore la questura ha anche avviato un’offensiva mediatica, facendo visionare ad alcuni giornali amici le immagini videoregistrate della confessione, poi ritrattata, di Isztoika. Un tentativo di restaurare la propria immagine per dimostrare la buona fede di fronte alla «forza emotivamente suggestiva» delle autoaccuse del “biondino”, tanto naturale e convincente sarebbe apparsa ai loro occhi la sua deposizione. Si tratta di un film di 45 minuti, a quanto pare molto diverso dal caso di Marta Russo, l’inchiesta in cui fece scalpore il video che mostrava le pressioni su una teste affinché confermasse le tesi dell’accusa. Chi ha visto le immagini afferma che Isztoika parla in modo disteso e fluido, senza apparenti timori. Addirittura entrerebbe nei dettagli dello scempio con distratta indifferenza. Ciò tuttavia non fuga i dubbi sull’autenticità delle dichiarazioni. Solo degli esperti dell’analisi comportamentale e del linguaggio potrebbero fornire un giudizio competente su quelle immagini. Restano irrisolte le domande su quanto è accaduto prima; e non appaiono ancora con nettezza prove che in quella deposizione vengano davvero fornite circostanze ancora ignote alle indagini. Il mistero permane. Piuttosto una domanda: ma perché l’immagine di Isztoika era nell’album di 12 foto che venne subito mostrato alla ragazza violentata? A che titolo era tra i primi sospettati?


Napolitano: «Lo stupro è un’infamia, la nazionalità non conta»
Caffarella, ora cercano cinque pastori Rom

