“In memoria di Prospero Gallinari”, di Oreste Scalzone

Vorremmo essere qui contadini della terra dove giaci,
e che concimi anzitempo,
companero de l’alma, compagno

(Miguel Hernandez)

E così, il “contadino nella metropoli”, se n’è andato anche lui.
Sempre, di  “un uomo che muore”, si potrebbe venire a dire tutto un
concatenamento,
 una matassa anche aggrovigliata di cose, più o meno
‘rapsodicamente’ e senza l’assurda pretesa di poter racchiudere
chicchessìa in un giudizio, una biografia, un ritratto.
 Qui, tanti
approcci possibili : “Prospero come Prospero”, la persona;
 Prospero
nei contesti, sincronicamente e diacronicamente; Prospero e 
le
mutazioni d’epoca, di “spirito del tempo”, Zeit Geist; Prospero 
nella
lunga onda lunga, onda alta della sovversione, nei movimenti che 
nelle
cronologie possiamo periodizzare come seguìti al Sessantotto, 
e
chiamare “Sessantotto lungo”, lungo un anno, un lustro, e poi due, e
più; 
Prospero uno di noi in senso largo quanto si può, dando per
buone in generale le auto-certificazioni; Prospero e i più
strettamente “suoi”; Prospero e
nojaltri in senso stretto; e in
tanti potremmo scrivere di “Prospero e io”.
Si potrebbe per esempio
cominciare da un Brecht in cui aveva trovato 
qualcuno che gli dava
voce: tra l’Elogio dell’agitatore nella 
cassa di zinco e l’Ode del
lavoro clandestino –
«Bello è / levare la
voce nella lotta di
classe»…
Si potrebbe cominciare dal riaffiorare di ricordi, remoti, recenti…
Ma la rapsodìa
 diverrebbe troppo lunga.
La vita che tira per la giacca, strattona, la vita ‘che tossisce
tutta la notte e non vuol lasciarti dormire’, le voci che
sopravvengono incessanti spintonandosi accavallandosi, fatti e cose,
sussurri e grida, chiamate, perentorie domande, interrogazioni,
replicate da echi, mutazioni mutanti e mutagene, variazioni su tema,
che insorgono come voci-di-dentro : così il <tempo di nostra vita (…)
–  e qui per evitare equivoci, malintesi e illazioni  di dualismi e
differimenti impliciti, introdurrei d’arbitrio una virgola – (…),
mortale>, così, anche così si autodivora, tempus fugit, si restringe,
fugge, sfugge, si consuma – il tempo, manca.
Nel dispotismo, insomma, crudele della misura del tempo, crono-metrìa,
<invenzione degli uomini incapaci d’amare>, non c’è spazio più di
tanto per piangere su noi stessi, che ad ogni addìo ci sentiamo un po’
più soli, e dobbiamo apprendere a elaborare il lutto della nostra
mortalità di esseri di <razza umana>, specie di esseri parlanti, la
cui singolarità – che è innanzitutto il “sapersi” e il “sapersi
sapere”, a cominciare dall’inferenza della mortalità e dell’alterità,
sé/altro: conoscenza/dannazione, ché conoscere implica separazione,
distinzione, divisione, strappamento –, la cui peculiarità  è il
guardarsi vivere sapendosi morir[n]e, strappati alla pienezza di un
presente attanagliato dai tempi che lo riducono a una linea sottile
inconsistente, come a zero.
Corrono così giorni prima che chi vi scrive, sempre più
intempestivamente anche qui, riesca a “metter nero su bianco” almeno
un po’ di quanto aveva cominciato a ‘traghettare’ dalla girandola di
emozioni e riflessioni, al foglio scritto: per tentare di mettere in
comune, per quanto è possibile, la tristezza, il sentirsi ancora un
po’ più soli per la disparizione dalla scena – dal ‘Gran Teatro del
Mondo’, e dalle proprie psico-cartografie più o meno immaginarie di
territori esistenziali, di tutto un arcipelago, <gruppo di isole unite
da ciò che le separa> – di un amico.
E cominciare il lavorìo, il travaglio, travail,
dell’elaborazione del lutto per quest’altro,
ultimo addìo, per la morte – che per noi è la perdita, per lui  la
“fine-del-mondo” – di un compagno, amico, che evoca il pane spezzato
e condiviso, ‘il pane e anche le rose’; la lotta, le spine e le
ferite, il <mi rivolto, dunque siamo>, la ‘vita materiale’  e il
‘sogno di una cosa’ – espressione che non è di Pasolini, è di Marx…
(strana sempre, sorprendente la <chimica mentale>, le reazioni
concatenate, associazioni, sinergismi… mi affiora alle labbra,
finalmente, uno e poi un altro brandello dell’Urlo di Ginsberg
<…sono con te a Rockland, dove venticinquemila compagni matti
cantano tutti insieme le ultime strofe dell’Internazionale. Sono con te a Rockland…>,
e il verso di Miguel Hernandez <alle anime alate delle rose […] ti chiamo,
ché dobbiamo parlare di molte cose, companero de l’alma, companero>).

{A questo punto, per intanto, trascrivo qui di seguito delle prime
riflessioni, che avevamo messo in circolo ‘a caldo’, poche ore dopo la
notizia della morte di Prospero.
   Il tempo manca, ora – ma proseguiremo nei prossimi giorni il
‘filo-del-discorso’ }

Innanzitutto, di Prospero Gallinari, un paio di cose.
Primo, quando nello <spazio pubblico> si discuteva della
sospensione per gravissimi motivi di salute della pena che stava
scontando, ciò che faceva ostacolo, come un macigno, all’applicazione
di questa misura di scarcerazione che la stessa legge prevedeva per
qualsivoglia persona detenuta fosse in  condizioni fisiche gravi ed a
rischio, era una considerazione extra-giudiziaria, d’ordine
ideologico-politico, di natura <sostanzialista>, a carattere
“tipologico”, ad personam: la – diciamo pure –  convinzione, asserita
come certezza, dai Palazzi alle strade, da “scrittori e popolo”,
che Prospero fosse stato attore diretto, anche materiale,
dell’esecuzione dell’onorevole Aldo Moro.
[ In generale, sempre, questa tracimazione dal piano della <verità
giudiziaria> –  che nello stesso Diritto penale una volta mondanizzato
e non più sorretto dalla presa in conto di un’ipotesi-Dio, non può
che essere un <come se>, una congettura, più o meno decentemente
fondata, ma mai, “pe’ la contraddition che nol consente”, certezza
assoluta, talchè una sentenza è pur sempre un <dispositivo di
produzione di effetti di verità> – , questo spostamento ed irruzione
su quello detto nel léssico giuridico <verità storica>, è arbitraria, abusiva.
La più plebiscitaria, unanime <vox populi> non può mai, in
punto logico, aveva la valenza che in altri codici e paradigmi è
attribuita alla <vox Dei>, una volta che questa sia stata dichiarata
caduca, o comunque per convenzione tenuta fuori del campo normativo.
Nel campo penale più che in ogn’altro, la più convincente delle
deduzioni, la più forte delle verosimiglianze, non può essere asserita
come Verità assoluta, come la <Verità>: questo vorrebbe dire
istituire, appunto, un <Ministero della Verità>…
Questa pretesa di veridizione assoluta, “obietiva”,
rende perciostesso falsità ogni illazione, nel momento stesso
in cui la spaccia per certezza avventurandosi sul terreno di ciò che,
in buona filosofia, è inattingibile, salvo ad una eventuale onniscienza –  nello stretto
senso teologico – che “non è di questo mondo”.]

Come si è visto poi, con una successiva e ultima approssimazione alla
verità fattuale che è stata omologata dalla stessa parola finale sul
piano della ricostruzione e decretazione giudiziaria della “verità” in punto di fatto,
nel caso specifico l’illazione aveva un contenuto falso.
Ebbene, nell’altalena di un’ipoteca radicale sul suo destino –
questione “di vita o di morte” in senso stretto e immediato, a dire di
tutte le perizie mediche –, Prospero Gallinari non si lasciò mai
estorcere alcuna confessione d’innocenza. Senza alcuna iattanza,
vociferazione altisonante, enfasi grandiloquente sui bordi delle
economie narcisistiche del “Guerriero” e del “Martire”, dell’eroismo
stile <capace di morire di mille ferite pur di disarcionare
l’Imperatore>, del sacrificio, e poi  dell’auto-identificazione come
vittima.  Semplicemente, un po’ come il<Bartheleby di Melville,
Prospero taceva o rispondeva di non aver nulla da dire,
<I’ld prefer not to>. Esprimeva un rifiuto di entrare nella dialettica
dell’Innocenza e della Colpa. E anche dopo, non ritenne, pur incalzato da
domande che trasudavano innanzitutto stupore come di fronte a un
qualcosa d’impensato e impensabile, non aggiunse una mezza parola che
potesse anche semplicemente validare l’ipotesi affermatasi e non fatta
oggetto di confutazione alcuna.
La cosa parla da sé, non richiede commenti.

Secondo. Prospero che, secondo testimonianze molteplici, convergenti
e al di fuori della minima ombra di sospetto di logica utilitaristica,
perché fuori di ogni possibile “mercato penale”, mercato “delle
Giustizie e delle Grazie”, delle punizioni e delle indulgenze, aveva
pianto, non solo salutando un’ultima volta Aldo Moro, su questa morte.
Viene in mente la tragedia, etica, logica, del rompicapo, del vero e
proprio <dilemma morale>, della <Canzone di Piero> di De André. In
quel caso, dentro il carattere cogente come forza di gravità di un’inimicizia
in quel caso prescritta, comandata e subita, ma comunque
materialmente vigente, stato-di-fatto, il soldato Piero esita e non
spara per primo. Non già per distrazione, per grandezza o grandezzata
d’animo, o altre Elette virtù (in paradigmi diversi da quello
dell’egocentrismo parossistico del patriottismo, dei patriottismi
“eguali e contrari” il cui manifestarsi perfettamente all’unisomo non
può che, perciostesso, divenire massacro): semplicemente, per un
personalissimo egoismo, che gli renderebbe insopportabile <vedere gli
occhi di un uomo che muore>, sopportare lo sguardo di uno che muore per tua mano – è tutto.

