La commissione Moro 2 e la strana scomparsa dei documenti che scagionano la giornalista Birgit M. Kraatz

Doveva essere la commissione della verità finale sul rapimento Moro. Il presidente Giuseppe Fioroni appena insediato aveva promesso che finalmente sarebbe stata accertata la verità sempre «negata, spazzando via il «patto del silenzio», il muro di presunta «omertà» tra brigatisti e uomini dello Stato, secondo la definizione coniata da Sergio Flamigni nella sua saga dietrologica. Una versione dei fatti, nient’affatto coincidente con la realtà, che secondo il presidente della nuova commissione Moro avrebbe «tombato l’indicibile verità» del rapimento e della uccisione nel 1978 del presidente del consiglio nazionale della Democrazia cristiana.


Il nuovo porto delle nebbie

La Moro 2, i cui lavori si sono tenuti dal 2014 al 2018, si è rivelata invece l’ennesimo porto delle nebbie. Un luogo dove non solo non è mai emersa quella verità illibata, promessa all’inizio, ma addirittura alcune risultanze documentali scomode e non preventivate, le fastidiose acquisizioni emerse nel frattempo – ma non in linea con gli auspici del suo presidente – si sono perse tra gli scaffali degli archivi. La verità tanto promessa è così annegata nelle acque torbide del complottismo, risucchiata dai vortici profondi di ipotesi e congetture dietrologiche che hanno guidato come fossero un assioma indiscutibile il cammino della commissione.

Le accuse contro la giornalista Birgit M. Kraatz
Nell’ultimo anno di lavori la commissione si era occupata di un complesso immobiliare sito in via dei Massimi, nella parte alta di via Balduina, a Roma. Una zona distante poche centinaia di metri in linea d’aria dal luogo del rapimento dello statista democristiano. A dire il vero, non si trattava affatto di una novità: già nei giorni successivi al rapimento erano circolate voci sul comprensorio di palazzine dell’Istituto opere religiose del Vaticano situato al civico 91 di quella via. Nel novembre del 1978, un quotidiano romano, Il Tempo, anticipò un articolo dello scrittore Pietro Di Donato apparso nel numero di dicembre sulla rivista erotica-glamour Penthouse. Nell’articolo si sosteneva che la prigionia di Moro si era svolta nella zona della Balduina, luogo dove sarebbe avvenuto il trasbordo del prigioniero ed erano state abbandonate le macchine impiegate in via Fani. Agli atti risulta che le forze di polizia effettuarono controlli e perquisizioni in alcune palazzine e garage dei dintorni senza alcun esito. La sortita di Di Donato fu ripresa nel gennaio 1979 da Mino Pecorelli sulla rivista legata ai Servizi Osservatorio politico. Ne accennò anche il pm Nicolò Amato durante le udienze del primo processo Moro, agli inizi degli anni 80. Più tardi se ne occupò, sempre senza pervenire a risultati, la prima commissione Moro finché la diceria venne consacrata nelle pagine di un libro di Sergio Flamigni, La tela del ragno, pubblicato per la prima volta nel 1988 (Edizioni Associate pp. 58-61), divenendo uno dei cavalli di battaglia della successiva pubblicistica dietrologica.
Una vecchia leggenda presa per buona dalla commissione e riportata nell’ultima relazione approvata nel dicembre 2017 con l’aggiunta di una novità: ad una giornalista di nome Brigit M. Kraatz, corrispondente in Italia delle più importanti testate giornalistiche tedesche e residente nel 1978 in via dei Massimi 91, con la figlia e la governante che accudiva la bambina, si attribuiva un ruolo nel sequestro Moro. Nel relazione si affermava che Franco Piperno, amico da almeno un decennio della Kraatz, la mattina del 16 marzo 1978 avrebbe controllato dalle finestre dell’appartamento della donna il buon andamento del sequestro, ovvero l’arrivo delle macchine dei brigatisti con Moro all’interno e il loro ingresso nel garage dove il prigioniero – sempre secondo la fantasiosa ricostruzione della commissione – sarebbe stato fatto scendere e nascosto in un’abitazione del palazzo. Si aggiungeva inoltre che la giornalista era, in realtà, una nota esponente del gruppo sovversivo tedesco «2 Giugno». Sarebbe bastato svolgere un sopralluogo nella ex abitazione della Kraatz per rendersi conto che dalle sue finestre non era possibile alcuna visuale sull’ingresso del garage, ma sarebbe stato chiedere troppo ad una commissione il cui lavoro è consistito essenzialmente nell’accreditare congetture piuttosto che verificare la fondatezza dei fatti.

«Birgit Kraatz non è un membro della 2 giugno», Il documento della polizia tedesca che smentisce Fioroni
Venuta a conoscenza della vicenda solo qualche tempo dopo, il 26 febbraio 2018 Brigit M. Kraatz inviò una prima lettera a Fioroni nella quale chiedeva di cancellare dalla relazione le «calunniose asserzioni» rivolte alla sua persona (allegato 1). Lettera che non ricevette mai risposta anche perché nel frattempo la commissione aveva chiuso i battenti per la fine anticipata della legislatura. Nel frattempo Birgit M. Kraatz segnalò la vicenda anche all’allora presidente della Camera dei deputati, Roberto Fico, prima nel maggio e poi nell’ottobre 2018. Negli stessi giorni si rivolse anche alle altre cariche del Stato, la presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, anche in questo caso ricevendo come risposta solo una glaciale indifferenza.
Il 4 ottobre successivo, Fioroni ormai ex presidente della commissione nel corso della presentazione di un suo libro, Moro il caso non è chiuso. La verità non detta, davanti alle domande dei giornalisti spiegò che nell’agosto 2018 era pervenuta una nuova informativa che smentiva il coinvolgimento della Kraatz nell’organizzazione «2 giugno». L’Ansa del giorno successivo riferì le sue parole: «Sull’adesione di Birgit Kraatz all’organizzazione estremista tedesca del ‘2 Giugno’, “ci sono degli atti che lo dicono e che noi abbiamo ereditato, ma c’è anche un documento di due mesi fa che dice che lei non c’entra niente“». In evidente difficoltà per la micidiale bufala scolpita nella relazione della commissione, Fioroni provava a salvare capra e cavoli affermando che «il riferimento alla giornalista era per il rapporto avuto con Piperno (“assolutamente legittimo”, secondo Fioroni) e in primis per l’eventuale presenza di Piperno nel palazzo romano. “A noi interessa – concludeva l’ex deputato – solo per le relazioni sentimentali che aveva. Abbiamo inserito lei nel testo solamente per dimostrare che c’era Piperno che frequentava quella casa. Poi se era dell’organizzazione del 2 giugno o altro, a me non serviva a niente”».
Il 18 ottobre 2018 i legali della signora Kraatz scrissero nuovamente all’ex presidente Fioroni, chiedendogli ancora una volta di correggere la relazione e allegando due comunicazioni della Bundeskriminalamt, l’Ufficio federale della polizia criminale (Bka), del 26 giugno e del 4 ottobre 2018 nel quale si certificava che il nome della signora Kraatz non era mai stato menzionato in alcun documento della struttura e la sua totale estraneità con le vicende della «2 giugno».

L’origine della calunnia

Il nome della Kraatz era stato tirato in ballo da una vecchia relazione del 31 luglio 2000 presentata dai due parlamentari di Alleanza nazionale provenienti dall’Msi, Alfredo Mantica ed Enzo Fragalà, membri della commissione Stragi nella quale appariva in modo del tutto abusivo il nome di «Birgit Kraatz».
A seguito di una rogatoria diretta alle autorità tedesche, presentata dal giudice Francesco Amato sui nomi di alcuni esponenti vicini al movimento eversivo «2 giugno», la polizia tedesca inviava in risposta una relazione. Senza alcuna giustificazione comprensibile, l’Ucigos – l’Ufficio centrale della polizia politica destinatario della relazione – apponeva il nome di Birgit Kraatz nella lettera che accompagnava il testo della Bundeskriminalamt. Nome che invece non era presente all’interno del documento della polizia tedesca e che mai più riapparirà. Nella successiva minuta della Digos di Roma, che riceve la documentazione dall’Ucigos e la rigira al magistrato, non vi è infatti più alcuna traccia della Kraatz. Nonostante questa anomalia, i due parlamentari che evidentemente si erano soffermati solo sulla minuta di accompagnamento riportano il nome della donna nella loro relazione, indicandola come una esponente del gruppo «2 giugno». Diciassette anni più tardi, alcuni consulenti della commissione Fioroni che scandagliavano i materiali digitalizzati prodotti dalle precedenti commissioni intercettano il nome della Kraatz incrociandolo con quello delle persone che risiedevano nel 1978 nella palazzina di via dei Massimi 91. Nasce così il grossolano errore: nessuno legge attentamente le carte e si domanda perché il nome della Kraatz sia assente dalla relazione inviata della polizia tedesca (la fonte primaria) ma compaia nella minuta italiana che l’accompagna. Non si svolgono le necessarie verifiche, non si fanno approfondimenti su altre fonti di informazione. In poche parole non si utilizza una corretta metodologia. Emerge un modo di lavorare superficiale che evita sistematicamente ogni indizio, segnale o prova che sollevi dei problemi, inceppi o allontani dalla meta prefigurata o peggio smentisca i teoremi precostituiti. Insomma una gigantesca officina di fake news. Ad aggravare ulteriormente il comportamento della commissione è un rapporto del 19 marzo 2018 (protocollo 3698 del 20 marzo 2018), prodotto da una collaboratrice della commissione, contenente diversi documenti dell’Ucigos appena declassificati. Nella nuova documentazione è presente una nota del 28 settembre 1981, inviata all’Ucigos dal questore Giovanni Pollio, in cui si spiega che Birgit Kraatz è una giornalista che «svolge la propria attività lavorativa presso la redazione del periodico tedesco “Stern” di cui è corrispondente».

