L’indulto da sicurezza, il carcere solo insicurezza

I dati sulla recidiva per chi ha usufruito dell’indulto resi noti dall’associazione a Buon diritto. Non servono nuove carceri ma ridurre l’incarcerazione. Amnistia, indulto e abolizione delle leggi criminogene come la Bossi-Fini, Fini-Giovannardi, ex Cirielli e pacchetto sicurezza Maroni

Paolo Persichetti

Liberazione
15 luglio 2009

Dopo tre anni i dati sull’indulto parlano chiaro e smentiscono la gigantesca campagna di disinformazione e deformazione della realtà costruita dai media e da buona parte di quel mondo politico (di destra come di sinistra) che votò in parlamento il provvedimento di clemenza per poi subito dopo nascondere la mano, fatta eccezione per le diverse anime di Rifondazione, che pure dovette pagare pegno con molti suoi sostenitori (Liberazione venne sepolta dalle proteste di molti lettori accecati dal giustizialismo dipietrista) e i Radicali. L’associazione A buon diritto, finanziatrice della ricerca, ha diffuso ieri nel corso di una conferenza stampa le ultime cifre aggiornate al 30 giugno 2009.

L'infame campagna goebbelsiana contro l'indulto

L'infame campagna goebbelsiana contro l'indulto

Il dato che emerge è eloquente. Dietro ogni fatto di cronaca nera, d’episodio efferato o allarme sociale, la menzogna dice che c’è un indultato. La realtà, invece, racconta cose molto diverse: per chi ha usufruito dello sconto di pena di tre anni il tasso di recidiva, ovvero la reiterazione del reato, è solo del 28,45%. Tra quelli che invece hanno scontato la pena per intero, il tasso di recidiva s’impenna e raggiunge il 68%. Gli indultati che tornano a delinquere sono meno della metà di quelli che non hanno avuto sconti. Non solo, ma la propensione a delinquere cala ancora di più tra i cittadini stranieri, solo il 21,36% rispetto al 31,9% degli italiani. A confermare questa tendenza c’è un ulteriore dato: la reiterazione del reato precipita (appena il 21,78%) tra chi accede a misure restrittive diverse dalla detenzione, sia che si tratti della fase antecedente al processo che durante l’esecuzione pena. Queste cifre, che andrebbero quotidianamente sbattute in faccia a gente come Di Pietro, Gasparri, La Russa, Cofferati e Calderoli ogni volta che aprono bocca, dicono una cosa molto semplice: il carcere è un fallimento e la certezza della pena equivale a una matematica reiterazione del reato. Altrimenti detto: più carcere e pene severe incrementano la propensione al crimine e rendono la società più insicura. Non si tratta di buonismo spicciolo, ma del fatto che provvedimenti di clemenza come l’indulto, o la tanto demonizzata amnistia, quando vengono varati sono sempre accompagnati da misure dissuasive. Clausole che vincolano il beneficiario al rispetto della legge, per un periodo in genere non minore ai cinque anni, pena la perdita dello sconto ottenuto e l’immediato ritorno in carcere. Questo tipo di dissuasione “non costrittiva” assume una valenza sociale molto più proficua delle mura del carcere, e facilita anche quel legame sociale che la reclusione distrugge, riducendo la carica di frustrazione, risentimento e rivalsa sociale che spesso stanno dietro la recidiva dopo anni di vita carceraria. Senza l’indulto di tre anni fa oggi la situazione sarebbe ancora più catastrofica. Nelle carceri si troverebbero già oltre 70 mila rinchiusi. L’effetto deflattivo della clemenza è stato ridotto dal mancato varo parallelo di un’amnistia che avrebbe anche alleviato il lavoro dei tribunali. Nonostante l’evidenza di queste cifre, il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha ribadito, nel corso di un convegno dal titolo più che significativo, “Più carcere, più sicurezza”, di aver «escluso ulteriori provvedimenti d’indulto e di amnistia» ma di aver scelto al loro posto «di costruire nuove carceri che saranno pronte nel 2012». Una bufala, come ricorda Patrizio Gonnella dell’associazione Antigone, «Avevano promesso 17 mila posti letto in più ma ancora non si è visto nulla. Per costruire un carcere servono in media 8 anni, ma con questa progressione nel 2012 saremo a 100 mila detenuti e le carceri progettate saranno già insufficienti».
Il governo gioca con il fuoco. C’è un solo modo per trovare una soluzione al problema: oltre al varo di un nuovo indulto e di un’amnistia, abolire quelle leggi che producono carcere, come la Bossi-Fini, la Fini-Giovannardi, l’ex-Cirielli e l’ultimo pacchetto sicurezza.

