Per il Gip «nell’archivio di Persichetti possibili nuove informazioni sul sequestro Moro»


Il gip del tribunale di Roma Valerio Savio ha sciolto il proprio riserbo autorizzando la richiesta di incidente probatorio avanzata dal pm Eugenio Albamonte il 23 novembre scorso. Lo ha fatto senza attendere l’udienza del 17 dicembre prossimo nella quale il giudice deve pronunciarsi sulla legittimità del sequestro dell’archivio storico e degli altri documenti familiari portati via dalla polizia di prevenzione e dalla digos romana nel corso della lunga perquisizione avvenuta all’inizio dell’estate passata nella mia abitazione. Inoltre l’autorizzazione alla estrazione della copia forense è stata fornita senza quelle garanzie di tutela richieste dal mio legale perché – afferma il gip – queste afferiscono alla fase processuale. Ma l’incidente probatorio è stato introdotto nella riforma del codice di procedura proprio per consentire l’assunzione di prove con le forme e le garanzie del dibattimento (quindi del processo) durante le indagini preliminari.

Anticipazione del giudizio
La decisione del gip rappresenta un’anticipazione del giudizio di merito: sarebbe stato certamente più corretto, almeno sul piano formale, attendere l’udienza del 17 dicembre. Ci ritroviamo ora con il semaforo verde per l’estrazione della copia forense senza che sia mai stata detta una parola sul fondamento giuridico e le modalità con cui è stato condotto il sequestro. Ancor più sconcertanti appaiono le ragioni addotte a sostegno di questa decisione. Per il gip, infatti, risulta utile esaminare il contenuto del mio archivio digitale per valutare, nell’ambito della ipotizzata condotta di «favoreggiamento» sostenuta dalla procura, la rilevanza delle possibili informazioni contenute nei supporti informatici sequestrati «in relazione alla posizione giudiziaria (attuale o pregressa in relazione ad eventuali giudizi per reati imprescrittibili o a giudizi anche di revisione) di Loiacono Alvaro e Casimirri Alessio e a possibili violazioni di segreto d’ufficio che li riguardino». Una prosa alquanto contorta, come l’intera vicenda che col passare dei mesi si avvita sempre più su se stessa. Una volta tradotto, il passo del gip vuole significare che tra i documenti del mio archivio, raccolti in anni di pazienti ricerche tra archivio di Stato, archivio storico del senato, archivio della corte d’appello di Roma e fonti aperte, potrebbero trovarsi informazioni utili ad accertare nuovi rilievi penali, a carico o discarico, di Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri. A questo punto viene facile obiettare che gli inquirenti sarebbero potuti andare a cercare queste ipotetiche informazioni direttamente nei vari archivi istituzionali da me frequentati, anziché venire a parassitare il mio lavoro, criminalizzando per giunta la mia attività di ricerca. In fondo – se queste informazioni le ho trovate io – come ipotizza il gip – avrebbero potuto scovarle anche gli inquirenti e i giudici. Ma di quali informazioni si tratta?

Reati imprescrittibili
Sono trascorsi 43 anni dal sequestro Moro. Gli unici reati che non trovano prescrizione dopo oltre quattro decenni sono quelli di omicidio e strage, il primo dei quali sappiamo essere avvenuto in forma plurima al momento del rapimento e della uccisione dello statista democristiano, in via Fani e in via Montalcini. Per questi reati sia Lojacono che Casimirri sono stati già ampiamente sanzionati con condanne definitive all’ergastolo. Pene che riguardano anche altri episodi avvenuti nel corso della loro partecipazione alla colonna romana delle Brigate rosse, per Lojacono in parte già scontate con una lunga detenzione in Svizzera. Non risultano pervenute in questa vicenda storica altre notizie di reato che abbiano una durata penale imprescrittibile. Non si comprende dunque, ancora una volta, quale sia l’obiettivo di questa indagine e del sequestro del mio archivio. Per rafforzare la sua decisione, il gip menziona anche l’ipotesi che da queste informazioni possano scaturire «possibili giudizi di revisione», in sostanza l’emergere di errori in sede giudiziaria che abbiano condotto a condanne ingiustificate delle due persone menzionate. Come a dire: non cerchiamo solo eventuali nuovi crimini imprescrittibili ma anche le prove di una eventuale innocenza! Un intento certamente lodevole, ma se questo fosse il caso, resta ancora da capire come io possa aver favoreggiato degli innocenti. Un reato che, almeno per il momento, non è previsto dal codice penale.

