New fabbris, la fabbrica minata dagli operai

Accade in Francia, dove l’azienda ha annunciato il licenziamento di 366 lavoratori e la chiusura

Paolo Persichetti
Liberazione 14 luglio 2009

Quando si dice una situazione esplosiva. I 366 lavoratori della New Fabris, azienda dell’indotto automobilistico specializzata nella fonderia in allumino, situata a Châtellerault nel centro della Francia, hanno minacciato di far esplodere i capannoni dello stabilimento dove sono custoditi componenti per automobile appena usciti dalle linee di produzione. Si tratta di materiale del valore di circa 2 milioni di euro, a cui deve aggiungersi un macchinario 210217nuovo della Renault, anche questo stimato per un valore analogo, se entro il 31 luglio Renault e Peugeot-Citroën, principali committenti della fabbrica per circa il 90% dell’intera produzione, non verseranno un’indennità di 30 mila euro per ogni dipendente. «Tutto è pronto, le bombole di gas sono state collegate tra loro. Basta solo accendere l’innesco per provocare l’esplosione», ha dichiarato all’Afp il delegato sindacale della Cgt e segretario del consiglio di fabbrica Guy Eyrmann. In questo modo verrà ridotto in fuochi d’artificio l’intero stock di pezzi che le due case automobilistiche devono ancora ritirare. La crisi si fa sempre più dura e le sue conseguenze diventano devastanti per l’occupazione. La tensione monta perché il futuro si fa sempre più nero. I lavoratori allora cercano di strappare il possibile e non rinunciano ad escogitare sempre nuove forme di lotta. Se le tradizionali proteste sindacali passano inosservate, se scioperi e occupazioni risultano armi spuntate perché la produzione è ferma e le tasche del padronato non subiscono danni, allora le maestranze danno libero sfogo alla fantasia. Bossnapping (trattativa forzata), e se ancora non basta, distruzione degli impianti e delle merci, devastazione dei locali della prefettura. Tutto va bene purché si riesca a stanare il padronato, costringerlo a negoziare. Se gli amministratori delegati latitano, gli operai vanno a cercarli e li bloccano ad un tavolo di trattativa; se le autorità fanno orecchie da mercante, in massa si va nei loro uffici. Insomma, a situazioni estreme, estremi rimedi. Non sono gli operai che drammatizzano il conflitto, ma la realtà che lo rende drammatico. Alla New Fabris gli stabilimenti sono occupati dal 16 giugno scorso, quando l’azienda è stata messa in liquidazione dal tribunale del commercio di Lione. Già nel 2008 la fabbrica era stata rilevata nel corso di un’altra procedura di fallimento dal gruppo italiano Zen, 600 dipendenti con sede a Padova, specializzato nella meccanica di precisione e in prodotti per l’indotto automobilistico. Solo 380 degli iniziali 416 salariati avevano conservato il posto di lavoro. Per reclamare gli attuali 30 mila euro d’indennizzo a testa, il consiglio di fabbrica si è basato sulla somma già versata da Renault e Peugeot-Citroën ai circa 200 licenziati del gruppo Rencast. Azienda satellite, anche questa finita nelle mani del gruppo italiano Zen, poi messa nuovamente in liquidazione nel marzo scorso e ripresa dalla francese Gmd. Il prossimo 20 luglio è previsto un incontro presso il ministero dell’Industria, forse in presenza dello stesso ministro Christian Estrosi. Intanto la settimana scorsa circa 150 operai si sono recati in pulman presso la direzione della Psa (gruppo Peugeot-Citroën). Un incontro analogo è previsto giovedì prossimo con la direzione di Renault che tuttavia contesta il pagamento d’indennizzi che non rientrano nelle normative e il principio dell’equiparazione dei premi di licenziamento tra ditte appaltatrici. Come se il lavoro prestato non fosse identico. Ma «se noi non avremo nulla, anche loro non avranno niente», ha ricordato il segretario del consiglio di fabbrica.

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La terra muore di capitalismo

Carla Ravaioli, «È un errore ridurre la crisi ecologica al solo mutamento climatico. il vero problema sta nel modello di sviluppo»

Paolo Persichetti

Liberazione 10 luglio 2009

Alla fine è uscito fuori il solito topolino. Tra i temi in agenda nel summit del G8 di L’Aquila c’era la necessità di trovare un nuovo accordo sul riscaldamento climatico per predisporre al meglio la prossima conferenza Onu sul clima, che si terrà in dicembre a Copenaghen. Riunione che dovrà decidere il nuovo sistema globale per la riduzione delle emissioni di Co2, in sostituzione del Protocollo di Kyoto che scade nel 2012. Tuttavia nel documento approvato non si va oltre il generico impegno per una riduzione del 50% delle emissioni di gas serra entro il 2050 e il controllo della temperatura del pianeta affinché non siano superati i 2 gradi centigradi al di sopra dei livelli preindustriali. Molto poco, quasi nulla. Una data, quella del 2050, che «cancella ogni impegno», spiega Carla Ravaioli.

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Che validità reale hanno accordi del genere? 40 anni sono un tempo infinitamente lungo per la politica. Non si tratta forse di semplici petizioni di principio dietro le quali nascondere il fallimento di un accordo?

«Assumere il dimezzamento delle emissioni di Co2 per il 2050 è una data che cancella l’impegno. È in realtà un modo per scaricarsi da ogni obbligo e chi, tra 40 anni, sarà al posto degli attuali governanti potrà non sentirsi vincolato da decisioni che non ha preso. D’altra parte, qualora si potesse anche dimezzare l’emissione di valori di Co2, non sarebbe ancora sufficiente. Secondo l’agenzia internazionale che si occupa del cambiamento climatico, l’accelerazione del processo di liquefazione dei poli fa pensare che lo scioglimento di tutti i ghiacci sarà concluso attorno al 2020. Molto prima dunque. Vorrei però spostare l’attenzione su un aspetto, a mio avviso ancora più strutturale».

