La polizia della Storia tra Kafka e l’angoscia della realtà

Recensioni – La Polizia della storia, la fabbrica delle fake news dall’affaire Moro, Paolo Persichetti, Deriveapprodi aprile 2022, pp. 281


Vincenzo Morvillo, 14 dicembre 2022 Contropiano

«Qualcuno doveva aver diffamato Josef K. perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato». Si tratta, com’è noto, del celebre incipit de Il Processo di Franz Kafka.
E queste parole ci tornano alla mente sin dalle prime righe di La Polizia della Storia, il libro-denuncia scritto dal compagno ed amico Paolo Persichetti:

«La mattina dell’8 Giugno, dopo aver lasciato i miei figli a scuola,sono stato fermato per strada da una pattuglia della Digos e scortato nella mia abitazione, dove ad attendermi c’erano altri agenti appartenenti a tre diversi servizi della Polizia di Stato: Direzione Centrale della Polizia di Prevenzione, Digos e Polizia Postale».

Da quel momento, la vita di Paolo si è trasformata in una traslazione realistica e angosciante della vicenda di Josef K, narrata dallo scrittore praghese.
Accusato in prima istanza di “associazione sovversiva”, senza che abbia messo in atto alcuna azione tesa al sovvertimento dello Stato.
Poi, di aver divulgato fantomatico “materiale secretato” della Seconda Commissione Moro: materiale che secretato non era, considerato che le bozze delle diverse relazioni stese dalla Commissione circolavano tra le redazioni dei giornali e che tutta la documentazione dell’inchiesta era destinata alla divulgazione pubblica.
Infine, di “favoreggiamento” per aver tenuto contatti con ex brigatisti – nella fattispecie Alvaro Loiacono che a sua volta conversava con Alessio Casimirri – condannati per il sequestro Moro oltre quarant’anni fa.
Il primo ha scontato la pena in Svizzera in quanto cittadino elvetico. Il secondo è fuggito in Nicaragua fin dall’inizio degli anni ’80, dove vive  da uomo libero.
Il primo ha scontato la pena in Svizzera in quanto cittadino elvetico. Il secondo è fuggito in Nicaragua fin dall’inizio degli anni ’80, dove vive  da uomo libero.
Ex Br oramai settantenni, che Persichetti utilizza come “fonti vive” per il suo lavoro di ricercatore e storico. Ma che per la Polizia della Storia e per la Magistratura italiana altro non sarebbero che sovversivi “in servizio attivo” che Paolo starebbe “favorendo”, passando loro informazioni.
Ex Br oramai settantenni, che Persichetti utilizza come “fonti vive” per il suo lavoro di ricercatore e storico. Ma che per la Polizia della Storia e per la Magistratura italiana altro non sarebbero che sovversivi “in servizio attivo” che Paolo starebbe “favorendo”, passando loro informazioni.
Informazioni di cui, naturalmente, l’intera cittadinanza italiana può venire a conoscenza, semplicemente con un click su Google.
Una trama grottesca e surreale, come quella del kafkiano processo intentato ai danni di Josef K.
Ed infatti, a Persichetti, nel narrare la sua assurda vicenda – nella prima parte del libro – non difettano toni ironici e sarcastici, indirizzati agli organi repressivi e di prevenzione di uno Stato che, francamente, si fa fatica a definire “democratico”.
Organi inquirenti, repressivi e di prevenzione i quali, più che individuare una fattispecie di reato, sembrano andare all’astratta ricerca di una qualsivoglia colpa da addebitare a Paolo. Una colpa che andrebbe ricercata, ça va sans dire, tra le carte e i documenti del suo archivio.
Archivio nel quale, tenetevi forte, sarebbe celato l’ultimo dei misteri sul Caso Moro. La madre di tutte le cospirazioni. La Verità di tutte le Verità.
Difficile evitare un po’ di sarcasmo nei confronti dell’azione di Polizia e Magistratura, leggendo le pagine in cui Paolo racconta questa sua surreale vicenda.
Come quelle in cui scrive del modo in cui gli inquirenti siano addirittura arrivati a clonare il cellulare dell’avvocato Davide Steccanella. Importante penalista meneghino, scrittore, autore di un corposo volume sulla storia della lotta armata in Italia, difensore di Cesare Battisti, Steccanella si è trovato intercettato sol perché in contatto con Persichetti.
Come quelle in cui scrive del modo in cui gli inquirenti siano addirittura arrivati a clonare il cellulare dell’avvocato Davide Steccanella. Importante penalista meneghino, scrittore, autore di un corposo volume sulla storia della lotta armata in Italia, difensore di Cesare Battisti, Steccanella si è trovato intercettato sol perché in contatto con Persichetti.
Conclusione, come scrive lo stesso Paolo: «Digos e Polizia di Prevenzione ascoltavano le nostre conversazioni telefoniche che riferivano al Pm. Per tutti quei mesi, l’intera strategia difensiva costruita dall’avvocato Steccanella è stata intercettata permettendo alla Procura di conoscerla in anticipo ed entrare nei segreti della difesa».
Tecniche da Stato totalitario. Strategie da Stato di Polizia. Vietate espressamente da ogni codice di procedura, perché invalidano ogni possibile difesa giudiziaria; ossia legale.
Altro che Urss e Ddr, Le vite degli altri sono qui. Sono le nostre!

La seconda parte del libro, volutamente più rapsodica, discontinua, non sempre coerente sul piano formale, ma disseminata di notizie fondamentali, dettagli storiografici significativi ed essenziali spunti di riflessione, è interamente dedicata al cosiddetto Caso Moro.
Paolo sembra voler dar fondo a tutta la sua intensa attività di ricerca, sembra quasi grattare la crosta della memoria per riversare sul foglio ogni micro-frammento storiografico riguardante quella vicenda.
La sua ci appare un’opera di resistenza e di sfida democratica ad istituzioni totalitarie, che vorrebbero mettere il bavaglio a lui e alla Storia.
Istituzioni orwelliane che pretenderebbero di tacitare la libera espressione del pensiero, soprattutto se essa riguarda un passato che il Potere deve necessariamente porre nell’oblio dei tempi.
Pena il riconoscimento politico di una forza rivoluzionaria che mise in crisi le fondamenta stesse dello Stato borghese.
Ricercatore e Storico, Paolo è dunque vittima, dal giugno 2021, di un attacco concentrico e senza precedenti, portato da Polizia di Prevenzione, Digos e magistratura inquirente, contro la sua persona e la propria famiglia.
Il sequestro di tutto il materiale documentale, dell’archivio, delle fonti storiografiche, dei dispositivi elettronici e addirittura delle cartelle cliniche riguardanti Sirio, il figlio tetraplegico di Paolo e della compagna Valentina Perniciaro – anch’essa non risparmiata dal sequestro – costituiscono un intollerabile attentato alla libertà personale e alla ricerca storiografica, sciolta dai vincoli oppressivi imposti dal pensiero dominante.
Un attacco repressivo, il cui unico scopo “razionale” sembra quello di mettere il guinzaglio all’attività di ricostruzione della Verità storica – che Paolo conduce tenacemente da anni, insieme ad altri validi studiosi – incentrata sull’insorgenza degli anni ’70 e sul più clamoroso evento rivoluzionario, messo a segno da una organizzazione guerrigliera nel cuore dell’Occidente capitalista: il rapimento del Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, ad opera delle Brigate Rosse.
Un evento che, da quaranta e più anni, è diventato la pietra angolare per la costruzione di una narrazione artificiosa della Repubblica Italiana, da cui viene espunto il conflitto di classe e completamente cancellato il quindicennio che – dall’inizio degli anni ’70 alla prima metà degli anni ’80 – ha visto un’intera generazione sollevarsi, anche in armi, contro il regime democristiano, lo Stato, la cultura borghese e contro il modello produttivo del Capitale imperante.
Un attacco repressivo, insomma, per continuare ad imporre una narrazione mistificante, preda del senso di colpa e dei deliri auto-vittimizzanti escogitati, dopo la morte di Moro, dagli ex dirigenti di Pci e Dc.
Una narrazione costruita a tavolino, con il piglio ottuso dell’ossessione cospirazionista, da parte di politici di basso profilo ma con l’ambizione di apparire, come il senatore Sergio Flamigni, il presidente della Seconda e inutile Commissione Moro – Giuseppe Fioroni – il senatore Gero Grassi.
Narrazione perpetuata anche da parte di magistrati posseduti dall’ideologia del complotto.
Da parte di “storici” al servizio di un partito. E di una pletora infinita di giornalisti – un paio di generazioni almeno, con poche ma molto apprezzabili eccezioni – tutti attratti dai facili guadagni (le “consulenze” con la trentennale “commissione parlamentare di inchiesta”), nonché dalla notorietà che la stesura di un libro o un surreale docufilm, infarciti di dietrologia sull’affaire Moro, hanno fin qui garantito.
Una narrazione, infine, il cui vero obiettivo è di natura eminentemente politica: il controllo dalla memoria collettiva rispetto a quel passato rivoluzionario, allo scopo di ipotecare presente e futuro.
Un presente e un futuro che – il potere spera – non abbiano mai più a confrontarsi con genuine aspirazioni o istanze di sovversione e di conflitto, contro l’impero della merce e del profitto. Contro il conformismo dell’intelletto e dell’anima. Affinché sia il Capitale l’unico orizzonte di senso.
Il libro di Paolo, come dicevamo, è quindi un coraggioso atto di testimonianza e di resistenza personale contro tutto questo.
E contro la repressione storiografica preventiva messa in campo dallo Stato Italiano.