Gli acchiappafantasmi
Non so quanto abbia senso cercare una logica comprensibile nelle motivazioni esposte dal gip. Fin dall’inizio ogni magistrato che si è cimentato con questa vicenda si è esercitato nell’arte del tirare ad indovinare, cercando di giustificare l’ingiustificabile, rattoppando male gli enormi buchi di un’inchiesta che ricorda la veste di Arlecchino. Cinque imputazioni diverse: dall’associazione sovversiva alla violazione di notizia riservata, dal favoreggiamento alla ricerca di informazioni su reati imprescrittibili fino al ritorno della violazione del segreto d’ufficio, con uno svolazzo anche sulla revisione dei processi. Un gioco al rilancio continuo, un nonsense che ha come risultato finale la confisca del mio archivio, l’attacco frontale alla libertà di ricerca storica, il bavaglio al mio lavoro.
Tuttavia è un pò difficile non chiedersi se l’affermazione del gip costituisca solo una ipotesi di scuola: nella ricerca di eventuali informazioni che possano innescare giudizi di revisione si intravede la caccia ad altri possibili complici del sequestro sfuggiti alle indagini. Una ossessione che traversa come un fiume carsico la storia giudiziaria della vicenda Moro, pietra miliare di tutte le narrazioni complottiste. Ora a parte la facile ironia suscitata dal fatto che si venga a cercare la soluzione a questi dilemmi nel mio archivio, appare sempre più surreale questa rincorsa ai fantasmi di fronte alla ormai accertata inattendibilità del testimone chiave dell’agguato di via Fani (leggi qui). L’ingegner Alessandro Marini ha ripetutamente mentito, testimoniando il falso, rettificando la propria versione almeno dodici volte. Nessuno mai sparò da una moto in corsa contro questo testimone colpendo il suo parabrezza. La circostanza ormai è talmente assodata che lo stesso Alessandro Marini ha dovuto ammettere davanti ai consulenti della commissione Moro 2 di aver detto cose non vere in proposito (il parabrezza si era rotto a causa della caduta del motorino alcuni giorni prima del sequestro e Marini lo aveva riattaccato con del nastro da pacchi, come si può vedere nelle numerose foto che raffigurano via Fani dopo l’agguato). A scrivere il contrario è rimasto solo Sergio Flamigni, circostanza che non stupisce affatto. Nonostante ciò, ben 25 persone restano condannate per un tentato omicidio mai avvenuto. Informazioni per attivare possibili giudizi di revisione su questo punto esistono da diverso tempo, presenti in diversi libri e pubblicazioni, compresi i lavori della commissione Moro 2.
Per quanto attiene invece l’ipotesi di «complici non identificati», serve ricordare che per il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro e degli uomini della scorta sono state condannate ben 27 persone in quattro processi diversi, nonostante alla esecuzione del rapimento, alla custodia e alla gestione politica del sequestro, abbiano partecipato effettivamente solo 15 di queste e la sedicesima sia stata assolta. Alle altre sono state attribuite responsabilità morali nonostante facessero parte di strutture delle Brigate rosse che non erano coinvolte nella operazione e non potevano essere informate per ovvie ragioni di sicurezza e compartimentazione. A puro titolo di esempio cito il caso di Luca Nicolotti e Cristoforo Piancone, membri delle colonna torinese e genovese. I due vennero condannati solo perché avevano incarichi nazionali, rispettivamente – stando a quanto è scritto nelle sentenze – «nel fronte di massa e fronte della controrivoluzione» e quindi per i giudici «non potevano non sapere», anche se l’unica struttura centrale informata sul sequestro era l’esecutivo nazionale, di cui non facevano parte.

Ecco l’ennesima prova che nessuno sparò al motorino di Marini in via Fani!

Il ciclomotore Boxer(*) della Piaggio che vedete raffigurato nella foto qui sotto è il motorino del famoso super testimone di via Fani, quell’Alessandro Marini che aveva dichiarato d’aver visto una moto Honda partecipare al rapimento di Aldo Moro e successivamente di aver ricevuto dei colpi di arma da fuoco (singoli in alcune deposizioni, a raffica in altre) da uno dei passeggeri della stessa moto (per poi, in realtà, tornare sulle sue parole in altre circostanze). Colpi che a suo dire avevano distrutto il parabrezza del ciclomotore, mentre la moto si allontanava a tutta velocità verso via Stresa dietro la 132 che portava via il presidente della Democrazia cristiana. Anche un senatore, Luigi Granelli, membro della commissione Stragi, nel febbraio del 1994 scrisse in una relazione che il parabrezza era stato attinto da un colpo di pistola, come avrebbe stabilito una perizia.
Gianremo Armeni, nel suo libro appena pubblicato, Questi fantasmi. il primo mistero del caso Moro (Tra le righe libri), ha dimostrato – prove alla mano (leggi qui) – che quella perizia non venne mai realizzata perché il parabrezza, acquisito dalla Digos solo nel settembre 1978, non uscì mai dall’ufficio corpi di reato, salvo in due brevi circostanze (marzo e maggio 1994) per essere sottosposto a ricognizione.

