Bossnapping, una storia che viene da lontano

Insubordinazione e democrazia operaiaLavorare con lentezza: tecniche di resistenza e metodi di lotta messi in cantiere dal movimento operaio nel corso della sua storia

Paolo Persichetti
Liberazione
19 aprile 2006

Dopo il varo, nel 1893, delle famose «leggi scellerate», la legislazione antianarchica che introdusse in Francia il reato di «association malfaiteurs», molti militanti furono costretti a riparare all’estero per sfuggire al carcere. Durante l’esilio a Londra, il sindacalista anarchico Émile Pouget, fondatore nel 1889 del giornale popolare Le Père Peinard, ispirato al Père Duchesne di Hébert (esponente degli arrabbiati, l’ala sanculotta più radicale della rivoluzione francese) rimase colpito dai metodi di lotta impiegati dal movimento operaio inglese.

Emile Pouget

Emile Pouget

Quegli anni di dura repressione avevano gettato nel discredito la strategia minoritaria e individualista della «propagande par le fait», che aveva conquistato i settori anarchici del periodo. Nel 1892, l’esecuzione di Ravachol aveva aperto l’era degli attentati e delle bombe. Due anni dopo l’anarchico italiano Sante Caserio uccise il presidente della Repubblica francese Sadit Carnot. L’amnistia politica del 1895, seguita all’elezione del nuovo presidente della terza Repubblica Felix Faure (rimasto alla storia perché folgorato da un infarto fu rinvenuto su un divano dell’Eliseo ancora avvinghiato ai capelli della sua amante, che terrorizzata cercava di riprender fiato), permise a Pouget di rientrare insieme a molti altri militanti e dare vita ad una nuova stagione politica fondata sull’azione di massa e l’intervento sindacale. Ebbe così modo di partecipare alla fondazione della Confédération générale du travail e nel 1896, sul nuovo giornale La Sociale spiegò la teoria del sabotaggio, «il sistema dei proletari inglesi che hanno come parola d’ordine: A paga cattiva, cattivo lavoro…». Nel 1908 scriveva: «L’azione diretta non è fatalmente sinonimo di violenza: essa può manifestarsi in maniera benevola e pacifica o anche molto vigorosa… Contro lo Stato si materializza sotto forma di pressione esterna, mentre contro il padronato, i mezzi comuni sono lo sciopero, il boicottaggio, l’etichettamento, il sabotaggio».
Nell’opuscolo Le Sabotage, pubblicato attorno al 1911-12 (rieditato a Parigi, nel 2004, dalle edizioni Mille et une nuits) Pouget racconta che il termine sabotaggio deriva da sabot (zoccolo). Sabotage non era in origine un’espressione di lotta sociale ma un termine popolare che non indicava affatto l’atto di fabbricare zoccoli, ma al contrario designava un lavoro mal eseguito, fatto a «colpi di zoccoli» appunto. Nel 1897, durante il congresso della Cgt a Tolosa, nel quale Pouget animava la commissione boicottaggio e sabotaggio, questa tattica ricevette il battesimo sindacale.
lesabotage01In effetti, il sabotaggio in origine altro non era che quanto gli operai scozzesi chiamavano, con un’espressione dialettale, Go Canny («Vacci piano!»). Lavorare con lentezza, insomma! Una strategia di resistenza che da individuale e spontanea si fa col tempo cultura di lotta consapevole, sempre più fantasiosa e organizzata, diffusasi in Inghilterra nel 1889 e successivamente importata in Francia, nel 1895, dal sindacato dei ferrovieri e poi giunta in America, grazie al passa parola delle lotte dei portuali, durante la stagione dell’Iww. Pouget rammenta anche l’arrivo del sabotaggio tra i lavoratori italiani, impiegato per la prima volta, non certo a caso, dai ferrovieri (facilitati dai contatti e dagli scambi quotidiani con i compagni di lavoro d’oltre frontiera), che nel 1905 praticano lo sciopero dello zelo.