 * Il libro sarà presentato a Napoli, presso i locali del Civico7 Liberato, Giovedì 15 Dicembre, a partire dalle ore 18:30. Saranno presenti, con l’autore, il giornalista Fulvio Bufi (Corriere della Sera) e l’avvocato penalista Biagio Gino Borretti. Introduzione di Vincenzo Morvillo, della redazione di Contropiano

Aldo Moro e le Brigate rosse, in un libro i retroscena dell’inchiesta che vuole sequestrare la storia

La recensione di Davide Steccanella

Confesso che dopo 13 anni in cui credevo di avere letto di tutto e di più sulle BR e su quello che viene definito nel sottotitolo «l’affaire Moro» (citando un libro di Sciascia), avevo poca voglia di imbarcarmi in un ennesimo volume di smentita alle miriadi di «fake news» (altra definizione del sottotitolo) che da sempre circolano intorno all’azione armata più famosa degli anni ’70.
Tanto più che sono anni che l’autore dedica al tema scritti e controscritti, ivi compreso un imponente volume scritto a tre mani (con Marco Clementi e Elisa Santalena) e pubblicato qualche anno fa dalla medesima casa editrice.
E invece, sorpresa, proprio quest’ultimo lavoro di Paolo Persichetti, che neppure cita la parola Br nel titolo – che invece richiama la kafkiana vicenda giudiziaria che lo ha visto (e lo vede tuttora) vittima di quella che in prefazione Donatella Di Cesare definisce «polizia di prevenzione» – è probabilmente il miglior libro mai scritto sulla più importante organizzazione armata italiana, e che meglio di ogni altro potrebbe far capire a chi ai tempi manco era nato come fu possibile che in un paese occidentale a capitalismo avanzato migliaia di militanti abbiano potuto “resistere” per oltre 10 anni in clandestinità agendo in pieno giorno in città urbanizzate e non nascosti sui monti della Sierra Nevada.

Lo schema del libro non è semplice perché travolgendo ogni regola saggistica salta da un argomento all’altro partendo dall’oggi per tornare a ritroso – ma anche qui senza seguire alcun ordine cronologico – a quel periodo storico che «la polizia della storia», questo il titolo, imputa all’autore di voler ricostruire secondo verità e non secondo quanto imposto in questi anni dalla vulgata dei “vincitori”.
In estrema sintesi, la trama del libro potrebbe essere descritta così: un bel mattino un Pm di Roma decide di sequestrare l’intero archivio di uno storico che da anni si occupa del sequestro Moro seguendo una metodologia antitetica a quella delle varie commissioni parlamentari che tutti noi cittadini ritualmente paghiamo per non approdare mai a nulla di rilevante, e poiché ogni tentativo da parte dell’indagato (neppure si capisce per cosa) di ottenere giustizia si scontra con l’ottusità di una magistratura distratta e poco incline a ostacolare le iniziative della Procura, lui decide di scrivere esattamente quel libro che gli si voleva impedire di scrivere, partendo dal racconto in prima persona della vicenda che lo ha visto coinvolto.
Una vicenda che mi procura disagio perché all’inizio aveva visto coinvolta anche la mia persona, come si riferisce nel paragrafo «La Digos clona il telefono dell’avvocato», quando ero del tutto ignaro che in Italia fosse consentita «l’intercettazione dell’attività difensiva» (titola un successivo paragrafo).
E’ per questa ragione che Paolo mi ha scritto sulla dedica «una volta tanto non avvocato ma ‘complice‘» prima di aggiungere «con affetto e stima», gli stessi sentimenti che io provo per lui e nello stesso ordine, perché per prima cosa è un amico e poi è uno degli storici più scrupolosi che esistano.
Paolo, a differenza mia, è un professore che si occupa di quella Storia da studioso, anche se la vulgata preferisce altre definizioni di comodo che nulla c’entrano con quanto scrive (e basterebbe leggerlo per rendersene conto), ma credo che abbiamo in comune un medesimo approccio di partenza.
Quello, cioè, di volere apprendere i fatti passati attraverso lo studio delle fonti e la diretta testimonianza dei protagonisti prima di scrivere stronzate, e questo fatto appare così tanto poco comprensibile all’esterno da richiedere necessarie catalogazioni “ad usum delphini”, per cui lui è per forza e per «l’ex brigatista» (anche se per pochi mesi nell’arco di una vita intera piena di mille altre cose) e io «l’avvocato dei terroristi», e va da se che se per ipotesi ci incontriamo un pomeriggio a Milano (lui diretto a Parigi) per parlare dei cazzi nostri, per la Digos stiamo cospirando insurrezioni armate organizzando «soccorsi rossi» internazionali per abbattere lo Stato capitalista nel bel mezzo del terzo millennio (sic!).
Però Paolo è uno bravo e li ha fregati, perché in questo libro c’è tutto quello che si dovrebbe sapere su quello che è successo in Italia oltre 40 anni fa, e tutti dovrebbero leggerlo dalla prima all’ultima riga prima di dire anche solo un’ulteriore parola su quella storia oggetto delle attenzioni della nostrana Polizia.
Invece di farsi attrarre dai tanti libri strenna che hanno in copertina la stella a cinque punte o la faccia sofferente di Moro, alla cui figura politica (e anche umana) – per inciso – questo libro è uno dei pochi a restituire quella giusta dignità che la diffusa “dietrologia” scandalistica gli ha sempre tolto.

«Manca il reato», il gip Savio censura l’inchiesta di Albamonte contro Persichetti

Manca «una formulata incolpazione anche provvisoria», con queste parole il gip Valerio Savio ha liquidato l’inchiesta aperta dal pm Eugenio Albamonte nei miei confronti. Lo scorso 8 giugno la polizia di prevenzione, insieme a digos e polizia postale, col pretesto di cercare materiale riservato proveniente dalla Commissione parlamentare Moro 2, che ha chiuso i battenti nel febbraio del 2018 (leggi qui), aveva sottratto il mio intero archivio storico, le cartelle sanitarie e scolastiche dei miei figli e altro materiale privato della mia famiglia (leggi qui e qui e qui).
Da cinque mesi ormai il mio materiale d’archivio e tutti i miei strumenti di lavoro (telefonino, computer, tablet, pendrive e hard disk) sono trattenuti dalle forze di polizia senza un motivo giuridicamente valido.
Non è indicato con chiarezza alcun reato, afferma il gip in risposta alla richiesta di incidente probatorio che il mio avvocato, Francesco Romeo, aveva avanzato di fronte alle intenzioni del pm di avviare per proprio conto accertamenti tecnici non ripetibili sul materiale sequestrato senza garanzie giuridiche per la difesa, che avrebbe solo potuto assistere senza poter intervenire sulla scelta delle modalità di ricerca e analisi dell’enorme materiale portato via e che solo in minima parte riguardava l’oggetto della perquisizione. Per queste ragioni, l’avvocato Romeo aveva chiesto al gip di effettuare una valutazione «con forme e secondo modalità non lesive del diritto alla riservatezza ed alla privacy personale dell’indagato nonché della sua privacy familiare» e in forma «limitata ai soli dati e documenti informatici di interesse non relazione alle ipotesi di reato oggetto di contestazione da individuare tramite chiavi di ricerca costituite da parole chiave».
L’incidente probatorio non può essere ammesso – risponde il gip – poiché «in atto contestazione non ve n’è alcuna, neanche provvisoria», motivo che impedisce l’accertamento di un eventuale reato con dispendio di inutili energie e costi a carico dell’Erario.
Dopo la risposta del tribunale del riesame, del 2 luglio scorso, che aveva già dato un colpo importante all’inchiesta della procura romana, ritenendo assenti le condotte di reato specifiche ascrivibili ai capi di imputazione indicati dal pm, ovvero il 270 bis cp (l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico) e il favoreggiamento in realzione all’ipotesi di divulgazione di materiale riservato acquisito e/o elaborato dalla commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, e suggerendo a questi di ricorrere ad un più idonea ipotesi di reato, la violazione di segreto politico, 262 cp, il giudice per le indagini preliminari è andato ben oltre. Per il Gip nel fascicolo dell’accusa manca una contestazione chiara, «con un minimo di delineazione» dell’ipotesi di reato.
Tre anni di indagini estremamente invasive, per giunta ancora non concluse, condotte attraverso forzature continue, clonazione di telefonini, intercettazioni telefoniche a raffica, intercettazioni ambientali e pedinamenti, intercettazione del traffico di posta elettronica, costate migliaia di euro di soldi pubblici, sono pervenute alla impossibilità di formulare una contestazione chiara e definita. Questa è la surreale storia iniziata nel gennaio del 2019 da una grottesca indagine della digos di Milano conclusasi con un’archiviazione ma subito ripresa dalla procura romana. Una caccia ai fantasmi, una pesante intromissione nella libertà di ricerca storica e lavoro giornalistico.
Il 10 novembre prossimo la cassazione dovrà pronunciarsi sulla vicenda, intanto il mio archivio e i miei strumenti di lavoro restano sotto sequestro.