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L’amnistia Togliatti

Libri – L’Amnistia Togliatti, Mimmo Franzinelli, Mondadori, Milano 2006, pp. 392, € 19

Paolo Persichetti
Liberazione
Giovedì 27 aprile 2006

L’ultimo lavoro di Mimmo Franzinelli, L’Amnistia Togliatti, un saggio che ricostruisce la storia del decreto presidenziale di clemenza predisposto dal guardasigilli Palmiro Togliatti, sembra dover riaccendere a distanza di sessant’anni le stesse 8804553340 polemiche che l’accolsero all’indomani della sua emanazione, in occasione della proclamazione della Repubblica, il 22 giugno 1946. In questa direzione, infatti, è rivolta la recensione che lo storico Sergio Luzzato ha scritto sul Corriere della Sera del 19 aprile scorso. Una vera requisitoria contro l’uomo dalla stilografica con l’inchiostro verde, accusato di aver spalancato le porte delle carceri a fascisti e saloini imprigionati subito dopo la Liberazione. Colpevole ancora una volta della sua «proverbiale doppiezza» per aver disconosciuto la responsabilità di quella misura – come lui stesso scrisse – «giusta nelle intenzioni ma sbagliata nell’applicazione», a causa dell’uso politico che ne fece la Dc e dell’interpretazione distorta fornita dalla magistratura.
Non è così! Risponde Luzzato, «l’amnistia Togliatti fu una vergogna nazionale» perché nacque dal duplice intento di reclutare nuovi militanti tra le fila dei vinti e risparmiare conseguenze giudiziarie alle azioni delle forze partigiane. Non fu sempre Togliatti a definire «eccesso di nervosismo» la rabbia dei parenti delle vittime? Per questo, conclude: «il libro di Franzinelli va consigliato come la più istruttiva delle letture possibili per chi voglia sottrarsi a un discorso sull’amnistia che strizza l’occhio all’amnesia». Già, perché a ben vedere il vero obiettivo polemico non è tanto la clemenza del 1946, ma quella in discussione da un quindicennio sugli anni 70. Un provvedimento che se approvato, sostiene Luzzato, si trasformerebbe in una «pietra tombale sugli orrori condivisi della nostra guerra civile». L’intonazione polemica del recensore del Corriere, che da qualche tempo è esulcerato dalle incursioni storiche di alcuni giornalisti sugli anni della guerra civile e i primordi della Repubblica (si veda in proposito La crisi dell’antifascismo, Einaudi 2004), è tale che sembra non voler risparmiare nemmeno l’istituto stesso dell’amnistia, rappresentata come un evento immorale, un diniego di giustizia, una fuga dalle responsabilità, un misconoscimento della verità.