L’intangibilità delle relazioni prodotte dalle commissioni parlamentari

Dopo essere riuscita a contattare gli uffici della commissione alla signora Kraatz fu spiegato che il testo di una relazione parlamentare una volta deliberato, ovvero accolto e votato dai membri della commissione e successivamente approvato dal voto delle aule parlamentari, non è modificabile in alcun modo. L’unica possibilità era quella di inviare la nuova documentazione della Bka che correggeva le asserzioni contenute nella relazione all’ufficio stralci in modo da poter esser messa a disposizione degli studiosi che ne avrebbero fatto domanda. Richiesta che venne esaudita il 18 ottobre 2018 con l’invio della documentazione all’allora segretario della commissione Moro 2, dottor Tabacchi. Per aggirare l’intangibilità del testo della relazione i legali della Kraatz proposero ragionevolmente di allegare la nuova documentazione al testo della relazione e di modificare le informazioni che circolavano su internet (allegato 2). Ancora una volta nessuno ha mai preso in considerazione la proposta tantomeno inviato un qualunque segnale di risposta.


Verità storica e verità deliberata

L’intangibilità delle relazioni votate dalle commissioni parlamentari d’inchiesta merita una riflessione particolare. Ci troviamo, infatti, di fronte al postulato di una nuova verità: la verità parlamentare che è tale poiché delibera una volontà del popolo che rappresenta. Un modello procedurale che all’atto della deliberazione crea dei fatti, congelandoli, al pari delle sentenze giudiziarie. Una volta deliberate o sentenziate queste versioni degli accadimenti diventano intangibili, salvo lunghe e limitatissime eccezioni, a differenza della verità storica che ha una natura processuale soggetta a possibili e continue rimesse in discussione dovute all’emergere di nuove metodologie o all’acquisizione di nuovi documenti, circostanze e informazioni. Accade così che la verità parlamentare si adagia su una narrazione degli eventi deliberata sulla base delle convenienze di una maggioranza politica senza più recepire eventuali smentite. E’ il grande limite delle commissioni parlamentari che agli occhi degli storici riservano interesse soprattutto per il bacino documentale raccolto, quando questo è accessibile, più che per le loro conclusioni.

La querela contro Gero Grassi
Nell’autunno del 2020, Birgit M. Kraatz nel tentativo di fare giustizia delle calunnie prodotte contro la sua persona querelava anche uno dei membri più attivi della commissione Moro 2, l’ex vice presidente del gruppo parlamentare del Pd alla Camera Gero Grassi (leggi qui). Non più parlamentare, per la mancata ricandidatura nelle liste del suo partito, Grassi aveva ripubblicato in un suo volume le accuse contro la signora Kraatz ribadendo la sua appartenenza al gruppo sovversivo «2 giugno». Ormai privo della immunità, che gli aveva garantito in precedenza di poter affermare qualunque cosa senza conseguenze, Grassi è stato raggiunto dalla denuncia che, inizialmente depositata a Grosseto, per competenza territoriale è stata assegnata al tribunale di Trani, luogo di sua residenza, dove il Gip rigettando la richiesta di archiviazione proposta dalla procura ha disposto ulteriori accertamenti.

La verità parlamentare diventa verità giudiziaria. Birgit Kraatz accusata anche dai giudici della strage di Bologna
Con grande sconcerto la scorsa estate Birgit M. Kraatz ha scoperto di essere finita anche nelle pagine della sentenza di condanna per la strage alla stazione centrale di Bologna del 2 agosto 1980, emessa contro il neofascista Paolo Bellini e depositata nell’aprile del 2023. Riprendendo alcuni stralci della relazione del dicembre 2017 prodotta dalla commissione Fioroni, con l’intenzione fallace di sostenere la tesi delle «convergenze parallele» tra lotta armata di sinistra e stragismo fascista, i giudici della corte d’assise assecondavano, a pagina 1631 (allegato 3), l’appartenenza della Kraatz alla organizzazione sovversiva «2 giugno». Il 20 settembre la giornalista inviava l’ennesima lettera di smentita, stavolta alla corte di appello bolognese che ha in carico il processo d’appello, chiedendo «di interrompere finalmente questa catena di montaggio di accuse false […] e di correggere definitivamente questo sbaglio nella vostra sentenza d’Appello e ristabilire che io non ho mai fatto parte di nessuna organizzazione terroristica (allegato 3) .

La richiesta di spiegazioni rivolta all’archivio della commissione Moro 2 e la scoperta che le lettere e i documenti inviati nel 2018 sono scomparsi

Stupita dal fatto che i documenti inviati nel 2018 a Giuseppe Fioroni e all’ufficio stralci della commissione non fossero stati recepiti, la signora Kraatz si è rivolta nuovamente al vecchio segretario, il funzionario della Camera dei deputati dottor Tabacchi, nel frattempo trasferito a nuovo incarico, chiedendogli dove fosse finita la documentazione inviata e se questa fosse mai stata allegata alla relazione, come richiesto.

La risposta pervenuta è stupefacente: la lettera a Fioroni inviata nel febbraio 2018, acquisita in data 26 marzo 2018 con protocollo 3693 (serie corrispondenza), e i documenti della Bka, acquisti il 5 novembre 2018 con protocollo 88 dell’Ufficio stralcio, risultavano scomparsi, introvabili.

Io stesso prima di redigere questo articolo ho cercato nuovamente i documenti, prima sul portale della commissione, senza trovarli, poi rivolgendomi al dottor Tabacchi che mi ha rinviato all’archivio a cui ho subito scritto ricevendo questa risposta: «La informiamo che sono state avviate le procedure di ricerca e riscontro documentale. Saranno necessari, al riguardo, alcuni tempi tecnici, al momento non precisabili. Avremo cura di comunicarLe gli esiti delle verifiche esperite. Cordiali saluti».
Era il 22 ottobre 2023, da allora più nulla.
Dove sono finiti quei documenti regolarmente protocollati? Possibile che nessuno sappia la fine che hanno fatto? Sono forse stati secretati e inviati alla procura romana nell’ambito dell’inchiesta che sta conducendo su via dei Massimi e via Licinio Calvo? Se fosse questa la ragione appare strano che dei documenti regolarmente protocollati in entrata non risultino segnalati in uscita. Dove sono allora?

Allegato 1
Lettera a Giuseppe Fioroni, presidente della commisione Moro 2, del 26 febbraio 2018, scomparsa dagli archivi

Allegato 2
Le due comunicazioni della Bundeskriminalamt, l’Ufficio federale della polizia criminale tedesca, scomparse dall’archivio della commissione Moro 2

Allegato 3
Lettera con richiesta di correzione inviata alla corte d’apello di Bologna e pagina 1631delle motivazioni della sentenza di condanna in primo grado del neofascista Paolo Bellini per la strage alla stazione centrale di Bologna del 2 agosto 1980

Il favoreggiamento c’è o non c’è? Lettera aperta al sostituto procuratore della repubblica di Roma Eugenio Albamonte

di Paolo Persichetti, 18 ottobre 2023

Il 9 giugno del 2021 su mandato del procuratore di Roma Eugenio Albamonte e dell’allora Procuratore capo Michele Prestipino, la polizia di prevenzione ha sequestrato il mio archivio di lavoro raccolto in anni di ricerca storica, l’intera documentazione digitale presente in casa e negli storage online, computer e telefono nonché l’archivio familiare, con materiali di mia moglie e medico-scolastici dei miei figli. Un anno fa, il 7 ottobre 2022, il Gip del tribunale di Roma Valerio Savio nella sua ultima ordinanza emessa sulla vicenda (potere leggere qui le diverse puntate) riteneva che l’accusa non fosse stata ancora chiaramente formulata, tanto da scrivere: «ancora non c’è e addirittura potrebbe non esserci mai». Sedici mesi di indagini non erano riuscite a focalizzare una contestazione precisa, un reato da perseguire. Da allora sull’inchiesta è calato il silenzio più assoluto. Riconsegnatomi il materiale sequestrato, dopo molteplici richieste e denunce, la procura ha trattenuto per sé l’intera copia forense, praticamente un clone del mio materiale digitale, nonostante il perito del Gip avesse individuato, come attinenti ai temi della indagine nella enorme mole dei giga sequestrati, solo 750 file: tutti di provenienza «legale», tratti da archivi pubblici o scaricati da siti aperti presenti in rete.