Quale?
«È un errore ridurre la crisi ecologica al mutamento climatico, come purtroppo fa la maggioranza del movimento ecologista. Il riscaldamento climatico è sicuramente oggi la manifestazione più clamorosa del dissesto ecologico complessivo. Non solo, ci sono altri fenomeni, come l’inquinamento delle falde acquifere, degli Oceani, il disboscamento delle foreste fluviuali (che per giunta è accompagnato dalla repressione più feroce di chi vi si oppone), la tossicità diffusa di materiali d’uso comune dispersi nell’ambiente, e che secondo l’Oms spiegano l’aumento di determinate patologie. Ma il vero problema sta nel modello di sviluppo. Non basta correggerlo, pensando che la soluzione possa venire unicamente dalla sia pur necessaria rivoluzione tecnologica delle energie pulite e rinnovabili. Se si arriva a produrre automobili capaci di emettere sempre meno Co2, è un indubbio passo avanti, ma se contemporaneamente viene raddoppiato il parco macchine la situazione torna ad essere quella di partenza. Il nodo è dunque legato ad un modello di sviluppo incentrato sulla crescita. Non c’è niente da fare, il problema ecologico è connesso al sistema capitalistico, ai sui cicli d’accumulazione continua in uno spazio, quello del nostro Pianeta, che ha una misura data. Lo sviluppo illimitato non esiste.

Il Mef (Major Economies Forum), l’organismo che raccoglie i paesi responsabili per l’80% delle emissioni nocive, si è concluso con un nulla di fatto. Con i paesi del Mef «non siamo riusciti a formulare target di riduzione del Co2 entro il 2050 e neppure target di medio termine, ha dichiarato il premier svedese, presidente di turno della Ue, Fredrik Reinfeldt. Come leggi il contrasto tra il blocco dei Paesi emergenti, rappresentati nel G5, (Sudafrica, Brasile, Cina, India e Messico), più Corea del Sud, Australia, Indonesia, e i Paesi del G8?
I Paesi emergenti ritengono di aver diritto ad un identico standard di crescita pro capite, non solo in termini aggregati. In questo modo ricalcano in tutto e per tutto la strada seguita in precedenza dalle potenze che li hanno sfruttati e spremuti nell’epoca coloniale. Ne introiettano acriticamente il modello sviluppista e consumista, squilibrando pesantemente l’ecosistema viste le dimensioni in termini di popolazione. Ma così entrano in una evidente contraddizione. Credo che questo tema vada affrontato con loro.

I Paesi emergenti impiegano una tecnologia industriale vecchia e inquinante. L’unico modo che hanno per ridurre l’emissione di gas nocivi, in assenza di know how moderno, è quello di rallentare i tassi di crescita. Non c’è forse una dose di strumentalità nell’avanzare questa pretesa da parte dei Paesi del G8, che in questo modo possono protrarre la loro supremazia stagnante sui mercati?
I Paesi del G8 trasferiscono le loro produzioni più obsolete e inquinanti verso i paesi emergenti contribuendo a quell’inquinamento che poi chiedono di ridurre. Come spiega Loretta Napoleoni nel suo Economia canaglia, gli aiuti dell’Occidente non sono altro che  regalie che avvantaggiano unicamente le multinazionali che investono in loco, a costi di produzione e tutela sociale infinitamente più bassi. Ancora una volta il problema sta nel modello di sviluppo prescelto. L’economia capitalista non da soluzioni alternative.

Il senato ha appena approvato in via definitiva il ritorno all’energia nucleare.
È un’altra follia. Anche a voler dare per scontato che questi impianti di nuova generazione siano affidabili, presto saranno antieconomici perché l’uranio è in via di esaurimento. Cosa faremo allora di queste cattedrali nel deserto, per giunta contaminate? Infine resta irrisolto il problema dello stoccaggio e della neutralizzazione delle scorie radioattive.

Il “plebiscito finanziario” di Sarkozy

Il “prestito nazionale” lanciato nel discorso tenuto al congresso di Versailles, un’abile manovra del presidente della repubblica francese Nicolas Sarkozy per conservare il consenso dei ceti medi di fronte alla crisi economica.
L’economia politica populista: compensare la perdita di potere d’acquisto dei salari con il miraggio della rendita popolare

Liberazione 25 giugno 2009

Paolo Persichetti

Un «plebiscito finanziario», è questo il vero obiettivo che, secondo i critici, il presidente della repubblica francese Nicolas Sarkozy starebbe cercando dietro l’annuncio di un prestito nazionale fatto durante il discorso tenuto di fronte alle camere riunite nella regia di Versailles. La costituzione francese vieta al capo dello Stato l’ingresso in Parlamento, memore di quanto avvenuto ai tempi di Luigi Napoleone Bonaparte che, dopo l’elezione presidenziale, s’impadronì del potere instaurando un regime autocratico. Anche la costituzione italiana ha ereditato questa norma antiplebiscitaria, consentendo al presidente della repubblica soltanto l’invio di messaggi scritti alle assemblee parlamentari. Per aggirare questo divieto, Sarkozy ha pensato bene di convocare senatori e deputati nella sala del Congresso. Cerimonia fastosa, prevista solo in caso di modifiche alla costituzione. Inusuale dunque la scelta del presidente francese, che con questo atto volutamente simbolico ha cercato in tutti i modi di sottolineare la vocazione bonapartista-plebiscitaria attribuita al suo mandato.L’onnipresenza dell’«ego-presidente», come è definito dalla stampa avversaria, calca con forza i toni populisti,  e affronta la sfida della demagogia per finanziare il deficit pubblico, dopo che il ministro del Bilancio, Eric Woerth, ha definitivamente seppellito gli angusti parametri di Maastricht. Secondo le previsioni, infatti, Il deficit francese si attesterà alla fine del 2009 tra il 7% e 7,5% del Pil. Un tetto che tutti gli indicatori economici confermano anche per il 2010. Più del doppio di quanto previsto dai dogmi che hanno ispirato l’ortodossia monetarista del trattato di Maastricht. Il deficit pubblico può innescare un meccanismo virtuoso, hanno già spiegato Keynes e dimostrato i «trenta gloriosi». Ma la politica economica del governo Sarkozy può essere sospettata d’eresia keynesiana? Oppure la travolgente crisi economico-finanziaria impone di fare di necessità virtù?
Le polemiche, che dopo l’enfatico annuncio del presidente francese traversano il mondo politico e quello degli analisti, vertono proprio sulla qualità del deficit (finanziare la spesa corrente o investire su infrastrutture, reti digitali, economia della conoscenza?) e sulle modalità di finanziamento. La scelta del prestito, per altro non nuova nella storia del dopoguerra (vi hanno fatto ricorso, aggravando pesantemente le casse dello Stato, Pinay, Giscard e Balladur), è ritenuta da molti osservatori la più inadeguata sul piano economico. Per sostenere il debito ogni Stato interviene quotidianamente, e con discrezione, sui mercati finanziari. L’annuncio di un prestito nazionale, soprattutto se aperto ai risparmi delle famiglie, offre in realtà minori vantaggi economici. Per invogliare i piccoli risparmiatori è necessario ricorrere a tassi d’interesse onerosi rispetto a quelli reperibili sul mercato internazionale. Altri rilevano che il vantaggio immediato verrà ripagato con un sovrapprezzo d’imposta in futuro. Da qui l’accusa di «promozione politica» rivolta contro Sarkozy. Più prudente, la ministra dell’economia Lagarde ha auspicato un «prestito misto». Con questa operazione l’Eliseo cerca d’imbonirsi il ceto medio colpito dalla crisi, offrendo il miraggio della rendita popolare per compensare redditi che perdono potere d’acquisito.