Lo strano comportamento della procura, accusa Persichetti di avere diffuso informazioni riservate ma ignora le ripetute fughe di notizie segretate che hanno contrassegnato l’attività della commissione Moro presieduta da Fioroni

di Paolo Persichetti

I tre anni di attività della seconda commissione parlamentare sul rapimento e l’uccisone di Aldo Moro sono stati contrassegnati dalle ripetute violazioni del protocollo interno che regolava il regime dei documenti da mantenere riservati o segretati. Durante i suoi lavori abbiamo assistito ad una continua rincorsa all’anticipazione di notizie, o presunte tali, dove il più delle volte roboanti effetti d’annuncio servivano a colmare l’assenza di fatti nuovi. E’ andata avanti così fino al febbraio 2018 quando a causa della conclusione della legislatura la commissione ha dovuto chiudere anticipatamente i battenti senza essere in grado di produrre una relazione conclusiva. Nel frattempo commissari e consulenti avevano intrattenuto relazioni privilegiate con la stampa, fatto filtrare veline, notizie, documenti, fake news, avvalendosi anche di giornalisti che svolgevano la funzione di house organ, e ognuno come poteva si era avvalso di consulenze esterne e informali. Normale amministrazione di un organo eminentemente politico che però nella legge istitutiva si era dato anche delle prerogative giudiziarie, dando vita ad un ibrido dalle molte e irrisolte ambiguità.

Le ripetute fughe di notizie riservate ignorate dalla procura
Nonostante queste continue fughe di notizie siano avvenute sotto gli occhi di tutti la procura di Roma, che pure con la commissione intratteneva continui scambi, ha sempre girato il capo altrove ignorando le ripetute irregolarità.
Una rapida inchiesta ci ha permesso di individuare almeno cinque episodi (ma il numero è probabilmente superiore) nei quali esponenti della commissione hanno diffuso sui media notizie o documenti riservati o segretati. Queste violazioni, due delle quali avvenute prima del dicembre 2015, hanno riguardato la diffusione di verbali segretati di tre testimoni, due escussi dai consulenti della commissione e dallo stesso presidente, uno audito in seduta segreta dalla commissione stessa, e due notizie riservate raccolte dai consulenti. Si trattava di materiale documentale di prima mano funzionale allo sviluppo di successivi approfondimenti investigativi la cui divulgazione poteva nuocere allo sviluppo degli ulteriori accertamenti. A questa prima circostanza bisogna aggiungere che la divulgazione sui media è avvenuta spesso attraverso un uso sapientemente selezionato di stralci e notizie tale da distorcere il contenuto stesso delle informazioni presenti nei verbali e nei documenti, dandone in pasto all’opinione pubblica una versione finalizzata ad avvalorare ipotesi cospirazioniste che i commissari o i consulenti protagonisti di queste indiscrezioni appoggiavano. In questo modo accanto alla violazione delle regole di riservatezza si è dato corpo anche alla circolazione di fake news, in taluni casi di vere e proprie azioni di depistaggio informativo.

Primo episodio
Il 13 marzo 2015 il deputato Gero Grassi, membro tra i più attivi della commissione, rivelava l’acquisizione da parte della commissione di alcune musicassette ritrovate nell’aprile del 1978 in via Gradoli. L’informazione era contenuta in una informativa riservata prodotta dal magistrato Antonia Gianmaria, una consulente che lavorava per la commissione. La notizia appariva sui maggiori quotidiani, Corriere della sera, Repubblica, Stampa. «Da quel che si conosce dagli atti – spiegava imprudentemente Grassi – erano 18 le cassette registrate ritrovate nel covo e mai ascoltate: ad oggi ne manca dunque una. Per il momento le cassette sono nella cassaforte della Commissione, presto ne conosceremo il contenuto e valuteremo la rilevanza per le nostre indagini». L’entusiasmo appena velato di Grassi era dovuto alla convinzione che le audiocassette contenessero gli interrogatori di Moro. Non era affatto vero: i nastri provenivano da tre sequestri avvenuti in epoche diverse nelle basi brigatiste di via Gradoli, via delle Nespole e nell’abitazione di viale Giulio Cesare. Contenevano in prevalenza selezioni musicali, come riferivano i verbali dell’epoca acquisiti successivamente dalla prima commissione Moro. All’appello non mancavano cassette: alcune erano vuote, altre contenevano canzoni di Francesco Guccini, Gabriella Ferri, Bob Dylan, Enzo Jannacci, il duo di Piadena, canti rivoluzionari, gli Intillimani, il sax di Fausto Papetti, una – recitava il verbale – era «registrata da ambo le parti in lingua inglese». Altre due cassette ritrovate nel gennaio 1982 all’interno della base del Partito guerriglia di via delle Nespole, ma per un errore iniziale attribuite al sequestro effettuato in viale Giulio Cesare, dove Faranda e Morucci avevano trasferito l’archivio della “Brigata contro” dopo la loro uscita dalle Br, contenevano il messaggio telefonico di un mitomane e le dichiarazioni di una teste (Chiarantano) interrogata da un ufficiale dei carabinieri appartenente ai servizi segreti, Pignero, da cui scaturì l’inchiesta del generale Dalla Chiesa del maggio 1979 contro ambienti della estrema sinistra genovese, accusata ingiustamente di far parte della colonna genovese delle Br. Si trattavava di materiale di provenienza processuale e le dichiarazioni della teste erano riportate integralmente sulle pagine di Lotta continua dell’epoca.
Un testo dell’Ansa del 16 marzo 2015, ore 8,27, che riprendeva le affermazioni di Grassi raccoglieva anche le proteste del vicepresidente della commissione Gaetano Piepoli: «Il riserbo e la prudenza – dichiarava – sono l’unica bussola che la ricerca della verità ha per non smarrirsi nel labirinto delle infinite ipotesi».

Secondo episodio
Per due giorni consecutivi, il 17 e il 18 novembre 2015 sulle pagine di Repubblica il giornalista Paolo Berizzi ebbe modo di riportare ampi stralci del verbale segretato dell’escussione di Raffaele Cutolo, avvenuta il 14 settembre precedente nella sezione 41 bis del carcere di Parma. Le ennesime dichiarazioni dell’ex capo della Nuova camorra organizzata sulla vicenda Moro erano state raccolte dal tenente dei carabinieri Leonardo Pinelli e dal magistrato Gianfranco Donadio, entrambi consulenti della commissione e che il giorno successivo protocollarono il verbale insieme alle osservazioni e proposte di approfondimento investigativo. Qualche manina interessata farà pervenire due mesi dopo a Repubblica il documento segretato. La vicenda provocò anche una coda polemica: un membro della commissione, il deputato Fabio Lavagno, denunciò la fuga di notizie in una dichiarazione pubblica sottolineando per altro come fossero riportate in modo distorto. Il giornalista di Repubblica replicò che le fonti che avevano ispirato i suoi articoli erano interne alla commissione.

Terzo episodio
Il 5 settembre 2017 viene audito dalla commissione in seduta segreta Pietro Modiano, ex direttore generale di Intesa san Paolo, divenuto nel frattempo presidente della società che gestisce gli aeroporti milanesi. Modiano viene sentito in relazione all’ipotesi di legami tra le Brigate rosse e la ‘ndrangheta calabrese durante il rapimento Moro. Il contenuto dell’audizione era stato anticipato all’Ansa il giorno precedente dal solito Gero Grassi: «uno dei commissari che ha segnalato la volontà di Modiano di far conoscere quello che apprese anni fa spiega quello che potrebbe essere almeno uno degli elementi rilevanti dell’audizione» – scriveva l’Ansa: «Modiano era molto amico di Don Cesare Curioni (Il capo dei cappellani delle carceri italiane utilizzato come canale di trattativa con le Br dal Vaticano) e quindi potrebbe rivelare particolari inediti sulla conoscenza che il sacerdote aveva del mondo brigatista. Ricordando anche che don Curioni era presente all’obitorio quando fecero l’autopsia ad Aldo Moro». Secondo quanto riportato da Gero Grassi nel suo Aldo Moro, la verità negata, Pegasus edizioni 2018, durante l’audizione segreta Modiano avrebbe rivelato che poco dopo l’omicidio Moro il sacerdote suo amico gli avrebbe riferito «che chi ha sparato materialmente è Giustino De Vuono, calabrese». Al netto del gioco di specchi dei de relato, dove amici e conoscenti riportano fantasmagoriche affermazioni di defunti, assolutamente non verificabili, ciò che qui interessa è la circostanza che il contenuto dell’audizione segretata, oltre ad essere anticipata appare su due lanci dell’Ansa del 5 settembre, ore 17,37 e in un libro.

Quarto episodio
Il 20 Settembre 2017 è lo stesso presidente della commissione, Giuseppe Fioroni, a rivelare all’Ansa il ritrovamento del corpo di Giustino De Vuono nonostante l’informazione fosse contenuta in un atto da lui stesso classificato riservato. L’episodio, alquanto surreale, viene raccontato da Fabio Lavagno nel volume, Moro. L’inchiesta senza finale, Edup ottobre 2018, scritto insieme a Vladimiro Satta. A p. 56 si riportano gli stralci essenziali della dichiarazione di Fioroni: «Il Presidente della commissione d’inchiesta sull’assassinio di Aldo Moro, Giuseppe Fioroni, a proposito della figura del criminale Giustino De Vuono […] rende noto che ‘tramite l’Arma dei Carabinieri è stato possibile stabilire con certezza la sua data di morte e il luogo di sepoltura: De Vuono, ristretto, nel carcere di Carinola dal 16 marzo 1991, venne ricoverato il 1 novembre del 1994 nell’ospedale di Caserta, già operato per aneurisma fissurato, e lì morì il 13 novembre dello stresso anno. La salma di de Vuono venne tumulata nella tomba di famiglia presso il cimitero di Scigliano […]». La figura di De Vuono, come abbiamo visto, è ritenuta centrale da alcuni narratori complottisti. A loro avviso infatti era presente in via Fani e sarebbe stato l’esecutore materiale dell’uccisione di Moro, per questo aiutato dai Servizi ed esfiltrato all’estero. Da qui le strenue ricerche condotte dalla commissione per infine ritrovarlo inumato in un paesino della provincia di Cosenza.