Due secoli di amnistie
Senza voler chiamare in causa l’antichità classica, ci basta sapere che l’Ottocento e il Novecento sono stati secoli di amnistie che hanno seguito, in modo spesso contraddittorio e parziale, rivolgimenti e traumatismi civili e politici. L’Italia post-unitaria è stata marcata dall’adozione ripetuta di misure di clemenza collettiva. Almeno 230 sono state quelle censite tra il 1861 e il 1943. Ben altre 6 amnistie politiche sono state varate fino al 1970. Da allora più nulla.
C’è chi ha proposto, come Stéphane Gacon (L’Amnistie, Seuil 2002), una classificazione dei suoi diversi modelli. Uno di questi sarebbe l’amnistia-perdono, caratteristica dei regimi autoritari, che spesso si presenta come un ambiguo atto di generosità, un gesto di forza vischiosa e paternalista, il più delle volte accompagnato dalla «umiliazione di una richiesta», lì dove il perdono ricambia la sottomissione. Provvedimenti che in genere presuppongono valutazioni soggettive del beneficiario e dispositivi premiali in cambio di una richiesta d’acquiescenza al potere. Si tratta di un perdono inquisitorio, una logica che ricorda molto da vicino i dispositivi premiali intrapresi in Italia, tra il 1979 e il 1987, come le ampie riduzioni di pena previste per i dissociati della lotta armata.
L’amnistia-rifondazione, invece, non chiede nulla in cambio ma interviene per riunificare un paese diviso, ricompattandone il corpo politico, come accadde, con le leggi aministiali del 1872 e del 1898, alla fine della guerra civile americana, o con l’amnistia della Comune di Parigi che gettò le basi della terza Repubblica francese.
C’è poi l’amnistia-riconciliazione, un modello che segue la fine dei periodi dittatoriali. Sembra essere il caso dell’Italia dell’immediato dopo guerra, della Francia dopo la fine della Repubblica collaborazionista di Vichy o della Spagna post-franchista. Questi provvedimenti, nella gran parte dei casi, sono ispirati da valutazioni d’opportunità, ragioni di forza maggiore motivate dal fatto che i regimi caduti hanno potuto contare su un vasto consenso sociale costruito negli anni del loro dominio. Circostanza che rende problematica un’epurazione politica troppo estesa.

L’amnistia del 1946
Nel caso dell’amnistia italiana del 1946, vi è poi un’ambivalenza tutta particolare: per un verso, essa corrisponde all’avvio della politica d’egemonia condotta dal Pci, che mira così a recuperare larghi settori di quel fascismo antiborghese, frondista e di sinistra, in coerenza con quella che era stata la sua analisi del fascismo, riassunta nella formula del «regime reazionario di massa». Una convinzione che aveva spinto il Partito comunista clandestino al velleitario appello verso i «fratelli in camicia nera» nel tentativo di arrivare ad infiltrare le corporazioni e le organizzazioni di massa della dittatura negli anni della sua massima popolarità. Nella relazione con la quale Togliatti accompagna l’amnistia del 46, si spiega che la nuova Italia repubblicana non può nascere incoraggiando «la tradizione medioevale della messa al bando», per questa ragione era necessario un atto di clemenza che mirasse a recuperare quelli che erano stati «travolti da passione politica, o ingannati da propaganda menzognera… giovani resi incapaci da venti anni di dittatura di distinguere il bene dal male». 97888045663801 Al tempo stesso però, come accade per le amnistie francesi del 1951 e del 1953, anch’esse accolte da furiose polemiche, di cui si ebbe testimonianza nel confronto tra Mauriac e Camus, l’applicazione concreta della clemenza viene influenzata dai nuovi scenari geopolitici scaturiti dalla fine del conflitto. La “guerra fredda” spinge i paesi occidentali a rompere il fronte resistenziale e recuperare buona parte del personale compromesso con i passati regimi, per poter garantire una continuità dell’apparato statale in funzione anticomunista. Dietro la «riconciliazione» non ci sono ireniche spinte morali alla concordia ma un cinico calcolo strategico. In previsione dello scontro, il centro-destra democristiano e la sinistra comunista cercano di rafforzarsi reclutando nel passato. In questo modo l’amnistia da luogo ad un singolare paradosso: essa non è più un’occasione per la ricomposizione del corpo politico ma un espediente che perpetua la divisione, seppur in forma nuova, alimentando quella guerra civile fredda che, dopo la parentesi consociativa degli anni 70, vedrà assumere, alla fine del 1989, i connotati di una «guerra civile legale». In realtà, alcuni regi decreti del 44 e del 45 avevano già introdotto alcune misure amnistiali che non tutelavano affatto le azioni della Resistenza armata. Ed è innanzitutto per sanare queste carenze che Togliatti vara un provvedimento molto più organico ed ampio, che estende il beneficio anche ai nemici sconfitti purché incolpati solo di delitti politici, lasciando al giudice il compito dell’accertamento dell’indole politica del reato. Il tutto in un’ottica, come poi spiegò Mario Bracci, uno dei 18 ministri del dicastero De Gasperi che approvarono il provvedimento, che accertasse «le responsabilità dei singoli», evitando la logica delle responsabilità storiche e collettive, che avrebbe finito per imporre l’emarginazione e la persecuzione indiscriminata e non quel «rapido avviamento del paese a condizioni di pace politica e sociale», auspicate dallo stesso Togliatti. E sarà proprio questo il punto dolente del suo provvedimento. Una sorprendente dimostrazione d’angelismo politico o forse, in realtà, di quella precoce volontà di costruire un rapporto privilegiato con la magistratura, ritenuta un vettore di progresso in ragione del mito riformatore dell’azione giudiziaria. Invece, dando prova di un accurato zelo persecutorio, i magistrati della Cassazione, in gran parte reduci del regime, grazie a capziose interpretazioni giurisprudenziali, rovesciarono completamente le intenzioni del legislatore, applicando una clemenza di massa nei confronti dei fascisti, ben 10.034 di loro vennero amnistiati, ed escludendo sistematicamente i Resistenti che si videro riconoscere il beneficio solo in 153 casi. Lo stesso governo dovette promulgare, tre mesi dopo, un decreto che introduceva il divieto di emettere mandati di cattura o revocava quelli già spiccati contro i partigiani (Santosuosso e Colao, Politici e Amnistia, Bertani 1986).
Il fallimento dell’amnistia Togliatti trova spiegazione, in realtà, nel mancato adeguamento statuale al mutamento di regime politico. Venne meno sul terreno giuridico-formale, come spiegò con esemplare lucidità Calamadrei: «lo stabile riconoscimento della nuova legalità» uscita dalla Resistenza. Quella discontinuità che rende «lecita» l’illegalità perché «vittoriosa» sull’assetto politico preesistente. Richiamandosi a Santi Romano, Calamandrei sosteneva che l’assenza di rottura giuridica impedì di trovare nello Stato nuovo, e non nelle leggi precedenti, la necessaria legittimità. Il risultato fu la sistematica depoliticizzazione delle azioni partigiane (come avvenuto anche nel corso degli anni 70-80), passate al vaglio del codice Rocco, concepito proprio per reprimere quel tipo d’inimicizia politica. Furono necessarie ancora tre amplissime amnistie nel 53, 56 e 66, per chiudere definitivamente il dopoguerra.