Politiche industriali: la Fiat vuole espandersi ma a pagare è sempre il contribuente

Il Lingotto annuncia: «Niente chiusure» di stabilimenti Opel in Germania. Ma nessuno ci crede. Mondo politico e sindacati preferiscono il gruppo austro-canadese Magna

È sempre la solita storia. Le politiche industriali dei nostri grandi capitalisti, a dispetto di quel che racconta l’ideologia liberale, funziona quasi sempre in un solo modo, privatizzando i profitti e socializzando le perdite. L’acquisto da parte della Fiat di Chrysler segue uno schema ben preciso: ottenuto il sacrificio dei sindacati statunitensi e canadesi dell’Auto, la casa torinese assorbendo il marchio aquisterà soltanto la parte sana dell’azienda di Detroit, debitamente purgata dai debiti con gli istituti di credito attraverso una operazione di “bancarotta pilotata”. Di fatto la bad company, la parte dell’azienda nella quale confluiranno i debiti, verrà lasciata in mano alle compagnie di credito, tra le più compromesse nel crack finanziario degli ultimi mesi. Queste stanno in piedi solo grazie all’affluenza di denaro proveniente dal tesoro pubblico. Insomma, una sorta di keynesismo pervertito più finanza creativa permetterà la ristrutturazione mondiale dell’industria automobilistica.
Altro che Stato minimo, il mercato non riesce a vivere senza lo Stato stampella o forse sarebbe meglio dire lo Stato mammella.

Paolo Persichetti
Liberazione 28 aprile 2009

Mentre l’accordo con la Chrysler sembra avanzare a gonfie vele, dopo che i sindacati nordamericani dell’Auto hanno rinunciato a importanti quote di retribuzione pur di favorire il matrimonio con la Fiat, sul fronte tedesco la strategia della casa torinese incontra ostacoli di tutt’altro spessore. Il progetto d’acquisizione della Opel, filiale della General motors, necessario per raggiungere quell’economia di scala di 5-6 milioni d’autovetture annue, unico volume produttivo che secondo l’amministratore delegato Sergio Marchionne permetterebbe oggi a una marca di sopravvivere nello scontro planetario tra colossi dell’automobile, suscita forti riserve. Nel sindacato innanzitutto. Armin Schild, membro del consiglio di sorveglianza dell’azienda e responsabile locale dei metalmeccanici, ha affermato in un’intervista alla France press che l’azienda italiana ha presentato un’offerta più bassa di quanto l’Opel stessa aveva chiesto ai suoi dipendenti per rifinanziare il gruppo (750 milioni di euro). Per questo l’Ig metal considera l’offerta Fiat «un’Opa ostile». Per fugare il sospetto di un’operazione finanziaria che mira al semplice assorbimento del marchio Opel senza impegni produttivi, finalizzata unicamente a smantellare un concorrente presente nello stesso segmento di mercato, la Fiat si sarebbe impegnata a non chiudere nessuno dei quattro impianti tedeschi. Precisando, inoltre, che un’eventuale fusione non porterebbe in eredità l’indebitamento pregresso, senza tuttavia garantire necessariamente gli attuali livelli produttivi. La notizia è stata pubblicata dal settimanale Der Spiegel, che ha attribuito l’indiscrezione a un non meglio identificato insider torinese. La stessa fonte ha smentito anche che nella giornata di oggi il Lingotto avrebbe firmato una lettera d’intenti per rilevare la quota di maggioranza della Opel. Notizie che hanno reso ancora più scettico Klaus Franz, responsabile del consiglio di fabbrica tedesca, che già nei giorni scorsi aveva attaccato duramente l’azienda torinese presentendo dietro l’ingresso della Fiat un massiccio piano di licenziamenti. Timore di tagli occupazionali, condiviso anche dal nostro sindacato metalmeccanico. «È ovvio che qualunque accorpamento porterà a una ristrutturazione perché c’è sovraccapacità produttiva fra le attuali case costruttrici europee. Sono comprensibili le preoccupazioni dei sindacati tedeschi, analoghe a quelle che ha il sindacato italiano», ha spiegato Giorgio Airaudo, segretario generale della Fiom torinese. Il tentativo della Fiat di recuperare non sembra aver riscontrato grande successo. Nelle ultime ore, infatti, ha guadagnato terreno l’offerta del gruppo concorrente austro-canadese Magna.In favore di questa scelta si sono schierati numerosi esponenti politici, ultimo in ordine di tempo è stato il vice cancelliere e ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier (Spd), che al Financial times deutschland ha giudicato quella della «Magna un’opzione più seria». Ma la fronda ostile alla Fiat non riguarda solo gli esponenti socialdemocratici. Lo scetticismo è presente anche tra le file del centro-destra. Prima il ministro dell’Economia Karl-Theodor zu Guttenberg (Csu) ha espresso interesse per la Magna, poi il governatore dell’Assia, Roland Koch (Cdu), si è detto contrario all’ingresso del gruppo industriale italiano perché «ha problemi simili a quelli della Opel», sottolineando che prima di un’eventuale acquisizione «la Fiat dovrebbe dissipare i dubbi che sarà solo l’Opel a pagare». Intanto dalla casa madre di Detroit, il numero uno della General motors, Fritz Henderson, ha riferito dei numerosi contatti in corso con diversi altri gruppi interessati a rilevare la filiale tedesca, tra questi anche la russa Gaz. In serata il commissario Ue all’Impresa, Guenter Verheugen, è tornato sulla vicenda dopo le polemiche dei giorni scorsi, dicendosi «neutrale» sull’operazione Fiat-Opel e auspicando «una soluzione all’interno delle regole di mercato con una prospettiva di lungo termine», mentre l’Ig metal ha fatto sapere che, al contrario dei sindacati americani, non firmerà nessun accordo per la riduzione dei costi. La Fiat è avvisata.

