Torture di Stato: «L’ordine venne dal governo. Oltre a me coinvolti De Francisci, Improta, Ciocia, Fiorolli, De Gregori». L’ex commissario Salvatore Genova racconta tutto

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Sull’Espresso in edicola da oggi venerdì 6 aprile 2012 la testimonianza rilasciata a Piervittorio Buffa dall’ex commissario di Polizia Salvatore Genova, aggregato alla squadra speciale del ministero dell’Interno durante le indagini sul sequestro Dozier tra la fine del 1981 e il 1982

«Questura di Verona, dicembre 1981. Il prefetto Gaspare De Francisci, capo della struttura di intelligence del Viminale (Ucigos) convoca Umberto Improta, Salvatore Genova, Oscar Firiolli, e Luciano De Gregori. E’ la squadra messa in cmpo dal ministero dell’Interno (guidato dal democristiano Virginio Rognoni) per cercare di risolvere il caso Dozier.
Il capo dell’Ucigos, De Francisci, ci dice che l’indagine è delicata e importante, dobbiamo fare bella figura. E ci dà il via libera a usare maniere forti per risolvere il sequestro. Ci guarda uno a uno e con la mano destra indica verso l’alto, ordini che vengono dall’alto, dice, quindi non preoccupatevi, se restate con la camicia impigliata da qualche parte, sarete coperti, faremo quadrato. Improta fa sì con la testa e dice che si può stare tranquilli, che per noi garantisce lui. Il messaggio è chiaro e dopo la riunione cerchiamo di metterlo ulteriormente a fuoco. Fino a dove arriverà la copertura? Fino a dove possiamo spingerci? Dobbiamo evitare ferite gravi e morti, questo ci diciamo tra di noi funzionari. E far male agli arrestati senza lasciare il segno».

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Torture contro i militanti della lotta armata
8 gennaio 1982, quando il governo Spadolini autorizzò il ricorso alla tortura
Cercavano Dozier nella vagina di una brigatista

8 gennaio 1982, quando il governo Spadolini autorizzò il ricorso alla tortura

Come documentano i dispacci dell’agenzia Ansa riportati qui sotto, l’8 gennaio 1982 si tenne una riunione del Ciis, il Comitato interministeriale per le informazioni e la sicurezza, organo del servizio segreto italiano oggi sostituito dal Comitato interministeriale per la sicurezza della repubblica.
Il comitato era presieduto e convocato dal Primo ministro, che all’epoca era il repubblicano Giovanni Spadolini, ed era composto dal ministro degli Affari Esteri, dell’Interno, della Giustizia, della Difesa, Economia e Finanze e Attività produttive.

Da 22 giorni era in corso il sequestro del generale americano e vice-comandande delle forze terrestri della Nato nel Sud Europa, James Lee Dozier, rapito Il 17 dicembre 1981 nella sua casa di Verona da un nucleo delle Brigate rosse – partito comunista combattente, una delle tre branche in cui si era scissa l’organizzazione nel 1980. Azione rivendicata dalla colonna veneta Annamaria Ludman.

Era la prima volta che un’organizazzione marxista rivoluzionaria riusciva a rapire un membro del comando Nato in Europa, una novità per un militare statunitense così alto in grado. L’operazione, pensata all’interno di quella che era la tradizionale azione di contrasto contro l’aggressiva politica delle forze imperialiste, mirava a riaprire la battaglia in favore dell’uscita dell’Italia dalla logica dei blocchi, contro la presenza delle basi Nato e americane. Un’azione volta a denunciare i patti segreti che legavano la Penisola a una sorta di sudditanza, che molti storici e analisti non esitavano a definire senza mezzi termini “sovranità limitata”, e intervenire all’interno del movimento contro il riarmo e la presenza di testate nucleari, mobilitatosi per impedire l’istallazione in Europa di nuovi sistemi d’arma come i missili nucleari Pershing e Cruise, questi ultimi previsti nella base di Comiso e Sigonella in Sicilia.

Il rapimento del generale americano sfatava di fatto tutte le dietrologie sulla natura eterodiretta delle Brigate rosse da parte di ambienti atlantici. Interpretazione complottistica fatta circolare in primis dagli ambienti del Partito comunista ma poi ripresa su larga scala e divenuta uno dei più inossidabili luoghi comuni capaci solo di mutare di segno (i servizi dell’Est al posto di quelli dell’Ovest) ma non di eclissarsi.


RIUNIONE
CIIS: MISURE TERRORISMO

Primo dispaccio

1982-1-8  POLITICA      

RIUNIONE CIIS: MISURE TERRORISMO
19820108 00850
ZCZC047/01
U POL 01 QBXB

(ANSA) – ROMA, 8 GEN – IL COMITATO INTERMINISTERIALE PER L’INFORMAZIONE E LA SICUREZZA (CIIS), NEL CORSO DI UNA LUNGA RIUNIONE TENUTA STAMANE A PALAZZO CHIGI, HA ADOTTATO UNA SERIE DI MISURE E DIRETTIVE AD EFFETTO IMMEDIATO RIGUARDANTI LA LOTTA AL TERRORISMO E LA SICUREZZA NELLE CARCERI. SECONDO QUANTO SI E’ APPRESO SUL CONTENUTO DELLE MISURE PRESE, CHE RIENTRANO NELL’ AMBITO DELLA COMPETENZA DEL CIIS, C’E’ IL VINCOLO DEL PIU’ STRETTO RISERBO. SI TRATTA NATURALMENTE DI MISURE DI CARATTERE AMMINISTRATIVO. HANNO PARTECIPATO ALLA
RIUNIONE I MINISTRI DELL’INTERNO ROGNONI, DELLA DIFESA LAGORIO, DELLA GIUSTIZIA DARIDA, DELL’ INDUSTRIA MARCORA, CHE FANNO PARTE DELL’ORGANISMO, E I MINISTRI LA MALFA, DI GIESI E ALTISSIMO IN RAPPRESENTANZA DELLE FORZE POLITICHE DELLA
COALIZIONE DI GOVERNO. I MINISTRI SONO STATI D’ACCORDO UNANIMEMENTE, SEMPRE SECONDO QUANTO SI E’ APPRESO, SULL’URGENZA E LA NECESSITA’ DELLE MISURE CHE SONO STATE DEFINITE DAL CIIS.
MR/SOR
8-GEN-82 12:45 NNNN

Secondo dispaccio

ZCZC196/01
U CRO 01 QBXB
RIUNIONE CIIS: MISURE TERRORISMO (2)

(ANSA) – ROMA, 8 GEN – LE DICISIONI ADOTTATE DAL CIIS,
NELLA RIUNIONE DI QUESTA MATTINA, IN MATERIA DI SICUREZZA NELLE CARCERI SONO COPERTE DAL PIU’ STRETTO RISERBO. AL MINISTERO DI GRAZIA E GIUSTIZIA NESSUN COMMENTO E NESSUNA INFORMAZIONE E’ FILTRATA AL PROPOSITO, SI SMENTISCE SOLTANTO L’IPOTESI CHE TRA ESSE SIA COMPRESO IL PROGETTO DI RIAPRIRE IL CARCERE DELL’ASINARA. TENENDO COMUNQUE CONTO DELLE MISURE CHE NEI MESI SCORSI ERANO ALLO STUDIO DEGLI ESPERTI SI POSSONO AVANZARE DELLE IPOTESI: SEMBRA PROBABILE CHE (COME DEL RESTO E’ GIA’ AVVENUTO IN OCCASIONE DI ALTRI MOMENTI DI TENSIONE  NELLE CARCERI) VENGANO CONTROLLATI CON MAGGIOR RIGORE TUTTI I CONTATTI CON L’ESTERNO DEI DETENUTI DELLE SEZIONI SPECIALI. QUESTO VORRA’ DIRE, PROBABILMENTE, CHE IN QUESTE SEZIONI VERRANNO ABOLITI I COLLOQUI STRAORDINARI; CHE NON SARANNO PIU’ CONSENTITI COLLOQUI CON I FAMILIARI SENZA IL VETRO DIVISORIO; CHE SARANNO INTENSIFICATI I CONTROLLI SUI PACCHI CHE GIUNGONO AI DETENUTI E SULLA CORRISPONDENZA; VERRA’ INTENSIFICATA LA SORVEGLIANZA ESTERNA PER NON VESSARE INUTILMENTE DETENUTI CHE NON SONO CONSIDERATI PERICOLOSI MA IN ALCUNI CASI SI TROVANO A STRETTO CONTATTO CON  ”GLI SPECIALI”, PROBABILMENTE VERRA’ ACCELERATO IL PIANO ALLO STUDIO DA TEMPO CHE TENDE A MIGLIORARE LA SITUAZIONE DEI COSIDDETTI ” DETENUTI DEFINITIVI TRATTABILI” (COLORO CIOE’ CHE DEVONO SCONTARE LUNGHE PENE MA NON SONO CONSIDERATI PERICOLOSI). QUESTI, SECONDO IL PROGETTO ALLO STUDIO, DOVREBBERO VENIR CONCENTRATI IN CARCERI SITUATE NELLE RISPETTIVE REGIONI DI PROVENIENZA E DOVE SARANNO VIGENTI TUTTI I BENEFICI INTRODOTTI DALLA RIFORMA.
CZ BM
8-GEN-82 21:11 NNNN

Questo secondo dispaccio annuncia le prime avvisaglie di quella che sarà l’introduzione dell’articolo 90, ovvero l’instaurazione di uno stato di eccezione dentro le carceri e l’avvio di circuiti differenziati che approderà successivamente alla nascita delle aree omogenee, dove venivano concentrati i detenuti dissociati, formalizzato con decreto ministeriale il 22 dicembre 1982. In una intervista rilasciata al quotidiano la Repubblica, il 25 agosto 1983, il direttore della Direzione Amministrativa Penitenziaria, Nicolò Amato, dichiarava che l’applicazione dell’art. 90 O.P. riguardava 18 istituti e poco meno di un migliaio di persone.