Ciao MariniCome potete vedere dalla foto qui sopra il parabrezza non è affatto distrutto. Appare soltanto lesionato e tenuto con del nastro da pacchi, come lo stesso Marini aveva spiegato quando nel 1994, durante un interrogatorio, gli vennero mostrati i resti del reperto da lui consegnati (vedi qui) nel settembre 1978 alla digos; leggete qui sotto lo stralcio della sua deposizione:

Dep Marini 0 1994

Dep Marini 1994L’immagine che avete appena visto è un dettaglio di questa foto più volte pubblicata su questo blog nelle settimane passate:

8 Motorino nastrato-1 copiaPoco prima della scorsa estate, rileggendo le deposizioni di Marini, avevo notato che in quella del 1994 dichiarava di non ricordare bene quando era tornato a prendere il motorino che aveva lasciato incustodito. A quel punto mi sono chiesto se tra le tantissime foto che raffigurano via Fani la mattina del 16 marzo, non ce ne fosse qualcuna dove era visibile un ciclomotore. Non un ciclomotore qualunque ma un motorino munito di parabrezza. Non un parabrezza qualunque ma – come precisa lo stesso testimone – un parabrezza tenuto trasversalmente da un nastro da pacchi a causa di una caduta dal cavalletto avvenuta nei giorni precedenti.
La cosa sconcertante è che in nessuno dei verbali si indica mai il modello del ciclomotore che pure, stando alle ricostruzioni avvalorate dalla magistratura, avrebbe dovuto rappresentare un reperto decisivo. Nel film di Giuseppe Ferrara, se la memoria non mi tradisce, Marini viene raffigurato su un “Ciao” della Piaggio. Questa indeterminatezza è significativa: mentre si dava per certo modello e colore di una eterea moto di grossa cilindrata, che avrebbe giocato un ruolo nel rapimento, nessuno si peritava di descrivere con minuziosità modello e colore del ciclomotore del teste ritenuto principale, che sarebbe stato oggetto di spari proprio dai passeggeri della moto.
In ogni caso la mia ricerca diede esito positivo, solo che fatta eccezione per la foto qui sopra, le altre da me trovate erano in bianco e nero e molto sgranate.

4. Motorino 1 copia12 Motorino02 copia13 Motorino03 copiaIn ogni caso sufficienti a stabilire che si trattava del motorino descritto da Marini. Era la prova, l’ennesima – come poi ha dimostrato Armeni nel suo saggio – che il super testimone aveva mentito su tutta la linea. Devo riconoscere che l’estrema facilità con la quale sono arrivato a questo risultato mi ha stupito molto, possibile che in tutti questi decenni a nessuno sia venuto in mente di fare una verifica del genere? Comprendo che le verifiche non siano materia per i complottisti, che quando incontrano elementi del genere – che smentiscono le loro ipotesi – fanno una capriola e passano oltre, ma l’esercito di inquirenti, magistrati, consulenti e membri delle commissioni che si sono occupati della vicenda dove guardavano? Un singolare strabismo investigativo su cui torneremo più avanti.

Nelle settimane scorse, Nicola Lo Foco, autore di un saggio pubblicato nel gennaio 2015, Il caso Moro. Misteri e segreti svelati (Gelsorosso editrice), una accurata demistificazione delle ricostruzioni dietrologiche del rapimento Moro, rivolgendo la propria attenzione non solo a quel che accadde in via Fani la mattina del 16 marzo 1978 ma anche ad altri topos della vulgata misteriologica sulla vicenda, come la base delle Brigate rosse di via Gradoli e l’appartamento prigione via Montalcini, nel quale l’uomo di Stato venne tenuto per tutti i 55 giorni del rapimento, dopo aver letto l’inchiesta in 5 puntate apparsa su Insorgenze.net  e sul Garantista, nella quale pubblicavamo le foto del motorino di Marini, ha messo in rete un formato molto più grande della foto a colori in cui è raffigurato il ciclomotore. Immagine di migliore qualità che permette di ingrandire con un efficacia superiore il dettaglio. Lo ringraziamo per questo prezioso contributo. Potete leggere qui il suo articolo apparso su Agoravox: (Lo Foco-Via Fani. Quel 16 marzo).
A questo punto possiamo dire che il cerchio è chiuso, ma facciamo un passo indietro: la descrizione che Marini dà del suo motorino collima con quella della foto. La probabilità che sia lo stesso è altissima. Ora sarebbe il caso, non ci vuole molto, che le autorità competenti facciano l’ultimo passo, realizzando le opportune verifiche ufficiali per chiudere definitivamente questa storia.

lofoco-moro-copPs: Inizialmente avevamo scritto che si trattava di un “Ciao” della Piaggio, ma un lettore ci ha giustamente fatto notare l’errore. Si tratta in realtà di un altro modello della Piaggio in vendità quegli anni: un Boxer.