Ora, la Storia – soprattutto quella per narrazioni di Grandi eventi,
è piena di chi per “interesse privato” e propensione istintuale,
radicata nella disperata lotta per la sopravvivenza, nella dedizione
alla predazione, alla sopraffazione, all’uso strumentale, al comando,
al possesso, fino all’annichilazione d’altrui.
Chiunque abbia praticato la decisione, l’impresa, il governo, il
comando, ha preso su di sé la responsabilità terribile di causare,
direttamente o indirettamente, la morte d’altrui.
Condottieri, profeti, fondatori di città e d’imperi, sovrani… Nelle
forme moderne in cui tutto questo appare più “automatico”, invisibile,
“oggettivo”, “tecnico”, necessitante, “naturale”.
<Non si governa senza crimine>, come nota Machiavelli nel Principe. […].
Che <un morto sia tragedia e crimine, un milione di morti,
statistica>, è frase terribile, può essere stolta se scagliata come
ritorsione animata da manicheismo,
auto-negazionismo e surrettizia “universalizzazione come Bene”
della propria partigianità, ma è pur sempre attualmente incontrovertibile.

Certo, questo vale anche per chi è ricorso alla violenza per moventi
opposti, d’insorgenza contro tutto questo; ma, dal nostro
irriducibile punto di vita all’opposto di quello istituito e imposto
come ‘corrente’, con una natura radicalmente diversa  (sia pure con
tutti i benefici secondari, d’ordine narcisistica, che può motivare questa condotta del ribelle).
Certo, non si sono mai viste rivoluzioni (e non solo quelle segnate
da una fondamentale omologia e mimetiche, marcate dalla contraddizione
in termini di una rivoluzione statale, ciò che ad avviso di chi scrive
condanna senza appello ad una eterogenesi dei fini e in una
trasformazione nel proprio più atroce contrario […]; ma in generale
anche insurrezioni, guerriglie di resistenza) al netto del sangue.

Ciò detto, una distinzione di tipo etico si può fare, tra chi è
dotato di riflessività, consapevole delle sue responsabilità, e non
pretende – a mezzo della falsificazione delle propagande – di operare
una trasmutazione alchemica che faccia diventare ciò che
intrinsecamente è “male”, intrinsecamente “Bene”, “buono”
(addirittura pretendendo di convincerne chi lo subisce) – e chi no.
Tra chi si trincera, si nasconde dietro l’invisibilizzazione per
astrattizzazione “statistica” – tanto maggiore quanto più alto è il
numero degli schiacciati e sterminati, più indiretta, invisibilizzata,
la responsabilità, occultata da un concatenamento ferreo ma non
immediatamente evidente di cause ed effetti, di decisioni e conseguenze –,
e chi non sfugge il senso tragico della propria responsabilità. Tra chi “manda”, e chi “va”.

Nell’emergere sempre più incontestabile di una corsa delle logiche
istituite ad un crescente assurdo, con tutti i corrispondenti scenari,
la ‘cifra’ etica di un Prospero Gallinari rende tanti irriducibili
Soloni d’ogni taglia e bordo, dei sinistri e grotteschi nanerottoli.
Per intanto una frase:
<Sarà difficile ridurre all’obbedienza chi
non ama comandare>…  […]

il 19 gennaio 2013, prima di partire per Reggio Emilia

Oreste Scalzone, & qualche complice

Gallinari e Caselli, un confronto tra cattivi maestri e bravi bidelli

Leonardo Sciascia nel suo Il giorno della civetta aveva diviso gli esseri umani in cinque categorie:

«…l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi… E ancora più in giù: i piglianculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre…»

Con Totò le categorie si riducono a due:

«L’umanità, io l’ho divisa in due categorie di persone: Uomini e Caporali. La categoria degli uomini è la maggioranza, quella dei caporali, per fortuna, è la minoranza. Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare per tutta la vita, come bestie, senza vedere mai un raggio di sole, senza mai la minima soddisfazione, sempre nell’ombra grigia di un’esistenza grama. I caporali sono appunto coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza averne l’autorità, l’abilità o l’intelligenza ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il povero uomo qualunque.Dunque dottore ha capito? Caporale si nasce, non si diventa! A qualunque ceto essi appartengono, di qualunque nazione essi siano, ci faccia caso, hanno tutti la stessa faccia, le stesse espressioni, gli stessi modi. Pensano tutti alla stessa maniera!»

Dopo aver letto l’intervento di Giancarlo Caselli apparso questa mattina (qui) sulla gazzetta delle procure (intendo il Fatto quotidiano), abbiamo capito che il mondo è ormai cambiato. Al posto dei “caporali” di Totò e dei “quaquaraquà” di Sciacia difronte a noi abbiamo da una parte i cattivi maestri e dall’altra i bravi bidelli.

Il capo della procura torinese, come aveva fatto Bendetta Tobagi alcuni giorni fa su Repubblica (qui), lamenta la reazione della rete alla notizia della scomparsa improvvisa dell’ex esponente della Brigate rosse Prospero Gallinari. Non gli va proprio giù che tanti, tra cui molti giovani, abbiano mostrato stima, simpatia, rispetto e attenzione per la storia di un “cattivo maestro” come lui definisce Gallinari. Non sopporta nemmeno chi ha dato prova di piètas. Costoro sarebbero tutti dei «nostalgici irriducibili, pronti ad osannare la lotta armata anche nel nuovo secolo», ha scritto per concludere minacciosamente: «Ancora una volta il silenzio e la contiguità su questi temi sono complici».
Attenzione dunque, anche il cordoglio, non parliamo della partecipazione ai funerali che si terranno domani alle 14.30 a Coviolo (vedi qui) presso Reggio Emilia, potrebbero essere considerati elementi probanti l’appartenenza ad una possibile, nuova ed immaginaria, banda armata.

Per Caselli, che cita Barbara Spinelli, affranta anch’essa dall’inciviltà del web, si tratterebbe della «patologia che affligge molti italiani, spesso vittime di una perdita di memoria che sconfina nell’amnesia e porta ad una profonda sottovalutazione del pericolo che si corre occultando il passato per la mancanza continuativa di una coscienza etica».

Cosa da fastidio a questi bravi bidelli? La pluralità delle memorie, la ricchezza delle testimonianze, la storia aperta traversata da correnti di pensiero, dibattiti, confronti e contrasti. I bravi bidelli vorrebbero il deserto, quello che chiamano “memoria condivisa”, altrimenti detto storia di Stato, che poi rima con ragion di Stato o verità politica. Aspirano al monopolio del passato che prelude e fonda quello del futuro, ambiscono al controllo delle coscienze, al ministero della verità, ad una società orwelliana dove non c’è posto, prim’ancora che per la molteplicità delle idee, per i fatti stessi, per quella che Machiavelli definiva la “realtà effettuale della cosa”. Vorrebbero un mondo silenziato che nella loro neolingua chiamano democrazia.

Per questo hanno istituito le giornate della memoria che attraverso solenni rituali commemorativi cadenzano il cerimoniale istituzionale divulgando un’etica di Stato. Una memoria in bianco e nero che evoca immagini sbiadite di violenza politica e cancella i colori vivi della storia. In questo modo all’oblio dei fatti sociali sovrappongono unicamente la memoria penale, unico presente possibile, finalizzata alla creazione di una nuova topolatria: il culto di luoghi e momenti sapientemente selezionati per rappresentare il sacrificio versato ai valori legittimi.
Emanate le sentenze, sepolti nelle galere o ripresi dall’esilio gli insorti di ieri, deplorati i morti di una parte e decorati quelli dell’altra, elevate le lapidi e innalzati i monumenti, ribattezzate le vie, ai soggetti vivi della storia sostituiscono i testimoni risentiti della memoria.

Ne da ampia prova lo stesso Caselli con il suo linguaggio carico di risentimento e spregevole livore classista quando dipinge il giovane contadino Gallinari, dalle unghie sporche e le mani callose, come un individuo rozzo e volgare. Pensate, da ragazzo quand’era in campagna si cimentava in singolari sfide, «tipo mangiare venti calzoni di fila o stare a torso nudo, sotto un albero, tutta la notte». Che orrore madama la marchesa!

Il giudice torinese sembra ossessionato, mostra di temere Gallinari anche da morto, ha paura che il suo fantasma possa venire a turbare la quiete delle sue notti, sospetta che possa reincarnarsi tra qualche No tav, sotto felpe e i cappucci dei giovani che manifestano nelle piazze o tra i migranti che sbarcano sulle rive di Lampedusa.

Gallinari è uno spettro che si aggira nella sua mente, forse per questo tenta di esorcizzarlo attribuendogli altre responsabilità anche dopo la sua scomparsa. Nonostante le circostanze dell’uccisione di Moro siano accertate da tempo (leggi qui), Caselli non esita a seminare il dubbio sostenendo che la sua carriera di brigatista sarebbe «culminata con la spietata esecuzione (forse) del prigioniero Aldo Moro».
E’ indecente Caselli, è un bugiardo perfettamente consapevole di esserlo.

Ma chi è Caselli (Guarda qui)? In passato sia Giuliano Ferrara che Saverio Vertone (importanti dirigenti del Pci torinese) hanno raccontato come esercitasse la sua funzione giudiziaria tenendo riunioni politiche nelle sedi del Pci per concertare una comune strategia antiterrorismo.
Sul Corriere della sera dell’11 dicembre 1994 Vertone spiegava: «I rapporti di Caselli con il Pci erano strettissimi, fino a divenire più avanti nel tempo, statuari, organizzativi. Partecipava alle riunioni dei comitati federali. Forse, ma non ne sono certo, prendeva anche la parola alle riunioni di segreteria: discuteva di politica, naturalmente. Però non dimentichiamoci che allora discutere di politica significava affrontare il problema dell’emergenza terrorismo. Caselli era il rappresentante dell’ “intransigenza democratica”, teorizzava la supplenza della magistratura dinanzi al cedimento degli organismi pubblici. Io e Ferrara concordavamo con lui sulla necessità di mantenere una linea dura».