L’attenzione tuttavia va incentrata soprattutto sul primo dispaccio nel quale si riferisce che le misure prese sono di «carattere amministrativo», ovvero decisioni che emanano dalla diretta competenza dell’esecutivo e dei singoli ministri. Decisioni rivolte su due materie presentate in modo distinto: la «lotta al terrorismo» e la «sicurezza nelle carceri». Misure, infine, vincolate dal «più stretto riserbo».

E’ subito dopo questo vertice, la cui importanza strategica è dimostrata dal coinvolgimento inusuale di altri ministri (La Malfa, Di Giesi e Altissimo in rappresentanza delle altre forze politiche della coalizione di governo) che cominciano a circolare sui giornali le prime voci su un via libera concesso dall’esecutivo all’impiego della tortura per acquisire informazioni durante gli interrogatori.

In realtà il vertice del Ciis è solo il punto terminale di un processo decisionale avviato nei giorni precedenti, come dimostra la creazione di un gruppo operativo avente l’incarico di provvedere al coordinamento nazionale delle indagini sul sequestro, istituito con un decreto del ministro dell’Interno Rognoni il 28 dicembre precedente. E’ attorno alla nascita di questa struttura speciale e delle sue competenze e modalità di azione che prende forma la decisione di ricorrere in modo sistematico alla tortura impiegando gli esperti (il professor De Tormentis e la sua squadra, ma non solo) di cui disponeva la polizia.

Ciò spiega perché la sera del 4 gennaio 1982 Umberto Improta chiama d’urgenza Nicola Ciocia, alias De Tormentis, affinché sottoponga al «trattamento» Ennio Di Rocco e Stefano Petrella, arrestati  appena 24 ore prima in via della Vite a Roma. I due erano militanti del Partito guerriglia, denominazione assunta dal Fronte carceri e dalla Colonna napoletana delle Brigate rosse dopo la scissione. Non c’entravano nulla con il sequestro Dozier ma gli inquirenti speravano in ogni caso di rompere il muro del silenzio, aprire le prime crepe nella struttura organizzativa.

Le feroci torture inferte avranno successo. Le dichiarazioni estorte permettono alla polizia di arrivare all’arresto di Govanni Senzani che imprudentemente era rimasto nell’abitazione conosciuta dai due militanti. Un arresto chiavi in mano: gli agenti della Digos entrarono e incappucciarono nel sonno il fondatore del Partito guerriglia.

Enrico Deaglio su Lotta continua dell’8 febbraio 1982 rompe il muro del silenzio e denuncia l’impiego della tortura, «deciso in varie riunioni di altissimo livello nei giorni tra lunedì 11 e mercoledì 13 gennaio; giorni in cui il Consiglio dei ministri decise importantissime quanto tuttora misteriose misure d’emergenza contro il terrorismo; giorni in cui vi furono riunioni tra il presidente del Consiglio e i massimi responsabili dell’Arma dei carabinieri, della polizia e dei servizi di sicurezza. Si dice, infine, che presa la decisione, i ministri si vincolarono al segreto e si impegnarono a coprire le decisioni che avevano preso in qualsiasi caso».

In un comunicato del 18 marzo 1982 (quello della ritirata strategica) le Brigate rosse Partito comunista combattente  si da notizia di una riunione del Ciis (informazione tratta come sempre dall’attenta lettura dei quotidiani delle settimane precedenti) in cui sarebbe stato dato l’avallo alla tortura. «Spadolini – scrivono – ha provveduto in riunioni separate a comunicarlo ed accordarsi con tutti i segretari dei partiti compreso il Pci, a quest’ultimo ha mostrato lo spettro di una inversione militare pilotata dagli americani. Così si sono garantiti l’assenso completo e il silenzio sulla tortura. Il Pci e il sindacato anche quando gli arresti li riguardavano da vicino, recitano con monotonia lo stesso ritornello: ribadiamo la nostra fermezza per la lotta contro il terrorismo. Sospensione cautelativa». (Potete trovare l’intero documento in Progetto memoria. Le torture affiorate, Sensibili alle foglie pp. 166-170. Il passo citato è a pagina 169).

Dei ministri che parteciparono a quelle riunioni sono ancora in vita Virginio Rognoni e Renato Altissimo.

Numerosi casi di tortura affiorano nel corso del 1982. Le denuncie tuttavia restano limitate rispetto al fenomeno reale. I casi identificati si aggirano attorno ai 18-20. Le modalità spazio-temporali in cui questi eventi accadono lasciano trasparire chiaramente la non episodicità e la non occasionalità di queste pratiche. Uno specifico apparato di tortura era stato costituito con protocolli di arresto e interrogatori violenti ben rodati. Si tratta di pratiche che non si improvvisano ma che necessitano dei nullaosta da parte delle gerarchie e di una struttura predisposta oltre che di un addestramento predefinito.

Per apparato della tortura deve intendersi un sistema complesso di convergenza di alcuni poteri: Governo, ministri di riferimento come Interni, Giustizia e Difesa, organi di polizia (nel caso specifico Digos, Nocs e Ucigos) e infine il ruolo decisivo, di fiancheggiamento e copertura, fornito dalla magistratura.

Le tecniche messe in atto:
Waterboarding (annegamento simulato) con la specifica del sale
L’uso di scariche elettriche riprese dalla tradizionale gegène delle truppe francesi in Algeria
Sevizie di natura sessuale, con particolare accanimento sulle donne
Bruciature
Pestaggi
Tagliuzzamenti
Fucilazioni simulate
Sostanze chimiche (in alcuni casi… ma la circostanza non è stata accertata con sicurezza)
Tecniche classiche come quella di impedire il sonno e trattenere il prigioniero in posture dolorose

Le modalità d’arresto non seguono la prassi legale: incappucciamento al  momento della cattura (tant’è che spesso la popolazione crede di assistere a dei rapimenti. Gli arrestati vengono trattenuti per settimane o mesi nelle questure, caserme, sotterranei, oppure portati in luoghi sconosciuti, non ufficialmente adibiti a trattenere persone fermate).

Il ministero dell’Interno e le procure competenti non hanno mai avviato inchieste (salvo quella di Padova, caso Di Lenardo) per accertare i fatti.

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Torture contro i militanti della lotta armata

Le bugie del Governo: le “torture legittime” del Sottosegretario all’Interno, prefetto Carlo De Stefano

Nella risposta che il governo, per bocca del sottosegretario all’Interno prefetto Carlo De Stefano (nella foto qui accanto), ha fornito lo scorso giovedì 22 marzo all’interrogazione, presentata dalla deputata radicale Rita Bernardini, sulle torture che nel 1982 furono utilizzate per contrastare il fenomeno della lotta armata, si lasciava intendere che almeno fino al 1984 in alcuni trattati internazionali sottoscritti anche dall’Italia fossero presenti «limitazioni» di «non di poco conto» al divieto di fare ricorso all’uso della tortura.
Secondo questa singolare interpretazione nelle convenzioni internazionali si sarebbe vietato l’uso della tortura essenzialmente contro il nemico esterno, in caso di guerre tra Stati, tacendo sul ricorso a torture contro il nemico interno (i cosiddetti “terroristi”), a meno che non si trattasse di Paesi sotto regimi dittatoriali. Una logica che se condotta fino alle sue estreme conseguenze avrebbe sancito il divieto di torturare solo per le dittature, ritenute una forma di governo illegittimo, mentre paradossalmente avrebbe lasciato alle democrazie ampi margini di possibilità di farlo tranquillamente.

Questo il passo in questione:

Fonte: Estratto dal testo letto in commissione Giustizia dal sottosegretario Carlo De Stefano

Sul piano sostanziale sappiamo che non esistono grosse diferenze nell’impiego della tortura tra Paesi con sistemi politici cosiddetti “democratici” e regimi con forme di governo dittatoriale o autoritario. Non stiamo qui a dilungarci troppo sugli esempi storici: dalla Francia, durante la guerra d’Algeria, alle imprese coloniali e imperialiste delle democrazie occidentali fino alla recente Guantanamo dell’amministrazione Bush.
Diverso è il piano formale, l’adesione alle convenzioni internazionali, i trattati Onu, il cosiddetto sistema dello Stato di diritto vieta il ricorso a determinati eccessi o abusi nell’uso della violenza legittima dello Stato, non in Italia tuttavia dove il ricorso alla tortura non è ancora oggi un reato previsto dal codice penale nonostante gli impegni presi in tal senso negli accordi internazionali e in sede europea.