Anita Cenci
Liberazione
8 marzo 2009

In un discorso tenuto ieri al Quirinale, durante la celebrazione della Giornata internazionale della donna, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha affermato che la «vergogna e l’infamia delle violenze, gli stupri, le forme di molestia, vessazione e persecuzione nei confronti delle donne» sono «l’ombra più pesante di tutte» nel cammino che il genere femminile ha avviato verso la piena parità.
Napolitano ha precisato che «non fa differenza» la nazionalità delle vittime come degli aggressori. Parole che assumono un significato molto particolare all’indomani del clamoroso flop nelle indagini sugli stupri del 21 gennaio e del 14 febbraio, avvenuti al Quartaccio e nel parco della Caffarella, due località periferiche della capitale. La ferma condanna verso queste odiose violenze risuona nelle parole del presidente della Repubblica anche come un monito contro ogni possibile deriva razzista e xenofoba nella società come nelle istituzioni, soprattutto se dedite alla tutela dell’ordine pubblico. A tale proposito, Napolitano ha ricordato come il fascismo privò le donne «dei fondamentali ed elementari diritti e le costrinse, se ebree, con le infami leggi razziali» ad abbandonare le scuole pubbliche.
Le indagini sullo stupro della Caffarella non fanno discutere solo i Palazzi delle istituzioni, dove un’improvvisa conversione per le garanzie ha spinto diversi politici della destra a rettificare le entusiastiche dichiarazioni diffuse dopo la notizia della cattura dei due cittadini romeni accusati dello stupro: «Le indagini servono per trovare i colpevoli, non a tenere in carcere gli innocenti» (Alemanno), «la sola chiamata di correità non è sufficiente per fondare un’accusa» (La Russa), «se cambia il quadro investigativo, vanno scarcerati» (Mantovano).
La vicenda ha rischiato di diventare anche un caso diplomatico. Un quotidiano romeno, Evenimentul Zilei, ha dato voce ai malumori della polizia locale che non sembra aver gradito le ricostruzioni delle indagini fatte trapelare dagli ambienti della squadra mobile romana, in particolare dell’interrogatorio di Alexandru Isztoika. Dubbi erano emersi su cosa avessero detto al “biondino” gli uomini di Bucarest, durante le otto ore passate in questura. In un retroscena molto compiacente, apparso nei giorni scorsi su un quotidiano della Capitale, lo stesso capo della mobile, Vittorio Rizzi, aveva messo le mani avanti chiedendosi cosa fosse successo nell’unica ora in cui aveva lasciato la questura, dopo due giorni insonni. Una maniera poco elegante di scaricare eventuali responsabilità sui suoi uomini.
Per tutta risposta, due degli investigatori arrivati da Bucarest accusano i colleghi italiani di «aver avuto troppa fretta», di «trionfalismo ingiustificato» al momento degli arresti e rigettano il sospetto «di aver fatto pressioni fisiche o psicologiche su Alexandru Isztoika», per spingerlo a confessare. L’irritazione è tale che il capo della polizia, Antonio Manganelli, e il suo omologo romeno, Toba Petre, sono dovuti intervenire per spegnere il principio d’incendio.
Sul fronte delle indagini si registra la missione in Romania dei nostri funzionari, alla ricerca delle tracce del famoso cromosoma y. Più che una pista indiziaria, una scommessa costruita sul raffronto tra le tracce biologiche rinvenute alla Caffarella e la banca dati del Dna della polizia romena. L’operazione avrebbe portato ad individuare una similitudine con il cromosoma y di un detenuto condannato per stupro, rinchiuso nelle carceri romene da tempo. I poliziotti hanno ricostruito i suoi legami di parentela. Si tratterebbe di 5 pastori nomadi che vivrebbero nella regione della Moldavia ma che per il momento non sono stati rintracciati. La polizia vorrebbe verificare i loro alibi e confrontare il loro Dna. Solo una sequenza completa avrebbe infatti valore di prova. Secondo il giornale Adevarul, che ha diffuso la notizia, non vi sarebbe comunque alcun legame tra questa famiglia e Alexandru Isztoika.
Riemergono anche altre piste, come quella di Ciprian Chiosci, 22 anni, di Botosani, l’uomo senza tre dita entrato e subito uscito dale indagini. Chiosci fu la prima persona riconosciuta in una foto dall’adolescente violentata alla Caffarella. Un’informativa della polizia di Bucarest precisò che l’uomo era partito da Roma il 12 febbraio, due giorni prima dello stupro, con un pullman dalla Stazione Tiburtina. Ora sembra che la circostanza sia nuovamente da verificare, come il fatto che Isztoika lo conoscesse. Voci, indiscrezioni, brusii che si rincorrono. Nulla di veramente certo, se non che gli investigatori non schiodano dalla pista dell’est.
Intanto i due fidanzatini della Caffarella, nonostante il Dna smentisca il loro riconoscimento, sarebbero pronti a riconfermarlo nel corso di un incidente probatorio, già sollecitato dal loro avvocato, Teresa Manente, legale di “Differenza donna”. Se accolta, la richiesta darebbe luogo ad una situazione surreale: il nuovo riconoscimento avrebbe valore di prova processuale ma sarebbe smentito dal dna.

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Quartaccio-Caffarella, l’uso politico dello stupro
È razzismo parlare di Dna romeno
L’inchiesta sprofonda
Quando il teorema vince sulle prove
Tante botte per trovare prove che non ci sono
Non esiste il cromosoma romeno
La difesa di Racs denuncia maltrattamenti
Parlano i conoscenti di Racs
Non sono colpevoli ma restano in carcere
Racs non c’entra
Negativi i test del Dna fatti in Romania
Stupro della Caffarella
Stupro del Quartaccio, scarcerato Racs
Cosa si nasconde dietro la confessione di Loyos?
Racs innocente e senza lavoro
La fabbrica dei mostri
Loyos picchiato dalla polizia per confessare il falso


Stupro della Caffarella: la difesa di Racs chiede la scarcerazione e denuncia maltrattamenti 8/continua

L’avvocato chiede il ricovero: «Racs ferito al timpano»
La procura: «c’è un nuovo teste»
. La difesa vuole la scarcerazione