Leggi qui la testimonianza di Ferrara.

All’insegna di quella che fu la magistratura combattente durante l’emergenza degli anni Settanta, Giancarlo Caselli ha sempre condotto una battaglia su due fronti: quello giudiziario e quello del senso, ovvero sulla visione legittima delle cose da imporre. Appartiene a quel genere di magistrati che pretendono di salvarti l’anima per il mezzo della confisca del corpo.

Non importa che tu sia vivo o sia morto.

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Doppio Stato e dietrologia nella narrazione storiografica della sinistra italiana
Spazzatura, Sol dell’avvenir, il film sulle Brigate rosse e i complotti di Giovanni Fasanella

Tutti a Coviolo per salutare Prospero Gallinari. La cerimonia si terrà domani 19 gennaio alle 14.30

  Si terrà di domani, sabato 19 gennaio, alle 14.30 presso il cimitero di Coviolo in via dei Fratelli Rosselli 5 la cerimonia in saluto di Prospero Gallinari

Coviolo si trova a 4 km da Reggio Emilia. Si può raggiungere prendendo il bus 4 dalla stazione di Reggio Emilia.
Orari di collegamento (una ventina di minuti il tragitto)
13.11  /  13.59   /   14.05   /   14.12

Gallinari-Prospero-3-zoom

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Chi era Prospero Gallinari?

prospero-gallinari-2Nelle cronache televisive e giornalistiche di questi giorni la figura di Prospero Gallinari è stata descritta come quella di un personaggio ambiguo e reticente, morto portando con sé (supposti) «segreti e misteri sul caso Moro». Un’accusa che serve a sorreggere un’antica calunnia: questi silenzi sarebbero stati la merce di scambio per uscire dal carcere. Una tesi che Miguel Gotor ha largamente sostenuto nel suo Il Memoriale della Repubblica, Einaudi 2011, cadendo tuttavia in palesi contraddizioni.
Mario Moretti è da 32 anni in stato detentivo, semilibero dal 1997, anche se Gotor con una grossolana imprecisione scrive che è libero dal 1994. Un errore importante poiché su questa grave inesattezza poggia l’intera impalcatura del suo teorema.
Gallinari, come abbiamo visto (leggi qui) era agli arresti domiciliari per gravi motivi di salute che lo rendevano incompatibile alla detenzione; Rita Algranati è in carcere. Due presunti componenti del commando che operò in via Fani sono all’estero. Uno di questi, Alvaro Lojacono, ha scontato la pena in Svizzera. Tutti gli altri, a 34 anni dai fatti (una distanza senza precedenti nella storia d’Italia e nel resto d’Europa), hanno terminato le loro condanne: chi perché essendosi dissociato ha usufruito da tempo di ampi sconti di pena; chi perché alla fine del lungo percorso penitenziario ha avuto accesso alla liberazione condizionale.

A queste accuse ha risposto Francesco Piccioni in una intervista apparsa su Contropiano (leggi qui).
Altri commentatori hanno poi offerto delle raffigurazioni grottesce e caricaturali di Gallinari, dipinto come uno «stalinista», pronto a sacrificare chiunque se il disegno superiore della rivoluzione lo avesse richiesto (Andrea Colombo), personaggio spietato, sospetto agente del Kgb, adepto della scuola del comunismo sovietico (Fasanella), dove avrebbe «imparato a coniugare la durezza ideologica con la disponibilità al compromesso, la rivendicazione orgogliosa delle proprie scelte, anche quelle più tragiche, con la tendenza a scendere a patti con il diavolo» (sempre Fasanella).
Ma chi era veramente Prospero Gallinari? Senza avere la pretesa di essere esaustivo, questo scambio che ho avuto in queste ore con Andrea Colombo dopo un suo articolo apparso sul sito online de Gli Altri, può aiutare a capirne qualcosa di più

Caro Andrea Colombo,
ripeto, il tuo pezzo poteva essere bello perché capace di cogliere alcuni aspetti decisivi della personalità di Prospero Gallinari e soprattutto di ricordare come non si sia mai fatto estorcere – come ha recentemente sottolineato Scalzone – “nessuna confessione d’innocenza” di fronte all’accusa rivelatasi alla fine inesatta di essere stato l’esecutore materiale di Moro, nonostante ciò l’avrebbe probabilmente aiutato ad uscire molto prima dal carcere per le sue difficilissime condizioni di salute.
Caratteristiche che tu però hai confinato unicamente alla dimensione umana del personaggio, mentre in una sorta di chiaroscuro ne hai demonizzato quella politica, dandogli dello “stalinista”.

Cito: «era un rivoluzionario generoso e di animo buono, ma era anche uno stalinista, uno di quelli che se il partito glielo avesse ordinato ti avrebbe eliminato, con le lacrime agli occhi ma senza esitare, convinto che questo fosse il suo dovere di rivoluzionario e di soldato della guerra di classe. Quella spietatezza politica era inaccettabile, certo, ma Prospero la condivideva con migliaia e migliaia di militanti dei suoi tempi. Che non erano i nostri, perché Prospero Gallinari era davvero un uomo e un rivoluzionario e un comunista “d’altri tempi”.
Affermazione che fa il paio con quella precedente, “Con noi, ragazzi di movimento, che negli anni ’70 il Pci lo odiavamo e lo combattevamo aveva pochissimo a che spartire. […]Ci guardava con sospetto, come quasi tutti i brigatisti, operai e contadini la cui continuità con la tradizione comunista era molto più ferrea della nostra».

Mi riferivo, con tutta evidenza a questi infelici passaggi quando ho accennato a quel dizionario dei luoghi comuni nel quale alla fine sei inevitabilmente scivolato. E mi sembra che nella replica tu abbia colto perfettamente il senso della mia critica, imbarcandoti tuttavia in un tentativo di precisazione del senso che attribuivi al termine “stalinismo” che non solo non rende giustizia a Prospero, ma trasforma questa categoria in una sorta di concetto metastorico del tutto fuorviante.

Andiamo per ordine: sostieni che la risposta di Gallinari su Tienanmen sarebbe un dettaglio banale! A me non sembra proprio, al contrario la trovo dirimente. Tu invece lasci ingiustamente pensare che sia stato un escamotage intelligente per dissimulare un’identità in quel momento impopolare. E la cosa, se mi permetti, è ancora più offensiva per la memoria di Prospero perché oltre a dargli dello stalinista gli dai pure del dissimulatore.

Le Br, nel bene o nel male, hanno sempre detto quello che sono state e sono sempre state quello che hanno detto. Se avessero appoggiato il “socialismo di mercato” cinese, come accade per tutte le varie tendenze con venature rosso-brune, nazional-bolsceviche, identitarie e comunitariste, che ormai dilagano ben oltre gli ambienti veterocomunisti, in quel momento l’avrebbero sostenuto senza problemi.
Ma la loro storia ci dice che hanno tentato di rappresentare l’opposto.

Nella tua replica introduci con molta leggerezza una equivalenza tra terzointernazionalismo e stalinismo per poi affermare che “voi”, cioè noi brigatisti di più generazioni, saremmo stati gli epigoni di quella cultura politica.
Capisco che nella tua affermazione sia contenuta una carica polemica antica derivante dalla tua originaria appartenenza ad una delle componenti dell’operaismo che si è sempre narrata come l’unica legittima rappresentante di quella storia, in realtà molto complessa, e si è autoincensata come l’antitesi intelligente e moderna, rivale e alternativa alle culture considerate “vetero” presenti nel resto del movimento, anzi “esterne” al movimento come vi piaceva tanto dire delle Brigate rosse.

Per fortuna, caro Andrea, la storia è ben più complessa, articolata, carica di sfumature e sorprendenti smentite. Dovreste liberarvi, tu e i tuoi amici postoperaisti e postnegriani, da certe leggende ideologiche, uscire dalle narrazioni autocelebrative e calarvi all’interno di una visione più laica degli anni 70, che alcune ricerche sociologiche sull’origine politica-ideologica dei militanti della lotta armata, e delle Brigate rosse in particolare, già consentono.

Da tempo questi dati ci dicono che il grosso dei militanti della lotta armata viene dal filone operaista, comprese le Br che pure, a differenza di altre formazioni armate più omogenee, hanno avuto una composizione socio-ideologica molto eclettica che nei 19 anni della loro storia ha reclutato nelle aree politiche più disparate, subendo anche influenze legate al peso delle diverse generazioni che vi affluivano.

Se le Br fossero state soltanto quella sorta di cartolina di Épinal in salsa emiliana legata alla vicenda del gruppo dell’appartamento o dei trentini della facoltà di sociologia, sarebbero finite con la trappola di Girotto-frate Mitra. Quella emiliana fu una enclave mitizzata e mediatizzata a cui crede ormai solo quel cospirazionista attardato di Fasanella, anche perché per anni molti di quel gruppo hanno rappresentato la parte visibile dell’organizzazione, quella finita in carcere.

In realtà l’insediamento più grosso e strutturale stava nelle fabbriche del triangolo industriale, proveniva dall’esperienza dei Cub, era l’anima operaia, quell’operaio massa nuovo e sovversivo.
Ma ciò che ha fatto sopravvivere questo gruppo per quasi due decenni è stata la capacità di uscire anche dalla fabbrica, radicarsi nel territorio, insediarsi nelle periferie romane e milanesi, fino a Napoli.
Nelle Br non confluiscono solo ex Fgci (fatto anche generazionale. Chi era giovane nei primi anni 60 passava da lì come avvenne per alcuni fondatori di Potop), qualcuno, o pezzi del gruppo feltrinelliano, ma comunisti libertari come Faina, larghe fette di Potere operaio, meno di Lc, maoisti, quelli prima confluiti per Potop (altri ex mao confluiti in Potop fondano gruppi armati concorrenti) e altri ancora, e poi quel magma definito genericamente Autonomia, prima e dopo il 77.
Il reclutamento in una città come Roma, soprattutto nella zona periferica sud-est, si prolunga fino alla metà degli anni 80.