La fretta e il poco tempo a disposizione mi avevano impedito sul momento di fare le dovute verifiche così ho dato per vero quanto asserito nelle affermazioni di De Stefano, rilasciate pur sempre da un membro del governo in una sede ufficiale come la commissione Giustizia dove non ci si aspetta che si raccontino frottole o addirittura si riscriva pro domo un testo come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
Avrei dovuto fidarmi dell’istinto, che poi in questo caso altro non è che la stratificazione pregressa di letture e studi passati. Quei testi, soprattutto la Dichiarazione universale come la Convenzione di Roma (Cedu) li avevo letti, studiati per alcuni esami universitari o per preparare ricorsi in carcere a detenuti che mi chiedevano un aiuto.
Molte volte li ho ritrovati, citati e commentati, nei libri e mai ricordo di aver incontrato da qualche parte quelle «limitazioni» al divieto della tortura, per giunta così nette, evocate dal sottosegretario all’Interno.

Così appena ho potuto sono andato a verificare. Quei dubbi iniziali erano più che fondati. Vi chiedo scusa dunque per aver accreditato, seppur involontariamente, delle fandonie così grossolane. Nel testo dei trattati quei vincoli non esistono. Le parole di De Stefano sono frottole, roba da bocciatura secca ad un esame di primo anno di Giurisprudenza. L’interpretazione similgiuridica suggerita sulla base della scheda fornitagli dai tecnici del ministero della Giustizia (supponiamo si tratti di insigni magistrati dell’ufficio studi) rivela solo il penoso tentativo di costruire a posteriori una copertura giuridica delle ragioni dello Stato per giustificare il ricorso alle torture nei primi anni 80.

Nella Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali stipulata a Roma nel 1950, quella per intenderci sulla base della quale opera la corte di Strasburgo, come nel Patto internazionale sui diritti civili e politici, un trattato delle Nazioni unite adottato nel 1966 ed entrato in vigore nel 1976, nato dall’esperienza della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, non c’è menzione alcuna delle «limitazioni» di «non di poco conto» di cui parla l’esponente del governo.

Questi due testi riprendono in modo secco la formulazione presente all’articolo 5 della Dichiarazione dei diritti universali:

Articolo  3
Proibizione della tortura
Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o a trattamenti inumani e degradanti.

(Fonte: Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali – CEDU.
Roma 4 novembre 1950)

ARTICOLO  7
Nessuno può essere sottoposto alla tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, in particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico.

(Fonte: Patto internazionale sui diritti civili e politici, New York 16 dicembre 1966,
entrata in vigore il 23 marzo 1976)


La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948 all’articolo 5 recita:


Articolo 5

Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamenti o a punizioni crudeli, inumani o degradanti.

(Fonte: Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948)

Il divieto è categorico, non lascia spazio a distinguo o limitazioni «non di poco conto (morale e in caso di ordine pubblico e di tutela del benessere generale di una società democratica)», come sostenuto da De Stefano. Semmai la formulazione è carente lì dove non fornisce una dettagliata descrizione di cosa sia la tortura.
Ed è proprio in questa eccessiva sinteticità che si sono insinuate nel tempo le strategie volte ad aggirare il divieto.
Per questo motivo la successiva formulazione varata con la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984 ed entrata in vigore il 26 giugno 1987, introduce una definizione molto più ampia e articolata:

Articolo 1
1. Ai fini della presente Convenzione, il termine “tortura” indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate.


La tesi truffaldina del ministero dell’Interno

Da dove sono sbucate allora quelle «limitazioni» di «non di poco conto (morale, ordine pubblico, benessere generale di una società democratica)», citate dal sottesegretario all’Interno?

E’ successo un pò come nel gioco delle tre carte: al ministero della Giustizia e dell’Interno pensano che siamo degli allocchi e ce la beviamo. Come avrebbe fatto l’Azzeccarbugli di manzoniana memoria hanno combinato due codicilli (combinato disposto lo chiamano nell’orribile gergo giuridico), l’articolo 5 sopracitato e il secondo comma dell’articolo 29 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che potete leggere qui sotto:

Articolo 29
1) L’individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto è possibile il libero e pieno sviluppo della sua personalità;

2) Nell’esercizio dei suoi diritti e delle sue libertà ognuno deve essere sottoposto soltanto a quelle limitazioni che sono stabilite dalla legge per assicurare il riconoscimento e il rispetto dei diritti e delle libertà altrui e per soddisfare le giuste esigenze della morale, dell’ordine pubblico e del benessere generale in una società democratica;

3) Tali diritti e libertà non possono in nessun caso essere esercitati in contrasto con i fini e i principi delle Nazioni Unite.

(Fonte: Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, 1948)

Come è facile verificare, il testo del comma 2 riguarda unicamente l’esercizio dei diritti e delle libertà dell’individuo, sottoposti alle norme previste dalle singole leggi interne degli Stati che a loro volta non potrebbero essere in contrasto con i fini e principi della Dichiarazione generale sui diritti dell’Uomo.

In nessun momento si accenna alle torture o si fa riferimento ad una tutela del diritto soggettivo dello Stato che garantisca la possibilità di sottrarsi o attenuare il divieto di riccorrere alla tortura indicato nell’articolo 5. A questo punto c’è poco da aggiungere, quanto affermato da De Stefano è falso. Siamo alla truffa bella e buona. Nessuna legislazione internazionale ha mai ammesso la possibilità di ricorrere a torture per tutelare la morale, l’ordine pubblico o il benessere generale di una società democratica. Ciò è ammesso solo nella testa del Prefetto De Stefano e degli estensori della nota giuridica da lui letta e messa agli atti della Commissione Giustizia.

Un’affermazione del genere per l’incompetenza che dimostra e la pericolosità della tesi che afferma darebbe adito ad una immediata richiesta di dimissioni.

De Stefano se ne dovrebbe andare insieme agli autori materiali di quel testo. Sarebbe il minimo. Ma in Italia il minimo non c’è perché manca il fondo.

Concludo ricordando che la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti del 1984 richiede, tra l’altro, agli Stati parte di incorporare il crimine di tortura all’interno della propria legislazione nazionale e di punire gli atti di tortura con pene adeguate; di intraprendere una rapida e imparziale inchiesta su ogni presunto atto di tortura; di assicurare che le dichiarazioni rese sotto tortura non vengano utilizzate come prove durante processi (eccetto che contro una persona accusata di tortura, come prova che tale dichiarazione sia stata resa); e di riconoscere e far applicare il diritto delle vittime di tortura e dei loro parenti più stretti (dependants) a ricevere un equo e adeguato risarcimento e recupero (psico-fisico e sociale).

Nessuna circostanza eccezionale – come uno stato o una minaccia di guerra, instabilità politica interna o qualsiasi altra pubblica emergenza – può essere invocata (addotta) come giustificazione di atti di tortura. La stessa disposizione vale per quell’individuo che abbia compiuto tali atti in seguito ad un ordine di un superiore o di autorità pubblica. Agli Stati parte è proibito rinviare una persona in uno Stato nel quale egli/ella potrebbe essere a rischio di subire tortura (principio di non-refoulement).

Allo stesso tempo gli Stati dovranno assicurare che i presunti responsabili di atti di tortura presenti sul territorio di propria giurisdizione vengano sottoposti a processi o estradati in un altro Stato per essere sottoposti a processo.

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Dott. Carlo De Stefano,

IL prefetto Carlo De Stefano

ho letto la sua risposta all’interrogazione dell’On. Bernardini, che dire?
Una risposta sobria! In linea col nuovo corso, ma un tantino carente, lacunosa. Una risposta che si potrebbe attribuire a chi, in quegli anni, era estraneo al mondo delel Forze di polizia. Ma Lei Dottore non era estraneo, giusto? Lei c’era! Lei molte cose dovrebbe saperle!
Lei mi ha arrestato il 17 maggio 1978 ed oggi il suo collega Nicola Ciocia dice di avermi torturato quella notte, come io denunciai.
Dove stava quella notte Dottore? Questo non lo dice nella sua risposta. Non per accusarla di qualcosa ma forse lei può spiegare come io sia finito dalle sue mani in quelle del “Professor de Tormentis”.
In questo periodo sto imparando quanto sia difficile per voi assumervi le vostre responsabilità quando non potete nascondervi dietro l’anonimato e, del resto, vedo che è stato ben ripagato per i suoi servigi. Ma prima o poi arriva per tutti il giorno in cui non si può più vivere nell’ombra, ed è in questo frangente che un uomo può dimostrare un residuo di dignità di etica.

Lei Dottore con questa risposta ha perso un’occasione. Ora continuerà imperterrito a fare l’uomo di Stato, magari il buon padre di famiglia, tutto Chiesa, Casa e Stato.

Dica Dottore come ci si sente a rivestire questo doppio ruolo? Cosa le suggerisce la sua coscienza? Io da “terrorista” non riesco a immaginarlo.

Sicuramente Lei come il suo collega Nicola Ciocia si sentirà un servitore di Stato, ed io non sono qui a rinfacciarle il suo ruolo di poliziotto, né di avermi arrestato: quello era sicuramente il suo compito ed il suo dovere, quello per cui ha giurato, ma come Lei sa qui si parla di altro, di abusi, di torture, di violenze non ammesse dallo Stato che ritiene di servire. Ma tacere, svicolare, mistificare non si può dire che sia un bel servire.

Non le sembra paradossale che alla fine debbano essere dei “terroristi” a mobilitarsi per far emergere la verità e lo Stato a doversi nascondere?