Oggi la decisione del tribunale

Anita Cenci
Liberazione
9 marzo 2009

È prevista per oggi la decisione del Tribunale del riesame che ieri ha esaminato la richiesta di revoca della custodia cautelare presentata dai difensori di Karol Racz e Alexandru Isztoika, i due romeni accusati dello stupro nel parco romano della Caffarella. L’udienza si è aperta con un colpo di scena: l’avvocato La Marca, difensore di Racz, ha depositato una richiesta di ricovero per il suo assistito. «Nel corso del colloquio in carcere – ha spiegato – Racs mi ha informato di avere problemi all’udito e toccandosi l’orecchio sinistro si è macchiato le dita di sangue». Il legale ha chiesto il ricovero per accertare le cause, eventualmente traumatiche, della patologia e affrontare le cure necessarie. La circostanza getta nuove ombre sulle ore che hanno seguito l’arresto dei due romeni. Secondo l’avvocato, Isztoika, il “biondino” che prima ha confessato e poi ritrattato, sarebbe stato «indottrinato» sulla base della versione dei fatti riportata nella querela dell’adolescente aggredita. Dinamica che però sarebbe stata successivamente modificata, almeno in parte, dal fidanzatino.
La procura ha risposto versando nel fascicolo alcune intercettazioni ambientali, realizzate in Questura nei confronti di un gruppo di testimoni citati da Racz per confermare il suo alibi. Si tratta di alcuni ospiti del campo nomadi di Torrevecchia che, con modalità quanto mai discutibili, mentre erano in attesa di deporre sono state appositamente raggruppate in una stanza e microfonate. Un atteggiamento che comprova il pregiudizio discriminatorio della polizia nei confronti dei Rom considerati a priori dei mentitori. Paradossalmente, però, dalle loro conversazioni potrebbero emergere ulteriori elementi favorevoli all’indagato.
Lo stupro della Caffarella da orribile fatto di cronaca si è trasformato in un’inchiesta dalle risonanze politiche molto delicate. L’episodio ha dato il là al decreto sicurezza del governo e al varo delle ronde. Una definitiva smentita della pista romena creerebbe seri imbarazzi ai palazzi della politica che su questo episodio ha investito molto. La ricerca di un responsabile del fallimento potrebbe allora scaricarsi verso il basso come una reazione a catena. I livelli gerarchici inferiori, Questura e squadra mobile, sentono questa pressione che mette a rischio brillanti carriere dopo gli affrettati trionfalismi delle prime ore. Forse sta qui una delle ragioni che spingono la procura ad appiattirsi completamente sulla linea investigativa tenuta dalla polizia. Sembra quasi di assistere a un esperimento anzitempo della riforma che dovrebbe trasformare il pm nel notaio delle forze dell’ordine. Non ha suscitato sorprese, dunque, il rinnovo dalla custodia cautelare chiesto dal pm, Vincenzo Barba: «in prima istanza come autori materiali dello stupro», nonostante il dna lo abbia già escluso. Conferma dell’incriminazione dovuta al fatto che non tutte le analisi sono state ancora esperite; «In subordine come concorrenti morali», poiché in ogni caso i due avrebbero assistito al fatto. Un nuovo teste, infatti, avrebbe riconosciuto i due mentre si aggiravano nel parco in un orario compatibile con la violenza. Si tratterebbe di un medico che intorno alle 17,30 faceva jogging e avrebbe incrociato i due vicino agli attrezzi ginnici che arredano la Caffarella, notando in particolare l’assenza di incisivi in uno di loro. Circostanza già contestata a Racs per lo stupro del Quartaccio. Ma il riconoscimento, avvenuto nei giorni successivi all’arresto, anche in questo caso sarebbe viziato dal rullo compressore mediatico che per settimane ha sparato il volto dei due romeni come quello dei colpevoli, prima che l’esame del Dna cambiasse tutto. Non solo, ma il medico precisa li avrebbe visti «da soli», come d’altronde hanno sempre dichiarato i giovani aggrediti. Circostanza che contrasta con le ultime ipotesi investigative. Se erano soli, non possono essere stati loro perché il dna li scagiona. Ma se erano più di due, come ora sostiene la polizia, allora non torna la versione del teste. Le prove non sono giochi di prestigio.

