Il sequestro Moro e quelle illusioni della memoria

Anticipazioni – Il Dubbio pubblica alcuni stralci del mio prossimo saggio “La polizia della Storia” che a partire dal sequestro del mio archivio di materiali storici (nonché documentazione dei miei figli e parte dell’archivio fotografico di mia moglie) affronta l’offensiva poliziesca e giudiziaria contro la ricerca storica indipendente. Nel volume sono raccolti una lunga serie di articoli e saggi sulla vicenda Moro, l’attività della Commisssione Moro 2 e la dietrologia

Daniele Zaccaria, Il Dubbio 27 novembre 2021

Vi ricordate il blitz della polizia nel paese di Gradoli durante i drammatici giorni del sequestro Moro? I blindati della celere, gli elicotteri, le unità cinofile, le perquisizioni “casa per casa”, “cantina per cantina”, gli sguardi attoniti degli abitanti del piccolo centro della Tuscia?
Immagini vivide, impresse nella memoria anche di chi scrive. Peccato che quel blitz tanto spettacolare quanto inutile non sia mai avvenuto e le forze dell’ordine non siano mai entrate a Gradoli per cercare il covo dove era prigioniero il presidente della Dc.
Una fake news come si dice oggi. Tutta la vicenda, poi era circondata da un fitto mistero; il nome di Gradoli emerge nella famosa seduta spiritica del 2 aprile 1978 tenuta da alcuni professori universitari tra cui Romano Prodi. Una boutade se non fosse che in via Gradoli a Roma ci fosse stata effettivamente una base delle Br che venne poi scoperta fortuitamente a causa di un guasto idraulico nell’appartamento.
«La comune convinzione che ci fu una perquisizione di massa nasce dalle immagini di un film di Giuseppe Ferrara sul rapimento Moro, apparso nel 1986, ben otto anni dopo i fatti. Fu proprio Ferrara a mettere in scena la perquisizione di fantasia i cui frames sono fissati nelle menti di molti, persino in quella del presidente della Commissione stragi che ribadì con forza questa sua convinzione: “Ne è stata data notizia su tutte le televisioni, serbo ancora un ricordo preciso, si vedevano gli uomini con il mitra che entravamo e perquisivano un intero paese”».
A raccontare con dovizia di particolari questa vera e propria “illusione di memoria” che ci ha colpiti tutti è Paolo Persichetti, ex membro dell’Unione dei Comunisti Combattenti (Br-Ucc), oggi storico e ricercatore che ha anticipato al Dubbio alcuni capitoli del suo prossimo lavoro “La polizia della Storia”, edito da Derive e Approdi.
Un’opera complessa di ricostruzione degli eventi come probabilmente nessuno aveva fatto prima, che si scontra inevitabilmente con i miraggi della percezione che offuscano fatti lontani nel tempo, a volte avvolgendoli in una densa cortina di fumo, altre volte operando scambi, sostituzioni, inversioni.
Lo storico rigoroso sa che i fatti non corrispondono alla memoria, e che attingere alle fonti seguendo una tesi da dimostrare a priori è uno degli errori più gravi che si possano commettere. Specialmente se la tesi è di natura politica.
La narrazione complottista che da oltre quarant’anni avvelena i pozzi e accompagna il sequestro Moro (senza mai aver fornito una prova concreta), adombrando fantomatiche infiltrazioni e manipolazioni da parte di altrettanto fantomatici poteri occulti che avrebbero eterodiretto i brigatisti ha contribuito non poco a traviare la nostra memoria.
Anche opere di scarso livello come i libri di Sergio Flamigni o pellicole fantasy come Piazza delle Cinque Lune di Renzo Martinelli (di cui Flamigni è stato consulente storico) pur nella loro inverosimiglianza hanno nutrito l’inconscio cospirazionista naqzionale. Che in Italia è una specie di disposizione permanente, un habitus per dirla con Pierre Bordieu.
L’allucinazione collettiva del blitz della polizia nel paese di Gradoli è solo un esempio di quanto sia difficile mettere a fuoco gli eventi, anche per chi agisce in buona fede e non ha interessi diretti nella vicenda. Peccato che questi bias cognitivi tracimino nella letteratura ufficiale, nelle aule di giustizia e nelle Commissioni parlamentari facendo a loro modo la “Storia”.
«Quando tra il 2014 e il 2015 ho iniziato il lavoro di ascolto delle fonti orali in parallelo alla raccolta dei documenti disponibili per la ricostruzione degli aspetti politici, logistici, e operativi del sequestro Moro ho scoperto che il memoriale Morucci e la ricostruzione effettuata in sede giudiziaria corrispondevano solo in parte a quanto realmente accaduto».
Secondo Persichetti le stesse “verità giudiziarie” sottoscritte dai giudici che hanno redatto la sentenza del Moro quater sono piene di approssimazioni, di piccoli grandi errori.
Ad esempio sempre secondo i giudici il primo trasbordo del prigioniero dalla Fiat 132 al furgone Fiat 850 sarebbe avvenuto in via Bitossi anziché piazza Madonna del Cenacolo, il che contrasta in modo flagrante con le testimonianze di tutti i membri del commando, da Valerio Morucci a Mario Moretti, a Prospero Gallinari. In realtà i brigatisti nella seconda parte della via di fuga utilizzano un altro mezzo ancora di cui non si sapeva l’esistenza: è la famosa Renault 4 rossa dove poi verrà ritrovato il corpo di Moro in via Caetani che venne usata da due membri del commando che dovevano dare appoggio a un secondo trasbordo del prigioniero previsto nel quartiere di Valle Aurelia che alla fine non avvenne.
Questa informazione è presente nelle carte del Moro quater ma inquirenti e giudici non l’hanno mai sfruttata probabilmente perché non hanno voluto dare credito al racconto della via di fuga fatto dai brigatisti. Se invece di sequestrare l’archivio di Persichetti per cercare reati alla cieca avessero riletto i documenti dei processi questi elementi sarebbero venuti alla luce.
Si tratta di aspetti  secondari del sequestro che non toglie o aggiunge granché al quadro d’insieme, ma la distorsione della memoria si annida anche nei dettagli apparentemente insignificanti, alimentata poi dal mormorio, quello senz’altro in malafede, delle dietrologie.
«Nella nostra ricerca ci siamo dovuti misurare costantemente con questa insidia, chi si confronta con la memoria sa che questa può giocare pericolosi tranelli. Per il ricercatore a volte è meglio confrontarsi con testimoni che hanno vuoti di memoria piuttosto che doversi misurare con le illusioni del passato, ricordi distorti e reinvenzioni che stravolgono i fatti».