Enrico Triaca

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di Paolo Persichetti

Il governo, per voce del sottosegretario agli Interni prefetto Carlo De Stefano, ex direttore centrale della Polizia di prevenzione (l’ex Ucigos, quella del “professor De Tormentis” per intenderci) dal 2001 al 2009 e dove ha anche presieduto il Comitato di analisi strategica antiterrorismo, ha liquidato giovedì 22 marzo l’interrogazione parlamentare sulle torture presentata lo scorso dicembre dalla deputata del partito radicale Rita Bernardini, sostenendo che dei fatti in questione se ne è già discusso ampiamente durante l’ottava legislatura con «ampi e circostanziati dibattiti parlamentari nonché inchieste giudiziarie».
Inutile tornarci sopra, dunque. «Su tali fatti, pertanto, – ha affermato De Stefano – non è necessario che io indugi anche se una serie di inchieste giornalistiche e iniziative culturali ne stanno riproponendo l’attualità. Un’attualità che mantiene il collegamento con i fatti di allora, in relazione all’operato delle Forze dell’ordine, ora oggetto di uno specifico quesito degli On. interroganti».
Peccato che dall’ottava legislatura ad oggi siano emerse molte circostanze nuove grazie ad una inchiesta giornalistica condotta nel 2007 da Matteo Indice sul Secolo XIX, poi rilanciate da un recente libro di Nicola Rao, riprese in una inchiesta apparsa su Liberazione del 13 dicembre 2011 nella quale si tracciava dettagliatamente il profilo professionale e culturale del professor De Tormentis, lasciando chiaramente intendere chi fosse il personaggio che si nasconde sotto quello pseudonimo e che al momento delle torture era un funzionario di grado elevato dell’Ucigos. Un dirigente delle Forse di polizia perfettamente conosciuto dai vertici politici dell’epoca, come riconobbe Francesco Cossiga (una foto lo ritrae alle spalle del ministro dell’Interno in via Caetani, davanti alla Renault 4 nella quale le Brigate rosse fecero ritrovare il corpo di Aldo Moro). Novità riproposte in una puntata della trasmissione di Rai tre, Chi l’ha visto, dell’8 febbraio scorso che hanno spinto il Corriere della sera e poi il Corriere del Mezzogiorno ad intervistare nuovamente il “professor De Tormentis” nella sua casa sulle colline del Vomero a Napoli, senza ometterne questa volta il nome che ormai circolava da tempo sul web: Nicola Ciocia.

Il prefetto De Stefano ha pensato di cavarsela a poco prezzo rivendendo merce scaduta
Il primo dei quesiti posti da Rita Bernardini ai rispettivi ministeri di competenza, Interno e Giustizia, chiedeva di «verificare l’identità e il ruolo svolto all’epoca dei fatti dal funzionario dell’Ucigos conosciuto come “professor De Tormentis”» ed ancora se non si ritenesse opportuno «promuovere, anche mediante la costituzione di una specifica commissione d’inchiesta», ogni utile approfondimento «sull’esistenza, i componenti e l’operato dei due gruppi addetti alla sevizie, ai quali fanno riferimento gli ex funzionari della polizia di Stato citati nelle interviste».
Il sottosegretario De Stefano non solo ha completamente evaso ogni risposta ma ha addirittura preso in giro la parlamentare radicale, e con essa quei milioni di cittadini che si recano regolarmente alle urne confermando la propria fiducia nell’istituzione parlamentare, spacciando per un gesto di cortesia istituzionale la consegna agli atti della Commissione di una scheda riepilogativa, elaborata «in base alle risultanze istruttorie nella disponibilità del Dipartimento della pubblica sicurezza», nella quale si ripropone una sintesi succinta dell’arci-nota inchiesta avviata nel 1982 dal pm di Padova Vittorio Borraccetti e conclusa con il rinvio a giudizio firmato dal giudice istruttore Giovanni Palombarini dell’allora commissario Salvatore Rino Genova, di tre agenti dei Nocs e di un ufficiale del reparto Celere, tutti condannati a brevi pene per le torture inflitte a Cesare Di Lenardo.

Nel 2004 l’ex commissario Salvatore Genova aveva scritto al capo della polizia chiedendo l’apertura di una commissione d’inchiesta sulle torture
E’ davvero singolare che negli armadi del Dipartimento della pubblica sicurezza il prefetto De Stefano non abbia trovato traccia delle denunce presentate dall’ex commissario della Digos, Salvatore Genova, divenuto nel frattempo primo dirigente. In una intervista al Secolo XIX del 17 giugno 2007, Genova denunciava che «nonostante ripetute sollecitazioni a fare chiarezza, lettere protocollate e incontri riservatissimi, ci si è ben guardati  dall’avviare i doverosi accertamenti». Sul tavolo della sua scrivania – annotava l’intervistatore – «ci sono i carteggi degli ultimi quindici  anni con l’ex capo della polizia, Fernando Masone, e con l’attuale numero uno, Gianni De Gennaro. Informative “personali”, “strettamente riservate” nelle quali Salvatore Genova chiede l’istituzione di Commissioni, l’acquisizione di documenti e l’interrogazione di testimoni. Vuole che venga fatta luce su una delle pagine più oscure nella storia della lotta all’eversione».
Di tutto questo nella risposta del sottosegretario non c’è traccia!
Singolare omissione, come singolare appare il fatto che l’unico nome citato sia quello di Salvatore Genova, che guarda caso è l’unico funzionario che in questi anni ha vuotato il sacco raccontando per filo e per segno i retroscena delle torture, mentre si mantiene il massimo riserbo sugli altri e non si risponde sulla identità di “De Tormentis”. Circostanza che assomiglia tanto ad un dispetto, per non dire una rappresaglia.

Se il lupo dice di non aver mai visto l’agnello
A questo punto non si può non ricordare come Carlo De Stefano non sia affatto una figura neutra o di secondo piano. Si tratta di un funzionario che ha realizzato per intero la sua carriera nell’antiterrorismo. Nel 1978, quando era alla digos, fu lui ad arrestare Enrico Triaca, torturato da Nicola Ciocia che lo racconta nel libro di Nicola Rao, e perquisire la tipografia delle Br di via Pio Foa’ a Roma. Si tratta dunque di un personaggio che inevitabilmente è stato a conoscenza di molti dei segreti conservati nelle stanze del Viminale, in quegli uffici che si sono occupati delle inchieste contro la lotta armata. Non foss’altro perché è stato fianco a fianco di tutti i funzionari coinvolti nelle torture.
Vederlo rispondere all’interrogazione depositata dalla deputata Rita Bernardini è stato come sentire il lupo dare spiegazioni sulla scomparsa dell’agnello….


Fino al 1984 le convenzioni internazionali non ponevano limiti al ricorso alla tortura morale, in caso di ordine pubblico e di tutela del benessere generale di una società democratica

Nonostante l’atteggiamento evasivo e omertoso, nella risposta del sottosegretario De Stefano agli altri quesiti posti nell’interrogazione parlamentare sono emersi alcuni dettagli interessanti. Alla domanda se il governo non intendesse «adottare con urgenza misure volte all’introduzione nell’ordinamento italiano del reato di tortura e di specifiche sanzioni al riguardo, in attuazione di quanto ratificato in sede Onu» e se non vi fosse l’intenzione di «assumere iniziative, anche normative, in favore di risarcimenti per le vittime di atti di tortura o violenza da parte di funzionari dello Stato, e per i loro familiari», l’esponente del governo ha ricordato i diversi disegni di legge pendenti in Parlamento e aventi per oggetto l’introduzione nel codice penale civile e militare del reato specifico di tortura. Nulla sulla creazione di una commissione d’inchiesta.
Rivelatore è stato invece l’excursus storico fornito dagli uffici del ministero della Giustizia nel quale si afferma una cosa palesemente falsa, ovvero che fino al 1984 a livello internazionale sia la Convenzione di Roma per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sia la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948, ponevano divieti all’uso della tortura «pur con delle limitazioni non di poco conto (morale e in caso di ordine pubblico e di tutela del benessere generale di una società democratica)». Secondo l’interpretazione fornita da De Stefano queste convenzioni internazionali avrebbero vietato l’uso della tortura essenzialmente contro il nemico esterno, in caso di guerre tra Stati, tacendo sul ricorso a torture contro il nemico interno (i cosiddetti “terroristi”), a meno che non si trattasse di Paesi sotto regimi dittatoriali. Una logica che se condotta fino alle sue estreme conseguenze avrebbe sancito il divieto di torturare solo per le dittature, ritenute una forma di governo illegittimo, mentre paradosalmente avrebbe lasciato alle democrazie ampi margini di possibilità di farlo tranquillamente.