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Quartaccio-Caffarella, l’uso politico dello stupro 1
È razzismo parlare di Dna romeno 2
L’inchiesta sprofonda 3
Quando il teorema vince sulle prove 4
Tante botte per trovare prove che non ci sono 5
Non esiste il cromosoma romeno 6
L’accanimento giudiziario 7
Parlano i conoscenti di Racs 9
Non sono colpevoli ma restano in carcere 10
Racs non c’entra 11
Negativi i test del Dna fatti in Romania 12
Stupro della Caffarella 13
Stupro del Quartaccio, scarcerato Racs 14
Cosa si nasconde dietro la confessione di Loyos? 15
Racs innocente e senza lavoro 16
La fabbrica dei mostri 17
Loyos picchiato dalla polizia per confessare il falso 18

Stupri della Caffarella e Quartaccio: parlano i conoscenti di Racs 9/continua

Parlano gli amici di Karol Racz accusato di stupro: «Non è un bruto. Non ha mai infastidito il campo»

Stefano Galieni
Liberazione
10 marzo 2009

«Cerchi gli “zingari”? Dopo quella strada». Chi fornisce l’indicazione non nasconde disprezzo. Roma, Via Cesare Lombroso, a ridosso dell’ex ospedale psichiatrico del S. Maria della Pietà. Una salitella alla cui sinistra si erge un cancello. Poi una sbarra per i veicoli, un gabbiotto per gli operatori dell’Arci Solidarietà e alcuni prefabbricati in un area recintata e cementata. Uno spazio pulito e tenuto dignitosamente, era qui che Karol Racz, il ragazzo definito dai media e dalla questura “faccia da pugile” si guadagnava da vivere fino al suo arresto, per lo stupro nel parco della Caffarella e per un’altra violenza subita da una donna del vicino quartiere di Primavalle. Ma come vacilla il materiale probatorio che lo accusava, così il racconto di chi lo ha conosciuto sgretola l’immagine del bruto che ne è stata fatta. «Qui lo chiamavamo tutti Carlo – racconta Michele, mani callose e volto aperto – da almeno sette mesi veniva a darci una mano per pulire il campo e non ha mai infastidito nessuno. Si guadagnava pochi euro portando via l’immondizia o dando una mano quando andavamo a raccogliere ferro e metallo da vendere, ma era anche bravo come muratore e come piastrellista. A volte gli davo anche un panino con la carne. Non ce lo vedo a fare quelle cose di cui è accusato». Anche altri hanno voglia di parlare, raccontano di un uomo timido e dalla voce bassa, che aveva anche paura a guardare le donne del campo, un lavoratore umile che conosceva appena poche parole di italiano. «Viveva con gli altri rumeni della zona, nelle baracche – interviene un ragazzo – siamo tutti bosniaci, di Mostar, siamo senza documenti ma i nostri figli sono nati qui e vanno a scuola senza problemi. La nostra vita è dura, quella dei rumeni anche peggiore». «Dopo la violenza di Primavalle – dice una donna – hanno bruciato le baracche dei rumeni senza neanche dargli il tempo per prendersi coperte e vestiti. Stavano morendo di freddo, siamo stati noi a dargli le nostre coperte». Molte sono le donne che lo difendono: «Lo lasciavamo anche da solo con le nostre figlie adolescenti – raccontano – ti pare che se avesse dato fastidio a qualcuna lo avremmo fatto entrare qui?». Il solo fatto che abbiano dato lavoro a Carlo (Karol) ha rovinato l’economia di sussistenza di queste famiglie, inserite in un campo attrezzato. La maggior parte degli adulti raccoglie e ricicla metalli, la domenica hanno messo in piedi un mercatino dell’usato dove rivendono gli oggetti gettati dalla nostra opulenza, i giovani si cercano con difficoltà un lavoro più stabile ma non è facile. «Per l’Italia siamo un problema del governo bosniaco, i bosniaci non ci riconoscono e ci rimandano all’Italia, come se fossimo palline da ping pong – dice Michele. Di fatto anche se siamo qui da tanti anni e se i nostri figli sono nati in questo campo di concentramento, noi non esistiamo, non abbiamo diritti. Spesso ci fermano, ci tengono in questura senza motivo». Si avvicina Viktor (nome di fantasia), un ragazzone vestito alla moda, capelli col gel e volto maturo: «Io sto con una ragazza italiana, vorremmo farci un futuro insieme, una famiglia, ma non possiamo. Avevo trovato lavoro in un forno, mi alzavo alle cinque ogni giorno ma ero contento. Poi la polizia mi ha chiesto i documenti ed hanno consigliato al proprietario del forno di non farmi lavorare. Ora sono disoccupato. Ma che vogliono? Che a rubare ci vada per forza?». Anche lui si ricorda bene di Carlo: «era gentile e aveva paura anche dei bambini. Con noi stava bene gli davamo lavoro, da mangiare e anche da vestirsi. Se la sono presa con lui perché è debole, è povero ed è rumeno». Ma è ancora Michele ad interromperlo: «Scrivi cosa ne pensiamo. Scrivi che chi ha distrutto la vita di quella ragazzina non si farebbe certo vedere da queste parti. Saremo i primi a denunciarlo, chiunque fosse stato». Ma intanto i rom di via Lombroso pagano gli effetti della campagna negativa nei loro confronti: c’è chi li guarda con maggior disprezzo, chi ne ha paura o chi, più semplicemente non li fa più lavorare. In fondo al piazzale che delimita il campo c’è forse la persona che conosce meglio Carlo, si è lasciato intervistare in tv per dire che non credeva alla sua colpevolezza e ora non vuole più parlare con nessuno. Ci raccontano suoi amici che non ha più pace, aveva accesso ad una discarica e ad altri posti in cui trovare metalli da vendere e partiva ogni giorno presto con il suo furgone. Ora non lo fanno più avvicinare, come se portasse addosso un marchio di complicità. Non poter lavorare significa passare la fame, campare rovistando anche fra l’immondizia. È arrabbiato per essersi esposto e ora non si fida, vuole che la gente dimentichi la sua faccia e maledice il giorno in cui non si è fatto gli affari suoi. E anche se questa storia si concluderà con l’assoluzione di Carlo, il dubbio nei suoi confronti e di chi lo ha conosciuto resterà a lungo. Nessuna autorità, tanto lesta a sbattere il mostro in prima pagina, si porrà il problema di scusarsi né di far avere uno straccio di documento di identità a chi pretende il diritto di vivere meglio.