Superati tutti i termini di legge
Dopo l’ultima risposta del Gip sono trascorsi altri 12 mesi. Dal momento dell’irruzione nella mia casa e del sequestro ne sono passati in tutto 28, dal momento della mia iscrizione nel registro degli indagati oltre 30. Tutti i termini di legge sono stati di gran lunga oltrepassati. Ad una sollecitazione avanzata dal mio avvocato, Francesco Romeo, prima dell’estate scorsa, il procuratore Albamonte aveva risposto che la polizia di prevenzione non aveva ancora consegnato il suo rapporto conclusivo sull’analisi del materiale. L’enormità del tempo impiegato dimostra che l’interesse dell’intelligence di polizia non si è riversato sui 750 file estrapolati dal perito del tribunale, valutabili rapidamente (leggi qui), ma sul resto dell’archivio. Una curiosità comprensibile ma priva di giustificazione legale. Nei giorni scorsi, dopo aver presentato in procura una formale richiesta di informazioni sulla mia posizione giuridica, ai sensi dell’articolo 335, comma 3 del codice di procedura penale, mi è stato risposto che risulto indagato per il reato di «favoreggiamento, art. 378 cp per fatti criminosi avvenuti in data 8 dicembre 2015».
La girandola di accuse continuamente riformulate nei mesi passati: «associazione sovversiva», «violazione di segreto d’ufficio», «violazione di notizia riservata», si è ora cristallizzata sul «favoreggiamento».

Favoreggiamento di chi e per cosa? E’ la domanda molto semplice che rivolgo al dottor Albamonte.

La relazione della commissione Moro 2 del dicembre 2015
La data dell’8 dicembre più volte richiamata dalla procura nel corso delle udienze di ricorso mi lascia pensare che l’accusa poggi su un invio, da me realizzato in quella data tramite posta elettronica, di un breve stralcio della prima bozza di relazione annuale della commissione Moro 2 relativo alla vicenda dell’abbandono in via Licinio Calvo delle macchine del commando brigatista che aveva rapito Moro. Testo che sarebbe stato pubblicato dall’organo parlamentare meno di 48 ore dopo, il 10 dicembre 2015 (vedi qui). Pagine destinate a un gruppo di persone coinvolte nel lavoro di preparazione di un libro sulla storia delle Brigate rosse, poi uscito nel 2017 per l’editore Deriveapprodi, Brigate rosse dalle fabbriche alla campagna di primavera, scritto insieme a Marco Clementi ed Elisa Santalena. Tra i destinatari della mail c’erano uno dei coautori e alcune fonti orali ripetutamente interpellate nel corso dell’opera. Nel testo che accompagnava uno degli invii scrivevo: «Hanno fatto il calco del testo di Flamigni e rifiutano di tener conto delle ultime indagini della polizia che diffidando del racconto dei testimoni ha cercato di verificare gli unici elementi che si pretendevano oggettivi: ovvero le immagini riprese dalla Rai in via Licinio Calvo dopo il ritrovamento della Fiat 132 in cui si sosteneva non si vedesse la presenza delle Fiat 128. Sono andati sul posto, hanno verificato che dal punto di ripresa dove era situata la telecamera non era possibile scorgere l’altezza della via dove furono trovate le 128. Dunque quelle immagini contrariamente a quanto sempre sostenuto, Flamigni in testa, non provavano nulla». Quali intenti illeciti o criminosi si possano ricavare da questo messaggio lo lascio decidere a chi legge.

Il «favoreggiamento»
Secondo la procura nelle bozze – rese pubbliche dalla commissione Fioroni poche ore dopo – si riportavano «degli accertamenti in corso da parte della predetta commissione, relativi a fatti reato, ancora non completamente chiariti, che coinvolgono anche le loro responsabilità penali». Pertanto – si lasciava intendere – nel brevissimo lasso di tempo intercorso tra il mio invio di posta elettronica e la pubblicazione ufficiale della commissione avrei favorito qualcuno. Chi? 
Alcuni dei destinatari interpellati? Impossibile visto che le loro posizioni giuridiche sono cristallizzate da decenni con condanne all’ergastolo passate in giudicato. Eventuali fatti-reato nuovi, per altro di ridotto peso penale, sarebbero stati assorbiti dalle condanne ricevute per il sequestro Moro o largamente prescritti e non avrebbero potuto rivestire alcuna rilevanza penale ma solamente storica. Allora qual è il problema? Forse la presenza di altri complici mai individuati, come sostenuto dal presidente della commissione Moro 2, Giuseppe Fioroni, che ascoltato come teste non ha esitato a lanciare subdole insinuazioni? 

Si da il caso però che il teorema del garage compiacente e di una base brigatista prossima al luogo dove vennero lasciate le vetture utilizzate nella prima fase della fuga e addirittura – secondo alcuni oltranzisti – prima prigione di Moro, è un clamoroso falso che circola da diversi decenni. Ne parlò per la prima volta, il 15 novembre del 1978, un quotidiano romano, Il Tempo, che anticipò un articolo dello scrittore Pietro Di Donato apparso nel dicembre successivo sulla rivista erotica-glamour Penthouse, divenuta una delle maggiori referenze del presidente Fioroni. 
Nel suo racconto Di Donato sosteneva che la prigionia di Moro si era svolta nella zona della Balduina, quartiere limitrofo alla scena del rapimento e al luogo dove era avvenuto il trasbordo del prigioniero ed erano state abbandonate le macchine impiegate in via Fani. Diversi controlli e perquisizioni vennero effettuate senza esito dalle forze di polizia in alcune palazzine e garage dei dintorni. La sortita di Di Donato venne ripresa nel gennaio 1979 da Mino Pecorelli sulla rivista Osservatorio politico. Entrò quindi nella sfera giudiziaria quando il pm Nicolò Amato ne parlò durante le udienze del primo processo Moro, agli inizi degli anni 80. Più tardi se ne occupò, sempre senza pervenire a risultati, la prima commissione Moro e venne consacrata nelle pagine del libro di Sergio Flamigni, La tela del ragno, pubblicato per la prima volta nel 1988 (Edizioni Associate pp. 58-61), divenendo uno dei cavalli di battaglia della successiva pubblicistica dietrologica. 


Un pericoloso attacco alla ricerca storica
Non si comprende quindi quale sia il fondamento investigativo e penale dell’accusa che mi viene mossa. Perché ci sia favoreggiamento – recita il codice penale – deve esserci prova del sostegno fornito alla fuga o al riparo di una persona latitante, oppure del sostentamento o della fornitura di mezzi tecnici. Come avrei potuto favorire nel 2015 una persona fuggita dall’Italia nel 1981, quando avevo 19 anni, che vive, lavora, ha famiglia, in un Paese dove ha residenza e nazionalità? In che modo avrei potuto favorire delle persone già condannate all’ergastolo in via definitiva per quei medesimi fatti? Ma anche se fosse, interrogare una fonte storica, ricostruire quel che ha fatto o non ha fatto integrando o divergendo dalle conclusioni giudiziarie sarebbe forse un reato? Zola era complice di Dreyfus? O per venire ai tempi nostri, il professor Carlo Ginzburg era colpevole di favoreggiamento quando ha scritto Il giudice e lo storico, in difesa di Adriano Sofri? 
Di fatto, siamo di fronte a un precedente molto pericoloso per la libertà e l’indipendenza della ricerca storica.