Quinto episodio
Il 17 marzo 2016 Francesca Musacchio sul Tempo riportava ampi stralci del verbale segretato di escussione che Angelo Incandela, ex maresciallo delle guardie di custodia del supercarcere di Cuneo, aveva rilasciato dieci giorni prima, il 7 marzo, nei locali della questura di Torino davanti al presidente della commissione Giuseppe Fioroni e al consulente Guido Salvini (p. 200 della relazione sull’attività svolta dalla commissione, dicembre 2017). Incandela avrebbe riferito di un incontro con il generale Dalla Chiesa, presente anche Pecorelli, e poi di carte che il generale gli avrebbe chiesto di nascondere all’interno del carcere e successivamente ritrovare con una perquisizione camuffata. L’ex maresciallo lasciava intendere che si trattasse del memoriale Moro o di parte di esso ritrovato dagli uomini del generale in via Monte Nevoso a Milano.

Lo strabismo investigativo della procura e la caccia al reato
Dopo cinque anni di assoluta inerzia davanti alle continue fughe di notizie provenienti dall’interno della commissione Moro 2, alla fine del 2020 la procura di Roma si è improvvisamente interessata ad alcune mie mail. Si trattava dell’invio ad una cerchia ristretta di persone di alcune pagine della prima bozza di relazione annuale nelle quali si affrontava l’abbandono delle macchine del commando brigatista in via Licinio Calvo. La trasmissione era avvenuta l’8 dicembre 2015, meno di 48 ore prima della sua pubblicazione ufficiale. Secondo la procura quella spedizione costituiva una fuoriuscita di documentazione riservata, nonostante fosse di natura ben diversa rispetto ai documenti segretati resi pubblici nei cinque episodi prima descritti. La relazione è un testo politico, sottoposto ad emendamenti e voto finale, che riassume per sommi capi audizioni – già pubbliche – e l’indirizzo delle indagini intrapreso dalla commissione non un verbale di interrogatorio o una relazione su indagini in corso scritta dai consulenti.
L’inchiesta della procura partiva da una serie di informative della polizia di prevenzione realizzate dopo una lunga attività investigativa, nata almeno un paio di anni prima e scaturita dal monitoraggio dei rifugiati politici degli anni 70. In un rapporto del novembre 2020 la Dcpp ipotizzava la presenza del reato di rivelazione di segreto d’ufficio (326 cp), accusa mossa contro ignoti. In un nuovo rapporto del mese successivo venivo identificato come il responsabile della divulgazione di questo materiale e contemporaneamente veniva modificato il titolo del reato da rivelazione di segreto d’ufficio a favoreggiamento (378 cp). Dopo le dichiarazioni del presidente della defunta commissione Moro 2, Giuseppe Fioroni, sentito come teste informato, il pubblico ministero titolare dell’inchiesta introduceva una nuova imputazione: associazione sovversiva con finalità di terrorismo (270 bis) a corredo del favoreggiamento. Nello scorso mese di luglio, il tribunale del riesame, chiamato a pronunciarsi sulla legittimità del sequestro del mio materiale d’archivio, dei miei strumenti di lavoro e dei documenti e materiali amministravi, sanitari e scolastici dei miei figli, avvenuto l’8 giugno precedente, riteneva la sottrazione del materiale legittima se inquadrata sotto un diverso titolo di reato: la rivelazione di notizie riservate stabilite dall’autorità (262 cp), smontando di fatto il quadro accusatorio disegnato della procura. Nel giro di 8 mesi ho così assistito alla successione di ben quattro imputazioni per un unico episodio. Questa difficoltà nell’inquadrare giuridicamente il presunto fatto-reato addebitatomi rivela quanto sia fragile e pretestuosa l’inchiesta condotta dalla polizia di prevenzione e dalla procura di Roma che con tutta evidenza mira ad altro.

Le insinuazioni del presidente della commissione Moro 2
Tra i contatti a cui avevo inviato alcune pagine della bozza di relazione, tutti legati al lavoro di ricerca storica che stavo conducendo insieme a Marco Clementi e Elisa Santalena in vista della pubblicazione di un libro sulla storia delle Brigate rosse e del sequestro Moro uscito nel 2017 (Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, edizioni Deriveapprodi), erano presenti persone coinvolte nel sequestro. Si trattava di ex militanti delle Brigate rosse a cui avevo chiesto di vagliare il capitolo della “Relazione” e fornire la propria versione dei fatti, spunto da cui partire per una ricostruzione minuziosa poi sfociata in un capitolo del libro.
Nel corso della sua testimonianza Giuseppe Fioroni aveva insinuato un diverso scenario, sostenendo che fossero le informazioni contenute nella bozza il vero movente della divulgazione anticipata. Secondo l’ex presidente, le indagini condotte dalla commissione sulla possibile presenza di un garage compiacente o di una base dei sequestratori nei pressi della zona di via Licinio Calvo, avrebbero messo in allarme l’ambiente degli ex brigatisti. Da qui l’insinuazione che la diffusione in un circuito ristretto di quelle pagine non fosse dettata da ragioni di polemica storica, ovvero l’intenzione di contrastare le ricostruzioni dietrologie promosse dalla commissione perché travisavano i fatti, ma dalla necessità di carpire notizie in anticipo (48 ore sic!) sulla direzione delle indagini. Io sarei stato dunque una sorta di agente infiltrato!

Il capitolo su Licinio Calvo non conteneva anticipazioni o notizie riservate
Fioroni tuttavia dimentica di dire che il capitolo su via Licinio Calvo non conteneva notizie riservate ma fantasie ampiamente note. Il teorema del garage compiacente e di una base brigatista prossima al luogo dove vennero lasciate le vetture utilizzate per la prima fase della fuga e addirittura – secondo alcuni oltranzisti – prima prigione di Moro, è un clamoroso falso che circola da diversi decenni. Ne parlò già nel dicembre 1978 un articolo della rivista glamour Penthause, divenuta una delle maggiori referenze della commissione Fioroni. Soprattutto entrò nella sfera giudiziaria quando il pm Amato raccolse questa voce durante le udienze del primo processo Moro. Successivamente se ne occupò la prima commissione Moro e la leggenda fu ripresa nella pagine del libro di Sergio Flamigni, La tela del ragno, pubblicato per la prima volta nel 1988 (Edizioni Associate p. 58-61), divenendo uno dei cavalli di battaglia della successiva pubblicistica dietrologica. Alla luce di questi precedenti, con buona pace del povero Fioroni, l’allarme tra gli ambienti vicini ai brigatisti sarebbe dovuto scattare diversi decenni prima.

Il presunto favoreggiamento
C’è un altro aspetto davvero singolare di questa vicenda che merita di essere sottolineato: nelle informative della polizia di prevenzione mi viene contestato di aver riportato nelle pagine del libro dedicate a via Fani solo parte di quanto contenuto nelle mail intercorse tra me e uno dei partecipanti al rapimento Moro. Ad avviso dei funzionari di polizia avrei trattenuto dei passaggi che avrebbero consentito di attenuare il ruolo di Alvaro Loiacono Baragiola nella vicenda. Affermazione davvero ardita perché oltre a non esser vera in punto di fatto, nel volume si ricostruisce nel dettaglio – come mai era avvenuto in precedenza – il ruolo avuto da “Otello” in via Fani, dal punto di vista giuridico (che poi è l’argomento dirimente in questa circostanza) l’eventuale difesa di una persona, per giunta condannata in via definitiva per quei fatti, non comporta alcun favoreggiamento penale. Altrimenti quanti scrittori o giornalisti che hanno scritto libri o preso le difese pubbliche di un imputato o di un condannato avrebbero dovuto essere accusati di favoreggiamento? Mi pare superfluo ricordare che l’intento del mio lavoro non era quello di difendere o condannare qualcuno ma ricostruire, il più fedelmente possibile, contesto e dinamica dei fatti.

«Chi controlla il passato controlla il futuro»
La vera questione che questa indagine solleva è l’inaccettabile intromissione del ministero dell’Interno e della procura della repubblica nel lavoro complicato e complesso di ricostruzione del passato. In una delle ultime relazioni dei servizi di sicurezza (2019) si puntava l’indice contro la ricerca storiografica indipendente sugli anni 70. A preoccupare gli apparati era la presenza di una lettura non omologata di quel periodo, etichettata come «propaganda», rispetto alle versioni storiografiche ufficiali. Il pericolo – scrivevano gli estensori del testo – è quello di «tramandare la memoria degli “anni di piombo” e dell’esperienza delle organizzazioni combattenti», un «impegno divulgativo, specie attraverso la testimonianza di militanti storici e detenuti “irriducibili» che – sempre secondo i Servizi – rischia di trovare consensi «nell’uditorio giovanile».