Che il terzointernazionalismo non sia riassumibile nello stalinismo lo si deve affermare per rispetto delle altre famiglie del comunismo internazionale. Quanto meno avresti dovuto prendere delle precauzioni periodizzando. I troskisti, i bordighisti, per citarne solo alcune, sono a pieno titolo figli di quella tradizione.
Senza dover citare Revelli, quella proiezione verso l’assoluto del fine che giustifica ogni mezzo non è propria solo dello stalinismo, che l’ha portata alla sua aberrazione massima, all’abisso senza ritorno. E’ insita in molte altre culture non solo del comunismo rivoluzionario, in quelle leniniste, nel troskismo, nella tradizione anarchica, ma e propria anche delle culture nazionaliste e fasciste, appartiene – lo sai meglio di me – alla grande avventura sionista tuttora in corso.
Aggiungo che non manca nemmeno nelle esperienze dell’operaismo armato: devo forse ricordare le gesta di Segio o le imprese di Fioroni?

Si da il caso che nella biografia di Prospero Gallinari non troverai nulla di tutto ciò!

Ecco appunto, torniamo a Prospero. La sua cultura è un must particolare, originale, che ha delle similitudini con gli altri emiliani ma non è sovrapponibile a quella di altri dirigenti brigatisti come Moretti, Curcio, Senzani, Balzerani, Guagliardo, per stare al gioco dei nomi conosciuti.

Un comunismo contadino che mette radici nell’Emilia profonda, che ha legami forti con la memoria della Resistenza in una zona segnata duramente dalla guerra civile (legami giustificati anche dalla vicinanza anagrafica), nella quale è presente la tradizione insurrezionalista, con elementi secchiani e dunque certamente di scuola “emmelle”, ma che si intrecciano pure con l’opposizione ingraiana. Un sostrato che si misura, e qui sta l’intelligenza e l’originalità del percorso di Gallinari, con le nuove culture sovversive della metropoli degli anni 70: quella operaia prima e quella delle periferie urbane dopo.

Posso capire cosa c’entra tutto ciò con lo stalinismo?

Ti sei mai chiesto come sia stato possibile che uno come Gallinari abbia di fatto installato, fatto crescere, dato basi solidissime alla colonna romana, la colonna terziaria per definizione, quella sociologicamente più negriana…. Quella dell’operaio sociale, dei disoccupati, dei borgatari, degli studenti, dei lavoratori dei servizi, dei ferrovieri.
Chi mai tra questi giovani, Gallinari avrebbe guardato con sospetto, come sostieni?

Solo una persona con una grande duttilità, una enorme capacità di ascolto e di adattamento avrebbe potuto “accudire” quel fiume di giovani che volevano entrare nell’organizzazione.

Le tue, Andrea, sono incrostazioni ideologiche, pregiudizi che non reggono alla luce dei fatti e di cui faresti bene a liberarti.

Non c’è stata organizzazione meno terzointernazionalista delle Br, questo è il punto. Forse alcuni accenti del genere riapparvero nell’aspro dibattito interno che divise quanto restava delle Br-pcc alla metà degli anni 80, ma era un momento in cui la voglia di tirare bilanci e rifondare tutto spingeva a cercare spunti ovunque. Durò poco.

La Brigate rosse, in realtà, hanno innovato, praticando un’eresia organizzativa ed ideologica. Guardavano agli esempi della guerriglia urbana metropolitana, Marighella e non il Che. Antileniniste sul piano dell’organizzazione, rifiutavano il modello del doppio livello, legale e illegale, della separazione tra direzione politica e braccio armato propugnando l’unificazione tra politico e militare, con un discorso che traeva coerenza dal rifiuto della divisione del lavoro manuale e intellettuale.

Nelle Br non esistevano i capi che mandavano i gregari a sporcarsi le mani, l’intellettuale che dava la linea e gli altri che eseguivano. Il dirigente andava in prima linea, non diceva armiamoci e partite per poi giustificarsi, come fece un certo professore, dicendo: “hanno capito male i miei libri”. Era moralismo rivoluzionario? Probabile.
Comunque si trattava di una formula organizzativa differente da quelle di altre formazioni di matrice operista ortodossa che invece praticarono senza problemi questa dualità tipicamente terzointernazionalista.

Vengo infine all’ultima parte, lì dove affermi che Prospero era uno di quelli, «che se il partito glielo avesse ordinato ti avrebbe eliminato, con le lacrime agli occhi ma senza esitare, convinto che questo fosse il suo dovere di rivoluzionario e di soldato della guerra di classe. Quella spietatezza politica era inaccettabile, certo, ma Prospero la condivideva con migliaia e migliaia di militanti dei suoi tempi».

Qui siamo alla calunnia bella e buona. Diversa solo nello stile dalle parole che ha scritto Fasanella su Panorama.
Dovresti rileggere quanto ha ricordato Lanfranco Pace in una intervista apparsa sul Foglio di questi giorni sull’atteggiamento misurato con il quale Gallinari gestì la grave crisi provocata dal modo in cui Morucci e Faranda uscirono dalle Br, rubando parte dell’arsenale militare dell’organizzazione. Un comportamento gravissimo, definito allora “banditesco” e che nella storia delle organizzazioni rivoluzionarie ha sempre provocato l’eliminazione dei responsabili.

Nelle Br esisteva una prassi che consentiva a chiunque fosse in crisi o in disaccordo di andare via dall’organizzazione se avesse voluto, ritirandosi a vita privata se era ancora possibile. Quando chi usciva era già latitante, otteneva in dotazione l’arma personale, dei soldi e un minimo di aiuto logistico, a rischio – come avvenne molte volte – di cadere in trappole micidiali tese dalla polizia. Nessuno veniva messo alla porta, gettato in strada.

Morucci e Faranda non si accontentarono di ciò, ebbero un comportamento “poco leale”, nonostante ciò quella vicenda venne ricondotta da Gallinari all’interno di una gestione politica del dissenso. Giudizi molto duri ma nessuna rappresaglia. Aggiungo che a minacciare Morucci in carcere furono altri personaggi, no sto qui a fare il nome, ma sai benissimo di chi parlo.

E visto che parliamo di Morucci ricordo – come da egli stesso raccontato nei suoi libri – che fu lui e non certo Gallinari ad intrattenere rapporti molto stretti con Feltrinelli, quando era ancora responsabile del lavoro illegale di Potere operaio (e le Br erano appena un piccolo gruppetto), fino ad avere quasi una doppia appartenenza.
Feltrinelli aveva rapporti internazionali di peso, non solo con Cuba e le guerriglie sud americane ma anche con il blocco orientale. Perché mai allora l’etichetta di stalinista non ricade su di lui ma l’appiccichi a Gallinari? E perché mai è lui che dovrebbe rispondere della leggenda del superclan come va dicendo Fasanella?

Concludo ricordando il ruolo e il comportamento tenuto da Prospero negli anni di carcere anche nei momenti di massima tensione interna alle Br o con altri gruppi (7 aprile, movimento della dissociazione), sempre improntato a ricondurre sul piano del confronto politico, anche aspro ma sempre politico, le divergenze, le rotture, lontano da qualsiasi sopraffazione fisica.

Basta leggere le sue memorie, il rammarico con cui racconta gli anni bui delle rese di conti che nel clima allucinato delle carceri speciali portò tronconi scissionisti delle Br a scagliarsi contro altri pezzi della stessa organizzazione, scatenando una guerra contro le proprie ombre, alla ricerca del capro espiatorio di turno.
Gallinari difese quelli che avevano ceduto sotto la pressione degli interrogatori o delle torture dando prova di saggezza, umanità, buon senso, grande lungimiranza politica e umana.

Un grande dirigente, il cui atteggiamento restio ad entrare nei dettagli era una questione di stile non di reticenza. Un vecchio stile comunista, misurato, asciutto, che si sforzava di trattenere i sentimenti, di mettere in avanti sempre la lucidità.

Paolo Persichetti

*  *  *  *


E’ morto il br Prospero Gallinari: era generoso, altruista, coraggioso

Andrea Colombo
Gli Altri online 14 gennaio 2013

Prospero Gallinari era una persona meravigliosa. Molti lo sanno ma temo che pochi lo scriveranno. Invece è bene che sia detto. Era generoso, altruista, coraggioso. Era uno di quelli di cui si dice “col cuore grande” e forse non è solo un caso che alla fine, dopo una lotta lunghissima, proprio il cuore lo abbia fregato.
Certo, Prospero ha sparato, Prospero ha ucciso. Tecnicamente Prospero è stato un assassino. Ma chiunque lo abbia conosciuto anche solo di sfuggita sa perfettamente che questa verità è bugiarda. Non rende neppur minimamente ragione della vita e dell’animo di Prospero Gallinari.
Era un uomo d’altri tempi. Un militante comunista di quelli che per due secoli hanno fatto la storia. Un partigiano nato per caso a guerra finita. Da ragazzo si faceva chilometri a piedi per andarsi a leggere l’Unità nel bar del paese più vicino alla fattoria in cui era cresciuto. Da uomo fatto era ancora quel ragazzo.
Con noi, ragazzi di movimento, che negli anni ’70 il Pci lo odiavamo e lo combattevamo aveva pochissimo a che spartire. «Io – mi ha detto una volta – sono sempre stato un militante del Partito comunista italiano e, anche se ti sembrerà strano, in tutte le organizzazioni di cui ho fatto parte ho sempre rappresentato l’ala moderata». Ci guardava con sospetto, come quasi tutti i brigatisti, operai e contadini la cui continuità con la tradizione comunista era molto più ferrea della nostra.
Per anni e anni Gallinari è rimasto in galera col cuore sempre più malconcio, passando da un infarto a un altro. Avrebbe avuto il diritto di scontare la pena fuori da quelle mura, con un male così grave. Non gli veniva consentito solo perché era considerato, a torto, l’uomo che aveva ucciso Aldo Moro. Avesse detto che no, non era vero, che si assumeva tutte le responsabilità di quell’esecuzione atroce ma a sparare non era stato lui, lo avrebbero tirato fuori subito. Nessuno osò mai proporgli un gesto simile. Sarebbe bastato a farsi togliere per sempre la parola.
Gallinari sarebbe morto in galera senza un fiato se Mario Moretti, nel suo libro-intervista a Riossana Rossanda e Carla Mosca, non avesse dettio che a uccidere, in quel garage di via Montalcini, era stato lui. Tutti gli impedimenti che fino a quel momento avevano reso impossibile la sua scarcerazione caddero come per miracolo.
Sia chiaro, Prospero era un rivoluzionario generoso e di animo buono, ma era anche uno stalinista, uno di quelli che se il partito glielo avesse ordinato ti avrebbe eliminato, con le lacrime agli occhi ma senza esitare, convinto che questo fosse il suo dovere di rivoluzionario e di soldato della guerra di classe. Quella spietatezza politica era inaccettabile, certo, ma Prospero la condivideva con migliaia e migliaia di militanti dei suoi tempi. Che non erano i nostri, perché Prospero Gallinari era davvero un uomo e un rivoluzionario e un comunista “d’altri tempi”.
Credo che a tutti quelli che lo hanno conosciuto, per quanto lontanissimi fossero dalle sue scelte, per quanto severamente lo possano aver criticato, mancherà moltissimo.