Prosegue la caccia al reato inesistente, la procura non molla l’archivio di Persichetti

La caccia al reato inesistente che il pm Eugenio Albamonte conduce da tempo nei miei confronti ha conosciuto un nuovo colpo di scena. Ignorando la decisione del tribunale del riesame e della cassazione, il 12 novembre scorso il responsabile delle inchieste sul terrorismo e i reati informatici della procura di Roma ha messo da parte l’imputazione di associazione sovversiva ed ha rilanciato l’accusa di favoreggiamento. Dopo l’iniziale violazione di segreto d’ufficio da cui l’indagine era partita siamo giunti al quinto cambio di imputazione in 12 mesi.
Il 2 luglio scorso il tribunale del riesame aveva stabilito che le accuse utilizzate per consentire alla polizia di svuotare il mio archivio erano prive delle condotte di reato. La procura si era limitata a enunciare le accuse (associazione sovversiva e favoreggiamento) senza riportare circostanze, modalità e tempi in cui esse si sarebbero materializzate. Come a dire: «sono convinto che hai fatto questo, ma non so quando, come e dove, ma siccome sono un pm faccio come il marchese del Grillo: intercetto le tue comunicazioni, ti faccio pedinare e poi ti sequestro tutto quello che hai in casa, anche le cose di tua moglie e dei tuoi figli. Qualcosa alla fine troverò!».
I giudici del riesame avevano proposto una ipotesi di reato alternativa: la violazione di notizia riservata che si sarebbe consumata l’8 dicembre 2015, quando avevo inviato tramite posta elettronica alcuni stralci della prima bozza di relazione annuale della commissione Moro 2. Testo che sarebbe stato pubblicato dall’organo parlamentare meno di 48 ore dopo. Pagine destinate ad un gruppo di persone coinvolte nel lavoro di preparazione di un libro sulla storia delle Brigate rosse (leggi qui), poi uscito nel 2017 con Deriveapprodi. Tra queste c’era l’ex brigatista Alvaro Lojacono, ormai cittadino svizzero, che poi aveva girato il testo ad Alessio Casimirri da decenni riparato in Nicaragua, dove ha acquisito la nazionalità. Una lettura giuridica, quella del riesame, che la cassazione lo scorso 10 novembre ha convalidato, anche se al momento non se ne conoscono i motivi. La procura, però, si tiene lontana da questa ipotesi di reato nella consapevolezza che non si tratti di notizie riservate di rilevanza penale. Nel frattempo un altro giudice, il gip Valerio Savio, si era pronunciato sul fascicolo dell’accusa ritenendo che mancasse «una formulata incolpazione anche provvisoria». Ragione che lo aveva condotto a rigettare l’incidente probatorio che il mio difensore aveva richiesto per contrastare l’intenzione del pm di ficcare il naso comunque tra le mie cose, prima ancora che lo stesso gip si fosse pronunciato sulla legittimità del sequestro nell’udienza prevista il prossimo 17 dicembre. Per tutta risposta il pm ha presentato una nuova domanda di incidente probatorio provando questa volta a precisare meglio accusa e condotte di reato.

Il lavoro storico messo sotto accusa
Secondo la Procura le pagine della bozza di relazione da me inviate, nelle quali si affrontava l’episodio delle vetture brigatiste abbandonate in via Licinio Calvo subito dopo il sequestro del leader Dc in via Fani, non avevano come finalità la ricostruzione corretta del percorso di fuga del commando brigatista e la confutazione delle fake news che circolano da decenni sulla vicenda, poi confluita nelle pagine del libro pubblicato nel 2017, ma servivano per il favoreggiamento dei due ex Br. Per la procura in quelle bozze si riportavano «degli accertamenti in corso da parte della predetta commissione, relativi a fatti reato, ancora non completamente chiariti, che coinvolgono anche le loro responsabilità penali». Accusa – come ha rilevato l’avvocato Romeo nelle sue controdeduzioni – difficile da sostenere sul piano giuridico: come avrebbe potuto concretizzarsi il reato di favoreggiamento in una vicenda giudiziaria conclusasi da diversi decenni con condanne all’ergastolo passate in giudicato sia per Casimirri che per Lojacono? Ammesso che possano ancora esistere fatti nuovi, questi sarebbero già assorbiti dalle condanne o largamente prescritti e non potrebbero rivestire più alcuna rilevanza penale ma solamente storica.
Se non c’è una valida ragione giuridica che tiene in piedi l’accusa, quale è allora il movente che spinge il pubblico ministero?
Ascoltato nel dicembre 2020 in qualità di persona informata sui fatti, l’ex presidente della commissione Moro 2 Giuseppe Fioroni aveva sostenuto che vi sarebbero «ulteriori complici del sequestro, seppur con ruoli minori collegati alla logistica, i cui nomi non sono ancora noti». Per poi suggerire che «In tale contesto si potrebbe giustificare un interesse di terze persone legate agli ambienti delle Brigate rosse nel conoscere gli stati di avanzamento dei lavori della commissione con riferimento a questo profilo». Una tesi che si scontra con la logica e la realtà dei fatti.
I temi dell’indagine parlamentare erano facilmente desumibili dalle audizioni pubbliche, accessibili sul sito di radio radicale, trascritte sul portale della commissione stessa e dalle riunioni dell’ufficio di presidenza i cui verbali venivano sistematicamente resi noti. Le piste seguite dalla commissione erano di dominio pubblico, continuamente rilanciate da indiscrezioni giornalistiche, interviste e commenti di commissari molto loquaci. Inoltre i lavori dell’organo di inchiesta parlamentare erano destinati a divenire di dominio pubblico, di lì a poco, con la pubblicazione della prima relazione annuale sullo stato dei lavori il 10 dicembre 2015. Alle «terze persone», accennate da Fioroni, sarebbe bastato attendere qualche ora per conoscerli. Cosa sarebbe mai cambiato in quel breve lasso di tempo? Quel «qualcuno» non aveva certo bisogno di leggere le bozze dedicate a via Licinio Calvo per informarsi. C’è molta presunzione nelle affermazioni all’ex politico di fede andreottiana, giustamente non più rieletto dopo la fallimentare esperienza dell’organismo parlamentare da lui presieduto.
Il teorema del garage compiacente e di una base brigatista prossima al luogo dove vennero lasciate le vetture utilizzate per la prima fase della fuga e addirittura – secondo alcuni oltranzisti – prima prigione di Moro, è un clamoroso falso che circola da diversi decenni. Ne parlò per la prima volta, il 15 novembre del 1978, un quotidiano romano, Il Tempo, che anticipò un articolo dello scrittore Pietro Di Donato apparso nel dicembre successivo sulla rivista erotica-glamour Penthouse, divenuta una delle maggiori referenze del presidente Fioroni. Nel suo racconto Di Donato sosteneva che la prigionia di Moro si era svolta nella zona della Balduina, quartiere limitrofo alla scena del rapimento e al luogo dove era avvenuto il trasbordo del prigioniero ed erano state abbandonate le macchine impiegate in via Fani. Diversi controlli e perquisizioni vennero effettuate senza esito dalle forze di polizia in alcune palazzine e garage dei dintorni. La sortita di Di Donato venne ripresa nel gennaio 1979 da Mino Pecorelli sulla rivista Op. Entrò quindi nella sfera giudiziaria quando il pm Nicolò Amato ne parlò durante le udienze del primo processo Moro. Più tardi se ne occupò, sempre senza pervenire a risultati, la prima commissione Moro e venne consacrata nelle pagine del libro di Sergio Flamigni, La tela del ragno, pubblicato per la prima volta nel 1988 (Edizioni Associate p. 58-61), divenendo uno dei cavalli di battaglia della successiva pubblicistica dietrologica.