Le diverse tecniche, che egli descrive con dovizia di particolari e dettagli pratici, rinviano ad un ventaglio di forme di lotta molto ampio. Esse vanno dal sabotaggio delle merci e degli strumenti di lavoro (di sfruttamento), «cose inerti e senza vita», senza sospensione o abbandono dell’attività lavorativa, al sabotaggio in appoggio dello sciopero con l’obiettivo di moltiplicarne l’effetto, sulla base del principio del minimo sforzo e del massimo risultato. In questa lotta corpo a corpo con il capitalista, Pouget propone una sorta di judo, l’utilizzo della forza cinetica dell’avversario a proprio vantaggio. In seguito, l’introduzione della catena di montaggio permetterà anche agli scioperi di trasformarsi non solo in urto compatto e di massa ma in una specie di “mordi e fuggi”, come nelle fermate a gatto selvaggio o a scacchiera. Stratagemmi che consentivano di sabotare il flusso continuo della catena fordista.
La pratica del sabotaggio è per sua definizione evolutiva e si adatta al variare dello sviluppo tecnologico e organizzativo della produzione, della circolazione e distribuzione delle merci e dei servizi. Una componente essenziale del sabotaggio, secondo la definizione data da Pouget, è anche il boicottaggio. Esso può declinarsi in molte forme: l’insubordinazione di massa, la resistenza passiva, la non collaborazione, l’ostruzionismo o al contrario il ricorso al massimo zelo, l’organizzazione di campagne (metodo della bouche ouverte), grazie alle quali venivano denunciate la malefatte del datore di lavoro, i trucchi e gli inghippi per contraffare merci e prodotti e fregare il consumatore. «Il sabotaggio – tiene comunque a precisare – colpisce il padrone attraverso il rallentamento del lavoro, rendendo invendibili i prodotti fabbricati, immobilizzando o rendendo inutilizzabili gli strumenti di produzione, ma il consumatore non deve soffrire di questa guerra fatta allo sfruttatore».
In sostanza, quella del sabotaggio appare come una vera e propria arte di disobbedire, una strategia che riconduce l’esercizio della critica alla pratica quotidiana dei poteri economici e istituzionali, mettendoli alla berlina e cortocircuitando i loro discorsi di legittimazione.
A distanza di un secolo resta ancora intatta la freschezza che animava il percorso di sperimentazione seguito da Pouget, il tentativo di uscire da una stagione di sconfitta cercando linguaggi e strategie nuove che rinnovassero la capacità di fare fronte alle nuove modalità del conflitto capitalistico insieme ad una nuova abilità nel costruire consenso attorno alle proprie battaglie. In un’epoca, come quella attuale, in cui l’attenzione ossessiva riposta sui mezzi di lotta sembra voler sopperire alla debolezza di contenuti e prospettive sui fini, ritrovare questa memoria e recuperarne la fantasia può aiutare ad uscire dalla maledizione di un dibattito che ha trasformato la scelta dei metodi di lotta in un paralizzante dilemma ideologico attorno al quale definire la propria identità.images-11
L’attuale precarizzazione e individualizzazione delle condizioni e dei rapporti di lavoro ha notevolmente accentuato la pressione sui lavoratori. Mentre la contrattazione collettiva subisce un ridimensionamento sempre maggiore, i nuovi modelli di management sviluppano politiche di coinvolgimento totale e d’implicazione intima dell’individuo nel processo lavorativo. Alla disciplina militare del taylorismo si sostituisce la «valorizzazione della personalità» e la mobilitazione del «saper essere» del dipendente. Un discorso sulla supposta autonomia dell’individuo e sull’investimento nelle risorse umane che riposa, in realtà, sulla introiezione dei vincoli e degli obblighi che gravano sul lavoratore, fino ad arrivare ad una vera e propria colonizzazione padronale del suo cervello.
Sabotare, allora, può voler dire innanzitutto cominciare a non pensarla più così, a non lasciarsi implicare dai linguaggi suadenti e truffaldini della nuova etica del capitale, scopiazzati da filosofie critiche che egli ha saputo intelligentemente integrare. Sabotare vuol dire rilanciare una cultura conflittuale e antagonista che possa agire come modello d’apprendimento quotidiano della libertà, a partire innanzitutto dai luoghi di lavoro. Infatti, se c’è un limite fino ad ora espresso dalla cultura della disobbedienza in uso nei movimenti, esso riguarda innanzitutto la sua eccessiva estraneità dai posti di lavoro, quasi che sia stata integrata una sorta d’intangibilità della estrazione di plusvalore unicamente a vantaggio di forme etiche di boicottaggio del consumo rivolto nei confronti di marche multinazionali.