Siamo un Paese dove polizia e magistratura pretendono di decidere cosa un ricercatore debba scrivere in un libro
Nonostante il quasi mezzo secolo trascorso gli anni 70 fanno fatica a ritagliarsi un posto nella storiografia suscitando ancora grossi timori in settori di peso delle istituzioni che pretendono di mantenere una tutela etica su quel periodo, estendendo all’infinito la logica dell’emergenza antiterrorismo fino ad occupare il campo della conoscenza del nostro passato. Da alcuni anni è venuto meno il monopolio delle fonti sugli anni 70, un accesso più fluido alla documentazione (direttiva Prodi e Renzi) ha democratizzato la ricerca storica, in passato nelle mani della magistratura e delle commissioni parlamentari con la loro scia di consulenti e periti. Agli apparati, come ai dietrologi, tutto ciò non piace. Per decenni l’accesso riservato alle carte aveva messo nelle loro mani un formidabile strumento per mistificare la storia, costruire un discorso funzionale ai poteri, una narrazione ostile alla storia dal basso, che nega alla radice l’agire dei gruppi sociali fino a negare la capacità del soggetto di muoversi e pensare in piena autonomia, secondo interessi legati alla propria condizione sociale, politica, culturale, dando vita ad una sorta di nuovo negazionismo storiografico. Recintare lo spazio storiografico degli anni 70, stabilire chi può fare storia è l’obiettivo di fondo di questa inchiesta giudiziaria.

Chi sequestra un archivio, attacca la libertà di ricerca, l’appello firmato da ricercatori e cittadini contro l’inchiesta della procura di Roma e della polizia di prevenzione

L’appello lanciato da storici e ricercatori contro l’inchiesta condotta dal pm Eugenio Albamonte insieme alla Polizia di prevenzione nei miei confronti (leggi qui) ha superato le 600 firme. La raccolta continua e chi volesse ancora aderire lo può fare apponendo la propria firma nello spazio dedicato ai commenti o sui social.
Lo scorso 2 luglio il Tribunale del riesame rigettando la richiesta di dissequestro del mio archivio di materiali storici e della documentazione privata della mia famiglia ha corretto le imputazioni indicate dalla procura ritenendo più adeguata la contestazione dell’art. 262 cp, «Rivelazione di notizia di cui sia stata vietata la divulgazione», anziché l’art. 378 (favoreggiamento) e il 270 bis (associazione sovversiva con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordinamento costituzionale) – leggi qui.
Come in una sorta di caccia al tesoro, con la decisione del tribunale del riesame siamo ormai alla terzo tentativo di indicare un reato che, a quanto pare, magistrati ed inquirenti non sono ancora riusciti a trovare. Nel mese di dicembre 2020, infatti, l’indagine della Polizia di prevenzione ipotizzava la rivelazione del segreto d’ufficio, art. 326 cp, ipotesi investigativa poi lievitata nell’associazione sovversiva e nel favoreggiamento.
Nei giorni scorsi gli accertamenti tecnici non ripetibili disposti dal pubblico ministero, che si sarebbero dovuti tenere sul materiale sequestrato, sono stati sospesi a seguito della richiesta di incidente probatorio davanti al Gip avanzata dal mio avvocato, Francesco Romeo. L’incidente probatorio offre infatti maggiori garanzie processuali introducendo una figura terza, ovvero il Giudice per le indagini preliminari che sul piano formale riequilibra il ruolo della procura, fino ad ora dominus di ogni atto all’interno dell’inchiesta. Questa scelta processuale allunga i tempi, ma non vi era altra scelta davanti all’atteggiamento della Procura che ha persino mancato di notificare all’avvocato il provvedimento che autorizzava la riconsegna dell’archivio amministrativo della mia famiglia e quello medico e scolastico dei miei figli. Il Gip esaminerà le carte dopo la pausa estiva.

La procura di Roma ha accusato il collega Paolo Persichetti di «divulgazione di materiale riservato acquisito e/o elaborato dalla Commissione Parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio dell’on. Aldo Moro». Con un incredibile e ingiustificato spiegamento di forze (una pattuglia della Digos e altri agenti appartenenti alla Direzione centrale della Polizia di Prevenzione, e della Polizia postale) è stata eseguita la perquisizione del domicilio di Persichetti (durata 8 ore) con contestuale sequestro di telefoni cellulari e di ogni altro tipo di materiale informatico (computers, tablet, notebook, smartphone, hard-disk, pendrive, supporti magnetici, ottici e video, fotocamere e videocamere e zone di cloud storage). La polizia ha anche esaminato quantità di libri e portato via materiale archivistico raccolto dopo anni di paziente e faticosa ricerca.
L’accusa è di divulgazione di «materiale riservato». Il materiale sequestrato riguarda documenti raccolti da anni in diversi archivi pubblici e quindi previa autorizzazione ed accordo degli stessi per l’accesso), e, secondo la procura della Repubblica, si sarebbe concretizzata in due reati ben precisi: associazione sovversiva con finalità di terrorismo (ex art. 270 bis c. p.) e favoreggiamento (ex art. 378 c. p.) e il 270 bis. I reati ascritti avrebbero avuto inizio l’8 dicembre 2015.
Più in generale e più incredibilmente, sempre secondo la procura, da 5 anni sarebbe attiva in Italia un’organizzazione sovversiva di cui però non si conoscono ancora il nome, i programmi, i testi e proclami pubblici e soprattutto le azioni concrete (e violente, soprattutto, perché senza di quelle il 270 bis non potrebbe configurarsi). È legittimo, a questo punto, chiedersi se il richiamo al 270 bis sia stato un espediente per consentire un uso più agevolato di strumenti di indagine invasivi e intimidatori (pedinamenti, intercettazioni, perquisizioni e sequestri), in presenza di minori tutele per l’indagato.
Cosa in realtà abbia giustificato un tale imponente dispositivo poliziesco rimane un mistero. Ci verrebbe però da dire che non ci interessa saperlo. È fin troppo facile, infatti, giocare sulla biografia di Paolo Persichetti, coinvolto nella stagione della violenza politica in Italia e che per questa ha «saldato i conti con la giustizia» ed oggi è un ricercatore affermato che ha collaborato e collabora con diverse testate giornalistiche oltrechè autore, insieme a Marco Clementi ed Elisa Santalena, del volume : “Brigate Rosse: dalle fabbriche alla “Campagna di primavera”, presso la casa editrice DeriveApprodi.

Qui, però, non si tratta di personalizzare una causa, né di santificare nessuno, bensì di fare un passo in avanti e cogliere la grave portata generale di questo evento.
Questa vicenda è solo l’ultima di una serie che dimostra l’attacco alla libertà della ricerca storica (e non solo): basti pensare alla proposta di legge che vorrebbe introdurre il reato di negazionismo sulla questione delle Foibe, contro la quale diversi studiosi e molte associazioni si stanno esprimendo da diversi mesi. Ancora, è necessario ricordare le minacce allo storico Eric Gobetti, autore di un libro sempre sulle Foibe o l’incredibile vicenda della ricercatrice Roberta Chiroli, prima condannata e poi fortunatamente assolta per aver redatto una tesi sul movimento No-TAV.
Sugli anni ‘70 (e, aggiungiamo, su qualsiasi altro periodo “scomodo”), si può e si deve fare ricerca storica: si tratta di un importante periodo della nostra storia nazionale che va approcciato senza complessi e preconcetti, bensì con i molteplici strumenti che le discipline delle scienze storiche e sociali ci forniscono e con le svariate fonti (documentali, audiovisive, orali) che si hanno a disposizione, tanto negli archivi quanto nella società.

È venuto il momento di chiudere una “tradizione”, dominante nel discorso pubblico e politico, che considera quel periodo, ormai vecchio di 50 anni, come un tabù, intoccabile e innominabile, oppure narrabile solo secondo la vulgata mainstream.
Per questo, il sequestro di materiale d’archivio assume un carattere di enorme gravità.
Lo assume sempre, ma lo assume in particolare in questo caso.
Ad oggi, un collega ricercatore non ha più il suo archivio costruito con anni di paziente e duro lavoro, raccolto studiando i fondi presenti presso i seguenti istituti:

·       l’Archivio centrale dello Stato;

·       l’Archivio storico del Senato;

·       la Biblioteca della Camera dei deputati;

·       la Biblioteca si storia moderna e contemporanea;

·       l’Emeroteca di Stato;

·       l’Archivio della Corte d’Appello di Roma

A ciò va aggiunta la personale raccolta di documenti reperiti presso fonti aperte, portali on line istituzionali, testimonianze orali, esperienze di vita, percorsi biografici, e appunti, schemi, note e materiali con i quali stava preparando libri e progetti di ricerca, anche insieme ad altri studiosi e studiose.
Ripercorrete la lista: sono gli archivi che tanti e tante di noi conoscono e attorno ai quali gravitano.  Sono gli archivi presso i quali tante volte ci siamo incontrati e sui quali sono basati tanti libri che abbiamo nelle nostre biblioteche, soprattutto dopo le varie declassificazioni portate avanti negli ultimi anni, al netto dei tanti limiti del caso.
Cosa dobbiamo fare adesso? Cosa dovremmo fare?
Portare in salvo i nostri archivi, sperando che non ci vengano confiscati? 
Cambiare specialità e rientrare nei ranghi, studiando le cose “giuste”?§
Chiedere ai nostri dottorandi di andarci piano con la ricerca, che non si sa mai, come se già non fossero penalizzati abbastanza per il periodo di studi scelto?