Boxer Piaggio

Boxer Piaggio

Ciao Piaggio

Ciao Piaggio

Per saperne di più
Rapimento Moro, la ricostruzione dell’azione di via Fani disegnata da Mario Moretti
Ecco la prova che nessuno sparò al motorino di Marini in via Fani
La colonna sonora di via Fani. Dei nuovi documenti smontano la storia della Honda e le fantasie del supertestimone Marini
La leggenda dei due motociclisti che sparano e il tentativo di cambiare la storia di via Fani
Su via Fani un’onda di dietrologia. Ecco chi c’era veramente sulla Honda

La dietrologia nel caso Moro
1a puntata – Via Fani, le nuove frontiere della dietrologia
2a puntata  – Il caso Moro e il paradigma di Andy Warhol
3a puntata – Via Fani e il fantasma del colonnello Guglielmi
4a puntata – La leggenda dei due motociclisti che sparano e il tentativo di cambiare la storia di via Fani
5a puntata – Nuova commissione d’inchiesta, De Tormentis è il vero rimosso del caso Moro
I dietrologi dell’isis su Moro
La falsa novità dell’audizione di monsignor Mennini. Il confessore di Moro interrogato già 7 volte
Povero Moro ridotto a “cold-case”
Perché la commissione Moro non si occupa delle torture impiegate durante le indagini sul sequestro e l’uccisione del presidente Dc?
La vicenda Moro e il sottomercato della dietrologia ormai allo sbando

La leggenda dei due motociclisti che spararono e il tentativo di cambiare la storia di via Fani – 4a puntata

Da quei primi novanta secondi in cui, la mattina del 16 marzo 1978, le Brigate rosse riuscirono a neutralizzare la scorta e portare via il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, il tentativo di cambiare la storia di via Fani non è mai cessato. Oggi raccontiamo la lunga storia delle parole inaffidabili dell’ingegner Alessandro Marini, da sempre ritenute una delle testimonianze più attendibili e ancora oggi utilizzate per dare corpo alle letture cospirazioniste del sequestro. La leggenda dei due motociclisti che sparano e di un parabrezza che va in frantumi restano uno dei pezzi forti attorno al quale si dipana la narrazione dietrologica.  Leggi qui le precedenti puntate (1), (2), (3)

Paolo Persichetti
Il Garantista 12 marzo 2015 (versione integrale)

13 Motorino03 copiaUna moto Honda di grossa cilindrata con due persone a bordo passò davvero in via Fani la mattina del 16 marzo 1978? Se la risposta è affermativa, chi c’era sopra quel mezzo? Due brigatisti mai identificati o due ignari motociclisti piombati nel luogo sbagliato al momento sbagliato? Oppure, come sostengono i dietrologi, i centauri erano uomini dei servizi in appoggio al commando brigatista? La questione tiene banco da anni e recentemente è tornata d’attualità dopo una campagna sensazionalistica ripresa dai media. Un clamore che ha provocato prima l’avocazione dell’inchiesta, ferma da tempo, e poi la richiesta di archiviazione formulata dal pg Luigi Ciampoli (ne abbiamo parlato sul Garantista del 1 marzo 2015). Ora il gip, Donatella Pavone, accogliendo il ricorso del nuovo procuratore generale Antonio Marini (fortemente polemico con il suo predecessore), ha deciso la riapertura delle indagini. Un ping pong tra magistrati della procura segnato da rivalità, sgambetti e divergenze. Se l’attuale pg, “protempore”, Marini si mostra sempre convinto della presenza della motocicletta e che a bordo vi fossero due brigatisti rimasti impuniti, l’ex pm Franco Ionta, lo scorso 3 marzo, di fronte alla nuova commissione parlamentare d’inchiesta ha manifestato grosse perplessità.
Dal punto di vista storico e politico, se si accertasse che la moto passò e che era guidata da due brigatisti rimasti ignoti, non cambierebbe nulla. La questione rivestirebbe solo un residuale interesse giudiziario. Tuttavia i brigatisti hanno sempre smentito l’impiego di una motocicletta quella mattina. D’altronde a cosa sarebbe servita? Non certo per confermare l’imminente arrivo del convoglio che a volte sceglieva itinerari alternativi, perché la moto sarebbe dovuta rimanere troppo vicina alla scorta di Moro col rischio di insospettirla. Per questo le Brigate rosse scelsero una soluzione più discreta, impiegando una giovane militante in cima a via Fani con un mazzo di fiori in mano. Agitandoli, avrebbe dato il segnale. Una presenza talmente discreta che nessuno dei 34 testimoni la notò, e furono gli stessi brigatisti a indicarla quando, ritenuto concluso il ciclo politico della lotta armata, intesero favorire un lavoro di storicizzazione di quelle vicende.
Era superfluo anche l’impiego di una staffetta mobile per verificare che la strada fosse sgombera da presenze inopportune. Il declivio di via Fani consente una visibilità ottima a chi è più in basso. D’altronde intralci improvvisi ci furono, come la 500 che procedeva troppo lentamente, sorpassata dalla 128 giardinetta dei Br e poi con una manovra un po’ avventata dalla scorta di Moro. Il rischio di variabili era stato preso in considerazione, come la possibilità che una qualche vettura anticipasse la giardinetta di Moretti e il convoglio, piazzandosi davanti a tutti all’altezza dello stop. In quel caso l’assalto sarebbe stato portato qualche metro più in alto, all’altezza del furgone del fioraio Spiriticchio. Furgone al quale vennero bucati i pneumatici la sera prima perché non fosse presente quella mattina.
Infine, è al di fuori di qualsiasi schema d’azione brigatista ipotizzare che due militanti a cavallo di una moto si potessero fare strada con le armi in pugno, allertando chiunque li avesse visti e vanificando così quell’effetto sorpresa che forniva loro la supremazia militare, per poi sparare come dei cowboy, addirittura nemmeno contro la scorta di Moro ma verso un inerme testimone.
Come se non bastasse, tutti i mezzi impiegati durante l’azione sono stati abbandonati dopo un breve tragitto, ma della moto invece non si è mai trovata traccia. Non è pensabile immaginare che i due militanti delle Br abbiano attraversato la città su quel mezzo, segnalato da alcuni testimoni, senza mai effettuare un cambio. Pur non avendo risolto queste contraddizioni, la sentenza conclusiva del primo processo Moro, che riunisce le inchieste Moro e Moro bis, stabilì che quella moto ci fu, che sopra c’erano due militanti delle Brigate rosse che spararono ad un testimone, l’ingegner Alessandro Marini, fermo all’incrocio sul lato basso di via Fani. Almeno questo dichiarò il teste perché le perizie balistiche non confermarono mai la presenza di spari nella sua direzione. Insomma i giudici si fidarono ciecamente delle parole di Marini e condannarono anche per concorso in tentato omicidio tutti i componenti del commando brigatista, ritenendo che ve ne fossero altri due ancora da scovare e consegnare all’ergastolo.