Citando questo passaggio il ministero della Giustizia ha voluto forse farci intendere che nel 1982, quando Nicola Ciocia, alias De Tormentis, insieme alla sua squadra di “acquaiuoli” (così erano definiti negli ambienti della polizia per la loro specializzazione nel waterboarding, la tortura dell’acqua e sale), supportata dagli altri dirigenti dell’Ucigos, Gaspare De Francisci, Umberto Improta & c., sotto l’ordine e la tutela del ministro dell’Interno Virginio Rognoni, torturava durante gli interrogatori le persone sospettate di appartenere a gruppi armati, lo faceva senza violare la normativa internazionale.
E’ questo il messaggio indicibile che tra le righe il sottosegretario De Stefano ha voluto inviare agli interroganti e a chi da mesi sta portando avanti una campagna su questi fatti.
Tuttavia dal 1984, prima l’assemblea generale delle Nazioni unite, poi dal 1987 anche il Consiglio d’Europa, hanno adottato una Convenzione per la prevenzione specifica della tortura e dei trattamenti degradanti, in vigore in Italia dall’11 febbraio 1989. In tale ambito, «la tortura al pari del genocidio – ricorda sempre la nota del ministero della Giustizia – è considerata un crimine contro l’umanità dal diritto internazionale», dunque imprescrittibile.
Anche se la nozione di imprescrittibilità non ci ha mai convinto per la sua facilità a prestarsi a regolamenti di conti che fanno del ricorso alla giustizia penale internazionale una forma di prolungamento della guerra e/o della lotta politica con altri mezzi, ci domandiamo come mai i solerti magistrati italiani teorici dell’interventismo più sfrenato, della supplenza e dell’interferenza senza limiti, siano stati fino ad ora così restii e disattenti.
Ma della complicità della magistratura che con la sua sistematica azione di copertura, che trovò un’unica eccezione nella citata inchiesta di Padova, svolse un decisivo ruolo di ausilio alle torture parleremo in un prossimo articolo.

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Le torture contro i militanti della lotta armata
Le torture ai militanti Br arrivano in parlamento

Dallo Stato etico allo Stato emotivo: Virginio Rognoni «Le torture? L’emotività era forte»

Buon democristiano non mente: le risposte che Vinginio Rognoni concede in questa intervista più che lette vanno interpretate. Rognoni è il ministro delle torture, il politico che più di ogni altro ci ha messo la faccia. Chiamato in parlamento ha negato, negato più volte l’evidenza, ammettendo di fronte ai parlamentari solo 12 casi, avvenuti in un arco di pochi mesi. Tuttavia tra un diniego e l’altro emergono dettagli interessanti. Intanto Rognoni nega male, molto male, quando afferma che ad operare furono solo squadre di polizia locali. Affermazione in contrasto con quanto rivela più avanti: «affidai le responsabilità maggiori a Gaspare De Francisci, il capo dell’ufficio era Umberto Improta» (due nomi che ritornano sempre ed in posizione di vertice nella scena delle torture, come stabilì anche una inchiesta della magistratura sul caso di Cesare Di Lenardo), ovvero all’Ucigos. Ad operare c’era anche personale che veniva direttamente dal ministero o da corpi speciali come i Nocs, oppure investigatori di altre città come Salvatore Genova.
La squadra di torturatori guidata da Nicola Ciocia era sul posto fin dai primi momenti dell’indagine, non dovette perdere tempo per spostarsi ma operò immediatamente. La strategia, infatti, fu quella del ricorso alle intercettazioni di massa degli ambienti dell’autonomia, da cui scaturivano perquisizioni a largo raggio e interrogatori violenti per raccogliere informazioni. Già in questa fase venne coinvolto Nicola Ciocia che sottopose ad un violento waterboarding Nazareno Mantovani e successivamente Ruggero Volinia, che prima venne pestato da altri funzionari mentre la sua compagna, Elisabbetta Arcangeli, subiva violenze sessuali. (link Torture e violenze sessuali contro le donne della lotta armata).
Rivelatrice, infine, appare la risposta finale che chiama in causa i «rivolgimenti interiori, dell’“esposizione” umana cui gli investigatori che ogni giorno combattevano il terrorismo erano sottoposti, capace di generare una rabbia incontenibile». Insomma, sembra dire Rognoni, seppure c’è stata qualche tortura dovete capirli quei poveri funzionari sottoposti a tanto stress.

Matteo Indice
Secolo XIX
, 25 giugnio 2007

Il colloquio con Rognoni (il cui ultimo incarico istituzionale è stata la vicepresidenza del Csm, fino allo scorso anno) avviene telefonicamente, in due momenti distinti. «La lotta all’eversione dell’ordine democratico – spiega –  è sempre stata un fatto corale, almeno come tale la intendevo io, in cui tutti dovevano fare la propria parte. In frangenti particolari occorre affidarsi alle intuizioni e in qualche modo alla creatività dei poliziotti. Così facemmo, ma io già all’epoca giurai davanti al Capo dello Stato che, per quanto mi risultava, non ci furono eccessi».
Il primo passo è la rievocazione del lavoro investigativo che portò alla liberazione del generale americano James Lee Dozier, rapito dalle Brigate Rosse a Verona nel dicembre 1981 e liberato nel febbraio dell’anno successivo a Padova. Proprio uno dei terroristi arrestati per quella vicenda Cesare Di Lenardo con la sua denuncia diede il “la” all’unica indagine mai condotta da una procura sulle sevizie. Ricostruendo quel caso, negli ultimi giorni, abbiamo raccolto il resoconto di Salvatore Genova (uno dei funzionari che lavorò materialmente per il dissequestro) e soprattutto di un questore uscito nel 1984 dalla polizia, che ai tempi faceva parte dell’Ucigos: ha confermato l’esistenza d’un gruppo “parallelo”, da lui gestito direttamente e specializzato in sistemi violenti.
Virginio Rognoni non condivide questo tipo di ricostruzione, «sebbene la situazione fosse di assoluta emergenza». «La liberazione di Dozier rappresentò un passaggio chiave nella lotta al terrorismo, senza dubbio uno spartiacque. E credo che ogni interrogatorio fosse tenuto in condizioni di garanzia, nei limiti del possibile. Non dimentichiamo le pressioni, enormi, che subivamo dall’opinione pubblica dopo ogni attentato,in quella specifica occasione pure dagli Stati Uniti. La posizione del nostro Paese è sempre stata di rifiuto nei confronti della tortura».
Eppure, le rivelazioni del superpoliziotto che per almeno sei anni dal 1978 al 1984 lavorò all’Ucigos (Ufficio centrale per le investigazioni generali e le operazioni speciali) con compiti prettamente operativi, raccontano una storia diversa: «Con un drappello di fedelissimi ha riferito al Secolo XIX raggiungevo le città dove si dovevano torchiare i testi più importanti. E in alcuni frangenti, ammesso che ci si dovesse arrivare, la tortura rappresentava davvero l’unico modo per salvare delle vite».
«Non credo – insiste Rognoni – esistesse il tempo materiale per compiere soprusi. Erano le squadre locali, le varie Digos o i commissariati, a intercettare di volta in volta i sospettati, a far scattare il fermo di polizia giudiziaria. E nel breve intervallo di tempo in cui si protraeva questo provvedimento, non so quanto margine avrebbe avuto un organismo occulto e specializzato che doveva muoversi in ogni parte d’Italia».
In realtà, l’ex questore intervistato a Napoli spiega che i “cinque” parteciparono direttamente ad alcuni interrogatori dopo aver affiancato per giorni, e sul posto, altri investigatori che curavano le varie indagini dal principio: «Persino la Cia ha aggiunto rimase sbalordita dai nostri sistemi. In particolare, uno degli ufficiali che dovevano affiancare le autorità italiane come supervisori durante la vicenda Dozier si mise le mani nei capelli e disse: “Non credevo arrivaste a un livello tale di pressione”».
Per Virginio Rognoni «il compito dell’intelligence americana era talmente marginale, che non penso avessero un ruolo operativo tale da poter assistere a procedure estremamente delicate». Poi descrive la struttura dell’Ucigos: «Affidai le responsabilità maggiori a Gaspare De Francisci, il capo dell’ufficio era Umberto Improta. Come detto, in alcuni casi occorre fidarsi dell’acume e delle abilità dei singoli uomini, ai quali è sostanzialmente delegata tutta l’attività operativa».
Rognoni fu chiamato a rispondere più volte, alla Camera, sulle denunce di torture presentate dai terroristi, ma mai era stato interpellato sulla presenza d’un gruppo strutturato che le compiva sistematicamente, “I cinque dell’Ave Maria” appunto. «Un’espressione gergale», la definisce ancora, sebbene l’ultimo ragionamento risulti più articolato. «L’opinione pubblica dev’essere richiamata sul contesto di forte emotività che segnava quell’epoca. Penso alla brutalità con cui fu rapito e massacrato nel 1981 Vincenzo Taliercio (direttore del Petrolchimico di Mestre).
Ecco, davanti al risentimento prodotto da azioni simili non ci possono essere giustificazioni, non si può certo accettare la sevizia in un quadro democratico. Tuttavia va posto il problema, più ampio, dei rivolgimenti interiori, dell’”esposizione” umana cui gli investigatori che ogni giorno combattevano il terrorismo erano sottoposti, capace di generare una rabbia incontenibile».