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È razzismo parlare di Dna romeno 2
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Stupro della Caffarella 13
Stupro del Quartaccio, scarcerato Racs 14
Cosa si nasconde dietro la confessione di Loyos? 15
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La fabbrica dei mostri 17
Loyos picchiato dalla polizia per confessare il falso 18

Fascismo liquido

A Roma si moltiplicano i posti di ritrovo in cui si diffondono idee xenofobe e razziste. Fascisti, in parte svincolati dai gruppi d’estrema destra organizzati, non interessati a un progetto politico ma alla caccia al «diverso». Per difendere il territorio e l’ordine. La loro palestra, le curve


Manifesto
7 setembre 2008
di Giacomo Russo Spena

La scritta «Dux mea lux» svetta sul muro. Nero su bianco. A fianco una serie di celtiche. Davanti decine e decine di ragazzi dai venti ai trent’anni che lì trascorrono intere giornate. Seduti sui motorini e nelle macchine che pompano musica da discoteca. Quello è il loro posto. La base per presidiare il territorio, il quartiere Boccea (zona ovest di Roma) in questo caso, e difenderlo dagli «estranei»: migranti, rom, gay e «zecche» che siano. Indossano tutti maglietta Fred Perry o polo nera, jeans di marca, occhiali scuri, scarpe da ginnastica possibilmente bianche e cappellino scozzese (a scacchi). «Camerata» si dicono mentre fanno il «saluto del gladiatore»: la mano destra che va ad afferrare l’avambraccio destro dell’altro. Eppure tessere di partiti d’estrema destra in tasca non ne hanno. E si dichiarano fascisti. Di «comitive nere» come quella di Boccea, Roma è piena. Muretti, pub o semplici bar diventati luoghi d’incontro, e fabbriche di pensieri e atteggiamenti razzisti, in cui si cospira contro il diverso. I quartieri popolari ne sono pieni: Torbellamonaca, Trullo, Torre Angela, Prenestino, Torrevecchia. Ragazzi, cresciuti nel disagio sociale, che fomentati dall’industria della paura inscenata dalla destra, fanno propria la guerra tra poveri. Il nemico da combattere è soprattutto l’extracomunitario. Lo «zingaro» non è considerato nemmeno una persona. Ma si va oltre alla questione di classe. Ritrovi xenofobi ci sono anche in zone più agiate come piazza Vescovio, Torrevecchia, Ponte Milvio, Corso Francia. E altre. Una gioventù con idee fascistoidi, a cavallo con la microcriminalità, che gravita nei circuiti dell’estrema destra capitolina. Non però le sezioni partitiche. Sono «cani sciolti» non inquadrati in maniera rigida. I più politicizzati al massimo frequentano gli appuntamenti importanti dei partiti. I luoghi più attrattivi restano comunque le iniziative musicali e soprattutto lo stadio.