“Il sesso lo decideranno i padroni” piccolo elogio del film Louise Michel

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Recensione” presa dal blog di Baruda

Io non so scrivere di cinema, non so raccontare i film, non so fare recensioni. Ma questa volta non riesco a non farlo perchè da quando ho visto questa pellicola mi prudono le mani e vorrei che più gente possibile vedesse questo piccolo capolavoro francese, manifesto tragicomico, provocatorio e radicale del bisogno di alzare la testa in qualche modo rocambolesco della sfruttata classe operaia nell’Europa del capitalismo delle multinazionali.
Louise Michel prende il suo nome dalla comunarda anarchica francese…è un film, di cui non so se raccontarvi la trama (non credo sia il caso altrimenti poi non ci andate), in cui un uomo per lavorare in una fabbrica si finge donna e una ex bambina diventa uomo per raggiungere una soddisfazione sportiva. “Avete rifiutato le 35 ore e gli aumenti di salario, ma non rifiuterete questi grembiuli nuovi” … il padrone (che poi non è che un servo tra i tanti del vero, quasi irraggiungibile, padrone) prova ad imbonirsi le operaie malgrado i loro sguardi scettici: prendono questo grembiule e il giorno dopo trovano la fabbrica vuota. Tutto era stato portato via: macchinari e lavoro, quindi il proprio sfruttamento quello che ti permette di arrivare al giorno dopo.
20.000 euro di risarcimento da dividere in venti: spiccioli inutili in questo modo. Che fare?
Bhè sono pochi per tutto: ma non per un killer che vada ad ammazzare il padrone. La votazione è unanime: questo si che è un modo per far fruttare quella miseria data da un porco padrone dopo 20 anni di sudore nella sua fabbrica.
E qui inizia il bello, l’avventura divertente di questa strana coppia che tra Francia, Belgio ed Inghilterra cercano di ammazzare il padrone giusto, quello che sia il vero responsabile della chiusura della fabbrica e quindi del licenziamento di tutte le operaie. louise
La decisione, ad ogni errore, è sempre la stessa, unanime: andare avanti fino ad accoppare quello giusto.
Geniale, sarcastico, girato in modo strano con la telecamera quasi sempre fissa, con le immagini sfocate e i dialoghi stretti e necessari: con un gioco di sguardi, sessualità negate e poi ritrovate, di pistole autocostruite, di killer professionisti che non sanno azzittire i cani, di piccioni spennati e cinismo, tanto cinismo.
Un film piaciuto alla critica ma che ha creato grandi deliri nei forum italiani, in cui il popolino servile e estremamente attaccato al culo del padrone (come amano leccare questi miserabili italiani) si è molto innervosito e quasi scandalizzato per una pellicola del genere.
Stiamo anni luce indietro alla Francia: tanto che lì sequestrano i manager, qui li facciamo passare sui nostri corpi mentre lecchiamo le loro suole.

Chi odia i padroni, chi è sfruttato, chi è stato costretto a modificare se stesso per arrangiare il modo di arrivare a fine mese: QUESTO E’ IL FILM PER NOI

“Ora che sappiamo che i ricchi sono dei ladri, se i nostri padri e le nostre madri non riusciranno a bonificare la terra quando saremo grandi ne faremo noi carne macinata” Louise Michel

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Bossnapping: ribellismo 2009 e caccia ai manager, ecco chi soffia sul fuoco