Collocazione dei testimoni in via Fani (via Fani 9.02)

Collocazione dei testimoni in via Fani (Fonte via Fani 9.02)

La presenza della moto fu confermata solo da tre testimoni: Luca Moschini che mentre attraversa perpendicolarmente l’incrocio di via Fani, prima che scattasse l’azione, avvista una Honda di colore bordeaux accanto a due avieri (due Br) che stanno sul marciapiede antistante il bar Olivetti. Non vede armi e non sente sparare; l’ingegner Marini, per il quale invece l’Honda è di colore blu, partecipa all’assalto e addirittura sfreccia dietro la 132 blu che porta via Moro; il poliziotto del reparto celere Giovanni Intrevado che colloca il passaggio della motocicletta ad azione conclusa. Il 5 aprile 1978 riferisce di una moto di grossa cilindrata con due persone a bordo che gli «sfrecciò vicino» quando era già sceso dalla sua 500 e correva verso le tre macchine ferme. All’epoca non scorge armi e descrive i due a volto scoperto. Solo nel maggio 1994, sollecitato sulla questione, fa mettere a verbale che i due a bordo della moto procedevano lentamente guardandosi attorno e ricorda qualcosa che assomigliava al caricatore di un mitra posizionato verticalmente tra i due passeggeri, anche se «l’uomo che sedeva dietro teneva le braccia avvinte al guidatore». Circostanza che contrasta apertamente con la scena descritta dall’ingegner Marini, il quale alterna la posizione del passeggero col passamontagna: nella prima deposizione era quello posteriore che gli avrebbe sparato; nella seconda è il guidatore. Nel 1994 non è più sicuro e rimanda a quanto detto negli anni precedenti. Intrevado e Marini, che pure sono entrambi fermi allo stop, non si accorgono mai uno dell’altro. Nessuno degli altri 31 testimoni scorge la moto, durante l’assalto o subito dopo, come per esempio il giornalaio Pistolesi o il benzinaio Lalli. Nemmeno Conti, che dalla sua abitazione alle 9.02 chiama per primo il 113 e avverte che hanno colpito l’auto di Moro.
Domanda: quando è passata la moto? Siccome le tre testimonianze non sono sovrapponibili, stabilirlo è dirimente, perché solo se è passata durante l’azione si può ritenere, senza ombra di dubbio, che la moto facesse parte del commando. Se invece è passata prima, o dopo, non si ha più alcuna certezza. Fino ad oggi la magistratura ha sottovalutato queste divergenze cronologiche dando credito alla versione dell’ingegnere sul motorino.
Ma davvero Marini è così attendibile? In realtà, la sua affidabilità fu già messa in discussione dalla corte d’appello del primo processo Moro, che qualificò la sua testimonianza di «ricostruzione “a posteriori” del fatto». Le deposizioni di Marini hanno tutte una caratteristica particolare: oltre a confondere e sovrapporre le varie fasi dell’assalto brigatista, moltiplicandone i partecipanti, tendono a ricostruire la sequenza degli eventi con una forte carica egocentrica che viene a situarlo al centro di un episodio che ha cambiato la storia.
Il 16 marzo 1978 egli riferì del passeggero posteriore di una moto Honda blu munito di passamontagna che avrebbe esploso dei colpi contro di lui, perdendo un caricatore a terra che poi disse di aver indicato agli investigatori.