Prosegue la caccia al reato inesistente, la procura non molla l’archivio di Persichetti

La caccia al reato inesistente che il pm Eugenio Albamonte conduce da tempo nei miei confronti ha conosciuto un nuovo colpo di scena. Ignorando la decisione del tribunale del riesame e della cassazione, il 12 novembre scorso il responsabile delle inchieste sul terrorismo e i reati informatici della procura di Roma ha messo da parte l’imputazione di associazione sovversiva ed ha rilanciato l’accusa di favoreggiamento. Dopo l’iniziale violazione di segreto d’ufficio da cui l’indagine era partita siamo giunti al quinto cambio di imputazione in 12 mesi.
Il 2 luglio scorso il tribunale del riesame aveva stabilito che le accuse utilizzate per consentire alla polizia di svuotare il mio archivio erano prive delle condotte di reato. La procura si era limitata a enunciare le accuse (associazione sovversiva e favoreggiamento) senza riportare circostanze, modalità e tempi in cui esse si sarebbero materializzate. Come a dire: «sono convinto che hai fatto questo, ma non so quando, come e dove, ma siccome sono un pm faccio come il marchese del Grillo: intercetto le tue comunicazioni, ti faccio pedinare e poi ti sequestro tutto quello che hai in casa, anche le cose di tua moglie e dei tuoi figli. Qualcosa alla fine troverò!».
I giudici del riesame avevano proposto una ipotesi di reato alternativa: la violazione di notizia riservata che si sarebbe consumata l’8 dicembre 2015, quando avevo inviato tramite posta elettronica alcuni stralci della prima bozza di relazione annuale della commissione Moro 2. Testo che sarebbe stato pubblicato dall’organo parlamentare meno di 48 ore dopo. Pagine destinate ad un gruppo di persone coinvolte nel lavoro di preparazione di un libro sulla storia delle Brigate rosse (leggi qui), poi uscito nel 2017 con Deriveapprodi. Tra queste c’era l’ex brigatista Alvaro Lojacono, ormai cittadino svizzero, che poi aveva girato il testo ad Alessio Casimirri da decenni riparato in Nicaragua, dove ha acquisito la nazionalità. Una lettura giuridica, quella del riesame, che la cassazione lo scorso 10 novembre ha convalidato, anche se al momento non se ne conoscono i motivi. La procura, però, si tiene lontana da questa ipotesi di reato nella consapevolezza che non si tratti di notizie riservate di rilevanza penale. Nel frattempo un altro giudice, il gip Valerio Savio, si era pronunciato sul fascicolo dell’accusa ritenendo che mancasse «una formulata incolpazione anche provvisoria». Ragione che lo aveva condotto a rigettare l’incidente probatorio che il mio difensore aveva richiesto per contrastare l’intenzione del pm di ficcare il naso comunque tra le mie cose, prima ancora che lo stesso gip si fosse pronunciato sulla legittimità del sequestro nell’udienza prevista il prossimo 17 dicembre. Per tutta risposta il pm ha presentato una nuova domanda di incidente probatorio provando questa volta a precisare meglio accusa e condotte di reato.