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Cossiga: Un dirigente del Pci mi disse “date una strizzatina ai brigatisti”
Torture contro i militanti della lotta armata
Salvatore Genova, che liberò Dozier, racconta le torture ai brigatisti
Il penalista Lovatini: “Anche le donne delle Br sottoposte ad abusi e violenze”
Parla Nicola Ciocia, alias De Tormentis, il capo dei cinque dell’Ave Maria: “Torture contro i Br per il bene dell’Italia”
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Il generale Dozier alla cerimonia in ricordo di Umberto Improta, uno dei funzionari di polizia coinvolti nelle torture
Torture della Repubblica: il movimento argentino degli escraches, un esempio di pratica sociale della verità
Torture e violenze sessuali contro le donne della lotta armata

Cossiga: un dirigente del Pci mi disse «Date una strizzatina ai brigatisti»

Nonostante il consueto stile allusivo e l’abilità nel tirare in ballo (in modo del tutto giustificato) anche gli altri, allargando la superficie delle reponsabilità politiche, d’altronde parliamo di anni in cui vigeva quel particolare modello di consociazione politica che era il compromesso storico, Cossiga in questa intervista dice alcune cose importanti che lasciano capire il grado di internità della sfera del politico nella scelta di ricorrere allo strumento delle torture contro le persone coinvolte nelle indagini contro la lotta armata. L’avallo all’uso delle torture durante gli interrogatori di polizia venne dato nel corso di una riuniode del Cis (comitato interministeriale per la sicurezza) che si tenne l’8 gennaio 1982. Ma in realtà in quei giorni vi furono ripetuti incontri e decisioni, formali e informali, a livelo di esecutivo e vertici della sicurezza. Quella dell’8 gennaio fu solo una riunione che formalizzò politicamente scelte prese nei giorni precedenti in sede tecnico-operativa. Ne è una riprova il fatto che il funzionario dell’Ucigos Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, entrò in azione con la sua squadra di torturatori subito dopo gli arresti di Stefano Petrella e Ennio Di Rocco avvenuti il 3 gennaio 1982.

– La prima importante affermazione di Cossiga riguarda il grado di complicita del Pci di suo cugino Enrico Berlinguer. Senza il tacito consenso di questo partito, un ricorso così ampio alle torture da parte di un apparato strutturato del ministero dell’Interno non sarebbero mai stato possibile. Anzi, da quel che lascia intendere Cossiga, il Pci non subì passivamente la scelta ma in qualche modo l’ispirò. D’altronde una cosa del genere non deve stupire poiché appare del tutto in linea con la scelta fatta in quegli anni da Botteghe oscure di ricorrere a strumenti d’eccezione: come fu l’appello alla delazione; il tentativo di mobilitare la propria base sociale con i famosi questionari; la creazione di una rete parallela di spionaggio nelle fabbriche (rete a cui apparteneva Guido Rossa), nei quartieri, nelle scuole più calde attraverso le quali schedare le persone ritenute sospette di simpatie brigatiste o aderenti ai gruppi più duri dell’Autonomia. Nomi che poi venivano ceduti ai nuclei speciali del generale Alberto Dalla Chiesa; la collaborazione alle operazioni di infiltrazione dei gruppi rivoluzionari armati fatti sotto il diretto controllo sempre degli uomini del generale Alberto Dalla Chiesa; il ruolo svolto durante il processo di Torino al cosiddetto “nucleo storico delle Br”.

– Cossiga esclude il ricorso sistematico a torture fino alla fine degli anni 70, non si pronuncia sui periodi di intervallo nei quali non si trovò ad essere ministro dell’Interno o presidente del Consiglio. L’allusione a questo intervallo è ancora una volta significativa poiché corrisponde ai periodi in cui entrarono in azione le diverse squadre che praticarono le torture. La tortura di Enrico Triaca iniziò alla fine della giornata del 17 maggio 1978, quando l’interim del ministero dell’Interno era stato assunto da Giulio Andreotti, allora primo ministro. Cossiga infatti aveva rimesso il suo mandato il 9 maggio 1978. Le dimissioni vennero formalmente accolte con Dpr l’11 maggio successivo, Gazzetta ufficiale 15 maggio 1978 n° 132. Formalmente Cossiga non era più in carica al momento della tortura contro Enrico Triaca. Nel corso di tutto il 1982 ministro dell’Interno sarà Virginio Rognoni, che nel giugno 1978 aveva sostituito proprio Cossiga. Virginio Rognoni, ancora in vita, è il ministro delle torture ed a Matteo Indice ha risposto in questo modo.

– Cossiga ammette di conoscere senza mezzi termini Nicola Ciocia, alias De Tormentis, ma quel che più conta fa capire che Ciocia-De Tormentis era conosciuto soprattutto per la sua particolare “abilità” negli interrogatori. Una abilità che – Ciocia stesso lo ha rivelato – consisteva nel ricorso al waterboarding e altre violenze sull’interrogato.

L’Intervista – «Quando fu rapito suo figlio, De Martino mi chiese l’aiuto di quel poliziotto “abile” negli interrogatori»

Mateo Indice
Il Secolo XIX,  25 giugno 2007

Gernova – «Lo ricordo come fosse ieri, era il 1977 e io ministro dell’Interno. Ricevetti la visita di un alto dirigente del Partito comunista, che aveva fatto la Resistenza [il riferimento è con tutta evidenza a Ugo Pecchioli, Ndr]. Mi disse: “Per accelerare le indagini e prevenire gli attentati non potete dare una strizzatina ai brigatisti che avete in carcere?”. La frase mi colpì, ovviamente, ma credo sia eloquente per tratteggiare il clinma di tensione e apprensione che si viveva allora, nel quale personalità di primissimo piano  sarebbero state disposte a “indulgere” verso certe pratiche». Il senatore a vita Francesco Cossiga (ottavo presidente della repubblica fra il 1985 e il 1992) usa questa premessa per parlare delle torture ai terroristi, svolte «sistematicamente, da un gruppo strutturato» in base alle testimonianze inedite raccolte dal nostro giornale fra gli stessi superpoliziotti che curarono le indagini più delicate negli anni di piombo.

Presidente, un questore uscito dalla polizia vent’anni fa ha raccontato che, dal rapimento Moro in poi, gli interrogatori violenti hanno rappresentato una prassi consolidata nelle indagini sul terrorismo.
«Se è successo, si è trattato d’una scelta drammatica, non condivisibile perché io parto dal presupposto che non si può mai abbattere la legalità. Ho vissuto giorno per giorno le inchieste sugli attentati nel mio ruolo di ministro dell’Interno e presidente del consiglio poi: ottenevo relazioni costanti dai vertici delle forze dell’ordine e mi sento di escludere che, almeno fino alla fine degli anni ’70, siano avvenute cose del genere. Ma ovviamente occorre distinguere: non possiamo definire tortura una sequenza di domande anche molto pressanti dal punto di vista psicologico, nella quale si utilizzano tecniche particolari per far stremare mentalmente un terrorista, le cui rivelazioni possono salvare delle vite».

I riferimenti sono soprattutto all’epoca della liberazione del generale Dozier (1982) e agli anni immediatamente precedenti e successivi.
«Su quell’intervallo mi posso pronunciare meno. Però la magistratura indagò su alcuni agenti che maltrattarono terroristi detenuti. Non so dire se ci fossero “mandanti” a un livello più alto». In Israele questo tema è stato oggetto di dibattiti furenti. Ma lì si vive una situazione diversa, ovviamente, non paragonabile agli anni di piombo. E allora, ripeto, credo che il nostro Paese abbia sempre garantito la tenuta democratica dei suoi apparati di sicurezza».

Conosceva i funzionari (uno è Salvatore Genova, dell’altro rispettiamo al momento la richiesta di anonimato) che hanno parlato di torture sistematiche, accennando al gruppo “dell’Ave Maria”?
«Soprattutto il secondo, sì. Ricordo perfettamente che di lui mi parlò il senatore socialista Francesco De Martino. Era l’aprile del 1977, fu rapito suo figlio Guido (uno degli episodi più oscuri di quell’anno, sulla cui matrice rimase sempre incertezza, ndr) e mi chiamò quasi subito, trafelato. Io ero ministro dell’Interno e mi chiese di affidare le indagini allo stesso poliziotto – allora non aveva ancora il grado di questore – che voi adesso avete rintracciato a Napoli. Disse che avrebbe risolto il caso in fretta, in qualche modo».
(Guido De Martino fu liberato dieci giorni dopo e per settimane si discusse sull’avvenuto pagamento di un riscatto, ndr).

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Il generale Dozier alla cerimonia in ricordo di Umberto Improta, uno dei funzionari di polizia coinvolti nelle torture
Torture della Repubblica: il movimento argentino degli escraches, un esempio di pratica sociale della verità

Il generale Dozier incontra i giornalisti per il trentennale della sua liberazione: tranquilli nessuno parlerà delle torture!

Il generale James Lee Dozier, l’ex ufficiale statunitense comandante del settore meridionale della Nato, rapito dalle Brigate Rosse e liberato il 28 gennaio del 1982, dopo un’inchiesta segnata dal ricorso sistematico alle torture, ha incontrato oggi i giornalisti nei locali dell’Hotel Milton di Roma, in via Emanuele Filiberto 155. L’appuntamento era fissato per le 17. L’evento è stato organizzato per “festeggiare” il trentennale della sua liberazione insieme ai 12 uomini che agli ordini di Edoardo Perna, comandante del nucleo Nocs che penetrò nell’appartamento di via Pindemonte a Padova, riuscirono a liberare il generale della Nato.
«Sarà un’incontro di festa e allo stesso tempo l’occasione per rievocare e conoscere nel dettaglio l’operazione che portò alla sua liberazione», ha detto ieri all’Adnkronos Edoardo Perna. «Arrivammo all’appartamento a bordo di un camion, simulando un trasloco. Fu un’operazione perfetta, in pochi secondi riuscimmo a liberare Dozier», ricorda sempre Perna.
Questo è il link del servizio passato al Tg1 delle 20.00.
Ma il racconto di Perna è solo solo un breve fotogramma dell’operazione che prese inizio, come racconta qui sotto Salvatore Genova, all’epoca dei fatti commissario della Digos aggregato all’Ucigos, in un’intervista rilasciata il 24 giugno 2007 e confermata recentemente in una puntata di Chi L’ha visto? su Rai3, con la tortura scientifica di due «fiancheggiatori delle Br» ed in particolare su una donna, Elisabetta Arcangeli, messa in pratica da una squadra speciale del ministero dell’Interno guidata da Nicola Ciocia-professor De Tormentis, in una chiesa sconsacrata di Verona.