Gli ultimi accertamenti della commisssione
Nell’ultimo periodo della sua attività la commissione Moro 2 ha raccolto la testimonianza di una coppia che alla fine del 1978 viveva in via dei Massimi 91, strada situata nella parte più alta della Balduina. I due hanno raccontato di aver ospitato per alcune settimane, sul finire dell’autunno 1978, sei mesi dopo la fine del sequestro, una persona che poi riconobbero essere il brigatista Prospero Gallinari. Dalla vicenda sono scaturite alcune querele nei confronti di uno dei membri della commissione parlamentare (leggi qui e qui) che aveva impropriamente tirato in ballo una giornalista tedesca totalmente estranea all’episodio. All’epoca il comprensorio di via dei Massimi 91 apparteneva allo Ior, Istituto per le opere religiose, ente finanziario del Vaticano. Amministratore unico era Luigi Mennini, padre di don Antonio Mennini, il confessore e uomo di fiducia dello statista democristiano, vice parroco della chiesa di santa Lucia a cui durante il sequestro i brigatisti consegnarono su indicazione dello stesso Moro diverse sue lettere. Alcuni consulenti della commissione si erano lungamente soffermati sull’ipotesi che Alessio Casimirri fosse in qualche modo «intraneo» all’ambiente che risiedeva o circolava in quell’immobile, perché il padre Luciano era in quegli anni responsabile della sala stampa vaticana, senza comprendere quali fossero le rigide regole della compartimentazione e della logistica all’interno delle Brigate rosse, che non poggiava certo sulle relazioni familiari. I successivi accertamenti della commissione non hanno tuttavia trovato conferme e al momento di chiudere i battenti è stato chiesto alla procura di proseguire le indagini. Come si evince da alcune audizioni pubbliche della Commissione, la coppia che aveva fornito ospitalità a Gallinari, proveniva da un’area politica subentrata nelle Brigate rosse dopo la conclusione del sequestro Moro e che aveva relazioni con Adriana Faranda e Valerio Morucci, incaricati dalla colonna romana di trovare una sistemazione a Gallinari dopo l’abbandono repentino della base di via Montalcini nella estate del 1978. Non si comprende quindi quale sia il fondamento investigativo e storiografico dell’accusa che mi viene mossa, mentre appare sempre più evidente l’adesione di polizia e procura a ipotesi complottiste, che non si limitano più a inquinare e depistare le conoscenze storiografiche sulla vicenda Moro ma pretendono di esercitare il controllo assoluto sulla storia degli anni Settanta.

Le puntate precedenti
1. Se fare storia è un reato
2. La polizia della storia
3. La procura sequestra e tace
4. Polizia, procure e dietrologia, la santa alleanza contro la ricerca indipendente sugli anni 70
5. Lo strano comportamento della procura, accusa Persichetti di avere diffuso informazioni riservate ma ignora le ripetute fughe di notizie segretate che hanno contrassegnato l’attività della com
6. Appello – Chi sequestra un archivio attacca la libertà di ricerca
7. Appel – Qui confisque des archives attaque la liberté de la recherche
8. Whoever seizes an archive attacks the freedom of research the appeal signed by researchers and citizens against the investigation by the prosecutor of rome and the police
9. Manca il reato, il gip Savio censura l’inchiesta di Albamonte contro Persichetti
10. Kafka e l’archivio di Persichetti

Interventi sulla vicenda
1. Lo storico Marco Clementi, il sequestro dell’archivio di Paolo Persichetti è un attacco al suo lavoro di ricerca sugli anni 70 – Il Riformista
2. Ora la magistratura vuole orientare anche la ricerca storica – Piero Sansonetti, Il Riformista
3. Paolo Persichetti e il complottismo eterno delle procure – Daniele Zaccaria, Il Dubbio
4. Caso Persichetti, la ricerca storica sotto attacco – Marco Grispigni, il manifesto
5. La commissione Moro e il caso Persichett i- Intervista all’avvocato Francesco Romeo Radio Radicale
6. Caso Persichetti, la ricerca storica deve essere libera e indipendenteFabio Marcelli, Contropiano
7. Quelle pietre d’inciampo preziose che hai seminato – Silvia De Bernadinis
8. Quando la ricerca storica diventa un problema giudiziario il caso di Paolo Persichetti – Davide Drago, Globalproject.info
9.Ricercatore perquisito e indagato per studi sul caso MoroL’indipendente.online/2021/06/15
10. L’ex br Persichetti e l’enigma dell’archivio sotto sequestro
11. Caso Persichetti, procura e riesame non pervenuti – Frank Cimini, Il Riformista
12. L’ex br Persichetti e l’enigma dell’archivio sotto sequestrometronews.it/2021/07/26
13. Archivio Persichetti su Moro, per il gip Savio: “Non c’è reato” – Frank Cimini, Il Riformista
14. Contropiano – Manca il reato, il gip smonta l’inchiesta di Albamonte contro Persichetti
15. Sequestrato l’archivio di Persichetti, mossa della procura per censurare il libro sulle br – Frank Cimini, Il Riformista
16. Archivio Persichetti su Moro per il gip Savio non c’è reato – Frank Cimini, Il Riformista
17. Incolpazione assente, il gip smonta il caso Persichetti – il Dubbio
18.Il gip affossa l’inchiesta contro Paolo Persichetti e la sua ricerca storicawww.radiondadurto.org/2021/11/03/
19. Delitto Moro, l’archivio Persichetti ancora sotto sequestro – Frank Cimini, il Riformista
20. Archivio Persichetti, la cassazione si inventa un nuovo reato – Frank Cimini, il Riformista
21. Contropiano, Kafka e l’archivio di Persichetti
22. Contropiano.org – Prosegue la caccia al reato inesistente, la procura non molla l’archivio di Persichetti
23. Persichetti, i pm non mollano, contestano il reato già bocciato

Kafka e l’archivio di Persichetti

Si è tenuta mercoledì 10 novembre l’udienza della prima sezione della corte di cassazione sul ricorso contro la decisione del Riesame che aveva confermato il sequestro dell’archivio storico di Persichetti

Per la Corte di cassazione allo stato attuale delle indagini è legittimo ipotizzare che la diffusione, l’8 dicembre 2015, a meno di 48 ore della pubblicazione ufficiale, di alcune pagine della prima bozza di relazione annuale della commissione Moro 2, rientri nella fattispecie del reato di rivelazione di notizie riservate. I giudici della suprema Corte hanno rigettato il ricorso presentato dall’avvocato Francesco Romeo contro la decisone del tribunale del riesame che nel luglio scorso aveva modificato il capo d’imputazione da cui era scaturito il sequestro, l’8 giugno precedente, del mio archivio storico e delle cartelle cliniche e scolastiche dei miei figli e di altro materiale amministrativo e strettamente personale della mia famiglia.
All’epoca i giudici del Riesame non avevano accolto l’impianto accusatorio presentato dal pm Eugenio Albamonte, sulla base del quale Polizia di prevenzione, Digos e Polizia postale mi avevano fermato in strada ed avevano poi perquisito per l’intera giornata l’abitazione della mia famiglia portando via tutti i miei strumenti di lavoro: computer, telefonino, tablet e altri supporti su cui era raccolto il mio intero archivio digitale, ed in parte anche del materiale cartaceo, tra cui alcuni schizzi della via di fuga seguita dal commando brigatista che portò a termine il rapimento di Aldo Moro, il 16 marzo del 1978, utilizzati per la ricostruzione della vicenda e confluiti nelle pagine del primo volume sulla storia delle Brigate rosse, uscito presso Derviveapprodi nel marzo 2017.
I giudici del Palazzaccio hanno ritenuto valida la correzione delle iniziali contestazioni mosse dalla procura e che poggiavano sul favoreggiamento e l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordinamento costituzionale. Le motivazioni della decisione, estremamente laconica nella formulazione del dispositivo, «la corte rigetta il ricorso e condanna alle spese processuali», verranno rese note non prima di tre settimane. Durante l’udienza, tenutasi il 10 novembre, il procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso ritenendo «in re ipsa» la dimostrazione del reato, provando a celare dietro l’esercizio retorico della tautologia la propria carenza argomentativa. L’avvocato Romeo nel sottolineare le carenze di motivazione del Riesame ha ricordato come l’unica figura titolata per legge ad apporre il segreto di Stato è il Presidente del consiglio e che non esiste alcuna fonte giuridica che apparenti il Presidente di una commissione parlamentare alle funzioni proprie del capo del governo. Perché una informazione possa rientrare nell’ambito della tutela del segreto di Stato o del segreto politico – ha aggiunto – occorrono specifici requisiti assenti in una bozza di elaborato parlamentare che sarebbe stata resa nota a poche ore di distanza dal sua diffusione. Il destino pubblico della bozza in questione è un dato che rende vana qualsiasi ipotesi di danno per la sicurezza dello Stato e della Costituzione. Come può esserci violazione di segreto in un testo redatto per essere deliberato e reso di pubblico dominio? Contraddizioni irrisolvibili che il collegio di Cassazione ha preferito sorvolare.
Oltretutto le bozze di relazione non rientrano nemmeno tra i materiali sui quali la commissione parlamentare poteva apporre, tramite il suo presidente, un qualsiasi livello di classificazione. Stando alla normativa interna che la stessa commissione aveva deliberato al momento di avviare i propri lavori, le bozze prodotte non erano assimilabili a documenti giudiziari, documenti amministrativi o di governo classificati, documenti privati o classificati al momento dell’acquisizione. La richiesta di riservatezza aveva dunque un semplice valore funzionale legato a ragioni di opportunità: consentire la conduzione dei lavori e delle discussioni in serenità, senza pressioni o turbative esterne. Le notizie riservate che hanno rilevanza penale devono essere omogenee a quelle oggetto di segreto di Stato, non sembra questo il caso anche perché la vicenda dell’abbandono in via Licinio Calvo delle vetture utilizzate dai brigatisti in via Fani e la suggestiva ipotesi di un garage o di una base compiacente nella zona, notizie contenute nelle pagine della bozza incriminata, sono argomento dibattuto da almeno tre decenni: fin dai tempi del primo processo Moro, affrontato nella prima commissione d’inchiesta sul sequestro e tema di un’ampia pubblicistica complottista. Se queste fake news sono assimilabili a segreti di Stato, è folta la schiera di chi lo ha violato impunemente da decenni.