Il lavoro storico messo sotto accusa
Secondo la Procura le pagine della bozza di relazione da me inviate, nelle quali si affrontava l’episodio delle vetture brigatiste abbandonate in via Licinio Calvo subito dopo il sequestro del leader Dc in via Fani, non avevano come finalità la ricostruzione corretta del percorso di fuga del commando brigatista e la confutazione delle fake news che circolano da decenni sulla vicenda, poi confluita nelle pagine del libro pubblicato nel 2017, ma servivano per il favoreggiamento dei due ex Br. Per la procura in quelle bozze si riportavano «degli accertamenti in corso da parte della predetta commissione, relativi a fatti reato, ancora non completamente chiariti, che coinvolgono anche le loro responsabilità penali». Accusa – come ha rilevato l’avvocato Romeo nelle sue controdeduzioni – difficile da sostenere sul piano giuridico: come avrebbe potuto concretizzarsi il reato di favoreggiamento in una vicenda giudiziaria conclusasi da diversi decenni con condanne all’ergastolo passate in giudicato sia per Casimirri che per Lojacono? Ammesso che possano ancora esistere fatti nuovi, questi sarebbero già assorbiti dalle condanne o largamente prescritti e non potrebbero rivestire più alcuna rilevanza penale ma solamente storica.
Se non c’è una valida ragione giuridica che tiene in piedi l’accusa, quale è allora il movente che spinge il pubblico ministero?
Ascoltato nel dicembre 2020 in qualità di persona informata sui fatti, l’ex presidente della commissione Moro 2 Giuseppe Fioroni aveva sostenuto che vi sarebbero «ulteriori complici del sequestro, seppur con ruoli minori collegati alla logistica, i cui nomi non sono ancora noti». Per poi suggerire che «In tale contesto si potrebbe giustificare un interesse di terze persone legate agli ambienti delle Brigate rosse nel conoscere gli stati di avanzamento dei lavori della commissione con riferimento a questo profilo». Una tesi che si scontra con la logica e la realtà dei fatti.
I temi dell’indagine parlamentare erano facilmente desumibili dalle audizioni pubbliche, accessibili sul sito di radio radicale, trascritte sul portale della commissione stessa e dalle riunioni dell’ufficio di presidenza i cui verbali venivano sistematicamente resi noti. Le piste seguite dalla commissione erano di dominio pubblico, continuamente rilanciate da indiscrezioni giornalistiche, interviste e commenti di commissari molto loquaci. Inoltre i lavori dell’organo di inchiesta parlamentare erano destinati a divenire di dominio pubblico, di lì a poco, con la pubblicazione della prima relazione annuale sullo stato dei lavori il 10 dicembre 2015. Alle «terze persone», accennate da Fioroni, sarebbe bastato attendere qualche ora per conoscerli. Cosa sarebbe mai cambiato in quel breve lasso di tempo? Quel «qualcuno» non aveva certo bisogno di leggere le bozze dedicate a via Licinio Calvo per informarsi. C’è molta presunzione nelle affermazioni all’ex politico di fede andreottiana, giustamente non più rieletto dopo la fallimentare esperienza dell’organismo parlamentare da lui presieduto.
Il teorema del garage compiacente e di una base brigatista prossima al luogo dove vennero lasciate le vetture utilizzate per la prima fase della fuga e addirittura – secondo alcuni oltranzisti – prima prigione di Moro, è un clamoroso falso che circola da diversi decenni. Ne parlò per la prima volta, il 15 novembre del 1978, un quotidiano romano, Il Tempo, che anticipò un articolo dello scrittore Pietro Di Donato apparso nel dicembre successivo sulla rivista erotica-glamour Penthouse, divenuta una delle maggiori referenze del presidente Fioroni. Nel suo racconto Di Donato sosteneva che la prigionia di Moro si era svolta nella zona della Balduina, quartiere limitrofo alla scena del rapimento e al luogo dove era avvenuto il trasbordo del prigioniero ed erano state abbandonate le macchine impiegate in via Fani. Diversi controlli e perquisizioni vennero effettuate senza esito dalle forze di polizia in alcune palazzine e garage dei dintorni. La sortita di Di Donato venne ripresa nel gennaio 1979 da Mino Pecorelli sulla rivista Op. Entrò quindi nella sfera giudiziaria quando il pm Nicolò Amato ne parlò durante le udienze del primo processo Moro. Più tardi se ne occupò, sempre senza pervenire a risultati, la prima commissione Moro e venne consacrata nelle pagine del libro di Sergio Flamigni, La tela del ragno, pubblicato per la prima volta nel 1988 (Edizioni Associate p. 58-61), divenendo uno dei cavalli di battaglia della successiva pubblicistica dietrologica.

Gli ultimi accertamenti della commisssione
Nell’ultimo periodo della sua attività la commissione Moro 2 ha raccolto la testimonianza di una coppia che alla fine del 1978 viveva in via dei Massimi 91, strada situata nella parte più alta della Balduina. I due hanno raccontato di aver ospitato per alcune settimane, sul finire dell’autunno 1978, sei mesi dopo la fine del sequestro, una persona che poi riconobbero essere il brigatista Prospero Gallinari. Dalla vicenda sono scaturite alcune querele nei confronti di uno dei membri della commissione parlamentare (leggi qui e qui) che aveva impropriamente tirato in ballo una giornalista tedesca totalmente estranea all’episodio. All’epoca il comprensorio di via dei Massimi 91 apparteneva allo Ior, Istituto per le opere religiose, ente finanziario del Vaticano. Amministratore unico era Luigi Mennini, padre di don Antonio Mennini, il confessore e uomo di fiducia dello statista democristiano, vice parroco della chiesa di santa Lucia a cui durante il sequestro i brigatisti consegnarono su indicazione dello stesso Moro diverse sue lettere. Alcuni consulenti della commissione si erano lungamente soffermati sull’ipotesi che Alessio Casimirri fosse in qualche modo «intraneo» all’ambiente che risiedeva o circolava in quell’immobile, perché il padre Luciano era in quegli anni responsabile della sala stampa vaticana, senza comprendere quali fossero le rigide regole della compartimentazione e della logistica all’interno delle Brigate rosse, che non poggiava certo sulle relazioni familiari. I successivi accertamenti della commissione non hanno tuttavia trovato conferme e al momento di chiudere i battenti è stato chiesto alla procura di proseguire le indagini. Come si evince da alcune audizioni pubbliche della Commissione, la coppia che aveva fornito ospitalità a Gallinari, proveniva da un’area politica subentrata nelle Brigate rosse dopo la conclusione del sequestro Moro e che aveva relazioni con Adriana Faranda e Valerio Morucci, incaricati dalla colonna romana di trovare una sistemazione a Gallinari dopo l’abbandono repentino della base di via Montalcini nella estate del 1978. Non si comprende quindi quale sia il fondamento investigativo e storiografico dell’accusa che mi viene mossa, mentre appare sempre più evidente l’adesione di polizia e procura a ipotesi complottiste, che non si limitano più a inquinare e depistare le conoscenze storiografiche sulla vicenda Moro ma pretendono di esercitare il controllo assoluto sulla storia degli anni Settanta.