Marini 2

Marini 2.1

Il 26 settembre successivo dichiarò: «La persona che viaggiava sul sellino della “Honda”, dietro il conducente, sparò alcuni colpi di arma da fuoco dei quali uno colpì anche la parte superiore del parabrezza del motorino rompendolo. Io non sono stato colpito perché nel frattempo istintivamente mi ero abbassato. Conservo ancora a casa i frammenti del parabrezza che mantengo a disposizione della giustizia».
1. Caricatore e cappello copiaPerò del caricatore di cui parla Marini non si è mai vista traccia. L’unico caricatore ritrovato in via Fani, e ritratto nelle foto accanto al berretto da aviere, è quello del mitra che aveva in mano Raffaele Fiore. Il solo dei quattro del commando che doveva fare fuoco che non riuscì a sparare un solo colpo perché la sua arma si inceppò per due volte, anche dopo il cambio di caricatore, come attestano le perizie balistiche e conferma lo stesso Fiore nel libro di Aldo Grandi, L’ultimo brigatista (Bur).
Caricatore copiaIl 17 maggio 1994 l’ingegner Marini, sentito nuovamente dalla procura che stava conducendo nuove indagini, fa una rivelazione che ribalta completamente la storia dei colpi di pistola esplosi dalla Honda: «Riconosco nei due pezzi di parabrezza che mi vengono mostrati, di cui al reperto nr.95191, il parabrezza che era montato sul mio motorino il giorno 16 marzo 1978. Ricordo in modo particolare lo schoch che io stesso ho apposto al parabrezza che nei giorni precedenti era caduto dal cavalletto incrinandosi. Prima di sostituirlo ho messo momentaneamente questo schoch per tenerlo unito. Ricordo che quel giorno, in via Fani, il parabrezza si è infranto cadendo a terra proprio dividendosi in questi due pezzi che ho successivamente consegnato alla polizia». Dunque non sono più i colpi di pistola ad aver distrutto il parabrezza.

Dep Marini 0 1994Dep Marini 1994

Dep Marini 2 1994

4. Motorino 1 copiaTra le tante foto che ritraggono via Fani subito dopo l’assalto brigatista, in alcune si può scorgere, proprio dietro l’Alfasud beige della digos parcheggiata sul lato sinistro della via, un motorino accostato al muretto che separa il bar Olivetti dalla strada con un parabrezza nastrato che assomiglia moltissimo alla descrizione fatta da Marini, il quale nella deposizione del 1994 non ricordava «quando sono andato a ritirare il motorino che avevo lasciato incustodito all’incrocio con via Fani e via Stresa». E’ il suo?
Se, come dice l’ingegner Marini con 16 anni di ritardo, il parabrezza era già incrinato prima di quella mattina, e si danneggia ulteriormente perché impaurito dall’assalto armato lascia cadere il motorino, viene meno l’unico labile indizio richiamato fino a quel momento come prova dei colpi sparati dalla Honda contro di lui. E crolla la versione della Honda con i brigatisti a bordo che avrebbero partecipato al rapimento. 8 Motorino nastrato-1 copiaBoxer nastrato

9 Motorino nastrato-2 copia

12 Motorino02 copiaSe così stanno le cose, l’attuale procuratore generale, Antonio Marini, che ha ripreso in mano le indagini, ha una grande opportunità: fornire un decisivo contributo alla verità approfittando dell’occasione per chiedere la revisione delle condanne per tentato omicidio dell’ingegner Marini emesse nel primo processo Moro.
Appare sempre più chiaro che su quella moto c’erano persone ignare di quel che stava accadendo, passate nel luogo sbagliato al momento sbagliato. Eliminare l’ipoteca penale costituita del coinvolgimento nel rapimento e l’uccisione dei cinque uomini della scorta permetterebbe, a chi quella mattina si trovò lì per puro caso, di ammettere che, senza volerlo, transitò dentro la storia che stava cambiando.