 *  *  *  *

Replica di Paolo Persichetti
15 gennaio 2013 at 19:52

C’è un episodio sconosciuto che vorrei raccontare: nel 1989 erano in corso nell’aula bunker di Rebibbia diversi maxi processi; l’appello del Moro ter, quello per insurrezione contro i poteri dello Stato, oltre a quello contro le Br-Udcc nel quale ero imputato. In quel momento si discuteva molto di soluzione politica, c’erano settori dello Stato che volevano chiudere la vicenda della lotta armata. L’atteggiamento dei media verso i prigionieri politici era cambiato e così accadeva che ogni tanto ci veniva offerta la parola. In una pausa delle udienze, il giornalista Ennio Remondino intervistò Prospero Gallinari e tra le diverse domande gli chiese anche con chi stessero i prigionieri delle Br: con il governo cinese, che aveva inviato i carri armati in piazza, o con i manifestanti di Tienamen? «Con gli occupanti della piazza, e con chi se no?», fu la risposta di Gallinari. Naturalmente Bruno Vespa, allora direttore del Tg1, tagliò quella frase che smontava uno dei cliché più classici e mistificatori incollati sulla pelle dei militanti della lotta armata.
Caro Andrea hai fatto la fine di Vespa. Peccato che il tuo pezzo molto bello sia alla fine scivolato nel dizionario dei luoghi comuni.

Paolo Persichetti

 *  *  *  *

Replica di Andrea Colombo
15 gennaio 2013 at 20:50

Caro Paolo, mi sono riletto il pezzo, scritto molto a caldo, per rintracciare gli eventuali luoghi comuni. Non sono sicuro che ci siano, anche se come medium internet non agevola l’approfondimento. Cmq provo a spiegarmi. Non sapevo di quella domanda di Ennio Remondino, ma non avrei avuto alcun dubbio sulla risposta di Prospero. Però, scusa, che c’azzecca? Se Prospero fosse stato con il Pcc, in quell’occasione, non sarebbe stato stalinista ma stupido, e non lo era.
Mi riferivo a qualcosa di meno banale, più tragico, per certi versi anche più funesto. Una intera generazione di comunisti, quella terzinternazionalista, ha accettato parecchie aberrazioni, sapendo che erano tali, dunque soffrendole, perché questo era l’interesse del partito e, dunque, della rivoluzione. Esempio non brigatista e non sanguinolento: quando il Pci decise di estromettere Giuliano Pajetta, la cui sola colpa era quella di aver fatto la resistenza in Jugoslavia, Giancarlo sapeva perfettamente che si trattava di una feroce ingiustizia e che suo fratello fosse oggetto di quella ingiustizia che gli rovinò la vita non lo faceva certo felice. Ma scelse di tacere perché questo chiedeva il partito, cioè la rivoluzione. Di esempi simili ce ne sono letteralmente migliaia: quello era lo stalinismo. Era atroce, era in qualche misura “inumano” ma aveva una sua altrettanto atroce nobiltà. Voi, secondo me, siete stati gli ultimi epigoni di quella cultura.
Non sarò reticente: so perfettamente che tutti gli inquilini di via Montalcini soffrirono come cani il 9 maggio del 1978. Però scesero lo stesso in garage perché ritenevano che questo chiedesse, anzi imponesse, la rivoluzione. Quella contraddizione è tragica e secondo me voi, magari non sempre essendone coscienti, la avete vissuta più di chiunque altro in quegli anni. E Prospero, credo, persino più degli altri.
Questo volevo dire, e non sono convinto, ripeto, che sia un luogo comune.

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Prospero Gallinari, un uomo del 900
Gallinari è morto in esecuzione pena. Dopo 33 anni non aveva ancora ottenuto la libertà condizionale
Prospero Gallinari quando la brigata ospedalieri lo accudì al san Giovanni
“Eravamo le Brigate rosse”, l’ultima intervista di Prospero Gallinari
A Prospero Gallinari volato via troppo presto
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Prospero Gallinari chiede la liberazione condizionale e lo Stato si nasconde dietro le parti civili

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La vera storia del processo di Torino al “nucleo-storico” delle Brigate rosse: il Pci intervenne sui giurati popolari
Caso Moro, l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico
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Doppio Stato e dietrologia nella narrazione storiografica della sinistra italiana
Spazzatura, Sol dell’avvenir, il film sulle Brigate rosse e i complotti di Giovanni Fasanella

Prospero Gallinari: un uomo del ‘900

Ecco una delle migliori risposte a tutti quelli che in queste ore, anche su versanti opposti, stanno raccontando un Prospero Gallinari aguzzino, stalinista (in coppia Andrea Colombo e Giovanni Fasanella), figura ambigua e carica di reticenze che avrebbe portato con sé silenzi e segreti.
Torneremo su quello che hanno dichiarato e scritto storici come Gotor, cospirazionisti come Fasanella. Ora leggete questo testo

 Davide Steccanella lunedì 14 gennaio 2013

E’ prevedibile che la sua morte, improvvisa, ma le condizioni di salute di Prospero Gallinari rendevano in verità miracoloso ogni giorno di sopravvivenza a far tempo da quel micidiale ferimento del 2 settembre 1979 in occasione del suo secondo arresto, indurrà i principali media nostrani a quelle solite e scontate considerazioni cui da sempre e vanamente egli stesso ha cercato fino all’ultimo di replicare.

thumbEra sforzo inutile infatti, quello di spiegare all’interlocutore di turno quella “storia” che lo aveva visto protagonista insieme a tanti e che poi di colpo si decise altrettanto collettivamente di rimuovere. Ci ha provato negli anni, sia da detenuto, sia da domiciliato sanitario, prima scrivendo insieme ad altri alcuni tra i più significativi documenti dal carcere, poi pubblicando due libri, uno su quella “altra parte”, quella dei tanti parenti dei tanti imprigionati politici di quegli anni della emergenza, e uno raccontando la propria storia di “contadino nella metropoli”, e infine accettando anche di rispondere ad alcune interviste di diversa ispirazione, l’ultima della quale in un recente documentario francese, in gran parte dedicato alla operazione Moro.

Velleità impossibile quella di Gallinari, e nonostante si trattasse in realtà di una persino banale richiesta neppure di rilettura ma di semplice lettura, lettura di un ben preciso periodo storico del quale tutti, se solo lo avessero voluto, avrebbero avuto strumenti e possibilità di comprenderne i significati e gli esiti, ma era appunto missione impossibile. Sorprendeva e spiazzava quella sua ferrea logica che rispondeva con pacatezza ma altrettanta efficacia a quelle solite obiezioni di rito che bisognava per forza fare a chi si era reso responsabile di azioni così cruente, pena, in caso contrario, la scomunica dell’intervistatore. Spiazzava qualsiasi interlocutore quel suo limitarsi a rispondere che la sua “storia” era perfettamente inserita nella “Storia” di quella significativa parte di novecento non solo italiano ma mondiale che aveva segnato la vita di tanti come lui e non solo di quelli come lui, come sempre accade in occasione dei grandi fenomeni storici.

Aveva un gran bel raccontare Gallinari di quella sua infanzia contadina emiliana dove il padrone abitava la casa riscaldata e arredata che sovrastava quei poderi dove loro, i contadini, non solo lavoravano ma anche abitavano in condizioni disumane.
Aveva un bel raccontare di quella insurrezione generale contro tutto quello che di male secolare c’era che era esplosa collettiva in ogni realtà, e che aveva indotto molti a sperare davvero in quella rivoluzione che fino a quel momento si era solo letta.
Aveva un bel raccontare che negli anni della sua militanza armata persino le infermiere dell’ospedale dove fu ricoverato in fin di vita erano parte di quella insurrezione collettiva che faceva si che gli studenti universitari ascoltassero in pubblica assemblea un brigatista che parlava di politica durante il sequestro Moro.
Aveva un bel raccontare che proprio quella più famosa operazione della storia della guerriglia urbana di quegli anni era una delle tante operazioni di una guerra assai più lunga e sofferta scatenata anni prima e durata per molti anni ancora, ed aveva un bel raccontare che anche le Brigate Rosse erano figlie di quel “clima”, così lo chiamava, che aveva visto le forze politiche della sinistra parlamentare arrivare quasi alla maggioranza dei voti, voti che non a caso si erano poi liquefatti proprio quando con la fine di quel “clima” anche la sua guerriglia armata era risultata sconfitta.

Tentava poi di spiegare la “sua” guerra ed i “suoi” obiettivi che, come ogni guerra, non può certo soffermarsi sull’individuo, cosi come il soldato in trincea non può soffermarsi sul nome del nemico con cui si sta reciprocamente sparando addosso per la conquista ovvero la difesa della postazione strategica. Niente da fare, a Gallinari, cui non poteva essere riconosciuta la patente di soldato (anche se lo era), né quella di rivoluzionario quale pure era, non vene riconosciuta mai neppure quella di comunista quale lui si dichiarava, perché il Partito comunista ufficiale in Italia voleva governare con quella Democrazia Cristiana del governo fascista di Tambroni che nella sua città aveva determinato 5 morti sulla piazza.