Quel che succede al nostro collega Paolo Persichetti ci riguarda tutti da vicino: si tratta di un’intimidazione gravissima che deve allertarci tutti e tutte, in modo particolare chi lavora nella ricerca storica sugli anni ‘70, ma anche in tutta la ricerca.
Per questo pensiamo sia necessario manifestare una risposta civile ferma, forte e indignata contro quanto accaduto.
Una giusta battaglia di civiltà, perché pensiamo che il vero motivo per cui si insegna, si indaga, si narra la storia è perché questa fornisce un’identità, ci dice cosa siamo oggi e da dove proveniamo. Anche quando la provenienza è scomoda. Pensiamo che il passato ci strutturi come individui attivi e partecipanti in un contesto sociale, mentre l’assenza di memoria storica ci rende manipolabili.
Gli archivi devono essere dissequestrati, la storia non si imbavaglia!

Michael Lowy, Elisa Santalena, Angelo D’orsi, Marco Grispigni, Monica Galfré, Giovanni De Luna, Sergio Bianchi, Andrea Fumagalli, Isabelle Sommier, Andrea Fioretti, Marco Clementi, Barbara Biscotti, Antonello De Leo, Steve Wright, Ottone Ovidi, Giuseppe Aragno, PierVittorio Buffa, Francesca Chiarotto, Alessandro Barile, Christophe Mileschi, Elisabetta Sellaroli, Alessandro Stella, Luciano Villani, Ilenia Rossini, Mauro Ronco, Alberto Pantaloni, Guido Celli, Gabriella Piroli, Marie Thirion, Guillaume Guidon, Zapruder, Giacomo Tortorici, Gianremo Armeni, Antonio Lenzi, Sergio Bellavita, Michele Vollaro, Simonetta Stampatore, Laura Nanni, Marco Morra, Giovanna Gioli, Gigi Malabarba, Lorenzo Fazio, Vincenzo Sorella, Stefano Magni, Ugo Maria Tassinari, Associazione Bianca Guidetti Serra,, Chiara Lizzani, Michele D’Ambra, Valentina Lecca, Andrea Bellucci, Maria Grazia Meriggi, Andrea Lecca, Angela sollai, Simone Varriale, Cristina Saggioro, Manuele Gasperini, Davide Steccanella, Antonio Corso, Italo Di Sabato, Vincenzina Mercuri, Danilo Mariscalco, Edoardo Blotto, Paola Rivetti, Edoardo Todaro, Fabrizio Trullu, Barbara Meazzi, Ylenia Francesca Le Mura, Aldo Matzeu, Gennaro Gervasio, Stefano Lucarelli, Emanuela Nanni, Luca Iervolino, Ilona Wsz, Eleonora Forenza, Giorgio Del Vecchio, Stefania Mazzone, Emilio francesco Daniele, Cosimo De Benedictis, Michel Huysseune, Veronica Lacquaniti, Antonello Pizzaleo, Giuseppe Ponsetti, Nicola Erba Erba, Sandro Padula, Valentina Perniciaro, Ettore Bucci, Stefania Croci, Zaccarias Gigli, Andrea Colombo, Davide Ricco, Filippo Gianluca Callegaro, Cristina Cannizzo, Annarita Camerucci, Silvia De Bernardinis, Giacomo Pellegrini, Maria Pia Calemme, Erberto Rebora, Giuseppe Sergi, Walter Niolu, Angelo Tomassetti, Marina Salvatorelli, Marina Penasso, Monica Chiofi, Cristina Bagnato, Riccardo Quintili, Serenella Marini, Antonello Tiddia, Giancarla Rotondi, Salvatore Scuderi, Lidia Nucera, Gianluca Ricciato, Rosa Colella, Daniela Bracco, Elisa Giampieri, Luca Rafanelli, Daniela Valdiserra, Maria Cristina D’Angiolini, Lorenzo Misuraca, Laura Fresu, Melania Del Santo, Diego Ruggero, Alessandra de Luca, Angelica augusta Martini, Pino Casamassima, Francesca Valagussa, Marzocchi Silvana, Ivanka Gasbarrini, Gemma Busana, Susana Roitman, Miki De Benedictis, Giampiero Fabiani, Riccardo Tomassetti, Elena Storti, Cristina Cecchini, Mimmo Sambuco, Cristina Accornero, Nadia Bagni, Tito Faraci, Mattia Gallo, Giovanni Scognamiglio, Isa a, Gaetano Musto, Michela Mari, Gaia Martina Grimaldi, Maria Ricciardi, Stefano di Iorio, Anna Lucia Tomelleri, Tanja Golisano, Francesco Schiro, Chiara Quargnolo, Isa Salis, Sabrina Pusceddu, Linda Bargellini, Francesco costa, Santa D’alio, Lorenzo Alberti, Massimo, Cicchinelli, Claudio Moratto, Claudio Serafini, Laurence Bourguignon, Andrea Mencarelli, Cesare Cavallari, Maria Orsola Chiattella, Franco Barbero, Emilio Bagnoli, Annalisa Corno, Elio Limberti, Romilda De Santis, Diego Pellizzari, Silvia Di Fonzo, Angelo Guerriero, Claudio Vecchiola, Roberto Evangelista, Giulio Petrilli, Roberta Ciribilli, Alberto di Vincenzo, Valentina Magnanti, Angela Di leo, Diana di Lollo, Anna Maria Molinari, Remo Pancelli, Irène Bonnaud, Caterina Marassi, Luigina Dorigo, Stefano Chiesa, Donatella Tirelli, Elena Orsini, Giuseppe Tiano, Paolo Favarin, Riccardo De Angelis, Annalisa Capriotti, Susanna Bernoldi, Claudia Pinelli, Valerio Minnella, Elvira Maria Guenzi, Dario Alserio, Luca Nigro, Mariarosaria La Porta, Sandra Dolente, Giulio De Leo, Umberto Spallotta, Monica Maglia, Nicol Klatt, Dario Furnari, Amelia Zarrella, Maria Enrica Pennello, Andrea Fogli, Giovanni Russo, Christian Di Stefano, Andrea De Vito, Usb Pisa, Marinella Fiume, Stefano du Bois, Antonio Vicente, Carrillo Paños, Sandra Berardi, Maurella Carbone, Diego Robotti, Cristina Campanile, Pierpaolo Ascari, Giovanni Di Leo, Diana Cavaliere, Manuela Anna Margherita Anselmo, Lorenzo Villani, Alfredo Toppi, Giovanni Monti, Alfredo Toppi, Graziano Bergonzini, Massimo Luciani, Marco Mais, Biagio Barbaro Benedetta Rossini, Gaia Dall’Ara, Laura Celano, Riccardo Pagliarini, Vittorio Oratino, Giorgio Trinchero, Michele Armando Carbone, Paolo Ciaravino, Francesco Marchi, Cecilia Gnocchi, Martina Di Pasquale, Manuela Di Giacomo, Maria luisa Renzi, Chiara Cogoni, Francesco Di Dato, Maria Raffaella Naitza, Nico Vox, Valerio Guizzardi, Alessio Caperna, Braulio Rojas, Marco Mucciarelli, Diego D’Amario, Rossana Tidei, Danilo Sidari, Valeria Sanzone, Rosella Roselli, Federica Bordoni, Titti Mazzacane, Monica Quaresima, Stefania Guastella, Antonella Coloru, Maurizia Nichelatti, Gabriele Donato, Maria Zampini, Silvia Longo, Roberto Chiarelli, Marina Grulovic, Germana Pennica, Claudia Zudini, Franck Gaudichaud, Leonardo Casalino, Olivier Kraif, Giovanni Croce, Marco Noris, Giuseppe Leo, Anna Maria Romeo, , Rossana Meloni, Antonio Andreotti, Domenico Tangolo, Nereo Santella, Irene Galuppo, Antonia Cascio, Gabriele Giraudo, Matteo Molinaro, IIaria Bracaglia, Marianna Melis, Filippo Bozzano, Ernesto Nieri, Valentine Pillet, Pier Lisi, Maurizio Milanese, Francesco Giordano, Sergio Falcone, Danilo Maramotti, Francesco Lembo, Isabella Cellerino, Tiberio Crivellaro, Francesco Russo, Noémie de Grenier, Paolo