Torna la grande paura

Panorama 20 Aprile 2009
di Giacomo Amadori

blog.panorama.it ribellismo 2009 e caccia ai manager, ecco  chi soffia sul fuoco

“Eat the rich!”, “Mangia il ricco!”, cantava la band londinese dei Motorhead nel 1987. Vent’anni dopo, in piena crisi economica, quel ritornello è diventato un manifesto politico capace di mettere d’accordo soggetti sino a pochi anni fa distanti, dai giovani no global agli operai sull’orlo del licenziamento. Il neonato movimento ha esordito al G20 di Londra squarciando l’aplomb della City.
 Ma il nuovo corso alle barricate in stile G8 genovese preferisce altre forme di lotta. In Francia e Belgio gli operai hanno scelto la via del “bossknapping”, il sequestro dei capi, per riaprire trattative o bloccare i licenziamenti. Un modello di conflitto che preoccupa più delle violenze di piazza, scatenate da frange minoritarie. Il Sole 24 ore, quotidiano di proprietà della Confindustria, ha inquadrato il nuovo fantasma che si aggira per l’Europa: “Il ribellismo diffuso può assumere venature populistiche e tendere a saltare le stesse organizzazioni sindacali”.
 Il segretario della Cgil Guglielmo Epifani non esclude fenomeni di emulazione: “Io vedo problemi se venissero messi in discussione, dopo la cassa integrazione, i posti di lavoro”. Un campanello d’allarme che sulla rete ha suscitato un tam-tam di soddisfazione nei siti più radicali, dove uno dei documenti più “allegati” è “Mangiati il ricco!”, sottotitolo: “L’anticapitalismo è all’ordine del giorno”.
Questo clima non viene sottovalutato. Gli 007 dell’Aisi (Agenzia informazioni e sicurezza interna, l’ex Sisde) da settimane riattivano contatti o ne cercano di nuovi dentro le fabbriche per capire l’aria che tira. “In Italia i problemi potrebbero arrivare in autunno” prevede un funzionario. Alla sezione Anticrimine dei carabinieri di Roma gli investigatori seguono una pista concreta. Le intercettazioni telefoniche raccontano che qualcuno sta cercando di infettare la protesta operaia. 
Il rischio più temuto è che qualche gruppo eversivo in cerca di consenso possa organizzare sequestri lampo come facevano le Brigate rosse negli anni 70. “Il comparto più in fermento è quello dell’auto. È lì che si concentra la nostra attenzione” precisa un investigatore.
Il 25 febbraio, a Piobesi, nella cintura torinese, è stato preso in ostaggio il capo del personale della Olimpia, azienda tessile del gruppo Benetton, dopo la conferma di 143 licenziamenti.
Giorgio Airaudo, segretario della Fiom torinese, vede nero: “Nella nostra provincia a luglio la Iveco e la New Holland toccheranno le 40 settimane di cassa integrazione e dopo poco potrebbero scattare gli esuberi. Di fronte ai licenziamenti non si può escludere una drammatizzazione del conflitto”. Anche perché su 170 mila metalmeccanici in provincia di Torino 58 mila sono in cassa integrazione.
Nel resto d’Italia a marzo il ricorso a questo ammortizzatore è cresciuto del 925 per cento rispetto allo stesso periodo del 2008. Numeri che potrebbero mettere a rischio la pace sociale. “In verità, la radicalizzazione c’è già” prosegue Airaudo. “Il blocco delle merci, i picchetti davanti ai cancelli e le assemblee permanenti sono forme di lotta già attuate in numerosi stabilimenti”.
 Vivono giornate tese anche i lavoratori della Lombardia. Per esempio all’Omnia, azienda leader nel settore dei call center: il 1° aprile una cinquantina di dipendenti è scesa in cortile e ha costretto l’amministratore delegato a partecipare a un’assemblea straordinaria. I giornali hanno parlato di sequestro. Nell’hinterland milanese sono molte le iniziative di lotta, dai dipendenti della Nokia a quelli della Metalli preziosi, all’Innse, praticamente in autogestione da giugno. In questo clima il 4 aprile si sono riuniti a Sesto San Giovanni un’ottantina di lavoratori “combattivi” (come si autodefiniscono) in rappresentanza di una ventina di fabbriche. Quali?
 L’elenco è il termometro del disagio operaio: Fiat Sata di Melfi, Alfa e Avio di Pomigliano d’Arco, Jabil di Cassina de’ Pecchi, Cabind della Valsusa, Fiat New Holland di Modena, oltre a Falck, Italtractor, Terim, Mangiarotti Nuclear, Innse. I convenuti hanno un obiettivo: fondare un nuovo soggetto politico capace di ingrassare nella pancia della crisi. Sul web  http://www.asloperaicontro.org) si trova il resoconto dell’incontro: “Il Partito operaio nasce ed esiste dove nascono le resistenze operaie contro i padroni”. L’esempio è quello della “Innse di Milano, dove 50 operai stanno lottando da più di 10 mesi con una determinazione incredibile per difendere il lavoro e la loro fabbrica”.
Anche la Francia fa scuola, in particolare le tute blu della Continental: “All’annuncio di chiusura della loro fabbrica hanno reagito, hanno fatto il processo ai loro manager, condannandoli alla pena di morte per alto tradimento e impiccandoli immediatamente, per adesso soltanto simbolicamente con due fantocci”.
Sul web torna di moda la lotta di classe e la ribellione coinvolge anche l’esercito di riserva dei precari, la fascia di lavoratori più debole e indecifrabile, meno sindacalizzata e controllabile. “Non si possono escludere azioni estreme dettate dalla disperazione, soprattutto in mancanza di risposte da parte di governi e amministrazioni locali” avverte Carmela Bonvino, responsabile del settore precariato delle Rappresentanze sindacali di base. “Noi proviamo a organizzare il dissenso in forme legali, però l’attenzione dei mass media per episodi come i sequestri potrebbe far scegliere ai lavoratori scorciatoie controproducenti”.
 Per capire l’umore basta consultare i siti marxisti Il pane e le rose o Autprol.org, che per esempio ospita il comunicato di protesta dei giornalisti della free-press confindustriale 24 minuti. Gli investigatori monitorano anche battaglie e documenti dei precari più qualificati, nel campo della ricerca scientifica e della protezione ambientale.
“Questa è una rivolta popolare non coordinata, spontanea. E molto pericolosa” ha avvertito nei giorni scorsi il sociologo francese Jean-Paul Fitoussi, rispolverando il termine conflitto di classe. In questo clima gli investigatori, dai carabinieri del Ros agli 007, temono una saldatura fra la protesta genuina e qualche cattivo maestro che aspira a cavalcarla.
Nel Torinese gli investigatori tengono sotto osservazione l’area anarco-insurrezionalista. Due settimane fa, dalle frequenze di Radio blackout, uno dei portavoce degli squatter piemontesi ha inneggiato al sequestro dei manager.
Per gli inquirenti i nuovi aspiranti ideologi non ragionano più per compartimenti stagni e fanno proselitismo in realtà anche diversissime. Lo confermano inchieste recenti. Per esempio due anni fa è stato “disarticolato” dagli inquirenti milanesi il Partito comunista politico-militare, presunta formazione terroristica che aveva infiltrato con i suoi esponenti sia il sindacato (Vincenzo Sisi, delegato della Cgil, aveva un kalashnikov in giardino) sia i centri sociali. Qualche fiancheggiatore e molti simpatizzanti sono liberi e continuano il lavoro di propaganda in tutti i settori, dal pubblico impiego al precariato. A febbraio, sette presunti neobrigatisti hanno espresso “vicinanza e solidarietà”, dopo gli scontri con la polizia, “agli operai Fiat di Pomigliano, così come a tutte quelle situazioni che lottando non intendono subire passive gli effetti della crisi del capitalismo”.
Ma i cattivi maestri secondo gli investigatori non sono solo in cella. Qualcuno fa il giornalista. Come Paolo Persichetti, ex brigatista condannato a 22 anni e sei mesi di carcere per concorso nell’omicidio del generale Licio Giorgeri: in Francia, dove è fuggito nel 1991, ha insegnato sociologia politica, oggi scrive sul quotidiano comunista Liberazione e ironizza sul passato. Il “bossknapping”? “La Fiat non ne serba un buon ricordo” annota. “Le azioni non “ortodosse” di francesi e belgi, seppur concepite all’interno di una strategia ancora difensiva, riscontrano consensi e successi. Una lezione utile”.
Interpellato da Panorama, Persichetti dice: “In Francia queste pratiche non vengono considerate eversive e sono accettate dall’opinione pubblica”. In Italia spaventano… “Da noi la lotta armata ha raggiunto livelli sconosciuti in Francia, lasciando in eredità la cultura dell’emergenza e la demonizzazione del conflitto. Lo Stato deve capire che quella stagione è chiusa”. Tuttavia, chi legge i suoi articoli non ha questa sensazione. Una “lezione” di cui forse non c’era bisogno.