Una palestra per questi giovani che lì fanno propri atteggiamenti violenti e squadristi. Nelle curve imparano a caricare avversari e polizia, a non «indietreggiare mai». Si avvalora l’idea del gruppo ristretto che si deve difendere dall’esterno: «Pochi ma buoni», è un immaginario su cui gioca il fascismo. Non è un caso che i gruppi d’estrema destra abbiano tentato, e tentano, una chiara operazione politica sul tifo. Provano da anni ad arruolare militanti. Forza Nuova più insidiata nella nord laziale e Casa Pound, fuoriuscita da poco da Fiamma Tricolore, che ha un gruppo «Padroni di casa» nella Sud romanista. Ma l’esperimento non decolla e si avvia verso il declino. A confermarlo gli scarsi risultati elettorali presi da vari esponenti di questi partiti che hanno fatto campagna nelle curve. I cani sciolti, malgrado i tentativi articolati delle sigle organizzate (il leader di Casa Pound è sia ultras che cantante di un noto gruppo dell’estrema destra, gli «ZetaZeroAlfa»), non pagano. Ha vinto la logica inversa. Quella più pericolosa per l’incolumità fisica delle persone e meno politica. Gli schemi del tifo hanno invaso la città, con la curva che è entrata prepotentemente in politica, imponendo il proprio modus vivendi: scontri e armi, in primis il coltello. Adoperato all’Olimpico, la domenica a Ponte Milvio la «puncicata» sul gluteo al tifoso ospite è diventata ahimè una routine, per poi utilizzarlo in spedizioni cittadine contro i «diversi». Come quella contro Fabio Sciacca, accoltellato venerdì 29 agosto, al termine di un concerto in ricordo di Renato Biagetti, ucciso due anni fa a Focene sempre da fascisti. Gli stessi Ros, che stanno indagando sull’aggressione, sono orientati ad attribuire l’assalto a gente da stadio legata alla microcriminalità urbana. I partiti pur provandoci rimangono spesso (ma non sempre) spiazzati dalle comitive nere che si autorganizzano. A Roma, dove si sono moltiplicate le azioni squadristiche, si assiste a un restyling dell’estrema destra. Forza Nuova, che si rifà più al clerico-fascismo di stampo lefevbriano e non ha nella capitale più di cento militanti, sembra in crisi. Soprattutto dopo gli scontri all’università La Sapienza, che vedono coinvolto nel processo uno degli uomini di spicco (Martin Avaro), e la debacle elettorale. In brutte acque naviga anche Fiamma Tricolore che dopo l’alleanza elettorale con La Destra ha perso pezzi: la parte più forte nella capitale, Casa Pound, politicamente erede di Movimento Politico, ha preso un’altra strada. Fallito il progetto di prendere in mano il partito di Romagnoli ha deciso di ricominciare ripartendo dal «movimento». Per poi magari piazzare un proprio candidato alle prossime elezioni come indipendente in qualche lista nell’arco della destra. Infatti il sindaco Alemanno, pur prendendo ufficialmente distanza da questi gruppi e dai continui raid fascisti, continua ad alimentare il germe dell’intolleranza nella società (con le sue norme sulla sicurezza) e non è da escludere che alla prossima tornata non chiuda la porta in faccia ai fuoriusciti di Fiamma. A conferma, la spaccatura interna a Casa Pound con un gruppo che ha fondato il movimento Area Identitaria Romana con l’obiettivo di confluire già ora nel Pdl: «Napoli – ha spiegato il loro leader Giuliano Castellino in un’intervista a Libero – è stata ripulita. Roma è migliorata. In questo contesto è maturata la nostra scelta. Vogliamo l’Europa di Berlusconi, Tremonti ed Alemanno». In questa galassia frammentata i vari partiti hanno ruggini tra loro. Solo dopo «eventi straordinari» pare abbiano contatti diretti. Per il resto non si risparmiano accuse e mazzate. Discorso diverso per le comitive nere. A loro interessa l’azione fulminea, il raid contro il diverso. Non il progetto politico. Almeno per ora.