Le puntate precedenti
1. Se fare storia è un reato
2. La polizia della storia
3. La procura sequestra e tace
4. Polizia, procure e dietrologia, la santa alleanza contro la ricerca indipendente sugli anni 70
5. Lo strano comportamento della procura, accusa Persichetti di avere diffuso informazioni riservate ma ignora le ripetute fughe di notizie segretate che hanno contrassegnato l’attività della com
6. Appello – Chi sequestra un archivio attacca la libertà di ricerca
7. Appel – Qui confisque des archives attaque la liberté de la recherche
8. Whoever seizes an archive attacks the freedom of research the appeal signed by researchers and citizens against the investigation by the prosecutor of rome and the police
9. Manca il reato, il gip Savio censura l’inchiesta di Albamonte contro Persichetti
10. Kafka e l’archivio di Persichetti

Interventi sulla vicenda
1. Lo storico Marco Clementi, il sequestro dell’archivio di Paolo Persichetti è un attacco al suo lavoro di ricerca sugli anni 70 – Il Riformista
2. Ora la magistratura vuole orientare anche la ricerca storica – Piero Sansonetti, Il Riformista
3. Paolo Persichetti e il complottismo eterno delle procure – Daniele Zaccaria, Il Dubbio
4. Caso Persichetti, la ricerca storica sotto attacco – Marco Grispigni, il manifesto
5. La commissione Moro e il caso Persichett i- Intervista all’avvocato Francesco Romeo Radio Radicale
6. Caso Persichetti, la ricerca storica deve essere libera e indipendenteFabio Marcelli, Contropiano
7. Quelle pietre d’inciampo preziose che hai seminato – Silvia De Bernadinis
8. Quando la ricerca storica diventa un problema giudiziario il caso di Paolo Persichetti – Davide Drago, Globalproject.info
9.Ricercatore perquisito e indagato per studi sul caso MoroL’indipendente.online/2021/06/15
10. L’ex br Persichetti e l’enigma dell’archivio sotto sequestro
11. Caso Persichetti, procura e riesame non pervenuti – Frank Cimini, Il Riformista
12. L’ex br Persichetti e l’enigma dell’archivio sotto sequestrometronews.it/2021/07/26
13. Archivio Persichetti su Moro, per il gip Savio: “Non c’è reato” – Frank Cimini, Il Riformista
14. Contropiano – Manca il reato, il gip smonta l’inchiesta di Albamonte contro Persichetti
15. Sequestrato l’archivio di Persichetti, mossa della procura per censurare il libro sulle br – Frank Cimini, Il Riformista
16. Archivio Persichetti su Moro per il gip Savio non c’è reato – Frank Cimini, Il Riformista
17. Incolpazione assente, il gip smonta il caso Persichetti – il Dubbio
18.Il gip affossa l’inchiesta contro Paolo Persichetti e la sua ricerca storicawww.radiondadurto.org/2021/11/03/
19. Delitto Moro, l’archivio Persichetti ancora sotto sequestro – Frank Cimini, il Riformista
20. Archivio Persichetti, la cassazione si inventa un nuovo reato – Frank Cimini, il Riformista
21. Contropiano, Kafka e l’archivio di Persichetti
22. Contropiano.org – Prosegue la caccia al reato inesistente, la procura non molla l’archivio di Persichetti
23. Persichetti, i pm non mollano, contestano il reato già bocciato

Kafka e l’archivio di Persichetti

Si è tenuta mercoledì 10 novembre l’udienza della prima sezione della corte di cassazione sul ricorso contro la decisione del Riesame che aveva confermato il sequestro dell’archivio storico di Persichetti