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Paolo Persichetti
Liberazione 9 aprile 2009

Tre dirigenti britannici del gruppo di adesivi industriali Scapa, con sede a Manchester in Gran Bretagna, e un manager locale, trattenuti da martedì sera all’interno della filiale francese di Bellegarde sur Valserine sono stati rilasciati dai dipendenti nel pomeriggio di ieri.
Gli operai protestavano contro il piano di crisi che prevede la chiusura completa dell’impianto. Lo si è appreso ieri da fonti sindacali e dell’azienda. Il direttore delle operazioni europee, il direttore finanziario e la direttrice del personale di Scapa France, tutti e tre britannici, così come il direttore generale, questa volta di nazionalità francese, sono stati trattenuti all’interno della fabbrica. Erano «liberi di muoversi, ma non di uscire», aveva precisato una fonte sindacale. I dirigenti che lavorano a Valence, dove si trova il principale stabilimento del gruppo in Francia, erano stati invitati a non lasciare i locali al termine di una seduta di negoziati con il personale. La trattativa riguardava le indennità FRANCE-PROTEST/di licenziamento di 60 dipendenti coinvolti nel piano di crisi, praticamente le intere maestranze dello stabilimento. La direzione di Scapa, che impiega 1500 persone nei diversi stabilimenti ripartiti in vari paesi del mondo, intende chiudere la fabbrica di Bellegarde-sur-Valserine specializzata negli adesivi per automobili a causa del crollo di vendite del 50% riscontrato nel 2008.
La situazione si è sbloccata solo dopo la mediazione della prefettura, cioè del governo. Appena ottenuto il “permesso di uscita”, i quattro manager hanno raggiunto i locali del comune dove sono stati trasferiti i negoziati tra sindacati e direzione dell’azienda sotto la supervisione del viceprefetto.
Nel corso delle ultime settimane in Francia si sono ripetuti i sequestri di manager delle aziende in crisi che hanno annunciato licenziamenti e chiusure degli stabilimenti. Gli operai di Caterpillar, Sony France, 3M, hanno fatto parlare di loro inasprendo le forme di lotta. Oltre allo sciopero, si è diffusa come forma di azione legittima il sequestro dei dirigenti d’impresa quando i negoziati sindacali si rivelano infruttuosi.
Queste azioni, oltre ad illustrare una tensione sociale crescente, lasciano trapelare una strategia di lotta tornata patrimonio comune.
Di fronte al continuo ripetersi di questi episodi Nicolas Sarkozy ha alzato i toni martedì scorso annunciando che «non verranno più tollerati». Alle parole del capo dello Stato ha subito risposto Martine Aubry, segretaria del partito socialista, affermando che «la violenza sociale spiega perché si possa arrivare a tanto». La polemica si era scatenata dopo che l’ex candidata socialista alla presidenza della repubblica, Segolène Royal, aveva in qualche modo giustificato queste iniziative, affermando che dei salariati «resi sempre più fragili, calpestati e disprezzati» potessero fare ricorso anche a pratiche al limite della legalità.
Dichiarazioni che hanno subito scatenato gli esponenti della destra, convinti che i moderatissimi socialisti francesi e gli algidi centristi del MoDem stiano strumentalizzando «le angosce dei francesi, incitando mattina, giorno e sera alla violenza».
Eppure, secondo alcuni sondaggi, solo il 7% della popolazione condanna esplicitamente queste azioni; il 45% le trova accettabili; il 30% le approva, il 63% le comprende. Insomma i francesi non sono per nulla ostili.
Vista dall’Italia, la Francia è davvero lontana.

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Paolo Persichetti
Liberazione 27 marzo 2009