La decisione della suprema Corte rende ancora più intricata la vicenda perché il prossimo 17 dicembre il Gip Valerio Savio dovrà pronunciarsi sulla legittimità del sequestro dell’archivio senza tener conto della decisione del tribunale del riesame e della cassazione. La giustificazione giuridica del sequestro resta infatti ancorata alle ipotesi di accusa iniziali, il favoreggiamento e l’associazione sovversiva, già bocciati dal Gip quando ha rigettato la richiesta di incidente probatorio. A dicembre il giudice dovrà dire se le modalità del sequestro sono state eseguite correttamente o se sono andate oltre il mandato senza che sia intervenuta a sanarle la successiva ratifica del pubblico ministero. La polizia è entrata in casa con un’indicazione limitata alla ricerca di materiali afferenti alla commissione Moro 2 ma all’atto del sequestro ha svaligiato l’intero archivio informatico del nucleo familiare, portando via materiali legalmente raccolti in altre sedi: archivio centrale dello Stato, archivio del tribunale, archivio della commissione stragi, biblioteche e fonti aperte. Nulla a che vedere con i materiali della commissione scaricati tutti via web dal sito di un noto membro della commissione stessa.
Cosa farà il pm Albamonte nel caso il Gip dovesse accogliere la richiesta dell’avvocato Romeo e dissequestrare tutto l’archivio o buona parte di esso? Risequestrerà nuovamente l’archivio sulla base del nuovo capo d’imputazione suggerito dal Riesame e convalidato dalla Cassazione?
Impazzirebbe anche Kafka…

«Manca il reato», il gip Savio censura l’inchiesta di Albamonte contro Persichetti

Manca «una formulata incolpazione anche provvisoria», con queste parole il gip Valerio Savio ha liquidato l’inchiesta aperta dal pm Eugenio Albamonte nei miei confronti. Lo scorso 8 giugno la polizia di prevenzione, insieme a digos e polizia postale, col pretesto di cercare materiale riservato proveniente dalla Commissione parlamentare Moro 2, che ha chiuso i battenti nel febbraio del 2018 (leggi qui), aveva sottratto il mio intero archivio storico, le cartelle sanitarie e scolastiche dei miei figli e altro materiale privato della mia famiglia (leggi qui e qui e qui).
Da cinque mesi ormai il mio materiale d’archivio e tutti i miei strumenti di lavoro (telefonino, computer, tablet, pendrive e hard disk) sono trattenuti dalle forze di polizia senza un motivo giuridicamente valido.
Non è indicato con chiarezza alcun reato, afferma il gip in risposta alla richiesta di incidente probatorio che il mio avvocato, Francesco Romeo, aveva avanzato di fronte alle intenzioni del pm di avviare per proprio conto accertamenti tecnici non ripetibili sul materiale sequestrato senza garanzie giuridiche per la difesa, che avrebbe solo potuto assistere senza poter intervenire sulla scelta delle modalità di ricerca e analisi dell’enorme materiale portato via e che solo in minima parte riguardava l’oggetto della perquisizione. Per queste ragioni, l’avvocato Romeo aveva chiesto al gip di effettuare una valutazione «con forme e secondo modalità non lesive del diritto alla riservatezza ed alla privacy personale dell’indagato nonché della sua privacy familiare» e in forma «limitata ai soli dati e documenti informatici di interesse non relazione alle ipotesi di reato oggetto di contestazione da individuare tramite chiavi di ricerca costituite da parole chiave».
L’incidente probatorio non può essere ammesso – risponde il gip – poiché «in atto contestazione non ve n’è alcuna, neanche provvisoria», motivo che impedisce l’accertamento di un eventuale reato con dispendio di inutili energie e costi a carico dell’Erario.
Dopo la risposta del tribunale del riesame, del 2 luglio scorso, che aveva già dato un colpo importante all’inchiesta della procura romana, ritenendo assenti le condotte di reato specifiche ascrivibili ai capi di imputazione indicati dal pm, ovvero il 270 bis cp (l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo ed eversione dell’ordine democratico) e il favoreggiamento in realzione all’ipotesi di divulgazione di materiale riservato acquisito e/o elaborato dalla commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, e suggerendo a questi di ricorrere ad un più idonea ipotesi di reato, la violazione di segreto politico, 262 cp, il giudice per le indagini preliminari è andato ben oltre. Per il Gip nel fascicolo dell’accusa manca una contestazione chiara, «con un minimo di delineazione» dell’ipotesi di reato.
Tre anni di indagini estremamente invasive, per giunta ancora non concluse, condotte attraverso forzature continue, clonazione di telefonini, intercettazioni telefoniche a raffica, intercettazioni ambientali e pedinamenti, intercettazione del traffico di posta elettronica, costate migliaia di euro di soldi pubblici, sono pervenute alla impossibilità di formulare una contestazione chiara e definita. Questa è la surreale storia iniziata nel gennaio del 2019 da una grottesca indagine della digos di Milano conclusasi con un’archiviazione ma subito ripresa dalla procura romana. Una caccia ai fantasmi, una pesante intromissione nella libertà di ricerca storica e lavoro giornalistico.
Il 10 novembre prossimo la cassazione dovrà pronunciarsi sulla vicenda, intanto il mio archivio e i miei strumenti di lavoro restano sotto sequestro.

Lo strano comportamento della procura, accusa Persichetti di avere diffuso informazioni riservate ma ignora le ripetute fughe di notizie segretate che hanno contrassegnato l’attività della commissione Moro presieduta da Fioroni

di Paolo Persichetti

I tre anni di attività della seconda commissione parlamentare sul rapimento e l’uccisone di Aldo Moro sono stati contrassegnati dalle ripetute violazioni del protocollo interno che regolava il regime dei documenti da mantenere riservati o segretati. Durante i suoi lavori abbiamo assistito ad una continua rincorsa all’anticipazione di notizie, o presunte tali, dove il più delle volte roboanti effetti d’annuncio servivano a colmare l’assenza di fatti nuovi. E’ andata avanti così fino al febbraio 2018 quando a causa della conclusione della legislatura la commissione ha dovuto chiudere anticipatamente i battenti senza essere in grado di produrre una relazione conclusiva. Nel frattempo commissari e consulenti avevano intrattenuto relazioni privilegiate con la stampa, fatto filtrare veline, notizie, documenti, fake news, avvalendosi anche di giornalisti che svolgevano la funzione di house organ, e ognuno come poteva si era avvalso di consulenze esterne e informali. Normale amministrazione di un organo eminentemente politico che però nella legge istitutiva si era dato anche delle prerogative giudiziarie, dando vita ad un ibrido dalle molte e irrisolte ambiguità.

Le ripetute fughe di notizie riservate ignorate dalla procura
Nonostante queste continue fughe di notizie siano avvenute sotto gli occhi di tutti la procura di Roma, che pure con la commissione intratteneva continui scambi, ha sempre girato il capo altrove ignorando le ripetute irregolarità.
Una rapida inchiesta ci ha permesso di individuare almeno cinque episodi (ma il numero è probabilmente superiore) nei quali esponenti della commissione hanno diffuso sui media notizie o documenti riservati o segretati. Queste violazioni, due delle quali avvenute prima del dicembre 2015, hanno riguardato la diffusione di verbali segretati di tre testimoni, due escussi dai consulenti della commissione e dallo stesso presidente, uno audito in seduta segreta dalla commissione stessa, e due notizie riservate raccolte dai consulenti. Si trattava di materiale documentale di prima mano funzionale allo sviluppo di successivi approfondimenti investigativi la cui divulgazione poteva nuocere allo sviluppo degli ulteriori accertamenti. A questa prima circostanza bisogna aggiungere che la divulgazione sui media è avvenuta spesso attraverso un uso sapientemente selezionato di stralci e notizie tale da distorcere il contenuto stesso delle informazioni presenti nei verbali e nei documenti, dandone in pasto all’opinione pubblica una versione finalizzata ad avvalorare ipotesi cospirazioniste che i commissari o i consulenti protagonisti di queste indiscrezioni appoggiavano. In questo modo accanto alla violazione delle regole di riservatezza si è dato corpo anche alla circolazione di fake news, in taluni casi di vere e proprie azioni di depistaggio informativo.