Per la Corte di cassazione allo stato attuale delle indagini è legittimo ipotizzare che la diffusione, l’8 dicembre 2015, a meno di 48 ore della pubblicazione ufficiale, di alcune pagine della prima bozza di relazione annuale della commissione Moro 2, rientri nella fattispecie del reato di rivelazione di notizie riservate. I giudici della suprema Corte hanno rigettato il ricorso presentato dall’avvocato Francesco Romeo contro la decisone del tribunale del riesame che nel luglio scorso aveva modificato il capo d’imputazione da cui era scaturito il sequestro, l’8 giugno precedente, del mio archivio storico e delle cartelle cliniche e scolastiche dei miei figli e di altro materiale amministrativo e strettamente personale della mia famiglia.
All’epoca i giudici del Riesame non avevano accolto l’impianto accusatorio presentato dal pm Eugenio Albamonte, sulla base del quale Polizia di prevenzione, Digos e Polizia postale mi avevano fermato in strada ed avevano poi perquisito per l’intera giornata l’abitazione della mia famiglia portando via tutti i miei strumenti di lavoro: computer, telefonino, tablet e altri supporti su cui era raccolto il mio intero archivio digitale, ed in parte anche del materiale cartaceo, tra cui alcuni schizzi della via di fuga seguita dal commando brigatista che portò a termine il rapimento di Aldo Moro, il 16 marzo del 1978, utilizzati per la ricostruzione della vicenda e confluiti nelle pagine del primo volume sulla storia delle Brigate rosse, uscito presso Derviveapprodi nel marzo 2017.
I giudici del Palazzaccio hanno ritenuto valida la correzione delle iniziali contestazioni mosse dalla procura e che poggiavano sul favoreggiamento e l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordinamento costituzionale. Le motivazioni della decisione, estremamente laconica nella formulazione del dispositivo, «la corte rigetta il ricorso e condanna alle spese processuali», verranno rese note non prima di tre settimane. Durante l’udienza, tenutasi il 10 novembre, il procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso ritenendo «in re ipsa» la dimostrazione del reato, provando a celare dietro l’esercizio retorico della tautologia la propria carenza argomentativa. L’avvocato Romeo nel sottolineare le carenze di motivazione del Riesame ha ricordato come l’unica figura titolata per legge ad apporre il segreto di Stato è il Presidente del consiglio e che non esiste alcuna fonte giuridica che apparenti il Presidente di una commissione parlamentare alle funzioni proprie del capo del governo. Perché una informazione possa rientrare nell’ambito della tutela del segreto di Stato o del segreto politico – ha aggiunto – occorrono specifici requisiti assenti in una bozza di elaborato parlamentare che sarebbe stata resa nota a poche ore di distanza dal sua diffusione. Il destino pubblico della bozza in questione è un dato che rende vana qualsiasi ipotesi di danno per la sicurezza dello Stato e della Costituzione. Come può esserci violazione di segreto in un testo redatto per essere deliberato e reso di pubblico dominio? Contraddizioni irrisolvibili che il collegio di Cassazione ha preferito sorvolare.
Oltretutto le bozze di relazione non rientrano nemmeno tra i materiali sui quali la commissione parlamentare poteva apporre, tramite il suo presidente, un qualsiasi livello di classificazione. Stando alla normativa interna che la stessa commissione aveva deliberato al momento di avviare i propri lavori, le bozze prodotte non erano assimilabili a documenti giudiziari, documenti amministrativi o di governo classificati, documenti privati o classificati al momento dell’acquisizione. La richiesta di riservatezza aveva dunque un semplice valore funzionale legato a ragioni di opportunità: consentire la conduzione dei lavori e delle discussioni in serenità, senza pressioni o turbative esterne. Le notizie riservate che hanno rilevanza penale devono essere omogenee a quelle oggetto di segreto di Stato, non sembra questo il caso anche perché la vicenda dell’abbandono in via Licinio Calvo delle vetture utilizzate dai brigatisti in via Fani e la suggestiva ipotesi di un garage o di una base compiacente nella zona, notizie contenute nelle pagine della bozza incriminata, sono argomento dibattuto da almeno tre decenni: fin dai tempi del primo processo Moro, affrontato nella prima commissione d’inchiesta sul sequestro e tema di un’ampia pubblicistica complottista. Se queste fake news sono assimilabili a segreti di Stato, è folta la schiera di chi lo ha violato impunemente da decenni.

La decisione della suprema Corte rende ancora più intricata la vicenda perché il prossimo 17 dicembre il Gip Valerio Savio dovrà pronunciarsi sulla legittimità del sequestro dell’archivio senza tener conto della decisione del tribunale del riesame e della cassazione. La giustificazione giuridica del sequestro resta infatti ancorata alle ipotesi di accusa iniziali, il favoreggiamento e l’associazione sovversiva, già bocciati dal Gip quando ha rigettato la richiesta di incidente probatorio. A dicembre il giudice dovrà dire se le modalità del sequestro sono state eseguite correttamente o se sono andate oltre il mandato senza che sia intervenuta a sanarle la successiva ratifica del pubblico ministero. La polizia è entrata in casa con un’indicazione limitata alla ricerca di materiali afferenti alla commissione Moro 2 ma all’atto del sequestro ha svaligiato l’intero archivio informatico del nucleo familiare, portando via materiali legalmente raccolti in altre sedi: archivio centrale dello Stato, archivio del tribunale, archivio della commissione stragi, biblioteche e fonti aperte. Nulla a che vedere con i materiali della commissione scaricati tutti via web dal sito di un noto membro della commissione stessa.
Cosa farà il pm Albamonte nel caso il Gip dovesse accogliere la richiesta dell’avvocato Romeo e dissequestrare tutto l’archivio o buona parte di esso? Risequestrerà nuovamente l’archivio sulla base del nuovo capo d’imputazione suggerito dal Riesame e convalidato dalla Cassazione?
Impazzirebbe anche Kafka…