Grenoble, vince il bossnapping. La Caterpillar cede e non chiude gli stabilimenti

Una vertenza modello quella dei lavoratori della Caterpillar. Forme innovative di lotta, fantasia, audacia e determinazione. L’esempio si espande. A Edf-Gdf i lavoratori dell’energia riprendono gli insegnamenti di Emile Pouget, l’autore di un piccolo opuscolo scritto nei primi anni del Novecento, frutto del lavoro della commissione sabotage della Cgt: regalano corrente alle famiglie meno abienti e lasciano al buio i decisori, ministeri, uffici, banche, sedi sociali di grandi imprese, per «farsi vedere meglio»

Paolo Persichetti
Liberazione 21 aprile 2009

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La lotta senza remore paga. Lo dimostra una volta di più la vicenda dei lavoratori della Caterpillar di Grenoble e Echirolles che, dopo due mesi di mobilitazione e un clamoroso bossnapping del direttore e tre altri dirigenti del gruppo, realizzato il 31 marzo scorso, hanno strappato domenica un accordo alla multinazionale americana. I due siti francesi non saranno chiusi. Al contrario nell’accordo si parla di nuovi investimenti. I posti soppressi scendono da 733 a 600. La riduzione del tempo di lavoro dovrebbe ulteriormente alleggerire i tagli di personale. Per evitare che si trasformino in licenziamenti secchi saranno accompagnati da maggiori incentivi in denaro, prepensionamenti per i più anziani e corsi di formazione con mantenimento del salario, finanziati dalla regione Rhône-Alpes, per chi verrà ricollocato altrove. Insomma un vasto impiego d’ammortizzatori sociali (l’azienda già faceva uso della cassa integrazione) consentirà una uscita dalla crisi. Un preliminare del negoziato era stato il ritiro delle misure disciplinari prese contro 8 operai che avevano partecipato ai picchetti davanti alla fabbrica. Nelle prossime ore il protocollo d’accordo sarà sottoposto a referendum. Una vertenza modello quella della Caterpillar. Da soli e contro tutti, con un vasto ventaglio d’azioni, che hanno dato largo sfogo alla fantasia e all’audacia, i lavoratori hanno imposto la trattativa, conquistato visibilità mediatica e consenso sociale, strappato risultati ai vertici di un’azienda che avevano deciso di trasferire la produzione all’estero. Per questo il modello si espande e assume nuove forme, come regalare corrente alle famiglie povere e fare il buio nei ministeri per «farsi vedere meglio». A Edf-Gdf applicano alla lettera il libro di Emile Pouget, Le sabotage.

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Bossnapping, nuova arma sociale dei lavoratori

Gerarchie d’impresa costrette a misurarsi con la trattativa forzata imposta dai lavoratori in lotta. È finita l’epopea dei golden boys e degli yuppie. Per far fronte allo stess dei manager pronto un kit antisequestro

Paolo Persichetti
Liberazione 11 aprile 2009

Brutti tempi per le gerarchie d’impresa chiamate a confrontarsi con un nuovo fenomeno chiamato bossnapping, «La nuova arma sociale dei lavoratori», scrive il quotidiano francese Libération. L’obbligo di non alzarsi più dal tavolo e uscire dagli uffici delle direzioni aziendali fintantoché non si è pervenuti ad un accordo accettabile. Davvero brutte nottate in bianco attendono i Patrons. La sensazione è che la crisi attuale abbia fatto girare il vento. È finita la pacchia. L’epopea borghese dei golden boys e degli yuppie non tira più. I manager sono sotto stress. continental_scioperofuocoFa di nuovo capolino la «grande paura», quella raccontata da Cesare Romiti in un libro di Gianpaolo Pansa, vera e propria autobiografia del ceto imprenditoriale italiano degli anni 70. Per fare fronte a questo trauma, un avvocato francese esperto di diritto e relazioni sociali, Sylvain Niel, ha preparato un piccolo manuale, pubblicato dal quotidiano economico la Tribune. Nell’opuscolo, l’esperto dispensa ai manager una decina di consigli «anti sequestro», per «evitare di cadere in trappola durante una trattativa» e su come comportarsi in caso di sequestro.