Primo episodio
Il 13 marzo 2015 il deputato Gero Grassi, membro tra i più attivi della commissione, rivelava l’acquisizione da parte della commissione di alcune musicassette ritrovate nell’aprile del 1978 in via Gradoli. L’informazione era contenuta in una informativa riservata prodotta dal magistrato Antonia Gianmaria, una consulente che lavorava per la commissione. La notizia appariva sui maggiori quotidiani, Corriere della sera, Repubblica, Stampa. «Da quel che si conosce dagli atti – spiegava imprudentemente Grassi – erano 18 le cassette registrate ritrovate nel covo e mai ascoltate: ad oggi ne manca dunque una. Per il momento le cassette sono nella cassaforte della Commissione, presto ne conosceremo il contenuto e valuteremo la rilevanza per le nostre indagini». L’entusiasmo appena velato di Grassi era dovuto alla convinzione che le audiocassette contenessero gli interrogatori di Moro. Non era affatto vero: i nastri provenivano da tre sequestri avvenuti in epoche diverse nelle basi brigatiste di via Gradoli, via delle Nespole e nell’abitazione di viale Giulio Cesare. Contenevano in prevalenza selezioni musicali, come riferivano i verbali dell’epoca acquisiti successivamente dalla prima commissione Moro. All’appello non mancavano cassette: alcune erano vuote, altre contenevano canzoni di Francesco Guccini, Gabriella Ferri, Bob Dylan, Enzo Jannacci, il duo di Piadena, canti rivoluzionari, gli Intillimani, il sax di Fausto Papetti, una – recitava il verbale – era «registrata da ambo le parti in lingua inglese». Altre due cassette ritrovate nel gennaio 1982 all’interno della base del Partito guerriglia di via delle Nespole, ma per un errore iniziale attribuite al sequestro effettuato in viale Giulio Cesare, dove Faranda e Morucci avevano trasferito l’archivio della “Brigata contro” dopo la loro uscita dalle Br, contenevano il messaggio telefonico di un mitomane e le dichiarazioni di una teste (Chiarantano) interrogata da un ufficiale dei carabinieri appartenente ai servizi segreti, Pignero, da cui scaturì l’inchiesta del generale Dalla Chiesa del maggio 1979 contro ambienti della estrema sinistra genovese, accusata ingiustamente di far parte della colonna genovese delle Br. Si trattavava di materiale di provenienza processuale e le dichiarazioni della teste erano riportate integralmente sulle pagine di Lotta continua dell’epoca.
Un testo dell’Ansa del 16 marzo 2015, ore 8,27, che riprendeva le affermazioni di Grassi raccoglieva anche le proteste del vicepresidente della commissione Gaetano Piepoli: «Il riserbo e la prudenza – dichiarava – sono l’unica bussola che la ricerca della verità ha per non smarrirsi nel labirinto delle infinite ipotesi».

Secondo episodio
Per due giorni consecutivi, il 17 e il 18 novembre 2015 sulle pagine di Repubblica il giornalista Paolo Berizzi ebbe modo di riportare ampi stralci del verbale segretato dell’escussione di Raffaele Cutolo, avvenuta il 14 settembre precedente nella sezione 41 bis del carcere di Parma. Le ennesime dichiarazioni dell’ex capo della Nuova camorra organizzata sulla vicenda Moro erano state raccolte dal tenente dei carabinieri Leonardo Pinelli e dal magistrato Gianfranco Donadio, entrambi consulenti della commissione e che il giorno successivo protocollarono il verbale insieme alle osservazioni e proposte di approfondimento investigativo. Qualche manina interessata farà pervenire due mesi dopo a Repubblica il documento segretato. La vicenda provocò anche una coda polemica: un membro della commissione, il deputato Fabio Lavagno, denunciò la fuga di notizie in una dichiarazione pubblica sottolineando per altro come fossero riportate in modo distorto. Il giornalista di Repubblica replicò che le fonti che avevano ispirato i suoi articoli erano interne alla commissione.

Terzo episodio
Il 5 settembre 2017 viene audito dalla commissione in seduta segreta Pietro Modiano, ex direttore generale di Intesa san Paolo, divenuto nel frattempo presidente della società che gestisce gli aeroporti milanesi. Modiano viene sentito in relazione all’ipotesi di legami tra le Brigate rosse e la ‘ndrangheta calabrese durante il rapimento Moro. Il contenuto dell’audizione era stato anticipato all’Ansa il giorno precedente dal solito Gero Grassi: «uno dei commissari che ha segnalato la volontà di Modiano di far conoscere quello che apprese anni fa spiega quello che potrebbe essere almeno uno degli elementi rilevanti dell’audizione» – scriveva l’Ansa: «Modiano era molto amico di Don Cesare Curioni (Il capo dei cappellani delle carceri italiane utilizzato come canale di trattativa con le Br dal Vaticano) e quindi potrebbe rivelare particolari inediti sulla conoscenza che il sacerdote aveva del mondo brigatista. Ricordando anche che don Curioni era presente all’obitorio quando fecero l’autopsia ad Aldo Moro». Secondo quanto riportato da Gero Grassi nel suo Aldo Moro, la verità negata, Pegasus edizioni 2018, durante l’audizione segreta Modiano avrebbe rivelato che poco dopo l’omicidio Moro il sacerdote suo amico gli avrebbe riferito «che chi ha sparato materialmente è Giustino De Vuono, calabrese». Al netto del gioco di specchi dei de relato, dove amici e conoscenti riportano fantasmagoriche affermazioni di defunti, assolutamente non verificabili, ciò che qui interessa è la circostanza che il contenuto dell’audizione segretata, oltre ad essere anticipata appare su due lanci dell’Ansa del 5 settembre, ore 17,37 e in un libro.

Quarto episodio
Il 20 Settembre 2017 è lo stesso presidente della commissione, Giuseppe Fioroni, a rivelare all’Ansa il ritrovamento del corpo di Giustino De Vuono nonostante l’informazione fosse contenuta in un atto da lui stesso classificato riservato. L’episodio, alquanto surreale, viene raccontato da Fabio Lavagno nel volume, Moro. L’inchiesta senza finale, Edup ottobre 2018, scritto insieme a Vladimiro Satta. A p. 56 si riportano gli stralci essenziali della dichiarazione di Fioroni: «Il Presidente della commissione d’inchiesta sull’assassinio di Aldo Moro, Giuseppe Fioroni, a proposito della figura del criminale Giustino De Vuono […] rende noto che ‘tramite l’Arma dei Carabinieri è stato possibile stabilire con certezza la sua data di morte e il luogo di sepoltura: De Vuono, ristretto, nel carcere di Carinola dal 16 marzo 1991, venne ricoverato il 1 novembre del 1994 nell’ospedale di Caserta, già operato per aneurisma fissurato, e lì morì il 13 novembre dello stresso anno. La salma di de Vuono venne tumulata nella tomba di famiglia presso il cimitero di Scigliano […]». La figura di De Vuono, come abbiamo visto, è ritenuta centrale da alcuni narratori complottisti. A loro avviso infatti era presente in via Fani e sarebbe stato l’esecutore materiale dell’uccisione di Moro, per questo aiutato dai Servizi ed esfiltrato all’estero. Da qui le strenue ricerche condotte dalla commissione per infine ritrovarlo inumato in un paesino della provincia di Cosenza.

Quinto episodio
Il 17 marzo 2016 Francesca Musacchio sul Tempo riportava ampi stralci del verbale segretato di escussione che Angelo Incandela, ex maresciallo delle guardie di custodia del supercarcere di Cuneo, aveva rilasciato dieci giorni prima, il 7 marzo, nei locali della questura di Torino davanti al presidente della commissione Giuseppe Fioroni e al consulente Guido Salvini (p. 200 della relazione sull’attività svolta dalla commissione, dicembre 2017). Incandela avrebbe riferito di un incontro con il generale Dalla Chiesa, presente anche Pecorelli, e poi di carte che il generale gli avrebbe chiesto di nascondere all’interno del carcere e successivamente ritrovare con una perquisizione camuffata. L’ex maresciallo lasciava intendere che si trattasse del memoriale Moro o di parte di esso ritrovato dagli uomini del generale in via Monte Nevoso a Milano.