Morpurgo, Elisa Romani, Giovanna Russo, Valeria Forte, Jacopo Ricciardi, Maria Belladonna, Anna Cabras, Barbara Bernardini, Martina Battaglia, Rosario Maria Romeo, Raffaele Di Francia, Catherine Carpentier, Maddalena Tiburzio, Lorenzo Brigida, Luigia De Biasi, Valentina Donati, Brunella Bartolini, Nastasia Tennant, Maria Teresa Catania, Claudio Venza, Nicolas Kìuzik, Silvia Boverini, Costanza Curro’, Christiane Vollaire, Mirco Di Sandro, Stefano Santaniello, Gianfranco Santacaterina, Franco Ventriglia, Enzo Bistoni, Valentina Mitidieri, Tania Maria Preste, Caterina Soprana, Giancarlo Scotoni, David Gigli, Mariangela Sacchi, William Gambetta, Nadia Menengee, Vincenzo Gargano, Maurizio Conte, Beppe Battaglia, Emilio Prosperi, Paola Caruso, Natalina Farris, Giulio Zanchi, Vania Borsetti, Samantha Pescari, Maya Alexandra Seppecher, Olivier Le Trocquer, Giovanni Consorti, Roberto Scorza, Agnese Forte, Carmela Maddalena, Michela Forte, Gianfranco Criscenti, Tiziana Leoni, Alessandra Cecchi, Graziella Mascheroni, Fiorenzo Fedeli, Primo Dorigo, Agata Castello, Lorenzo Mizzi, Uberto Crivelli, Pasquale Piscitelli, Francesca de Rossi, Leonardo Pacetti, Roberto Budini Gattai, Roberta Gaeta, Sandra Lombardi, Cristina Volpe, Salvatore Francesco (detto Totò) Caggese, Emilia Andreou, Patrizia Togna, Christian Drouet, Isabelle Parion Rosa Cristina Lamberti Fresa, Irène Villa, Elena Della Pietra, Nicola Pannelli, Fausto Carotti, Riccardo Silva, Claudia Lai, Emma Contini, Fabrizio Portaluri, Sara Cassai, Giovanna Cilento, Caterina Arfè, Barbara Ragone, Filippo Kalomedis, Leo Donnarumma, Brianna Cordell, Marco Bartoli, Roberta D’andrea, Franco Ferrara, Luigina Creta, Alessandro Pallassini, Marco Pellegrino, Antonio Grilli, Xavier Lambert, Raffaele Cirone, Antonella Beccaria, Labey Marion, M.Elena Tomassini, Paola Di Paolo, Pierre Stambul, Barbara Croce, Vincenzo Pallara, Giacomo Mattiello, Giulia Leone, Mariela Ortiz, Igina Ierardi, Riccardo Rossi, Fernanda Filippi, Sandro Turdo, Stefano Gallo, Claudia Santoro, Daniela Bandini, Silvia Capata, Rosa Maria De Cambourg, Katja Besseghini, Luigi Lorusso, Donatella Quattrone, Francesco Cirillo, Alessia Peca, Luciana Capata, Mirta Mattina, Paola Lanteri, Gian Luca Pittavino, Francesca Tuscano, Alessandro D’Ansembourg, Elisabetta Faffuzzi, Mario Salvatore Gravina, Annalena Di Giovanni, Francesco Comisi, Maria Grazia Prudenzano, Sabina Paladini, Franco Barracchia, Carla Dovini, Viviana Duca, Martina La Stella, Sabatina Ragucci, Valentina Spera, Cinzia Cavini, Mauro Nicolicchia, Annalisa Pannarale, Fabiola Schneider Graziosi, Vittorio Morfino, Ivan Bianchini, Stefano Pasetto, Tania La Tella, Roberto D’Angiò, Giuseppe Pugliese, Daniela Micheli, Claudia De Angelis, Simona Musolino, Stefania Zuccari, Francesca Usala, Rossana Canfarini, Manueka Tedeschi, Francesca Lombardozzi, Daniela Usala, Anella Cerolla, Gabriella Frangiotta, Marianna Rosa, Anna Maria Costa, Luigia Mangili, Claude Pourcher, Maria Mazzarella, Chiara Di Croce, Carla Pastori, Simonetta Facioni, Mariateresa Salvi, Lara Garlaschelli, Lina Sortino, Ivan Romanò, Alberto Prunetti, Gianluca Andreozzi, Carmela Petrone, Giovanna Perretti, Chiara Cerruti, Mariamargherita Scotti, Argia Simone, Marina Bosco, Stefano Fiorin, Loretta Bertolotti, Raoul Villano, Claudio Tribuzi, Michela Mioni, Silvana Miradoli, Valeria Mercandino, Alejandro Roberto Pannocchia, Simone Cristini, Patrick Carre, Mathilde Epifanie, Kevin Kouakou, Coeli Gianluca, Agata Creanza, Marc Damestoy, Sonia Doronzo, Elisabetta Martinazzoli, Fabienne Mergaux, Jean François Wolff, Claudio Edgardo Palombella, Valeria Fiore, Alessia Stelitano, Mario Bucci, Marie Contaux, Antonino Ansaldo Patti, Cavarra Simona, Mario Orabona,Arthur Barbaras, Elena Gaetti, Jean Courtiou, Tea Cernigoi, Ambra Floris, Catherine Bolly, Rosalba Ciranni, Luisa Gaetti, Gerardina Vavala’, Antonio Scalia, Balzer Shimano, Pino Pannuti, Lorenzo Dossi, Armelle Girinon, Clara Mogno, Marco Codebo, Giorgio Casiello, Ornella Beltramme, Daniele Lauri, Flavia Fasano, Danielle Mainfray, Luciana Storri, Rocco Lerose, Patrizia Pisanu, Marco Sozzi Sozzi, Paola di Michele, Luigi Flagellin, Rachele Colella, Maurizio Vito, Teresa Mecca, Giuseppe Giannini, Giulia Pezzella, Umberto Spallotta, Alina Rosini, Rita Fiori, Luigi Casinelli, Clemente Manzo, Eugenia Magnaghi, Maria Mucci, Marco Bersani, Elena Guaraglia, Francesco Paolo Caputo, Antonio Di Giuda, Davide Rompietti, Italo Poma, Diego Graziola, Francesca Figari, Alessandro Lentini, Marco della Rocca, Adeline Picaud, Oriana Cartaregia, Christian Tarting, Olivier Rodier, Florence Rigollet, Jean-Marc Bernard, Modesta Suárez, Danièle Restoin, Serge Martin, Patrice Petit, Henri Raynaud, Francesca Cogliati Dezza, Paolo Boido, Fabia Andreoli, Isabelle Krzywkowski, Germain Coudert, Pascale Carpentier, Francesca Pulice, Francesca Fortuzzi, Lucio Terracciano, Sauthier Françoise, Claude Guillon, Mila Milanesi, Giorgio Frau, Eric Poirier, Michel Mosca, Manuela Stella, Anne Marcadelli, Robert Chassin, Ottone Ovidi, Giulia Betti, Dominique Rebeix, Alessandra Marigo, Delphine Moritz, Chiara Birattari, Christine Maynard, Gabriella Spada, Daniela Antonelli, Marie Christine Laporte, Sabrina Lanzi, Jean-Pierre Olivier, Auzou Martine, Patrizia Cuonzo, Anna Borini, Gian Luigi Longo, Francesco Montanari, Christian Larose, Andrea Bonzi, Marco Gabellini, Jean-Marie Viguie, Luigi Rotili, Anna Cepollaro,Serena Rampietti, Franco Piersanti, Carlo Premoselli, Giancarlo Calidori, Anna Di Vittorio, Gianluca Collini, Marco F. Martirava, Giovanni Savino, Guido Stori, Ivano Bisson, Marina Mini, Angelo Caforio, Michele Mikis Mavropulos, Giovanni Spreafico, Andrea Benati, Livio Milan, Pietro Terzan, Umberto Passigatti, Eva Mantelli, Pier Paolo Lisi, Flavio Guidi, Mimì Burzo, Giorgia Rocca, Chiara Siano, Fausto Giudice, Nicola Guarneri, Mario Macaluso, Oberdan Cappa, Luca Donadelli, AnnaMaria Alfonsi, Gioele Giuseppe Talami, Nicola Lofoco, Giancarlo Mammarella, Jaime Vigliano Girando, Michele Pontolillo, Fabia Andreoli, Sisto Bragalone, Stefano Bonacina, Stefano Di mitrio, Rita Prastigo