I mal di pancia di Luzzato: miseria della cultura postazionista
La tesi di Luzzato testimonia il singolare atteggiamento della cultura liberale che oscilla continuamente tra la denuncia del carattere «totalitario, terroristico e fazioso», dei comunisti, per cui da una parte sarebbe stato un crimine l’uccisione di Gentile, ma poi si rimprovera loro l’amnistia ai fascisti; per un verso si condannano le vendette del «triangolo rosso», ma poi si critica la politica di recupero dei giovani quadri frondisti del regime, recentemente ricordata dal libro di Mirella Serri (I Redenti. Gli intellettuali che vissero due volte. 1938-1948, Corbaccio, 2005). Di contro, a sinistra, ancora più meschino è il comportamento dei salvati di allora che, forse per far dimenticare di essere cresciuti negli asili dell’infamia, non hanno mai esitato a condannare i sommersi di oggi, opponendosi con ferocia perseveranza all’amnistia per gli anni 70.
L’amnistia Toglliatti appartiene a quel genere di clemenza che, intervenendo politicamente nell’immediatezza dei fatti, scommette sul futuro mettendo fine al rischio di un ciclo interminabile di rese dei conti. Per questo agisce come un «colpo di spugna», una sorta di oblio preventivo sulle colpe. Ma non è responsabilità di quell’amnistia, il clima più generale di rimozione e occultamento che investì, invece, le stragi più efferate dei nazi-fascisti, che di fatto si avvantaggiarono di una illegale amnistia di fatto, voluta dal potere politico in ragione dell’adesione italiana al Patto atlantico, come l’armadio della vergogna scoperto a Palazzo Cesi ha dimostrato. È inaccettabile, dunque, l’attacco all’istituto dell’amnistia e quella sorta di perverso bilanciamento della storia che Luzzato suggerisce: fare degli anni 70 il capro espiatorio del Novecento italiano per risarcire simbolicamente la mancata giustizia del dopoguerra. A differenza della clemenza preventiva del 46, l’amnistia per gli anni 70 interverrebbe in una situazione in cui la verità giudiziaria è stata già scritta e le pene ampiamente consumate, a distanza di oltre 30 anni dall’inizio del fenomeno e ben 18 anni dalla sua fine, quando in carcere vi sono ancora 132 detenuti per reati di sovversione e ben 119 latitanti all’estero (fonte Ministero della Giustizia aggiornata all’ottobre 2004), rinchiusi da un massimo di 28 anni ad un minimo di 18. Quale che sia il giudizio su quell’epoca, un dato ormai è certo: i militanti degli anni 70 hanno largamente scontato le loro pene, compreso il sovrasanzionamento dovuto alle leggi speciali dell’emergenza. Sono stati gli unici a pagare nella storia repubblicana. Si tratta ormai di chiudere simbolicamente un’epoca terminata da lunghi anni, e che alcuni settori della magistratura, degli apparati e del mondo politico, vorrebbero tenere artificiosamente ancora aperta per utilizzarla come una minaccia che ipotechi ogni presente e futuro di critica contro il potere.