Archivio Persichetti su Moro, per il gip Savio: “Non c’è reato”

Il Riformista Frank Cimini — 3 Novembre 2021

L’8 giugno scorso la polizia di prevenzione su ordine della procura di Roma sequestrava l’archivio di Paolo Persichetti nell’ambito delle infinite indagini sul caso Moro contestando i reati di associazione sovversiva e favoreggiamento di latitanti. Il 2 luglio il Riesame affermava che al massimo si poteva contestare il reato di violazione di segreto politico in relazione alla diffusione di atti della commissione parlamentare di inchiesta. Oggi il gip Valerio Savio ha negato accertamenti con la formula dell’incidente probatorio sull’archivio perché “manca una formulata incolpazione anche provvisoria”. Cioè non c’è reato.
Savio aggiunge che la decisione viene adottata allo scopo di evitare accertamenti non utili e anche costosi per l’erario. Cioè spiega il giudice che la giustizia non ha tempo da perdere e denari da buttare. Si tratta di una bocciatura su tutta la linea dell’indagine coordinata dal pm Eugenio Albamonte esponente di spicco della corrente di Magistratura Democratica e dallo stesso procuratore capo Michele Prestipino la nomina del quale era stata definita irregolare prima dal Tar e poi dal Consiglio di Stato. Il gip boccia in pratica una sorta di caccia ai misteri inesistenti che dura da quarant’anni e che viene praticata ora dalla sola procura di Roma dopo la “sparizione” della commissione parlamentare di inchiesta non rinnovata nella presente legislatura.
«Sosteniamo dall’inizio che qui non c’è reato, la decisione del giudice conferma questo assunto – spiega l’avvocato difensore Francesco Romeo – Siamo di fronte alla ricerca del reato impossibile. Stiamo inseguendo dei fantasmi. I contenitori ci sono e li hanno indicati ma non basta citare le norme, la pubblica accusa deve circostanziare le condotte di reato ed è quello che da giugno a oggi non è venuto fuori. Si tratta di un’accusa senza pilastri». L’archivio storico di Persichetti resta però sotto sequestro. La decisione di oggi del gip non basta a liberarlo. Adesso bisognerà aspettare l’esito del ricorso in Cassazione. Dice Persichetti: «Tre anni di indagini estremamente invasive per giunta ancora non concluse attraverso forzature continue, clonazione di telefonini, intercettazioni ambientali e pedinamenti costate migliaia di euro di soldi pubblici sono pervenute all’impossibilità di formulare una contestazione chiara e definita. Questa è la storia iniziata nel gennaio del 2019 da una grottesca indagine della Digos di Milano conclusa con una archiviazione ma subito ripresa dalla procura di Roma. Una caccia ai fantasmi una pesante intromissione nella ricerca storica e nel lavoro giornalistico».
Il sequestro dell’archivio tra l’altro ha avuto come conseguenza l’impossibilità di pubblicare il secondo volume della storia delle Brigate Rosse dal titolo “Dalle fabbriche alla campagna di primavera” di cui Paolo Persichetti è coautore con Elisa Santalena e Marco Clementi. Il volume due è dedicato alle fabbriche dove nacquero le Br con buona pace di inquirenti che inseguono dopo 43 anni i misteri di servizi segreti e affini andando a prelevare il Dna delle persone già condannate sperando di individuare “i complici”.

La polizia della storia

Il corpo del reato

Prima puntata – Il pm Eugenio Albamonte ha finalmente depositato una parte delle carte dell’inchiesta che ha portato al sequestro del mio archivio storico e dei miei strumenti di lavoro. Al centro delle accuse c’è il lavoro preparatorio condotto per la redazione del volume “Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera

di Paolo Persichetti

In Italia esiste un organismo di Polizia che si occupa di storia. Proprio così, si intromette nell’attività di ricerca, sorveglia il lavoro dello storico, ascolta le sue conversazioni con le fonti, intercetta le caselle di posta elettronica, sequestra archivi. Come in una sorta di scenario orwelliano si erge a ministero della verità e con il suo occhio minaccioso amministra il passato, decide chi può scrivere, recinta gli argomenti, filtra i contenuti e sopratutto gli autori. Decide insomma come e chi può scrivere la storia. Questo organismo si chiama Polizia di Prevenzione, ex Ucigos, una struttura che nasce dalle ceneri della dissolta e famigerata Uar. Di sicuro non lo sapevate, a dire il vero nemmeno io ne ero al corrente fino a quando non ho letto l’informativa della Polizia di prevenzione del 21 dicembre 2020 (N.224/B1/Sez.2/18803/2020, procedimento penale nr. 93188/20). Un rapporto che fa seguito ad una lunga serie di indagini originate nel gennaio 2019 e da cui è scaturita una ulteriore ed intensa attività investigativa che ha radiografato l’esistenza della mia intera famiglia dalla fine del 2015 ad oggi, e ancora domani e dopodomani, poiché l’attività investigativa e “tecnica” è tuttora in essere. Un attacco frontale al mio lavoro di ricerca che ha portato, l’8 giugno scorso, a una lunga perquisizione nella mia abitazione e al sequestro del mio intero archivio digitale, dei miei strumenti di lavoro e di comunicazione, della documentazione amministrativa e medica di mio figlio disabile. Non è stato portato via solo il materiale d’archivio raccolto e prodotto negli ultimi 15 anni, ma la storia della mia famiglia, di mia moglie e dei miei figli, il nostro passato, la nostra intimità.