E così non è mai riuscito a spiegare quella sua storia, che era poi la Storia nostrana, o meglio lo ha fatto in molte occasioni e chiunque facilmente potrà verificarlo, ma è del tutto ovvio che per ragioni, altrettanto ovvie, tutto questo non ci sarà negli scritti ufficiali che lo evocheranno. La sua storia la sapranno sempre in pochi, quella che verrà insegnata sarà invece quella di un brutale assassino che un bel giorno decise, e non si sa bene perché, di diventare tale, e che un altro bel giorno ed altrettanto incomprensibilmente decise poi di non esserlo più. Del resto il mondo che allora non piaceva a Gallinari non è cambiato, le stesse se non peggiori ingiustizie di allora sono vigenti ancora oggi, e quindi credo che proprio Gallinari, che ai tempi ci aveva provato ed aveva perso, sarebbe oggi proprio l’ultimo a stupirsi di tutto ciò. Gli resta l’affetto dei compagni di allora ed il rispetto di chi si è semplicemente limitato ad ascoltare quello che ha detto o a leggere quello che ha scritto.

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Gallinari è morto in esecuzione pena, dopo 33 anni non aveva ancora ottenuto la libertà condizionale

1990 - Presidio davanti alla Cassazione per chiedere la scarcerazione di Prospero Gallinari

1990 – Presidio davanti alla Cassazione per chiedere la scarcerazione di Prospero Gallinari

L’attenzione pubblica destata dalla morte di Prospero Gallinari, l’ex militante delle Brigate rosse appartenente al cosiddetto “nucleo storico”, coinvolto nel sequestro Moro e che nel corso della sua vita ha incarnato l’intera parabola della storia brigatista, non sembra tuttavia prestare la giusta attenzione ad un aspetto fondamentale della vicenda: al momento della morte, per un malore dovuto alle sue pessime condizioni cardiache effetto dei postumi provocati dalle gravi ferite riportate al momento della cattura nel 1979, Gallinari non era un uomo libero.
Scarcerato nel 1996 con la formula della sospensione pena per i gravi motivi di salute che ne mettevano a rischio la sopravvivenza in carcere, a Gallinari era stata successivamente applicata la misura degli arresti domiciliari con possibilità di lavoro.
Colpito al cervello durante una sparatoria Gallinari era sopravvissuto (leggi qui). Al cranio gli era stata applicata una placca di metallo. Dopo anni di detenzione nelle carceri speciali il cuore cedette, per questo venne sottoposto a ripetuti interventi cardiaci e lunghe degenze nei centri clinici penitenziari. Il potere politico in quel periodo non sarebbe stato in grado di reggere il peso di una morte del genere all’interno del carcere. La liberazione avvenne in una fase politica particolare nella quale sembrava dovessero giungere a termine, con un provvedimento di indulto, i lunghi irrisolti penali della stagione della lotta armata.

Raggiunti i 30 anni di detenzione aveva deciso di chiedere la liberazione condizionale (vedi qui). La magistratura di sorveglianza chiese allora il parere dei familiari delle vittime suscitando, in particolare, la reazione di Sabina Rossa che rinviò al mittente ogni decisione (leggi qui).
Quando si tenne l’udienza, il collegio si riservò, rinviando ogni decisione. In sostanza il tribunale decise di non decidere. Nessuna nuova udienza fu più convocata.
Nel testo che segue Sandro Padula, anche lui ex brigatista, ancora in semilibertà dopo 30 anni di carcere compiuti e la liberazione condizionale rifiutata, brutali torture subite al momento dell’arresto (leggi qui), nel ricordare la storia di Prospero Gallinari pone giustamente l’accento su questo aspetto

di Sandro Padula

Quattordici gennaio 2013. Cielo grigio e piovoso.
“Stamattina è morto Prospero”, leggo in una mail.
“La brutta notizia, – precisa qualche minuto dopo un amico al telefono – è confermata da Sante che vive a Bologna”.
Sante Notarnicola, l’autore del libro “L’evasione impossibile”, conosceva bene Prospero Gallinari, colui che si definì “un contadino nella metropoli” nell’omonimo testo di memorie.
Ex brigatista rosso, 62 anni, in sospensione della pena carceraria per motivi di salute dal 1996, Prospero abitava a Reggio Emilia e, pur essendo stato arrestato l’ultima volta nel 1979, non aveva nemmeno ottenuto la libertà condizionale, la cui istanza fu da lui indirizzata qualche anno fa al tribunale di sorveglianza di Bologna e mai discussa. Sì, mai discussa.
Della libertà condizionale, il beneficio che funge da ultimo tunnel penale prima della libertà, non ha visto nemmeno l’ombra.
La sospensione della sua pena carceraria in senso stretto corrispondeva ad una misura ibrida fra gli arresti domiciliari e la semilibertà: Prospero poteva uscire di casa, in alcuni orari prestabiliti della giornata lavorativa, ma non di notte.
Agli amanti dei misteri non fa scandalo la realtà italiana per cui dopo 3 decenni ci sono ancora dei detenuti politici. Fa scandalo se da ragazzino Prospero era un marxista-leninista ortodosso o se, nei primissimi anni ’70 e per breve tempo, ebbe dei rapporti con Corrado Simioni, il teorico della “superclandestinità” abbandonato al suo destino da tutti i militanti delle Br – nessuno escluso – perché ritenuto megalomane, maldestro e inconcludente.
Prospero ha maturato le proprie idee a Reggio Emilia in un determinato periodo storico e le ha sviluppate nelle metropoli operaie del Nord Italia, nell’esperienza carceraria fra il 1974 e il 1976 e poi, dopo un’evasione, a Roma.
Fu sempre fedele alle persone amiche, condividendo con loro la propria vita e dimostrandosi particolarmente sensibile anche nei momenti più difficili, ad esempio dopo la seconda carcerazione quando, assieme a Linda Santilli, scrisse il primo libro italiano sull’effetto estensivo della pena detentiva ai parenti dei detenuti: “Dall’altra parte: l’odissea quotidiana delle donne dei detenuti politici” (Feltrinelli, 1995).
Prospero sapeva che in una organizzazione politica come le Br le responsabilità erano collettive e rimase coerente rispetto a tale consapevolezza fino all’ultimo giorno della sua vita.
Nel 2009 ha elaborato la postfazione di “Andate e ritorni. Conversazioni tra passato presente e futuro” (Colibrì editore), un libro dell’ex br Loris Tonino Paroli a cura di Giovanna Panigadi e Romano Giuffrida e con prefazione di Renato Curcio.
Nel 2011 ha partecipato a “Ils étaient les Brigades rouges“, un documentario trasmesso a puntate in una televisione francese (vedasi l’estratto: http://www.dailymotion.com/video/xkua7m_extrait-du-film-ils-etaient-les-brigades-rouges_shortfilms#.UPVDHfI5gcY ).
Prospero resta quindi una figura limpida, una specie di libro multimediale aperto, per tutte le persone che, all’interno e all’esterno delle carceri, ne hanno conosciuto il coraggio, l’umiltà e l’altruismo.

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Prospero Gallinari quando la brigata ospedalieri lo accudì al san Giovanni
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Ciao Prospero
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Gli avvoltoi s’avventano sulla memoria di Prospero Gallinari

Il giorno dopo la sua morte, i media si sono esercitati nel loro macabro rituale. Abbiamo intervistato Francesco Piccioni, che con Prospero ha condiviso buona parte della vita militante


Da www.contropiano.org

15 gennaio 2013

Prospero non c’è più. Ti aspettavi questa reazione dei media?
Tutto sommato sì, anche se c’è sempre una qualcosa di più, di infame, che riesce a sorprendere.

A cosa ti riferisci?
Tutti i giornali e tutti i tg – sia di destra che di centrosinistra – hanno dato sostanzialmente lo stesso servizio, centrato su una frase semplice e ripetuta ossessivamente: “se n’è andato con i suoi segreti”. Nessuno ha provato a chiedersi come mai un uomo con la sua storia, della sua età e con tre infarti sul cuore, se ne stesse andando come tutte le mattine a lavorare, per uno stipendiuccio da precario o quasi, uscendo da una casa popolare. Chi detiene segreti importanti o muore presto o viene ricoperto d’oro, non fa una vita così, no? Ma l’informazione, in Italia, è diventata un semplice copia-e-incolla della “verità” delle agenzie stampa…

È il frutto della “dietrologia”…
Sì, ma con una differenza importante rispetto a 20 o 40 anni fa. Allora la dietrologia era sostanzialmente “di sinistra”. Nel senso che i dietrologi militanti (Flamigni, i fratelli Cipriani, ecc) venivano dal Pci e lavoravano per i suoi giornali. Era una dietrologia orientata dalla teoria di comodo del “doppio stato” (uno fedele alle istituzioni, uno agli ordini di “forze oscure”), ma che era nata dentro uno scontro politico e ideologico a far data dal ’68: chi era “veramente” comunista? Il Pci che guardava al compromesso con le altre “grandi famiglie” della politica italiana (Dc e Psi), oppure i soggetti che guardavano alla Rivoluzione come un obiettivo possibile? Persino “il manifesto”, a quei tempi, venne accusato di esser “pagato dalla reazione”. La dietrologia di oggi è invece un discorso vago, che parla di “misteri” senza nemmeno più nominare gli episodi che in una mente malata o in malafede potrebbero sembrare tali.

Un cambiamento, certo; ma cosa significa?
È come se si fosse raggiunto un certo accordo, per cui è conveniente lasciare la storia di questo paese avvolta nella nebbia anche quando la nebbia non c’è. Del resto, ad un certo punto, per iniziativa di Fragalà e qualcun altro era nata persino una dietrologia di destra, che puntava ovviamente e cercare nella lotta armata le “responsabilità” segrete del Kgb, così come fino a quel punto quella “di sinistra” le aveva cercate nella Cia o nei “servizi deviati”. Ora hanno fatto pace e quindi la versione ufficiale diventa: ci sono dei misteri, non si può risolverli, ma va bene così. Ma è un accordo politico che guarda soprattutto al futuro, più che al passato.