Aggiungiamo solo una piccola postilla al racconto dell’operazione di salvataggio del generale fatta da Matteo Indice, grazie alle dichiarazioni di Salvatore Genova e dell’anonimo funzionario, che poi – recentemente – si è scoperto essere Nicola Ciocia, alias De Tormentis, allora in forza all’Ucigos col grado di primo dirigente: sembra che su quei 100 milioni che un’altro importante funzionario dell’Ucigos si recò a ritirare a Roma venne fatta la cresta. Agli arrestati che sotto tortura divvennero collaboratori di giustizia fu consegnata la metà della somma presa dal fondo segreto del ministero dell’Interno. Anche la ragion di Stato ha il suo prezzo!

La vera storia della liberazione di Dozier

Matteo Indice
Il Secolo XIX
, 24 giugno 2007,  pagina 2

La soffiata decisiva per la liberazione del generale americano James Lee Dozier, vicecapo della Nato in Italia rapito dalle Br a Verona il 17 dicembre 1981 e liberato a Padova il 28 gennaio 1982 arrivò grazie alla tortura, scientifica,di due fiancheggiatori, messa in pratica in una chiesa sconsacrata a Verona, «un passaggio che impressionò persino la Cia». E dopo la liberazione, almeno 100 milioni delle vecchie lire furono distribuiti “informalmente” fra alcuni “pentiti”, le cui rivelazioni diedero impulso decisivo alla soluzione dell’inchiesta: gli stessi pentiti, ovviamente, non rivelarono mai nulla di preciso sulle sevizie.
È questa la ricostruzione, dettagliata e inedita, raccolta dal Secolo XIX direttamente da due dei funzionari di polizia che parteciparono alle fasi più delicate di quell’operazione.
Di uno, Salvatore Genova (all’epoca commissario della Digos genovese “aggregato” all’Ucigos) abbiamo rivelato nei giorni scorsi l’identità. L’altro l’abbiamo raggiunto a Napoli, ed è il superpoliziotto che guidava saltuariamente “I cinque dell’Ave Maria”, una squadra specializzata in interrogatori violenti. Ne rispettiamo, al momento, la richiesta dell’anonimato. Ma le loro dichiarazioni colmano la lacuna che il sostituto procuratore di Padova Vittorio Borraccetti e il giudice Roberto Aliprandi, presidente della Corte d’Assise che giudicò alcuni agenti incriminati per il pestaggio dei br sequestratori (ma non dei fiancheggiatori, ndr) descrissero nella requisitoria e nella sentenza di primo grado. Rimarcarono che non soltanto i poliziotti imputati compirono le torture, «e comunque non di propria iniziativa ma su ordine di persone più alte in grado». Nell’atto giudiziario venivano citati esplicitamente, quali «autori di un comportamento omissivo», l’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci e Umberto Improta, ai tempi funzionario della stessa divisione e in seguito prefetto di Napoli. «Con loro – rivela oggi l’investigatore anonimo [Nicola Ciocia Ndr], con il quale abbiamo avuto il lungo colloquio riportato a pagina 3 – avevo rapporti costanti, erano informati passo passo di tutte le procedure adottate per risolvere l’emergenza». Da Salvatore Genova arrivano invece le chiarificazioni sulle tappe che segnarono la soluzione del giallo. «Furono messe sotto controllo centinaia di utenze telefoniche, con l’obiettivo di scandagliare l’area dell’eversione. Ascoltavamo di tutto, in particolare le conversazioni di giovani militanti nell’Autonomia operaia. Il centro investigativo era la questura di Verona, dove di tanto in tanto venivano accompagnati i sospetti. Talvolta passavano per le mani di altri uomini in divisa, che usavano ogni sistema pur di farli parlare ». È in questo modo che vengono individuati RuggeroVolinia (il cui nome risulta negli atti dei vari processi) e la sua fidanzata. «Vennero accompagnati in questura – prosegue Genova – e nessuno si aspettava che da quell’uomo potessero arrivare indicazioni tanto importanti».
Non potevano immaginare, sulle prime, di trovarsi davanti “Federico” (questo il suo nome di battaglia), ovvero colui che materialmente, a bordo d’un furgone, trasferì Dozier dalla sua casa di Lungadige Catena a Verona al covo di via Ippolito Pindemonte, a Padova. Aggiunge, Genova: «Un gruppo specializzato si occupò dell’interrogatorio. Separarono Volinia dalla compagna e su di lei ci furono violenze. Io non partecipai all’azione, ma in seguito tacqui davanti ai giudici per proteggere altri funzionari, che mi garantirono avanzamenti di carriera in cambio del silenzio».
È solo la prima parte. «Sentendo le urla disumane della fidanzata, Ruggero Volinia a un certo punto supplicò di fermarsi. E iniziò a fare qualche nome; nulla di eclatante, ma palesava evidentemente una consapevolezza superiore a tanti altri». È lì che entrano in scena, direttamente, “I cinque dell’Ave Maria”. La conferma arriva da Napoli, a distanza di 25 anni, dalla voce del superiore che li guidava. «Io ribadisce il superpoliziotto [Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis] che non è mai stato coinvolto in alcun procedimento mi trovavo a cena in un ristorante con il capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci, che mi disse dell’interrogatorio in corso. Fu deciso allora di trasferire Volinia in una chiesa sconsacrata, un luogo più isolato, e qui ottenemmo indicazioni sensazionali. Anch’io raggiunsi il santuario, insieme ai miei, e lì si usarono “metodi forti”, gli stessi che portarono due fra gli ufficiali della Cia che ci affiancavano ogni giorno, a mettersi le mani nei capelli: “Non credevamo, dissero, che gli italiani arrivassero a un livello di pressione tale”».
L’autista è provato da una giornata infernale e alla fine cede, racconta tutto. «Se vi dicessi dov’è nascosto Dozier?». È la notte fra il 26 e il 27 gennaio, nella chiesa nessuno osa fiatare, a quel punto. E il prosieguo delle operazioni è cronaca nota: il blitz ad opera dei Nocs nella casa di via Pindemonte, dove Dozier era recluso sotto una tenda, e l’arresto dei brigatisti Antonio Savasta, Emilia Libera, Cesare Di Lenardo (colui che fece scattare la prima e circoscritta indagine sulle torture), Giovanni Ciucci e Daniela Frascella. Nei giorni successivi accadono altre cose, che nessuna indagine ha mai svelato con chiarezza. Le chiarifica ancora Salvatore Genova: «Un altro dei funzionari che parteciparono alle fasi finali degli accertamenti, e che assistette alle torture, andò a Roma a prelevare i soldi destinati ad alcuni pentiti, stornati da un fondo segreto destinato a quel tipo di risarcimento». Le stesse cose potrebbe ripetere a breve, davanti ai magistrati veneti che allora si occuparono del caso.

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Torture contro i militanti della lotta armata
Salvatore Genova, che liberò Dozier, racconta le torture ai brigatisti
Il penalista Lovatini: “Anche le donne delle Br sottoposte ad abusi e violenze”
Parla Nicola Ciocia, alias De Tormentis, il capo dei cinque dell’Ave Maria: “Torture contro i Br per il bene dell’Italia”
Le rivelazioni dell’ex capo dei Nocs, Salvatore Genova: “squadre di torturatori contro i terroristi rossi”
Il generale Dozier alla cerimonia in ricordo di Umberto Improta, uno dei funzionari di polizia coinvolti nelle torture
Torture della Repubblica: il movimento argentino degli escraches, un esempio di pratica sociale della verità



Il generale Dozier partecipa alla cerimonia in ricordo di Umberto Improta, il vicequestore che diede il soprannome “De Tormentis” a Nicola Ciocia, torturatore esperto di waterboarding