L’irruzione nel passato
Questi nuovi storici con l’uniforme si intromettono nel lavoro complicato e complesso della ricostruzione del passato, fanno irruzione in quella bottega dove il ricercatore come un artigiano impasta le sue mani con la polvere del tempo: raccoglie documenti, testimonianze, tenta di colmare i buchi della memoria, rappezza brandelli di ricordi, tracce spezzettate, indizi che pazientemente prova a rimettere insieme, soprattutto ad interrogare. Ma a questi nuovi sbirri del passato tutto ciò non interessa. Nella visione poliziesca della storia i testimoni, gli attori, i soggetti e i gruppi sociali vengono sostituiti dai colpevoli, dai fiancheggiatori e dalle vittime. Le sfumature non esistono, il contrasto è netto, bianco e nero, luce e tenebre, buoni e cattivi. Il terreno storiografico è solo un pretesto per cercare nuovi colpevoli, arrestare gli scampati, affibbiare nuovi ergastoli. La storia si fa riserva di caccia, un safari dove conquistare un trofeo da mostrare in manette ad una conferenza stampa con tanto di selfie. E con queste aspettative che il nuovo ministero della verità – avrebbe detto Orwell – si è intromesso nel rapporto che in questi anni ho intrattenuto con alcune delle mie fonti, ha sorvegliato il lavoro preparatorio che ha portato alla stesura del primo volume del libro Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, scritto insieme a Marco Clementi ed Elisa Santalena e apparso nel febbraio 2017. «Peraltro – scrivono nella loro informativa – Persichetti emerge nelle e-mail oggetto di analisi anche in riferimento all’invio a Loiacono di documenti riguardanti una bozza di una futura pubblicazione relativa ad una ricostruzione dell’azione di via Fani, dalla pianificazione fino alla sua conclusione. Tale materiale è poi effettivamente confluito, sebbene con alcune modifiche, in un capitolo del citato libro. Queste ultime mail, in particolare, contengono una ricostruzione dell’azione di via Fani per alcuni versi distonica rispetto a quanto accertato sinora dai processi e dalle varie Commissioni sul sequestro dell’on. Moro. Lo scopo del libro – e quindi anche di queste e-mail che ne rappresentano una bozza preliminare – è assertivamente quello di “sgomberare il campo dalle mille bufale che circolano sul 16 marzo in via Fani e di ribadire che “via Fani fu in tutto e per tutto un’azione operaia”. Finalità più volte esplicitata da Persichetti in più passaggi dello stesso libro, come per esempio a pagina 9, dove si legge testualmente
“… Ciò che preme sottolineare qui per restare sul terreno della critica è la sordità cognitiva delle narrazioni dietrologie, impermeabili alle smentite accumulatesi nel tempo. Le teorie del complotto, a causa del loro divenire circolare, si sottraggono alla verifica della coerenza interna ed esterna delle loro asserzioni”».
Quella coerenza che sembra mancare anche ai poliziotti della memoria, come vedremo meglio tra un po’.

Una ricostruzione veritiera
«Si tratta di documenti – proseguono gli autori del testo – che forniscono una ricostruzione per alcuni versi inedita, basata sul Memoriale Morucci, ed integrata sulla base dei contenuti di alcuni libri scritti dagli stessi brigatisti e delle nuove dichiarazioni rese “agli autori da Moretti, Seghetti e Balzerani nel corso di una serie di conversazioni tra il 2006 e il 2016». Ricostruzione che ad avviso della Polizia di prevenzione appare veritiera poiché «La lettura delle mail induce a ritenere che i protagonisti fossero “genuini” nella cristallizzazione dei propri ricordi, non fosse altro che per la presunzione di poter discutere in forma “riservata“ […] Una analisi integrata del materiale a disposizione, partita dai dati desumibili da queste “inedite” mail, da rapportare poi alla versione “ufficiale” presente nel libro e a quella presente nel “memoriale Morucci”, non ha evidenziato elementi di novità ad eventuali altri brigatisti o soggetti estranei alle Brigate rosse che possano aver preso parte alla strage».