In che senso?
C’è un bisogno disperato di dire che nulla è possibile al di fuori del campo politico disegnato dagli attuali rapporti di forza, che è inutile opporsi, organizzarsi, lottare, progettare futuro. La figura di Prospero rompe decisamente questo schema paralizzante: un contadino comunista che insieme a operai e studenti arriva a “colpire il cuore dello stato”, catturando il principale protagonista del potere dell’epoca. Al di là delle forme storiche, è la prova empirica che l’organizzazione degli sfruttati può raggiungere risultati impensabili. Una constatazione del genere, già da sola, rappresenta una minaccia per la continuità del potere. Specie in tempi di crisi. Quindi bisogna, come direbbe Monti, “silenziarla”. E nulla più della nebbia dei “misteri” può tornare utile allo scopo. Il “mistero” serve a ricacciare tutti nella frustrazione, ognuno racchiuso nella propria individuale impotenza.

Per quale ragione?
Perché un “mistero” è il rovesciamento dell’onere della prova! Non serve più che l’accusatore debba esibire le prove della sua accusa, è sufficiente mettere l’accusato nella posizione di chi deve “soddisfare” le attese dell’accusatore. E naturalmente starà sempre all’accusatore di decidere se “credere” oppure no. Basta guardare l’Unità di oggi, che ripubblica una pseudo-intervista (in realtà una chiacchierata informale con un gruppo di brigatisti prigionieri) fatta a Prospero da Veltroni nel ’93. Con “Uòlter” impegnatissimo a ripetere che “non basta” mai esibire le proprie verità, neppure condite da prove; che insomma bisognerebbe ammettere di “esser stati manovrati”.

Tu hai scritto spesso che la “dietrologia” è anche una questione di interessi economici…
Beh, basti pensare che c’è stata una commissione di inchiesta parlamentare aperta continuativamente per 18 anni. I “consulenti” – come i fratelli Cipriani ed altri – hanno avuto compensi favolosi per tutto il periodo. Figuriamoci se qualcuno di loro poteva accettare di arrivare all’accertamento della verità, di mettere un punto finale… Solo l’archivista della Comissione, Vladimiro Satta, l’unico che sie era letto il milione e mezzo di pagine degli atti, alla fine ci ha scritto un libro definitivo (“Odissea nel caso Moro”) distruggendo tutti i cosiddetti “misteri” uno per uno. A momenti lo accusano di essere un brigatista! Finché c’è mistero, c’è un prodotto da vendere, libri da fare, film da girare, psudo-inchieste giornalistiche che ti riportano sempre al punto di partenza, così magari tra due anni se ne fa un’altra uguale… Su questa strada sonostate costruite fortune politiche, giornalistiche, editoriali, con tanto di poltrone parlamentari e contratti d’oro. Un’industria che poi ha chiuso bottega per manifesta insussistenza dell’oggetto, ma che ha distribuito a lungo dei bei dividendi.

C’è un dato di fatto che può smontare tutta la dietrologia?
Premetto che in queste cose, stabilito un punto, si può sempre ricominciare da capo a inventarne altre. Però, se uno conosce la letteratura dietrologica, tutto si riduce a un solo punto e una sola persona: “Mario Moretti non ce la conta giusta”. Basta guardare alla situazione di fatto. Dei brigatisti storici e di tutti gli uomini e donne di via Fani, soltanto uno è ancora in carcere, e da 32 anni: Mario Moretti. Un osservatore neutro ne trarrebbe una sola conclusione: Mario ha sempre detto la verità e sta pagando di persona per essere stato a capo dell’organizzazione che ha “messo paura” al potere in Italia. Del resto, al governo di questo paese ci sono stati piduisti ed ex comunisti, democristiani “tecnici” e ora persino il capo europeo della Trilateral. E Mario è sempre rimasto dentro, da semilibero, con una lavoro che rende poco e che si deve continuamente inventare. Vale quel che ho detto prima per Prospero: che detiene segreti “decisivi” o muore presto e viene coperto d’oro. Altrimenti, è uno che ha sempre raccontato la verità. Che poi questa sia sgradita, è cosa che pone domande sugli accusatori, non sull’accusato.

Torniamo a Prospero, per concludere. Di tutti i ricordi pubblicati oggi, ce n’è qualcuno un po’ meno falso della media?
Diciamo che soltanto uno è completamente onesto e veritiero, quello di Giovanni Russo Spena, sul manifesto di oggi. Per il resto, è la sagra del fasullo, con abissi di ignominia toccati ad esempio da Ferdinando Imposimato. E con l’eccezione illuminante di Severino Santiapichi, il presidente della Corte d’Assise che ci condannò in 32 all’ergastolo, all’inizio dell’83. Il quale rinonosce la serietà e la correttezza dell’atteggiamento nostro e di Prospero. Sembra insomma che soltanto tra nemici veri, che si sono combattuti sul serio, come fu anche con Francesco Cossiga, si possa stabilire quel riconoscimento della verità che è la base su cui si può istituire un qualsiasi confronto. Coi leccaculi che vivono dietro una scrivania, invece, non è proprio possibile. E’ come parlare di montagna con chi l’ha vista in fotografia…

Qual’è stata la sua importanza, nella vostra storia?
È stato il militante che dava l’esempio, senza alcuna preoccupazione individualistica. Un esempio per come – da contadino orgoglioso delle proprie origini – ha “studiato di notte”, rubando ore al riposo dopo il lavoro, per migliorare la propria conoscenza. Per come ha interpretato la dimensione del “collettivo”, del fare insieme, dell’assumere ruoli di direzione soltanto perché “qualcuno deve pur farlo”, mantenendo sempre quel distacco autocritico che consiste nel non darsi individualmente troppa importanza. È qualcosa che oggi appare difficile persino da raccontare, figuriamoci a spiegarlo. Ma chiunque abbia “militato” davvero in un’organizzazione rivoluzionaria, dove si rischia la vita e non c’è una poltrona (e uno stipendio) da conquistare, sa che la posizione di vertice è un ruolo funzionale; che il “dirigere” è un’attività complessa che viene fuori come risultante dall’insieme dei militanti. Anche nelle ultime interviste appare evidente questo lato della sua cultura umana e politica. E’ il suo contributo alla politica comunista anche dopo la sua morte, che sapeva poter arrivare in qualsiasi momento.

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Prospero Gallinari, quando la Brigata ospedalieri lo accudì al san Giovanni

Estratto da Un contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate rosse, Bompiani 2006, pp. 221-225

Un contadino nella metropoliSi è spenta la luce
[…] il 24 settembre abbiamo appuntamento con una parte del nucleo a pranzo, in una tratoria, per discutere le ultime cose. Informo i compagni che la sera prima Mario mi ha chiamato da un porto italiano e sta risalendo l’Adriatico verso Venezia. Dovremo poi organizzarci per andare a recuperare le armi che ha portato. Ma intanto pensiamo al lavoro che dobbiamo fare domani.[…]
Cambiare le targhe è un lavoro banale, basta trovare un buco dove non ti vedono. Ma la zona non è buona. C’è un bar nelle vicinanze del luogo in cui abbiamo parcheggiato le macchine e c’è della gente fuori. Ci spostiamo di duecento metri e dopo Porta Metronia troviamo uno spazio nel quale riusciamo a infilarci. Io dovrei fare la copertura da una certa distanza agli altri incaricati della sistemazione delle targhe, ma subentrano complicazioni con le viti che non vogliono staccarsi… Decido di mettermi a svitarle io.
Quando sento la sirena, la macchina della polizia ce l’ho già addosso. In quelle occasioni la reazione è spontanea, correre in sè non servirebbe a niente. Cercando di restare coperto dall’automobile sulla cui targa stavo lavorando, estraggo la pistola e comincio a sparare. Intanto mi guardo attorno e cerco di ragionare. La volante della polizia ce l’ho di fronte e mi ostruisce l’accesso a una strada secondaria che vorrei guadagnare per la fuga, perché mi sembra stretta e contorta.
Sparo così contro la macchina per costringerla a spostarsi e lasciarmi la via libera. Termino un caricatore e cerco di estrarre il secondo dalla cintura dei pantaloni. E lì si spegne la luce.

Il San Giovanni
Quando si riaccende vedo un’infermiera e dietro di lei diversi carabinieri. E’ chiaro che mi trovo in ospedale e sono stato arrestato.
Mi sento intontito e soprattutto ho un fortissimo dolore alla testa. Rivolgo la parola all’infermiera chiedendole se può chiamare un medico perché il dolore è lancinante.
La vedo meravigliata della domanda, ma molto cortesemente dice che tornerà subito. Il medico stesso arriva abbastanza confuso.
Inizia a farmi domande: cosa sento, come mi chiamo, cosa ricordo di me e di quello che è successo.
L’unica cosa che non riesco a valutare è il tempo trascorso in ospedale prima del risveglio; per il resto, pur con uno stato di confusione abbastanza marcato, rispondo con una certa logicità alle sue domande.
Dopo alcuni minuti di questo dialogo abbastanza bizzarro il medico mi rivolge una domanda secca: “lei è mancino?”
Gli rispondo di sì. Benchè infatti sia stato educato fin dall’infanzia a usare la mano destra per scrivere o tenere le posate, per tutto il resto sono mancino e la sinistra è anche la parte dei miei arti più forte e reattiva.
“Adesso capisco”, mi risponde.
“Lei è stato colpito alla testa e ha subito un focolaio lacerocontusivo ed emorragico di grossa portata, abbiamo dovuto estrarle parecchia materia… davamo per scontato che la quantità fosse tale da ritenere lesionata senza possibilità di recupero tutta la qualità cognitiva e del ragionamento… essendo mancino lei ha le parti del cervello invertite…”
Non so come rispondere… ma prendo atto che è pure sempre andata meglio del previsto.
Intanto il programma immediato è cercare di capire se il dolore si può attutire. E’ così intenso alla testa, che solo in un secondo momento mi rendo conto di avere una gamba appesa in trazione a un baldacchino montato sul letto.
E’ stata anch’essa raggiunta dalla raffica che mi ha colpito, e (verrò a saperlo in seguito) un proiettile è entrato nella caviglia rompendola, per uscire poi dal tallone.