Forse non lo sapevate ma esiste anche un premio intitolato alla memoria del prefetto Umberto Improta. Chi era Improta?
Molti di voi, almeno quelli che hanno letto i ripetuti post sulla storia delle torture e le gesta del professor De Tormentis, pseudonimo coniato proprio da Improta dietro il quale si cela l’identità del funzionario dell’Ucigos oggi in pensione, Nicola Ciocia, già lo sanno.
Per chi ancora non lo dovesse sapere, Improta è stato una delle figure centrali della polizia politica, responsabile dell’ufficio politico della questura di Napoli nei primi anni 70, poi all’Ucigos, poi questore a Roma e infine a coronare una carriera da sbirro all’acqua e sale (Lo Sbirro. Umberto Improta, vita e indagini, Laurus Robuffo, 2004, è il titolo di un libro carico di omissis e sibilline allusioni che gli ha dedicato Piero Corsini), l’incarico a prefetto di Napoli, sua città natale, e – dulcis in fundo – di commissario straordinario ai rifiuti in Campania.
A dire il vero la sua carriera si chiuse malamente nel 1995, quando decise di lasciare l’incarico tra le lacrime in una drammatica conferenza stampa. Aveva ricevuto un avviso di garanzia per presunte irregolarità nella concessione di licenze ad istituti di vigilanza nel Napoletano. Vicenda che più tardi si concluse comunque con un’assoluzione. La morte lo colse nel 2002.
Nel libro sopra citato si dice, come se niente fosse, che quando c’era bisogno di “scuotere” un’arrestato, insomma di interrogarlo con le maniere forti, veniva chiamato Improta. Tutti sanno, in polizia e fuori, nel mondo dell’avvocatura, del giornalismo giudiziario, delle procure, di chi si è occupato un po’ delle vicende e delle indagini sulla lotta armata, che il nome di Improta è legato al cono d’ombra delle torture. Sulla sua scia infatti seguiva sempre il “professor De Tormentis”, suo inseparabile collega. Il suo nome è legato ad episodi rimasti irrisolti, come l’uccisione di Giorgio Vale, militante dei Nar ucciso con un colpo in testa sparato a bruciapelo al momento del suo arresto.
L’ex commissario Salvatore Genova ha più volte fatto il nome di Improta, nel libro di Nicola Rao e durante la trasmissione Chi l’ha visto, su Rai tre. Nome bippato ma comprensibile. Nel libro di Rao, Genova indica il trio al completo dell’Ucigos comandata da Gaspare De Fracisci: Improta, Fioriolli e De Gregorio, funzionari sempre presenti, dunque pienamente al corrente, attivamente partecipi, corrivi e omissivi, durante le varie fasi degli interrogatori sotto tortura da cui attendevano solerti i risultati, ovvero che il seviziato sputasse fuori nomi e indirizzi oppure l’anima se non sapeva nulla. E se questi primi “approcci” non davano i risultati sperati passavano alla fase successiva, al grado superiore: sollecitando l’intervento del “professor De Tormentis” che girava su è giù per le questure e le caserme d’Italia sempre pronto a mettere in pratica il suo trattamento a base di acqua e sale fatta ingurgitare con la forza.

A parlare di Improta fu anche la magistratura: il sostituto procuratore di Padova Vittorio Borraccetti e il giudice Roberto Aliprandi, presidente della Corte d’Assise che giudicò alcuni agenti incriminati per le torture sui Br al momento del blits che portò alla liberazione del generale Dozier. Nella requisitoria e nella sentenza di primo grado si riconosceva che non soltanto i poliziotti imputati compirono le torture, «e comunque non di propria iniziativa ma su ordine di persone più alte in grado». Nell’atto giudiziario venivano citati esplicitamente, quali «autori di un comportamento omissivo», l’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci e Umberto Improta, ai tempi funzionario della stessa divisione e in seguito prefetto di Napoli. «Con loro – ha rivelato il professor De Tormentis, l’autore degli interrogatori a base di acqua e sale, la cui identità è ormai divenuta di dominio pubblico (Nicola Ciocia) – avevo rapporti costanti, erano informati passo passo di tutte le procedure adottate per risolvere l’emergenza».

Alla memoria di Improta è stato istituito un «prestigioso riconoscimento» che sorprendentemente non consiste nella scelta della migliore bottiglia di acqua salata o nella migliore produzione di sale iodato, o ancora nella scelta di un campione di apnea, ma nella premiazione del personale della polizia di Stato distintosi per aver dato dimostrazione nel corso dell’anno di «non comune determinazione operativa», «elevata professionalità» e «sprezzo del pericolo».

«La cerimonia – come recitano le note d’agenzia – è iniziata stamani alle 11 presso la Scuola superiore di Polizia di Roma, sita in via Guido Reni nel quartiere Flaminio. Il premio è giunto alla nona edizione e vuole riconoscere il merito degli appartenenti alla Polizia di Stato che si sono distinti particolarmente per la loro professionalità operativa».
Quest’anno c’è stata una presenza d’eccezione oltre a quelle rituali dei vertici di polizia rappresentati per l’occasione dal Vice Capo, prefetto Francesco Cirillo, dal questore di Roma, Francesco Tagliente, dal neo direttore della Scuola, Roberto Sgalla, dai vertici del Dipartimento della Pubblica Sicurezza coadiuvati dal fondatore del premio, l’avvocato Amedeo Tarsia in Curia, dal giornalista Rai Franco di Mare e dai familiari di Improta.
A celebrare il prefetto scomparso c’era anche il generale James Lee Dozier che – recita sempre la nota d’agenzia ­– «insieme ai diplomatici statunitensi ha voluto ricordare, a 30 anni dal sequestro, come la sua liberazione sia avvenuta grazie alle indagini coordinate Improta, allora in servizio all’Ucigos».
Metodi delle indagini che dopo le rivelazioni di Salvatore Genova e le ammissioni a denti stretti di Nicola Ciocia sono note a tutti.
A chiudere il siparietto hanno assistito anche degli ignari alunni della scuola elementare di Roma, Principessa Mafalda.

«Tutti – conclude il dispaccio d’agenzia – hanno voluto ricordare la figura non solo professionale ma anche personale del Prefetto Improta, esempio per tutti gli operatori di Polizia. Il prefetto Cirillo e Sgalla, si sono rivolti ai frequentatori del corso di formazione presso la Scuola, evidenziando come anche nei momenti difficili del suo percorso professionale, Improta non abbia mai abbandonando il profondo senso dello Stato».

In Italia succede anche questo. Soprattutto questo.

Link
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Torture della Repubblica: il movimento argentino degli “escraches”, un esempio di pratica sociale della verità

Ho sospeso per un momento l’inchiesta sulle torture ma ci tornerò sopra molto presto. Molti risvolti di quella vicenda vanno ancora raccontati e soprattutto non va mollata la presa ora che si sono aperte delle crepe importanti all’interno dell’apparato poliziesco che all’inizio del 1982 venne incaricato dal governo Spadolini, con il sostanziale avvallo di gran parte delle forze politiche anche d’opposizione, compreso il Pci, di ricorrere alle torture durante gli interrogatori di polizia. Tutto ciò grazie alle rivelazioni dell’ex commissario Genova:

– prima in alcune interviste rilasciate al Secolo XIX nel 2007, quando la deposizione del dirigente di polizia Michelangelo Fournier fece luce sull’assalto delle forze di polizia all’interno della scuola Diaz a Genova durante il G8 del 2001, brutali violenze definite dallo stesso Fournier «macelleria messicana», scatenò per un breve periodo una discussione pubblica subito riassorbita dal muro di gomma dell’opinione pubblica;

– rivelazioni sulle torture praticate nel corso del 1982 contro le persone che venivano arrestate con l’accusa di appartenere alla Brigate rosse, o ad altre formazioni armate, confermate nel recente libro di Nicola Rao, e nel corso di una puntata di Chi l’ha visto su Rai tre;

– rivelazioni che hanno trovato conferma nelle ammissioni del funzionario del ministerro dell’Interno col grado di 1° dirigente presso l’Ucigos, Nicola Ciocia, conosciuto con il soprannome di De Tormentis, capo di una delle squadrette specializzate negli interrogatori sotto tortura ed in particolare nella tecnica del waterboarding (che suscita un principio di annegamento con acqua e sale).


La verità è anche una pratica sociale: il movimento argentino degli escraches

«Escracher» è un termine dello slang urbano di Buenos Aires che ha per significato il verbo mostrare, smascherare e che in gergo capitolino potremmo tradurre con sputtanare pubblicamente.  L’espressione è stata coniata durante le azioni di denuncia pubblica dei responsabili diretti del terrorismo di Stato coinvolti nelle torture della dittatura militare che dal 1976 al 1983 ha governato il Paese. Periodo nel quale furono commessi circa 2.300 omicidi politici e circa 30 mila persone scomparvero (desaparecidos), 9 mila delle quali accertate dalla Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas.

Questi personaggi venivano affrontati nel loro spazio sociale di vita, sotto le loro abitazioni, davanti ai posti di lavoro, nei quartieri dove abitavano, nei bar e locali che frequentavano, affinché tutti sapessero e conoscessero il loro passato. L’escrache era in sostanza una denuncia pubblica dell’identità e delle gesta del torturatore. Un modo per stanarlo dall’anonimato, per rompere il muro di gomma del silenzio, l’opacità corriva dell’omertà d’apparato e l’ipocrisia delle istituzioni. Un’azione sociale di verità che i movimenti argentini hanno definito «pratica di memoria sovversiva».

Un’esponente di quel movimento racconta così l’escrache: «dopo aver accertato l’identità e il curriculum delle azioni e del ruolo avuto dal torturatore, gli attivisti vanno nel quartiere dove abita e parlano con i vicini spiegando loro le ragioni dell’iniziativa di denuncia, chiedendo anche a loro di parteciparvi. Tutti sono invitati davanti al domicilio in modo che tutto possa divenire visibile e udibile. La facciata del palazzo viene ridipinta, in genere di vernice rossa, mentre le murgas e i tamburi accompagnano i manifestanti equipaggiati di trombe, megafoni e cartelli che raccontano la storia e le gesta del torturatore».

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