La raccolta di firme è ancora aperta, potete aderire lasciando la vostra firma qui sotto!

Lo storico Marco Clementi, «Il sequestro dell’archivio di Paolo Persichetti è un attacco al suo lavoro di ricerca sugli anni 70»

Quando il terremoto distrusse Amatrice e gli altri comuni vicini ero lì con la mia famiglia. Paolo Persichetti e la sua erano partiti da qualche giorno e quella mattina avremmo dovuto incontrarci in Umbria. Stavamo lavorando a un libro sul caso Moro e più in generale sugli anni della lotta armata in Italia assieme alla prof.ssa Elisa Santalena, che vive in Francia, e anche durante il periodo estivo ci si incontrava per consultarci. Paolo aveva fatto un lavoro egregio in Archivio di Stato, a Roma, quartiere Eur, dove era stata depositata una mole enorme di documentazione proveniente dalla PS, dai carabinieri, dai servizi (direttive Prodi e Renzi), passando intere settimane a leggere, ordinare e creare un suo inventario di carte che era il primo studioso in Italia a vedere.
Il mio archivio, che contiene documenti provenienti un po’ da tutto il mondo e in molte lingue straniere, si trovava a Capricchia, la frazione di Amatrice da dove è originario mio padre, mentre mia nonna era di Accumoli, tanto per non farci mancare nulla quella notte. Saputo della tragedia, Paolo corse con un amico. La casa, che avevamo ristrutturato da pochi anni, aveva tenuto. Entrammo e con calma, nei giorni successivi, nei momenti in cui non dovevamo provvedere all’ennesima emergenza, mettemmo in salvo l’archivio e circa mille libri, che avevo portato per aprire una biblioteca in paese. Pensavo, all’epoca, che la comunità dove ero nato meritasse un luogo di cultura, sebbene fossero rimasti in pochi a vivere stabilmente tra i Monti della Laga. E lo pensava anche Paolo, per quella che è ormai diventata la sua comunità di adozione.
Di adozione sua e della sua famiglia, con il piccolo Sirio, un bambino che adesso tutti conoscono come il “capo” dei Tetrabondi, un bambino con una forza e di una intelligenza rare, che sta superando ogni difficoltà che la vita gli ha posto di fronte fin dal ventesimo giorno dalla nascita grazie alle sue qualità e al lavoro instancabile dei suoi genitori.
Il dott. Persichetti è un grande papà. Poco mi importa che sia un docente mancato in Francia a causa della sua estradizione e che abbia passato anni in carcere. Resta tra i migliori ricercatori che abbia mai incontrato in quella che, purtroppo, può oramai definirsi una lunga carriera. Chi mi conosce lo sa: ne stimo pochi, con ancora meno parlo. Paolo Persichetti è un uomo colto, acuto, meticoloso (molto più di me), capace di ragionare da storico, politologo e sociologo (molto meglio di me), instancabile lettore di lavori altrui, con una straordinaria capacità di giudizio critico e in grado di tornare sui propri errori. Il suo italiano, poi, è tra i migliori sulla piazza storica. È un cercatore di risposte a domande storicamente fondate e sarebbe in grado di tenere un ottimo corso sugli anni Sessanta e Settanta in qualunque università del mondo.
Qualcuno ha parlato, per la perquisizione della sua casa avvenuta l’8 giugno 2021, di attacco alla ricerca storica. Mica gli storici ufficiali, quelli delle organizzazioni scientifiche e dell’accademia. Quelle e quelli credo non diranno una parola in merito. Li conosco e non mi faccio illusioni. Paolo non è considerato un pari. Tra l’altro la ricerca storica non è una persona. Anzi, non so bene proprio di cosa si tratti. Non so cosa sia la storia, non so cosa sia il passato, il presente, un fatto, un avvenimento. Provate a chiederlo a decine di storiche e di storici. Ognuno darà una risposta differente, spesso vaga, a volte incomprensibile. La questione, allora, riguarda le ricerche proprio del dott. Persichetti. Le sue ricerche, non quelle di chiunque altro. Quelle di uno dei migliori, se non il migliore, studioso del caso Moro. In grado di aprire le contraddizioni e stanare le dietrologie basate sul nulla, di mettere in fila le deduzioni che diventano per miracolo “realtà” e di porre infine il quesito dei quesiti in maniera chiara: se si chiede verità ancora oggi, dopo 40 anni, i processi che hanno condannato decine di persone all’ergastolo o a centinaia di anni di carcere, che cosa hanno detto?
Come se la verità fosse un punto fermo in qualche parte del cosmo e servissero solo le chiavi giuste per aprire la porta che la custodisce. Come se la presenza, ingombrante, di storico o storica non fosse determinante nel maneggio personale e soggettivo delle carte. Come se il soffio che regolarmente passiamo sulla polvere del passato, non scoprisse il nulla che oggi resta e non ci chiedesse, a noi che ci assumiamo la responsabilità di raccontare, di dire esclusivamente la nostra. La verità storica non esiste. Esistono gli uomini e le donne e le loro opere. Paolo è uno di loro. Nelle sue carte e nei computer gli inquirenti troveranno risposte storiografiche solide, ben strutturate, chiare. Troveranno il riflesso di quello che ho potuto osservare in tutti gli anni nei quali abbiamo lavorato insieme e anche se da tempo ho scelto di non occuparmi più di di lotta armata in maniera professionale, ci consultiamo, leggo ancora parte delle cose che scrive, continuo a essere una presenza nella sua vita di studioso, oltre che in quella privata. Credo di aver imparato da lui, come lui ha imparato da me. Ma è arrivato il momento che il dott. Persichetti sia riconosciuto non come un ex, ma per quello che è: un ottimo storico, il migliore sul caso Moro e la storia delle Br. Per distacco.

Le torture degli altri

Un reato a geometria variabile. Per la procura della repubblica di Roma c’è tortura solo se le sevizie avvengono oltre i confini nazionali. In Italia è semplice abuso d’autorità. Ecco la storia del doppio binario impiegato dalla magistratura inquirente di fronte al caso dell’uruguaiano Jorge Nestor Fernandez Troccoli, ex capitano della marina uruguayana e ex capo del Fusna (servizi segreti della marina militare), messo sotto accusa dal pubblico ministero Giancarlo Capaldo per le sue responsabilità nella tortura e successiva scomparsa di sei cittadini italo-uruguayani militanti antidittatura, avvenuta nel 1977, e del funzionario dell’ucigos Nicola Ciocia che nel maggio 1978 torturò Enrico Triaca (episodio sancito in via definitiva da una sentenza della corte d’appello di Perugia) e nel 1982 decine di altri arrestati per appartenenza alle Brigate rosse

di Francesco Romeo
Il Garantista 10 dicembre 2014

Troccoli

Jorge Nestor Fernandez Troccoli

Il reato di tortura nel nostro codice penale non c’è, non ha ancora trovato posto. I casi di tortura, invece, ci sono da sempre.
Alla Procura di Roma, sono convinti che gli episodi di tortura siano tali solo quando riguardano fatti che accadono o sono accaduti al di fuori dei nostri confini: si sa, noi italiani siamo brava gente.
Capita, così, che la procura capitolina abbia chiesto il rinvio a giudizio del cittadino uruguaiano Nestor Troccoli accusato di aver commesso negli anni 70’ diversi omicidi di militanti di organizzazioni di opposizione politica alle giunte militari argentina ed uruguaiana e di sequestro di persona a scopo di estorsione per avere arrestato, senza alcun provvedimento dell’autorità legittima, un numero indeterminato di persone per i loro presunti rapporti con queste organizzazioni e per averle sottoposte a detenzione illegale e tortura, al fine di estorcere loro indicazioni sull’identità di altri partecipanti alle citate organizzazioni, sui nomi di battaglia, sulla localizzazione e sulla partecipazione degli stessi a presunte azioni sovversive. In assenza del reato di tortura si è contestato, comunque, un reato gravissimo e, si è detto chiaramente che la tortura era finalizzata all’estorsione di informazioni: nomina sunt essentia rerum.

Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, di spalle dietro Francesco Cossiga

Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, di spalle dietro Francesco Cossiga

A Perugia, lo scorso anno la Corte di Appello di quella città ha pronunciato una sentenza, passata in giudicato, con la quale ha revocato la condanna per calunnia nei confronti di Enrico Triaca, militante delle Brigate rosse, tratto in arresto pochi giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro.
Enrico Triaca, dopo essere stato arrestato era finito nelle mani di una squadra “coperta” della polizia italiana, denominata “i cinque dell’ave maria” e sottoposto alla tortura del waterboarding (allora chiamata “algerina”) per ottenere informazioni su altri componenti l’organizzazione armata; un mese dopo l’arresto, Triaca aveva denunciato al magistrato di essere stato torturato ed aveva ritrattato le dichiarazioni rese; per tutta risposta fu tratto a giudizio per direttissima per il reato di calunnia (caso unico nella storia processualpenalistica italiana) e condannato. Seguendo il filo nero costituito dalla pubblicazione di libri, servizi televisivi ed interviste giornalistiche si è individuato il dirigente di quella struttura della polizia italiana soprannominato “dottor de tormentis” e, si è dimostrato che era stato lui a dirigere il waterboarding praticato su Enrico Triaca.
La Corte di Appello di Perugia ha accertato che quella squadra della polizia capitanata dal dottor de tormentis, utilizzò la tortura nel caso di Enrico Triaca ed anche in altre occasioni ed ha trasmesso gli atti alla procura di Roma per valutare quali reati emergessero a carico del dott. de tormentis, al secolo Nicola Ciocia, segnalando che anche se fosse maturata la prescrizione, il Ciocia vi avrebbe potuto rinunciare.
Alla procura di Roma, dopo aver letto la sentenza della Corte di Appello di Perugia, hanno pensato che, tutto sommato, il waterboarding quando viene praticato all’interno dei confini nazionali, non rientra nell’ambito della tortura e, anzi, nemmeno la si deve nominare. Così, nei confronti di Ciocia è stata formulata l’accusa di abuso d’autorità sulle persone arrestate art. 608 del codice penale per aver: “sottoposto a misure di rigore non consentite dalla legge una persona arrestata” così recita la norma (Triaca era stato sottratto ai poliziotti che lo avevano arrestato, dalla squadra di de tormentis). Il “waterboarding”, dunque, è una misura di rigore tutta italiana, mica tortura. Ciocia non ha rinunciato alla prescrizione ed il procedimento si è avviato sul binario procedurale che lo condurrà in archivio.
Balza agli occhi l’asimmetria della procura capitolina nel trattamento riservato ai due casi di tortura e, non perché Troccoli forse sarà giudicato (per gli omicidi, non per i sequestri di persona prescritti) e, Ciocia non lo sarà, ma per quel riflesso, quasi pavloviano, per quale ci siamo indignati e, ci indigniamo ancora per il waterboarding a Guantanamo e per le torture ad Abu Grahib, ma chiudiamo gli occhi e giriamo la testa dall’altra parte se le stesse cose accadono a casa nostra, non riusciamo nemmeno a nominarle: si sa, noi italiani siamo brava gente, del reato di tortura non ce n’è bisogno.

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