4/continua

Le altre puntate
 5a puntata

Il caso Moro e il paradigma di Andy Warhol /2a puntata

Proprio mentre le agenzie annunciano che il prossimo 9 marzo 2015 verrà ascoltato per la prima volta davanti ad una commissione parlamentare d’inchiesta don Mennini (sembra che papa Bergoglio lo abbia autorizzato), l’attuale nunzio apostolico a Londra che fu confessore di Moro e soprattutto durante il sequestro terminale (sfuggito ai controlli della polizia) di alcune lettere e messaggi del leader democristiano, indirizzati in particolare al Vaticano e al suo entourage più stretto, prosegue il nostro ciclo di interventi con la pubblicazione della seconda puntata (leggi qui la prima e la terza) dedicata ai lavori della nuova commissione d’inchiesta parlamentare sul rapimento e l’uccisione del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro.
In realtà don Antonio Mennini ammise già nel gennaio 1979, di fronte alla magistratura, di aver ricevuto nel corso dei 55 giorni del rapimento su segnalazione del sedicente prof. Nicolai, alias Valerio Morucci, comunicazioni telefoniche e scritti che aveva prelevato e consegnato alla famiglia Moro

Paolo Persichetti
Il Garantista 1 marzo 2015

3. Folla via Stresa

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sulla spinta di novità che si annunciavano clamorose, subito riprese con grande risonanza dai media che hanno dato vita ad una lunga campagna puntuata da rivelazioni sensazionali e pubblicistica dietrologica, lo scorso maggio 2014 è stata istituita la terza commissione d’inchiesta parlamentare sul rapimento Moro. Tuttavia prim’ancora che iniziassero i lavori la magistratura inquirente si è incaricata di fare pulizia su alcuni tentativi di intossicazione della realtà storica.
Ad anticipare la nuova stagione dei misteri era stato, nel 2011, un libro di Miguel Gotor, Il memoriale delle Repubblica (Einaudi). Un volume corposo e ripetitivo in alcune sue parti, ma che ha rappresentato un sicuro salto di qualità nella narrazione complottistica della vicenda Moro. Senza dubbio di ben altro spessore rispetto al lavoro di Aldo Giannuli, Il Noto servizio, Giulio Andreotti e il caso Moro (Marco Tropea), uscito lo stesso anno. Storico non contemporaneista, Gotor ha provato a cimentarsi in un intricato racconto che combinando approccio filologico e dietrologia ha finito per dare vita ad un romanzato tentativo di riabilitazione postuma del leader democristiano, separato dalle sue lettere ritenute il frutto di una titanica lotta con i suoi coercitori-censori.
Successivamente, nella primavera del 2013, è arrivato nelle librerie il volume di Ferdinando Imposimato, giudice istruttore nella prima inchiesta Moro. Un testo a sensazione dal titolo: I 55 giorni che cambiarono l’Italia. Perché Moro doveva morire (Newton Compton), divenuto presto un successo editoriale con oltre 95 mila copie vendute. L’ex giudice in pensione riapriva la questione di via Montalcini, la base brigatista dove Moro fu rinchiuso nei 55 giorni del sequestro. Vittima di un grossolano raggiro, l’ex magistrato aveva dato credito ad uno strano personaggio, tale Giovanni Ladu, ex ufficiale della Guardia di finanza che per dare maggiore credibilità alle proprie “rivelazioni” aveva inventato l’esistenza di un secondo testimone, contattando il vecchio giudice con un nickname di fantasia intestato a tale Oscar Puddu, ex ufficiale di Gladio, mai esistito ovviamente.
Ladu, alias Puddu, sosteneva che i servizi sapessero dell’abitazione dove Moro era trattenuto e che addirittura avessero occupato l’appartamento sovrastante per controllarlo meglio, decidendo alla fine di non salvarlo su ordine dell’allora presidente del consiglio Andreotti e del ministro dell’Interno Cossiga. Sonore panzane, ma di grande effetto mediatico perché la storia, messa in questi termini, sembrava quasi una versione antelitteram della vulgata che in quei giorni dominava le polemiche sulla trattativa Stato-Mafia. Moro vi appariva come una specie di protomartire che anticipava il destino poi toccato alla coppia Falcone-Borsellino; tutti e tre fatti morire da politici cinici e bari, in combutta con poteri occulti, apparati opachi non meglio precisati e servizi delle grandi potenze che avevano delegato il lavoro sporco ai brigatisti, rappresentati come dei semplici convinti di fare la guerra a quel re di Prussia che invece li manovrava a loro insaputa. L’iperbole cospirazionista di Imposimato e poi giunta a chiamare in causa una nuova sinarchia universale guidata dal gruppo Bilderberg, tesi che l’ha reso una delle icone più amate dai fans delle scie chimiche.
Ma questa volta la favola non ha avuto il suo dulcis in fundo e Giovanni Ladu è finito indagato per calunnia, mentre l’ex giudice senza batter ciglio ha continuato a vendere nelle librerie il suo libro, mai corretto, e presentarlo in giro per l’Italia, persino nelle scuole, fino a diventare il candidato grillino alla presidenza della repubblica.