Azioni legittime
Azioni legittime o azioni illegali? Il ricorso al bossnapping, cioè alla «trattativa forzata» da parte degli operai quando le aziende rifiutano di negoziare i piani di crisi, oppure nemmeno accettano di sedere al tavolo delle trattative comunicando semplicemente la lista dei dipendenti licenziati, fa discutere non solo la Francia.
Va detto subito che fino a questo momento si è trattato di un modello di lotta che oltre a riscontrare consenso nell’opinione pubblica è risultato “pagante”, come ha dimostrato fino ad ora l’esperienza concreta, seppur attuato in un contesto ultradifensivo che mira unicamente a ridurre i danni. Alla Caterpillar di Grenoble sembra che l’azienda abbia rinunciato a licenziare, garantendo l’apertura della fabbrica per altri tre anni nella speranza che intervenga un nuovo ciclo espansivo. In altri siti, gli operai hanno ottenuto migliori indennità di licenziamento, ammortizzatori sociali, riducendo anche l’attacco portato ai livelli occupazionali.
Questo repertorio d’azione – come viene definito dal linguaggio asettico dei sociologi del conflitto che cercano di fotografare i comportamenti sociali senza caricarli di giudizi di valore -, comincia ad estendersi altrove seguendo un classico dispositivo d’emulazione. È arrivato in Belgio mercoledì scorso, dove tre manager Fiat sono rimasti bloccati per 5 ore negli uffici di una filiale commerciale di Bruxelles. C’è stato per l’ennesima volta in Francia, dove i dipendenti di Faurecia, azienda dell’indotto automobilistico filiale del gruppo Psa Peugeot Citroen, giovedì sera hanno bloccato per 5 ore tre quadri dirigenti del gruppo. In questo caso il bossnapping messo in pratica dai dipendenti ha assunto una valenza ancora più significativa perché il sito è costituito essenzialmente da uffici di un centro studi, dove le maestranze (circa mille) sono in prevalenza “colletti bianchi”, ingegneri, tecnici e amministrativi. Ciò vuol dire che il ricorso a pratiche di lotta radicale non è solo patrimonio della classe operai ma guadagna anche i ceti medi colpiti dalla crisi. Un blocco di manager nei loro uffici c’è anche stato in italia, alla Benetton di Piobesi, il 25 febbraio scorso, ma è passato sotto silenzio.
«Si tratta di azioni sindacali coordinate e organizzate assolutamente non paragonabili a dei sequestri», ha spiegato dalla Francia il segretario della Cgt, Bernard Thibault, che ha giustificato il ricorso a queste forme d’azione «fintantoché non producono rischi fisici sui dirigenti d’impresa». Azioni più che legittime dunque, capaci d’attirare per la loro alta simbolicità «microfoni e telecamere», se è vero che cortei, scioperi e picchetti non sono più sufficienti per costringere il padronato a trattare.

Conflitto negoziato
Il succo del ragionamento è semplice: quando le gerarchie aziendali fanno orecchie da mercante, pensando d’imporre il loro punto di vista senza ascoltare quello della controparte operaia, occorre imporre loro la trattativa. Lì dove non c’è negoziato si apre allora uno spazio di conflitto ulteriore. È il «conflitto negoziato» che in Francia, a differenza dell’Italia, non ha mai perso agibilità politica e sociale. Le azioni «coups de poing» (colpo di mano), non appartengono solo al repertorio d’azione della Cgt, ma sono condivise oltre che da altri sindacati collocati sul fronte della sinistra radicale e anticapitalista, come le coordinazioni e Sud, anche dalle associazioni rurali, dei contadini, pescatori e camionisti, spesso bacini elettorali delle forze moderate.

Embrioni di autonomia operaia
Oltralpe la tradizione corporativa del conflitto ha mantenuto sempre piena legittimità. Fintantoché non vengono percepite come un attacco politico alla sicurezza dello Stato, queste forme d’azione collettiva sono ritenute domande sociali a cui la politica è chiamata a dare risposte. Semmai in quel che accade oggi emerge un forte deficit delle forze politiche della sinistra incapaci di fornire rappresentanza. Queste lotte difensive hanno il sapore di embrioni vitali di autonomia operaia. La sensazione è che la crisi attuale abbia fatto girare il vento. L’epopea borghese dei golden boys e degli yuppie non tira più. I manager sono sotto stress. Per fare fronte a questo trauma, un avvocato francese esperto di diritto e relazioni sociali, Sylvain Niel, ha preparato un piccolo manuale, pubblicato dal quotidiano economico la Tribune. Nell’opuscolo, l’esperto dispensa ai manager una decina di consigli «anti sequestro», per «evitare di cadere in trappola durante una trattativa» e su come comportarsi in caso di sequestro.
A leggerlo sembra una presa in giro, ma è tutto vero. Prima regola: conservare un «kit di sopravvivenza», un telefono cellulare di scorta con numero criptato e recapiti d’emergenza (polizia, famiglia), trousse per la toilette, cambio di biancheria nel caso si dovesse passare la notte in ufficio. Ma, suggerisce l’esperto, «è meglio prevenire» per non finire come quel responsabile del personale di un’azienda che si vide costretto ad uscire disteso in una bara dalla sala in cui era “ospitato” . Fondamentale allora è «una stima del rischio di ammutinamento contro la direzione», «individuare sempre i leader della protesta», «non andare mai da soli a negoziare con le parti sociali, ricorrere sempre ad un mediatore». Infine, se dovesse andare male «accettare tutte le richieste dei dipendenti perché gli impegni presi sotto costrizione non hanno valore giuridico».
Manca però la cosa essenziale, qualche buon libro di filosofia capace di aprire la testa dei manager per dare aria alle loro anguste visioni culturali nutrite solo di manuali sulla gestione delle risorse umane, la performatività delle prestazioni, l’economia aziendale. Magari Discours sur l’inégalité parmi les hommes di Jean-Jacques Rousseau e il primo libro del Capitale del dottor Marx, così tanto per cominciare.

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Si diffonde il bossnapping contro i licenziamenti