Sono in una stanza isolata dal resto delle corsie e non riesco neanche a capire in quale ospedale mi trovo. Intorno a me, il movimento di agenti è molto intenso, si sente che ce ne sono diversi anche fuori, ma questo comunque non impedisce al personale medico di prestarmi le cure e le pulizie del caso.
Da quello che sento dire, capisco che sono rimasto in coma due giorni, e nel fondo del mio pensiero c’è una frase che viaggia come se l’avessi colta in quei momenti: “ha mangiato bene”.
Probabilmente è stato quando mi hanno fatto la lavanda gastrica; devo aver avuto un attimo di presenza mentre qualcuno l’ha pronunciata. Tra l’altro collima… a pranzo avevo mangiato un risotto al nero di seppie, un risotto anche buono.
Stanno mettendo a posto il letto e mi hanno portato delle gocce di Valium per il dolore. Un’infermiera mi allunga il bicchiere e mi stringe forte la mano. La guardo in faccia, mi fa capire con gli occhi di guardare più in giù.
Osservo il collo, ha una camicetta aperta sul davanti e porta una bella collana. Uno dei gioielli di Laura.
Una collana che gli aveva costruito e regalato Bruno, quando fra le sue varie attività si era dedicato anche a quella di apprendista gioielliere. Ho difficoltà a capire se sono impazzito o se è l’effetto di qualche allucinogeno.
Uno dei poliziotti si fa vicino, ma lei gli fa intendere che deve sistemare il letto e lo fa allontanare di un metro.
Tra le labbra mi dice: “fatti tenere qui qualche giorno”.
Il cervello, anche spappolato, viaggia a velocità supersonica. So che c’è una grossa presenza di compagni negli ospedali, ma tutto mi aspettavo meno di trovarmi l’organizzazione al risveglio.
Che idee avranno? Sono impazziti?
Nelle condizioni in cui mi trovo sarei solo un peso!
Ma dai compagni che conosco posso aspettarmi questo ed altro”
Chiudo gli occhi e mi metto a piangere.
Passano due giorni, il dolore persiste, e sembra di capire che dovrò abituarmici per parecchio tempo, ma quanto al resto la mia condizione sembra stabilizzata. La visita medica è passata, e quella sera monta un dottore per un turno di notte.
Lo guardo in faccia e lo riconosco. L’avevo incontrato con Bruno mesi prima per dargli indicazioni su dove piazzarsi in occasione di un’azione. Avrebbe fatto da copertura medica, una pratica che usiamo dove c’è la disponibilità di compagni medici o infermieri, in grado di offrire supporto nel caso in cui ci siano feriti non gravi da soccorrere sul posto.
Mi ripete che devo cercare di rimanere. Ha visto Bruno e i compagni credono davvero di poter intervenire. Ma io gli faccio capire che probabilmente mi trasferiranno molto presto in carcere. Poi ci ragiono: sarebbe assurdo portare fuori un catorcio che, oltre alla gamba rotta, non si sa neanche quanto cervello abbia ancora a disposizione.

Il giorno dopo mi trovo in isolamento a Regina Coeli.

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“Eravamo le Brigate rosse”, l’ultima intervista di Prospero Gallinari
A Prospero Gallinari volato via troppo presto
Ciao Prospero
Prospero Gallinari chiede la liberazione condizionale e lo Stato si nasconde dietro le parti civili

Per saperne qualcosa di più
Il nemico inconfessabile
La biblioteca del brigatista
Mario Moretti, Brigate rosse une histoire italienne
La vera storia del processo di Torino al “nucleo-storico” delle Brigate rosse: il Pci intervenne sui giurati popolari
Caso Moro, l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico
Il caso Moro
Doppio Stato e dietrologia nella narrazione storiografica della sinistra italiana – Paolo Persichetti
Spazzatura, Sol dell’avvenir, il film sulle Brigate rosse e i complotti di Giovanni Fasanella

«Eravamo le Brigate rosse». L’ultima intervista di Prospero Gallinari

Dal film documentario di Mosco Levi Boucault prodotto nel 2011 dalla televisione tedesco-francese Arte

“Ils étaient les brigades rouges 1969 – 1978”

Parte 1

Parte 2

Intervista del 7 ottobre 2006 a cura del Csoa Askatasuna

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Prospero Gallinari quando la brigata ospedalieri lo accudì al san Giovanni

Per saperne qualcosa di più
Il nemico inconfessabile
La biblioteca del brigatista
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Carceri, giustizia, processi, condanne: il Paese inventato nel salotto di Bruno Vespa e quello reale descritto nel VII rapporto sulle carceri di Antigone

Menzogne, bugie e talk show. Il mondo virtuale che rovescia la realtà mandato in onda da Bruno Vespa a Porta a Porta

Paolo Persichetti
Liberazione 23 ottobre 2010


Nei giorni scorsi il Corriere della sera ha dato rilievo alla denuncia pubblica lanciata da Sabina Rossa, figlia del sindacalista rimasto ucciso nel gennaio 1979 in un attentato delle Brigate rosse. La donna, oggi parlamentare del Pd, raccontava di essere stata convocata per posta dal tribunale di sorveglianza di Bologna. Un funzionario di polizia l’attendeva per raccogliere su un verbale di “sommarie informazioni” il suo parere riguardo alla domanda di liberazione condizionale presentata da Prospero Gallinari, esponente storico delle Br, ormai al suo trentesimo anno di pena scontata, tra carcere e arresti domiciliari ottenuti a causa delle sue condizioni di salute incompatibili con il regime carcerario. Da una decina di anni i giudici di sorveglianza hanno istituito una prassi non contemplata dalla norma di legge, l’articolo 176 cp. Ritengono essenziale per la concessione della liberazione condizionale la presenza del perdono dei familiari delle vittime, equiparandola di fatto alla concessione della grazia. Misura di clemenza profondamente diversa che estingue, per intero o in parte, la pena. La liberazione condizionale introduce invece un regime di “libertà vigilata” la cui durata non può oltrepassare i 5 anni. Sabina Rossa ha contestato sia il merito della richiesta che la procedura intrapresa. Altri tribunali di sorveglianza pretendono dal detenuto che voglia farne domanda l’invio di lettere con richiesta di perdono ai familiari delle vittime. Prassi che riapre ferite laceranti e carica sulle spalle dei familiari scelte politiche e giudiziarie che appartengono allo Stato. E’ quanto sostenuto dalla senatrice Rossa che sottolinea come «il perdono della persona offesa non sia richiesto dalla legge». Per questo ha anche presentato una proposta di legge, che ha raccolto l’assenso di altri familiari e parlamentari, con l’obiettivo di ripristinare una separazione tra diritto e morale introducendo criteri di giudizio oggettivi, come il comportamento.
Giovedì sera Bruno Vespa ha colto al volo l’occasione per invitare a Porta a porta la senatrice e dedicare una intera puntata alla «giustizia che non fa giustizia», al «carcere che scarcera». Un minestrone di disinformazione, di errori grossolani e propaganda forcaiola che metteva insieme situazioni diverse: esecuzione di pene ultradecennali, casi di cronaca nera ancora alle prime indagini come quello di Sarah Scazzi, delitti a sfondo razzista come quello di Alessio Burtone, vicende passate in giudicato come i nuovi omicidi commessi dal collaboratore di giustizia Angelo Izzo, o i delitti nazisti firmati Ludvig di Abel uscito per fine pena, per dire in sostanza che c’è troppa clemenza in giro nonostante le carceri esplodano, che un condannato arriva a scontare appena un terzo della pena inflitta (panzana grottesca). Un frullato incommestibile di chiacchiere da bar, fandonie e bugie incapace persino di percepire il ridicolo quando, dopo aver denunciato la solita incertezza della pena, nel chiedere alla senatrice Rossa che fine avessero fatto le persone condannate per la morte di suo padre, ha ricevuto come risposta: «uno è stato ucciso nel marzo 1980 in un blitz dei carabinieri del generale Dalla Chiesa in via Fracchia, l’altro è in carcere da più di 30 anni».
Accade così che vi sia una realtà virtuale tutta in bianco e nero, quella raccontata da Vespa, che narra un paese rovesciato dove il crimine se la passa liscia e le vittime non trovano giustizia. E poi il mondo reale come quello descritto nel VII rapporto sulle carceri italiane presentato ieri mattina a Roma dall’associazione Antigone. I detenuti sono 68.527 per soli 44.612 posti letto. Praticamente non ci sono più nemmeno i posti in piedi. Niente a che vedere con le cifre ascoltate nel salotto di Vespa. I semiliberi sono appena 877. Alla faccia del carcere che mette fuori facilmente. L’area penale esterna, cioè quelli che scontano misure alternative per condanne, inferiori o residuali, sotto i due-tre anni, sono 12.492. Tra questi quelli che hanno commesso reati sono appena lo 0,23%. Nel paese dove si racconta che l’ergastolo non esiste più, i “fine pena mai” sono 1491. I detenuti con meno di 25 anni sono invece 7.311, i bambini sotto i tre anni 57. Quelli che hanno commesso violazioni della legge Fini-Giovanardi sulle droghe 28.154, il doppio della media europea. 113 i morti in carcere, di cui 72 suicidi e 18 ancora da accertare. Nei primi 9 mesi del 2010 i suicidi sono già a quota 55. Ad avere solo un anno da scontare sono 11.601, a riprova del fatto che in carcere è più facile entrare che uscire. 43,7% i reclusi (record europeo) ancora giudicabili, tra questi 15.233 in attesa del primo giudizio. Siamo il paese del carcere preventivo, della pena anticipata, della sanzione senza processo dove finiscono solo poveri, immigrati, tossicodipendenti, infermi di mente. Quelli che da Vespa non vedremo mai.

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Cronache carcerarie
Prospero Gallinari chiede la liberazione condizionale e lo Stato si nasconde dietro le parti civili