Sulla scia del successo editoriale del libro di Imposimato, nel giugno successivo, anche Vitantonio Raso, uno dei due artificieri che intervennero in via Caetani sulla Renault 4 nella quale le Brigate rosse fecero ritrovare il corpo di Moro, cercò di conquistare la scena per offrire un po’ di pubblicità alle sue memorie, La bomba umana (Seneca edizioni).
Secondo Raso la versione ufficiale del ritrovamento del corpo di Moro era falsa. La scoperta andava anticipata di alcune ore, molto prima della telefonata di Morucci al professor Tritto. Cossiga sarebbe arrivato sul luogo almeno due ore prima, per poi tornare una seconda volta e mettere in scena il ritrovamento ufficiale. Questo perché, ça va sans dire, tutte le mosse delle Brigate rosse erano conosciute in anticipo. Anche in questo caso un gigantesco depistaggio. Non c’è voluto molto alla magistratura per scoprire che Raso mentiva. Nessuno dei numerosi testimoni che quella mattina transitarono per via Caetani ha confermato la sua versione e così anche lui è finito sotto indagine per calunnia.
Non deve stupire, dunque, se la vicenda Moro appare sempre più come una delle migliori conferme del paradigma di Andy Warhol: «un quarto d’ora di celebrità non si nega a nessuno».
Obbligata ad aprire l’ennesima inchiesta, la moro sexies, la magistratura questa volta ha rotto le uova nel paniere della dietrologia parlamentare mettendo in serio imbarazzo i fautori della nuova commissione d’inchiesta. Uno dopo l’altro, infatti, i petali della margherita dei misteri sono caduti e nelle mani di quei parlamentari che del complottismo hanno fatto la loro impresa politica è rimasto solo un misero gambo appassito. Continuare a sostenere la necessità della commissione sembrava ormai un’impresa disperata fino a quando, nel marzo del 2014, il circo Barnum dei misteri ha rilanciato le dichiarazioni di un ex ispettore di polizia.
Enrico Rossi, con un passato alla Digos di Torino, denunciava resistenze nelle indagini su una lettera anonima nella quale si raccontava di due agenti dei servizi presenti in via Fani, a cavallo di una moto Honda, al momento del rapimento del dirigente democristiano. I due – sempre secondo l’anonimo – alle dirette dipendenze di un colonnello del Sismi avrebbero dato manforte al nucleo brigatista.
Il clamore mediatico e le pressioni della politica (il Copasir convocò una serie di audizioni) provocarono l’avocazione delle indagini da parte della procura generale. L’episodio diede nuova linfa alle ragioni della commissione fino alla doccia fredda della richiesta di archiviazione dello scorso novembre 2014. All’origine delle sensazionali rivelazioni ci sarebbe stato, secondo il procuratore generale Ciampoli, lo stesso personaggio indicato nella lettera come uno dei due motociclisti. Il racconto che vi era riportato era apparso subito ai più attenti un calco della sceneggiatura di uno dei peggiori film girati sul rapimento Moro, Piazza delle cinque lune di Renzo Martinelli, uscito nel 2003.
Antonio Fissore, l’uomo chiamato in causa nella lettera, malato di cancro come nella sceneggiatura del film, si sarebbe preso gioco di tutti ridendo all’idea che dopo la sua morte sarebbe finito al centro dell’attenzione generale. Insomma una grande burla degna della migliore stagione della commedia all’italiana.
Una tragicommedia recitata sullo sfondo di forti attriti tra l’ufficio titolare della sesta inchiesta Moro, poco propenso a dare credito ad operazioni goliardiche del genere, e l’entrata a gamba tesa di un procuratore generale prossimo alla pensione ma che nella sua richiesta di archiviazione, una rassegna della pubblicistica complottistica con tanto di lunghi copia-incolla, ripresi in particolare dal testo di Gotor sul memoriale Moro, riportava un episodio rivelatore delle origini di questi scoop: a procurare il contatto tra l’ex poliziotto e Paolo Cucchiarelli, che attraverso l’Ansa ha lanciato le presunte rivelazioni di Raso e poi di Rossi, era stato «Alberto Bellocco di Domodossola, rappresentante in Piemonte del Movimento politico che si stava coagulando attorno a Maria Fida Moro la quale anch’ella lo aveva sollecitato in tal senso».
Sgonfiatosi anche il mistero della Honda, la decisione di fare ricorso a nuove tecnologie d’indagine, come la scansione laser del luogo del rapimento, nonostante i 36 anni di distanza, è stata per la commissione una disperata scelta di ripiego, un modo per provare a dare ancora una qualche briciola di senso ad una commissione senza senso.

2/continua

Le altre puntate
3a puntata  – Via Fani e il fantasma del colonnello Guglielmi
1a puntata – Via Fani, le nuove frontiere della dietrologia

Per saperne di più
Lotta armata e teorie del complotto

Andy Warhol e  il caso Moro