Paolo Persichetti
Liberazione 10 aprile 2009

Bossnapping è il neologismo appena coniato per indicare il sequestro dei capi d’impresa, manager, dirigenti e padroni d’azienda. La parola è nuova ma il mezzo fa parte del repertorio di lotta inventato nel corso della sua storia dal movimento operaio, molto diffuso nell’Italia degli anni 70, e tornato d’attualità in Francia negli ultimi mesi. Ieri è toccato anche alla Fiat (che di questa pratica non serba un buon ricordo). Non ancora in Italia, però, ma in una filiale commerciale di Bruxelles, l’Italian automotive center. Tre dirigenti, tra cui Andrea Farinazzo proveniente direttamente dalla casa madre di Torino, sono stati trattenuti per cinque ore da un gruppo di lavoratori che protestavano contro il piano di licenziamenti annunciato dall’azienda. I tre sono stati bloccati all’interno degli uffici della sede di Chaussée de Louvain intorno alle 13.45, per poi uscire verso le 18.30 a bordo di un’autovettura con autista senza rilasciare dichiarazioni.
Sembra che sia stato trovato un accordo sul proseguimento della trattativa che prevede l’intervento conciliatore del ministero del lavoro belga. Le modalità dell’episodio hanno seguito un modus operandi abbastanza consolidato, senza particolari tensioni, tant’è che uno dei rappresentanti della Fiat, avvicinato dai giornalisti arrivati sul posto, ha spiegato che tutti i contatti erano tenuti direttamente dal Lingotto.
«Stiamo negoziando dal 12 dicembre e non è successo nulla. Non si esce dalla stanza finché non si trova una soluzione», ha spiegato ai cronisti Abel Gonzales, sindacalista dei metalmeccanici della Fgtb. In effetti, dal dicembre scorso è aperta una trattativa con l’azienda sulla riduzione del personale. Obiettivo della Fiat è il licenziamento di 24 dei 90 dipendenti del centro vendita di Bruxelles, per questo i tre manager si erano recati sul posto per concludere il negoziato.
«Nel corso dell’ultima riunione – ha spiegato l’ufficio stampa della Fiat – è venuta fuori l’idea di chiudere il nostro personale in una stanza, seguendo l’esempio francese. Ma non lo definirei comunque un sequestro vero e proprio». Dietro i toni rassicuranti dell’azienda torinese si cela, in realtà, la vecchia abitudine autoritaria della Fiat. 12 dei 24 lavoratori sottoposti a procedura di licenziamento, ha precisato Abel Gonzales, sono dei delegati sindacali. La crisi economica, come sempre, diventa un buon pretesto per liberarsi dei lavoratori più impegnati.
«La gente sta male per la crisi: è un fatto giusto e sacrosanto che i lavoratori Fiat si arrabbino se l’azienda non cambia». Così il segretario nazionale della Fiom, Giorgio Cremaschi, ha commentato la notizia del sequestro. «Ci sono segnali di rilancio – ha aggiunto – ma solo per il gruppo e gli azionisti, non per i dipendenti. C’è ancora tanta cassa integrazione, e lo stabilimento di Pomigliano è ancora fermo». Scontata, invece, la presa di distanza espressa dal responsabile auto della Uilm, Eros Panicali, e dell’Ugl, Giovanni Centrella.
Ma gli operai che lottano fuori dall’Italia sono pragmatici, non si curano di questi giudizi. Le loro azioni “non ortodosse”, seppur concepite all’interno di una strategia ancora difensiva, riscontrano consensi e successi. Una lezione utile.

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Paolo Persichetti
Liberazione 9 aprile 2009

Tre dirigenti britannici del gruppo di adesivi industriali Scapa, con sede a Manchester in Gran Bretagna, e un manager locale, trattenuti da martedì sera all’interno della filiale francese di Bellegarde sur Valserine sono stati rilasciati dai dipendenti nel pomeriggio di ieri.
Gli operai protestavano contro il piano di crisi che prevede la chiusura completa dell’impianto. Lo si è appreso ieri da fonti sindacali e dell’azienda. Il direttore delle operazioni europee, il direttore finanziario e la direttrice del personale di Scapa France, tutti e tre britannici, così come il direttore generale, questa volta di nazionalità francese, sono stati trattenuti all’interno della fabbrica. Erano «liberi di muoversi, ma non di uscire», aveva precisato una fonte sindacale. I dirigenti che lavorano a Valence, dove si trova il principale stabilimento del gruppo in Francia, erano stati invitati a non lasciare i locali al termine di una seduta di negoziati con il personale. La trattativa riguardava le indennità FRANCE-PROTEST/di licenziamento di 60 dipendenti coinvolti nel piano di crisi, praticamente le intere maestranze dello stabilimento. La direzione di Scapa, che impiega 1500 persone nei diversi stabilimenti ripartiti in vari paesi del mondo, intende chiudere la fabbrica di Bellegarde-sur-Valserine specializzata negli adesivi per automobili a causa del crollo di vendite del 50% riscontrato nel 2008.
La situazione si è sbloccata solo dopo la mediazione della prefettura, cioè del governo. Appena ottenuto il “permesso di uscita”, i quattro manager hanno raggiunto i locali del comune dove sono stati trasferiti i negoziati tra sindacati e direzione dell’azienda sotto la supervisione del viceprefetto.
Nel corso delle ultime settimane in Francia si sono ripetuti i sequestri di manager delle aziende in crisi che hanno annunciato licenziamenti e chiusure degli stabilimenti. Gli operai di Caterpillar, Sony France, 3M, hanno fatto parlare di loro inasprendo le forme di lotta. Oltre allo sciopero, si è diffusa come forma di azione legittima il sequestro dei dirigenti d’impresa quando i negoziati sindacali si rivelano infruttuosi.
Queste azioni, oltre ad illustrare una tensione sociale crescente, lasciano trapelare una strategia di lotta tornata patrimonio comune.
Di fronte al continuo ripetersi di questi episodi Nicolas Sarkozy ha alzato i toni martedì scorso annunciando che «non verranno più tollerati». Alle parole del capo dello Stato ha subito risposto Martine Aubry, segretaria del partito socialista, affermando che «la violenza sociale spiega perché si possa arrivare a tanto». La polemica si era scatenata dopo che l’ex candidata socialista alla presidenza della repubblica, Segolène Royal, aveva in qualche modo giustificato queste iniziative, affermando che dei salariati «resi sempre più fragili, calpestati e disprezzati» potessero fare ricorso anche a pratiche al limite della legalità.
Dichiarazioni che hanno subito scatenato gli esponenti della destra, convinti che i moderatissimi socialisti francesi e gli algidi centristi del MoDem stiano strumentalizzando «le angosce dei francesi, incitando mattina, giorno e sera alla violenza».
Eppure, secondo alcuni sondaggi, solo il 7% della popolazione condanna esplicitamente queste azioni; il 45% le trova accettabili; il 30% le approva, il 63% le comprende. Insomma i francesi non sono per nulla ostili.
Vista dall’Italia, la Francia è davvero lontana.

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