FRANCECONTINENTAL240409432
«Rabbia populista» o nuova «lotta di classe»? Ieri sulle pagine dei più grandi quotidiani nazionali campeggiava questa domanda: un nuovo spettro si sta aggirando per il globo?
Commenti preoccupati e cronache inquiete s’interrogavano sul reale significato delle notizie provenienti dagli Stati uniti, dalla Francia e dalla Gran Bretagna. A New York, dopo l’arresto del magnate della speculazione finanziaria Maddof e la minaccia del Congresso di tassare con un’aliquota del 90% i bonus padronali, i dieci manager più pagati del colosso delle assicurazioni mondiali Aig, tra i più coinvolti nel crack delle Borse, hanno restituito i bonus milionari ricevuti come premi per i loro disastri. Per farli rinunciare a un po’ della loro famelica ingordigia è bastato un fine settima di picchetti organizzati da manifestanti davanti alle loro megaville blindate e con l’immancabile piscina.
A Edinburgo, in piena notte, il villone di Sir Fred Goodwin, l’amministratore delegato che ha portato al collasso la Royal bank of Scotland, per poi andarsene serenamente in pensione con un bonus di 16,9 milioni di sterline, alla faccia di migliaia correntisti ridotti al lastrico per aver creduto nei portafogli azionari offerti dai servizi finanziari dell’istituto di credito, è stato assalito da un gruppo di attivisti che hanno rivendicato l’azione con la sigla Bank bosses are criminals, «I banchieri sono dei criminali». Motto che riecheggia quello delle curve da stadio di mezza Europa, All corps are bastards, «Tutte le guardie sono bastarde».
Nel centro della Francia, a Pithiviers, Luc Rousselet, amministratore delegato della 3M, società farmaceutica americana in procinto di licenziare 110 dei suoi 235 dipendenti, è stato “trattenuto” negli uffici dell’azienda per oltre 30 ore dagli operai che era venuto ad incontrare. I lavoratori esigevano dei negoziati con l’azienda sulle modalità del piano di crisi che dovrà accompagnare la brusca riduzione di personale.
Ovviamente per gli operai non si è trattato di un «sequestro», com’è stato scritto sposando il punto di vista “padronale”, ma di un imprevisto prolungamento d’orario della giornata di lavoro del loro capo. Uno straordinario giustificato dall’eccezionalità della situazione venuta a crearsi. I 2700 lavoratori della 3M France, società ripartita su 11 siti, conosciuta per la produzione di “post-it” e del nastro adesivo “Scotch”, sono in sciopero illimitato dal 20 marzo. Un episodio analogo era già accaduto il 12 marzo scorso, quando il presidente-direttore generale di Sony France, Serge Foucher, era stato anche lui costretto a uno “straordinario notturno” in compagnia delle sue maestranze in lotta. Lo stabilimento di Pontonx-sur-l’Adour, nelle Lande, impiega 311 persone e la sua chiusura è fissata per il 17 aprile prossimo. Al direttore della Continental, invece, è toccato in sorte un fitto lancio di uova da parte dei 1120 addetti dell’impianto di Claroix, che proprio ieri sono stati ricevuti in delegazione da un consigliere di Sarkozy all’Eliseo.
Questa volta gli operai non sono isolati, hanno alle spalle il sostegno dell’opinione pubblica indignata di fronte alla notizia dei mega compensi attribuiti ai manager d’imprese che licenziano o di banche in deficit dopo aver sperperato il denaro dei clienti.
La rabbia è montata di fronte alle parole di Laurence Parisot, presidente della confindustria francese, che si era detta indisponibile di fronte alla richiesta del presidente della repubblica d’intervenire sui consigli d’amministrazione affinché i manager rinunciassero ai premi elargiti sotto varie forme (stock options, ovvero azioni con remunerazioni privilegiate, liquidazioni d’oro o pensioni stratosferiche). Il primo ministro ha dovuto annunciare il varo di un decreto per vietare l’attribuzione di questi bonus e stock options per le aziende che ricevono aiuti dallo Stato. A questo punto, dopo le resistenze iniziali, Gerard Mastellet e Jean-Francois Cirelli, presidente e vice presidente di Gdf-Suez, il gigante francese dell’energia, hanno dovuto rinunciare ai loro compensi supplementari piegandosi – hanno detto con malcelata ipocrisia – al «senso di responsabilità».
I titoli tossici immessi nei circuiti finanziari stanno forse scatenando la reazione di sani anticorpi sociali? All’estero, certo non in Italia, l’ira popolare sta cambiando bersaglio: dalla «Casta» alla «Borsa», dai «politici» ai «padroni»; che la barba di Marx stia di nuovo spuntando?
Quel che sta accadendo, in particolare al di là delle Alpi, dimostra quanto devastante sia stata da noi la prolungata stagione del giustizialismo, con il suo corollario d’ideologia penale e vittimismo seguiti alle ripetute emergenze giudiziarie. Il decennio 90 si è accanito contro i corrotti della politica assolvendo i corruttori dell’economia, aprendo la strada non solo alla vittoria politica del partito azienda ma alla sua egemonia politico-culturale sulla società.
Vedremo più in là se ha ragione L’Economist quando descrive, un po’ alla Ballard, l’albeggiare di una rivoluzione del ceto medio proletarizzato; o se invece ci sarà un’irruzione di protagonismo del nuovo precariato sociale. Una cosa è certa: oltreconfine hanno individuato la contraddizione da attaccare. È tutta la differenza che passa tra allearsi contro i padroni o fare le ronde contro i romeni. Ma quel che resta della sinistra italiana l’avrà capito?