Fascisti su Roma

Una nuova destra comportamentale versione moderna dello squadrismo fascista

Manifesto 7 settembre 2008

di Gabriele Polo
Nel generale affermarsi dell’egemonia di destra in Italia, Roma occupa una posizione particolare. E molto preoccupante. Già da qualche anno l’attivismo neofascista era cresciuto su una logica che va al di là dei tradizionali fenomeni d’estremismo politico, aggredendo i «territori» (i quartieri periferici e lo stadio su tutti) nella logica di un controllo «da bande» che ha preso di mira tutto ciò che viene considerato estraneo e ostile al «nazionalismo autarchico» e ai suoi subvalori (dai «barbari» stranieri alle «zecche» di sinistra). Collocandosi, come versione moderna dello squadrismo: una destra «comportamentale», collaterale e autonoma dalla destra parlamentare.

 Agguati e violenze si sono succeduti in un continuo e diffuso crescendo. Che negli ultimi mesi è dilagato in città, avvalendosi anche del passato riconoscimento istituzionale dato da Veltroni ai circoli «culturali» neofascisti, in un fallimentare tentativo di «neutralizzazione» della matrice violenta e intollarante che lì vi si alimenta. La precipitazione sanguinosa è ormai più che un rischio; è un processo in atto – e potrebbe trascinare ciò che rimane vivo a sinistra in una contesa suicida. Non sappiamo se i suoi portagonisti si sentano «protetti» dalla conquista del Campidoglio da parte del Pdl e dalla storia personale (con tutte le relazioni che porta seco) del sindaco Alemanno.

E se fossimo in lui di ciò ce ne preoccuperemmo assai. E’ in questo contesto che si collocano le vere e proprie minacce cui è sottoposto il nostro Giacomo Russo Spena. Ultima delle quali è la pubblicazione sul sito di «Casa Pound» di una vera e propria chiamata in correo per l’attentato incendiario (due molotov nella notte) contro il «Circolo futurista Casalbertone», avvenuto un paio di giorni fa. «Ecco i frutti avvelenati di Russo Spena e compagni», scrive il presidente di «Casa Pound» sulla prima pagina del suo sito intenet. Così che tutti, matti compresi, possano leggere e (chissà) intervenire. L’indicazione del «mandante» e l’additarlo pubblicamente con nome e cognome è un vecchio orrore della politica italiana (che ha colpito anche la sinistra) e da cui sarebbe bene emendarsi. Che poi si provi a intimidire un lavoro giornalistico d’inchiesta, trasformandolo in complotto è qualcosa di estremamente grave. Anche perché ciò che Giacomo scrive è un contributo essenziale per l’informazione e un importante antidoto per la difesa della democrazia e della stessa incolumità fisica di tutti noi. Per questo, oltre a denuciare ciò che è avvenuto e avviene e mettendo persino in conto le tante minacce di querela che ci arrivano addosso (il solo rischio del mestiere che intendiamo accettare), vogliamo ricordare qui quattro semplici cose: 1) che non ripiegheremo sulla tricea del silenzio; 2) che non accetteremo nessuna logica di guerra per bande e nessuna risposta violenta alla violenza della destra; 3) che continueremo a indicare col loro nome politico – fascisti -, e non anagrafico, gli aggressori neri; 4) che gli autori del testo apparso sul sito di «Casa Pound» dovrebbero sentirsi addosso il peso di qualunque cosa possa accadere a Giacomo o a chiunque di noi, evitando repliche. Di Insabato ce ne è bastato uno.