Post scriptum
Quel che non è accettabile nella recensione di Luzzato è l’utilizzo della polemica contro l’amnistia Togliatti per attaccare, in realtà, l’ipotesi che un provvedimento del genere possa essere varato per il conflitto degli anni 70. Luzzato sembra quasi voler suggerire una sorta di perverso contrappasso: poiché ci fu clemenza contro i crimini fascisti è bene che ora i militanti della lotta armata degli anni 70 risarciscano simbolicamente anche quella mancata giustizia. Esiste una differenza sostanziale: nel giro di pochissimi anni (il maresciallo Graziani fu scarcerato nel 1953, accolto a braccia aperte da Andreotti), i fascisti furono tutti scarcerati. L’amnistia e l’indulto erano congeniati in modo tale che anche coloro che avevano subito condanne molto alte potessero uscire in libertà condizionale dopo 5 anni. Si trattò sostanzialmente di un’amnistia quasi preventiva. Mentre per i militanti della lotta armata dopo oltre 30 anni non si parla nemmeno più della opportunità di un provvedimento. L’amnistia la sta facendo il tempo.
Negli anni 90, uno degli argomenti in favore dell’indulto era quello di riportare l’entità delle pene ad una misura normale, togliendo il sovrasanzionamento dell’emergenza. Oggi, paradossalmente, non avrebbe più senso poiché la sanzione è stata largamente consumata.
La stessa cosa accadde in Francia. Non è vero in proposito quel che dice Luzzato. Anche se l’amnistia francese arrivò nel 1953, essa non fu esente dalle stesse polemiche che denunciavano una epurazione troppo lieve. Basti pensare alla vicenda Papon e Touvier! Per altro quel po’ di epurazione che avvenne Oltralpe fu essenzialmente un regolamento di conti a destra, tra gaulliani e petenisti.

Link
Politici e amnistia, tecniche di rinuncia alla pena per i reati politici dall’unità d’Italia ad oggi
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Dalla dottrina Mitterrand alla dottrina Pisanu
Una storia politica dell’amnistia

Amnistia per i militanti degli anni 70
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Vendetta giudiziaria o soluzione politica?
Il caso italiano: lo stato di eccezione giudiziario
Giorgio Agamben, Europe des libertes ou Europe des polices?
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Francesco Cossiga, “Vous étiez des ennemis politiques pas des criminels”
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Quella ferita aperta degli anni 70

Una storia politica dell’amnistia

Libri – Une histoire politique de l’amnistie, a cura di Sophie Wahnich Puf, Parigi, aprile 2007, 263 pp, 24 euro