Non un ricercatore ma un favoreggiatore
Talmente veritiera che secondo i poliziotti non «avrei», in reltà sarebbe stato più corretto scrivere avremmo (il libro è opera a più mani, ma alla polizia della storia fa comodo indicarmi come autore unico), riportato correttamente le informazioni raccolte. Per questo mi sarei macchiato di favoreggiamento, in particolare nei confronti di Alvaro Loiacono Baragiola. Nella relazione si sostiene che «la mancata trasposizione nel libro di alcuni passaggi invece presenti nelle email implica una scelta che potrebbe non essere solo di natura editoriale, ma anche “politica”, tenuto conto delle contraddizioni che pure erano emerse tra i racconti dei vari terroristi intervistati e tra questi e il memoriale Morucci e/o gli iscritti già pubblicati da alcuni militanti delle Br».
Affermazione impegnativa, che troverebbe senso solo se i poliziotti della storia avessero intercettato tutti i colloqui avuti dagli autori del libro in anni di incontri con i diversi testimoni e riscontrato difformità. Forse per questo sono venuti in casa, col pretesto della divulgazione di un inesistente documento riservato della commissione (le relazioni annuali e le bozze delle relazioni non rientrano in questa fattispecie) per cercare appunti, schizzi, piantine, vocali e altri materiali raccolti nel corso della preparazione del primo volume e in vista del secondo. Una ingerenza indebita nel lavoro mio e di Marco Clementi (abbiamo curato insieme la parte del libro su via Fani).
E’ un fatto gravissimo. Non può essere un’autorità di polizia o la magistratura a sindacare il rapporto con le fonti e giudicare come un ricercatore affronta le contraddizioni, le difficoltà, gli errori, le illusioni o i buchi di memoria delle fonti orali a quaranta anni dai fatti. Nella informativa si sostiene che avremmo «cassato completamente» dal libro «le funzioni inedite svolte da Loiacono rispetto a quelle riscontrate processualmente» (tornerò tra poco sulla questione), ma la cosa davvero gratuita è il movente scelto dalla Polizia di prevenzione per giustificare questa presunta omissione. Secondo il Primo dirigente Di Petrillo e il vice Ispettore Vallocchia avrei intenzionalmente svolto «generale opera di rivisitazione del ruolo [dei brigatisti latitanti – anche se Loiacono è cittadino svizzero ed ha scontato per intero la condanna] nell’azione di via Fani, assumendo anche i margini di una possibile forma di favoreggiamento».

Un lavoro rigoroso
Chiunque abbia letto il libro conosce perfettamente il lavoro minuzioso svolto, gli elementi di novità significativi introdotti nella ricostruzione del rapimento Moro grazie a una faticosa integrazione tra fonti documentali e nuove disponibilità delle fonti orali, che non si sono tirate indietro, intenzionate a dare un contributo definitivo di chiarezza nella ricostruzione dei fatti. Abbiamo insistito con loro affinché anche il minimo dettaglio venisse ricostruito, nei limiti delle possibilità che la memoria e i documenti potevano consentire. Abbiamo assistito al processo di rimemorizzazione in presa diretta di alcuni di loro, testimoni che hanno dovuto superare e correggere errori e illusioni stratificatesi a decenni di distanza dai fatti. Oggi sappiamo come sono arrivati sul posto i brigatisti quella mattina, tutte le armi che impugnavano, come hanno organizzato l’azione, collocato le macchine, la via di fuga ricostruita nel dettaglio, e molte altre cose ancora sulla vicenda politica del sequestro, aspetti che alla Polizia di prevenzione sembrano interessare ben poco. Nonostante ciò, al momento di chiudere le bozze, alla fine del 2016, non siamo riusciti a chiarire un aspetto della via di fuga, per altro fino ad allora da tutti ignorato: ovvero come venne spostato un furgone di riserva, collocato nel quartiere di Valle Aurelia, che in caso di necessità sarebbe dovuto servire per un secondo trasbordo del prigioniero. Il confronto con gli altri testimoni che abbiamo potuto raggiungere è stato acceso ma purtroppo non risolutivo sul punto. Dovendo andare in stampa abbiamo così deciso di risolvere l’impasse delimitando l’informazione su due dati da noi accertati: non abbiamo mai scritto che Loiacono fosse sceso dalle scalette in fondo a via Licinio Calvo insieme a Balzerani, Bonisoli, Casimirri e Fiore. Abbiamo riportato quanto sostenuto da Moretti e confermato da tutti, che furono alcuni dei membri già identificati della Colonna romana che presero parte all’azione a spostare il furgone (p. 184).

Il suggeritore
Quello del ricercatore è un lavoro paziente e ostinato che non si arresta mai e negli anni successivi siamo più volte tornati sulla questione. Cosa c’entri questo lavorio storiografico con il favoreggiamento e l’associazione sovversiva, potete valutarlo da soli. Forse bisognerebbe chiederlo all’ex presidente della commissione Moro 2, Giuseppe Fioroni, che nel verbale di sommarie informazioni reso il 1 dicembre 2020 davanti al Pm Eugenio Albamonte e ai vertici della Polizia di Prevenzione, ribadendo una sua personale e indimostrata ipotesi sulla presenza di un garage “amico” dei brigatisti in via dei Massimi 91, circostanza che smentirebbe – a suo dire – l’abbandono delle tre vetture del commando brigatista in contemporanea in via Licinio Calvo e la fuga attraverso le scalette che portano verso via Prisciano, ha sostenuto che vi sarebbero «ulteriori complici del sequestro, seppur con ruoli minori collegati alla logistica, i cui nomi non sono ancora noti». E fin qui nulla da obiettare. Ognuno può pensarla come vuole, anche se la disciplina dei riscontri richiede elementi concreti e verificabili, non illazioni senza fondamento. Il problema sorge quando Fioroni insinua che «In tale contesto si potrebbe giustificare un interesse di terze persone legate agli ambienti delle brigate rosse nel conoscere gli stati di avanzamento dei lavori della Commissione con riferimento a questo profilo». Lavori e stati di avanzamento destinati a diventare di dominio pubblico, quindi se quello fosse stato il fine di “queste terze persone” sarebbe bastato attendere. Di Fioroni, delle attività della sua Commissione, dei suoi carteggi con Loiacono e delle sue proposte indecenti, parleremo nella prossima puntata.