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Un successo la giornata di mobilitazione generale dei lavoratori del pubblico e del privato

Paolo Persichetti
Liberazione
20 marzo 2009

Il clima sociale in Francia è più che surriscaldato. 3 milioni di persone secondo i sindacati, poco meno della metà per la polizia, sono scesi in strada nei 229 cortei che ieri hanno traversato le diverse città del Paese. Oltre 300 mila a Marsiglia, più di 350 mila a Parigi. Forti del successo ma anche dell’ampio sostegno della popolazione (secondo un sondaggio, infatti, per il 78% dei francesi la mobilitazione era «giustificata») i sindacati ora alzano il tiro. Chiedono la protezione dei posti di lavoro, misure incisive per rilanciare il potere d’acquisto dei salari, la difesa dei servizi pubblici, maggiori tutele per la disoccupazione, contestano la politica economica del governo attenta solo difendere la redditività del capitale, con fondi stanziati solo per imprese e banche travolte dal crac della finanza. Al di là del consueto balletto di cifre, quel che conta è il fatto che in piazza c’era più gente del 29 gennaio scorso, quando si parlò di due milioni di persone. Scommessa riuscita nonostante qualche polemica: «I militanti del nuovo partito anticapitalista sono dei rapaci», aveva detto il segretario della Cfdt (sindacato moderato), François Chérèque, denunciando il loro attivismo davanti ai cancelli.
A differenza di quel che accade in Italia, dove la Cgil, Fiom e Cobas sono messi all’angolo dagli altri sindacali e dal Pd, l’unità del movimento è uno dei punti forti della mobilitazione francese che lavora, nella più classica delle tradizioni, per raggiungere una massa critica in grado di spingere il governo e il padronato a fare concessioni.
Meno seguito è stato, invece, lo sciopero generale. La funzione pubblica, gli enti locali, gli ospedali, sono stati chiamati a incrociare le braccia per bloccare i piani di soppressione dei posti di lavoro (previsto il rimpiazzo di un solo posto per ogni due che si liberano). Coinvolti anche l’educazione nazionale, ferrovie, autobus e metropolitane, poste, Telecom, energia (Edf, Gdf-Suez), aeroporti, con adesioni che hanno oscillato dal 35% al 60%, secondo il comparto.
Novità importante è stata l’astensione dal lavoro del settore privato. Più estesa e organizzata della volta scorsa, lo sciopero ha visto l’adesione dei lavoratori di Total, Saint Gobain, Auchan e Carrefour. Banche, chimica, metallurgia, automobile, grande distribuzione, la mobilitazione è stata capillare con punte che hanno raggiunto il blocco totale delle officine da parte delle maestranze. È successo alla Continental di Clairoix, la fabbrica di pneumatici con 1120 dipendenti che ha tenuto banco nei giorni scorsi con un’importante mobilitazione contro il progetto di chiusura annunciato dalla proprietà. Tagli all’occupazione sono stati annunciati anche dalla Total, nonostante gli utili record ricavati, e dalla Sony France. In uno degli stabilimenti, dove erano giunte le lettere di licenziamento, gli operai hanno sequestrato per una notte intera l’amministratore delegato. Per non dimostrare di essere da meno, i lavoratori della Continental hanno prima costretto l’amministratore delegato a fuggire sotto un fitto lancio di uova, poi bloccato i cancelli della fabbrica e appeso un manichino raffigurante lo stesso manager, quindi hanno fatto irruzione nella sala dove si teneva una riunione tra sindacati e azienda, interrompendola con il lancio di bottiglie e altri oggetti. Tanto per far capire quale è il loro stato d’animo.
In evidente difficoltà per la forte pressione sociale che si è fatta forte dell’esempio venuto dalla rivolta in Martinica, Guadalupa e Réunion (oltre un mese di scioperi insurrezionali che hanno strappato al governo concessioni sociali), l’esecutivo ha chiesto al padronato di fare un gesto simbolico che placasse gli animi. Di fronte alla richiesta di ridurre i compensi stratosferici ricevuti dai manager, anche quando le imprese licenziano o affondano per scelte finanziarie errate, speculazioni azzardate nel mercato azionario, Laurence Parisot, la spocchiosa chef degli industriali di Francia, ha risposto senza mezzi termini che il Medef (equivalente della nostra Confindustria) è una semplice autorità morale. «Non abbiamo i mezzi, né tantomeno il desiderio d’imporre (ai nostri affiliati Ndr) qualcosa che dipende unicamente dalla relazione contrattuale tra mandatario sociale, impresa e consiglio d’amministrazione». Insomma il Medef riacquista piena integrità solo quando deve licenziare operai.
Sarkozy, invece, come ha osservato maliziosamente le Monde, ha preferito parlare di uno dei suoi temi preferiti, la sicurezza. Alla vigilia della gioranta di mobilitazione si è precipitato in banlieue per dichiarare guerra alle bande, promettendo pene più severe. Forse voleva far dimenticare di aver messo il veto sulla riforma fiscale che protegge una piccola casta di privilegiati. «Sarkozy conferma quello che già sapevamo – ha scritto Libération in un duro editoriale – egli è soltanto l’intendente arruffone delle classi possidenti».