Paolo Persichetti
Liberazione
Sabato 25 agosto 2007

Solo pochi decenni fa l’amnistia era considerata ancora una parola di sinistra. Nata con la democrazia ateniese, era parte del repertorio delle forze che si dicevano democratiche. Fin dalle origini aveva animato le battaglie di libertà del movimento operaio. Convogliava un’idea di società tollerante e progressiva, conteneva una domanda di giustizia moderatrice consapevole dell’importanza che il ricorso a strumenti di correzione politica della fermezza penale, ispirati a quella mitezza tratta dalle vecchie massime latine che richiamano prudenza ed equità nell’applicazione della legge, svolgeva una funzione riparatrice delle ingiustizie. 41jpad5dx5l_ss500_Ma alla fine del Novecento una drastica inversione di tendenza sospinge paesi e società civili occidentali a ripudiare questo strumento di soluzione dei conflitti. Ciò non è vero ovunque, basti pensare alla Gran Bretagna di Blair che, nell’ambito del processo di soluzione politica della questione nord-irlandese, ha amnistiato tutti i militanti coinvolti negli scontri armati. Anche se l’esperienza più innovatrice viene dal Sud Africa di Mandela che, ispirandosi ai principi della giustizia ricostruttiva, ha scartato la via penale tradizionale per istituire un criterio d’accertamento dei fatti in cambio di clemenza e risarcimento pubblico delle vittime. Operazione che però ha messo sullo steso piano la violenza istituzionale che appoggiava il sistema segregazionista e quella antistituzionale che lottava in armi contro l’apartheid. Ipotesi che terrorizzerebbe qualsiasi esponente, passato e presente, dello Stato italiano chiamato a dover rispondere delle stragi della strategia della tensione e delle centinaia di morti che hanno insanguinato la gestione dell’ordine pubblico nei primi decenni della repubblica, quando nessuno a Sinistra aveva ancora scelto la via della violenza. Tuttavia queste due esperienze restano episodi minoritari rispetto ad un diritto penale internazionale sempre più ostile alle istituzioni della clemenza. Proprio dal tentativo di trovare una risposta a questo discredito parte l’opera collettanea curata da Sophie Wahnich, storica e ricercatrice del Cnrs, Une histoire politique de l’amnistie. Il volume, frutto di una ricerca multidisciplinare avviata nel 2003 e condotta su scala comparativa tra diversi paesi europei, poggia sulla convinzione che ormai, date le interdipendenze, una soluzione amnistiale per le insorgenze politiche degli anni 70-80 possa essere trovata unicamente coinvolgendo i livelli istituzionali dell’Unione europea, attraverso nuove forme di clemenza sopranazionale. Storicamente le amnistie sono state sempre accompagnate da dispositivi di riscrittura della storia, spesso opposti tra loro: far dimenticare, accertare la verità o renderla illeggibile. Molto diversa è poi la natura delle clemenze che sanciscono forme d’impunità preventiva, tipiche dei poteri costituiti, come accaduto per le dittature militari sudamericane o per i colpi di spugna sui reati economico-finanziari. In questo caso l’amnistia ha aiutato l’oscuramento dei fatti. Altro significato hanno invece le clemenze che temperano, dopo decenni di carcere, le dure repressioni contro gli oppositori politici, ripristinando quando ormai gli eventi sono ampiamente accertati una situazione di normalità giudiziaria stravolta dalle misure d’eccezione. Ma tutte queste distinzioni scompaiono di fronte all’attuale tendenza a voler confondere qualunque amnistia con l’impunità. È questo l’atteggiamento tenuto in Italia da un ceto politico che ha tutto l’interesse a far dimenticare le proprie ascendenze riversando sui reprobi degli anni 70 le pagine più ingombranti del proprio Novecento. Una rimozione che impedendo la chiusura del decennio 70 riemerge continuamente sotto forma di spettri che agitano fobie, polemiche, grottesche imitazioni del passato, ciniche speculazioni delle agenzie repressive, col risultato di avvelenare lo spazio pubblico. Ma la regressione della clemenza ha altre ragioni ancora più strutturali che investono la mutazione dei sistemi politici occidentali insieme all’emergere impetuoso del paradigma vittimario. Le democrazie occidentali sono ben lontane dal costituire degli esempi di superamento dell’inimicizia politica. E ciò, anche in ragione di un’ideologia umanitaria che attorno al «criterio dell’inerme» ha perso ogni capacità di discernimento tra i crimini di lesa umanità universalmente riconosciuti, come tortura, schiavitù, genocidio, misfatti coloniali, o quell’orrorismo di cui ha recentemente scritto Adriana Cavarero (Feltrinelli 2007), e le infrazioni commesse da chi ha esercitato il diritto di resistenza. In realtà chi dice umanità vuole ingannare, metteva in guardia Proudhon. Il diritto penale umanitario (tragico ossimoro) è divenuto lo strumento di distinzione tra bene e male, tra barbaro e civilizzato, favorendo l’emergere di assoluti etico-morali che depoliticizzano e destoricizzano sistematicamente gli eventi, fino a smarrire la differenza che passa tra l’illegalità degli oppressi e quella dei poteri costituiti. Non stupisce allora che la retorica umanitaria sia diventata la nuova arma ideologica con la quale gli Stati hanno moltiplicato guerre e spogliato della loro veste politica le infrazioni commesse da chi si organizza contro l’oppressione, relegandole a mera fattispecie criminale. Ma non tutti gli assoluti servono per essere rispettati, così nulla impedisce di scendere a patti con i tagliatori di teste Talebani, o chi pratica lo sterminio suicida come Hamas, mentre era assolutamente vietato negoziare con le Br. In questo caso il criterio non è più l’umano e l’inumano ma l’omologia tra le entità statali costituite dell’Occidente e quelle in formazione degli islamisti, radicalmente opposte al demone della rivoluzione sociale. Ciò rende più comprensibile anche quel grande stupro di senso che ha portato ad accomunare in un’unica giornata, non certo per ragioni di pietas, il ricordo delle vittime delle stragi di Stato e quelle della lotta armata. Resta da capire dove collocare i morti ammazzati come Pinelli o le centinaia di manifestanti falciati, dal 1946 fino a Carlo Giuliani, dalle forze dell’ordine. Vicende storiche opposte e inconciliabili sono riassunte in un unico paradigma che nulla c’entra col dolore ma assolve unicamente il potere. Altro che ricerca della verità e tentativo di riconciliazione. Il Sud Africa è lontano e le vittime delle stragi muoiono una seconda volta. L’uso strumentale della figura della vittima è uno dei passaggi centrali di questo processo, a cui è dedicato un intero capitolo nel quale si spiega che il diritto alla riparazione simbolica dell’offeso è lentamente scivolato verso un potere di punire quantificato in base alla natura e all’entità della pena da infliggere e al riconoscimento di una capacità d’interdizione e ostracismo perpetuo sul corpo del reo. Questo processo di privatizzazione della giustizia trae la sua origine dalla convinzione che la liturgia del processo penale possa svolgere una funzione terapeutica. Il sistema giudiziario perde il suo ruolo di ricerca delle responsabilità per rivestire la funzione di riparazione psicologica della persona offesa. Una svolta culturale cui sembra aver contribuito la nozione di «stress post-traumatico» introdotta dalla psicologia clinica anglosassone dopo la guerra del Vietnam. Ma può un eventuale sentimento d’ingiustizia considerarsi una «ferita psicologica» sanabile per il mezzo di una condanna penale? In questa prospettiva la ricerca della verità giudiziaria non offre scampo. Essendo un momento necessario all’elaborazione del lutto, la dichiarazione di colpevolezza e l’ostracismo perpetuo restano l’unica soluzione accettabile perché il proscioglimento o la reintegrazione civile dell’accusato ostacolerebbe la guarigione mentale della vittima. L’uso strumentale della retorica vittimistica ha così legittimato il capovolgimento dell’onere della prova, il passaggio alla presunzione di colpevolezza, l’aggravamento delle sanzioni, la limitazione dei diritti dell’accusato e l’immoralità delle amnistie, fino al paradossale esercizio di un’etica selettiva che perde improvvisamente tutta la sua intransigenza di fronte a quella ragion di Stato che premia pentiti e dissociati.