Lo strabismo investigativo della procura e la caccia al reato
Dopo cinque anni di assoluta inerzia davanti alle continue fughe di notizie provenienti dall’interno della commissione Moro 2, alla fine del 2020 la procura di Roma si è improvvisamente interessata ad alcune mie mail. Si trattava dell’invio ad una cerchia ristretta di persone di alcune pagine della prima bozza di relazione annuale nelle quali si affrontava l’abbandono delle macchine del commando brigatista in via Licinio Calvo. La trasmissione era avvenuta l’8 dicembre 2015, meno di 48 ore prima della sua pubblicazione ufficiale. Secondo la procura quella spedizione costituiva una fuoriuscita di documentazione riservata, nonostante fosse di natura ben diversa rispetto ai documenti segretati resi pubblici nei cinque episodi prima descritti. La relazione è un testo politico, sottoposto ad emendamenti e voto finale, che riassume per sommi capi audizioni – già pubbliche – e l’indirizzo delle indagini intrapreso dalla commissione non un verbale di interrogatorio o una relazione su indagini in corso scritta dai consulenti.
L’inchiesta della procura partiva da una serie di informative della polizia di prevenzione realizzate dopo una lunga attività investigativa, nata almeno un paio di anni prima e scaturita dal monitoraggio dei rifugiati politici degli anni 70. In un rapporto del novembre 2020 la Dcpp ipotizzava la presenza del reato di rivelazione di segreto d’ufficio (326 cp), accusa mossa contro ignoti. In un nuovo rapporto del mese successivo venivo identificato come il responsabile della divulgazione di questo materiale e contemporaneamente veniva modificato il titolo del reato da rivelazione di segreto d’ufficio a favoreggiamento (378 cp). Dopo le dichiarazioni del presidente della defunta commissione Moro 2, Giuseppe Fioroni, sentito come teste informato, il pubblico ministero titolare dell’inchiesta introduceva una nuova imputazione: associazione sovversiva con finalità di terrorismo (270 bis) a corredo del favoreggiamento. Nello scorso mese di luglio, il tribunale del riesame, chiamato a pronunciarsi sulla legittimità del sequestro del mio materiale d’archivio, dei miei strumenti di lavoro e dei documenti e materiali amministravi, sanitari e scolastici dei miei figli, avvenuto l’8 giugno precedente, riteneva la sottrazione del materiale legittima se inquadrata sotto un diverso titolo di reato: la rivelazione di notizie riservate stabilite dall’autorità (262 cp), smontando di fatto il quadro accusatorio disegnato della procura. Nel giro di 8 mesi ho così assistito alla successione di ben quattro imputazioni per un unico episodio. Questa difficoltà nell’inquadrare giuridicamente il presunto fatto-reato addebitatomi rivela quanto sia fragile e pretestuosa l’inchiesta condotta dalla polizia di prevenzione e dalla procura di Roma che con tutta evidenza mira ad altro.

Le insinuazioni del presidente della commissione Moro 2
Tra i contatti a cui avevo inviato alcune pagine della bozza di relazione, tutti legati al lavoro di ricerca storica che stavo conducendo insieme a Marco Clementi e Elisa Santalena in vista della pubblicazione di un libro sulla storia delle Brigate rosse e del sequestro Moro uscito nel 2017 (Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, edizioni Deriveapprodi), erano presenti persone coinvolte nel sequestro. Si trattava di ex militanti delle Brigate rosse a cui avevo chiesto di vagliare il capitolo della “Relazione” e fornire la propria versione dei fatti, spunto da cui partire per una ricostruzione minuziosa poi sfociata in un capitolo del libro.
Nel corso della sua testimonianza Giuseppe Fioroni aveva insinuato un diverso scenario, sostenendo che fossero le informazioni contenute nella bozza il vero movente della divulgazione anticipata. Secondo l’ex presidente, le indagini condotte dalla commissione sulla possibile presenza di un garage compiacente o di una base dei sequestratori nei pressi della zona di via Licinio Calvo, avrebbero messo in allarme l’ambiente degli ex brigatisti. Da qui l’insinuazione che la diffusione in un circuito ristretto di quelle pagine non fosse dettata da ragioni di polemica storica, ovvero l’intenzione di contrastare le ricostruzioni dietrologie promosse dalla commissione perché travisavano i fatti, ma dalla necessità di carpire notizie in anticipo (48 ore sic!) sulla direzione delle indagini. Io sarei stato dunque una sorta di agente infiltrato!

Il capitolo su Licinio Calvo non conteneva anticipazioni o notizie riservate
Fioroni tuttavia dimentica di dire che il capitolo su via Licinio Calvo non conteneva notizie riservate ma fantasie ampiamente note. Il teorema del garage compiacente e di una base brigatista prossima al luogo dove vennero lasciate le vetture utilizzate per la prima fase della fuga e addirittura – secondo alcuni oltranzisti – prima prigione di Moro, è un clamoroso falso che circola da diversi decenni. Ne parlò già nel dicembre 1978 un articolo della rivista glamour Penthause, divenuta una delle maggiori referenze della commissione Fioroni. Soprattutto entrò nella sfera giudiziaria quando il pm Amato raccolse questa voce durante le udienze del primo processo Moro. Successivamente se ne occupò la prima commissione Moro e la leggenda fu ripresa nella pagine del libro di Sergio Flamigni, La tela del ragno, pubblicato per la prima volta nel 1988 (Edizioni Associate p. 58-61), divenendo uno dei cavalli di battaglia della successiva pubblicistica dietrologica. Alla luce di questi precedenti, con buona pace del povero Fioroni, l’allarme tra gli ambienti vicini ai brigatisti sarebbe dovuto scattare diversi decenni prima.

Il presunto favoreggiamento
C’è un altro aspetto davvero singolare di questa vicenda che merita di essere sottolineato: nelle informative della polizia di prevenzione mi viene contestato di aver riportato nelle pagine del libro dedicate a via Fani solo parte di quanto contenuto nelle mail intercorse tra me e uno dei partecipanti al rapimento Moro. Ad avviso dei funzionari di polizia avrei trattenuto dei passaggi che avrebbero consentito di attenuare il ruolo di Alvaro Loiacono Baragiola nella vicenda. Affermazione davvero ardita perché oltre a non esser vera in punto di fatto, nel volume si ricostruisce nel dettaglio – come mai era avvenuto in precedenza – il ruolo avuto da “Otello” in via Fani, dal punto di vista giuridico (che poi è l’argomento dirimente in questa circostanza) l’eventuale difesa di una persona, per giunta condannata in via definitiva per quei fatti, non comporta alcun favoreggiamento penale. Altrimenti quanti scrittori o giornalisti che hanno scritto libri o preso le difese pubbliche di un imputato o di un condannato avrebbero dovuto essere accusati di favoreggiamento? Mi pare superfluo ricordare che l’intento del mio lavoro non era quello di difendere o condannare qualcuno ma ricostruire, il più fedelmente possibile, contesto e dinamica dei fatti.

«Chi controlla il passato controlla il futuro»
La vera questione che questa indagine solleva è l’inaccettabile intromissione del ministero dell’Interno e della procura della repubblica nel lavoro complicato e complesso di ricostruzione del passato. In una delle ultime relazioni dei servizi di sicurezza (2019) si puntava l’indice contro la ricerca storiografica indipendente sugli anni 70. A preoccupare gli apparati era la presenza di una lettura non omologata di quel periodo, etichettata come «propaganda», rispetto alle versioni storiografiche ufficiali. Il pericolo – scrivevano gli estensori del testo – è quello di «tramandare la memoria degli “anni di piombo” e dell’esperienza delle organizzazioni combattenti», un «impegno divulgativo, specie attraverso la testimonianza di militanti storici e detenuti “irriducibili» che – sempre secondo i Servizi – rischia di trovare consensi «nell’uditorio giovanile».

Siamo un Paese dove polizia e magistratura pretendono di decidere cosa un ricercatore debba scrivere in un libro
Nonostante il quasi mezzo secolo trascorso gli anni 70 fanno fatica a ritagliarsi un posto nella storiografia suscitando ancora grossi timori in settori di peso delle istituzioni che pretendono di mantenere una tutela etica su quel periodo, estendendo all’infinito la logica dell’emergenza antiterrorismo fino ad occupare il campo della conoscenza del nostro passato. Da alcuni anni è venuto meno il monopolio delle fonti sugli anni 70, un accesso più fluido alla documentazione (direttiva Prodi e Renzi) ha democratizzato la ricerca storica, in passato nelle mani della magistratura e delle commissioni parlamentari con la loro scia di consulenti e periti. Agli apparati, come ai dietrologi, tutto ciò non piace. Per decenni l’accesso riservato alle carte aveva messo nelle loro mani un formidabile strumento per mistificare la storia, costruire un discorso funzionale ai poteri, una narrazione ostile alla storia dal basso, che nega alla radice l’agire dei gruppi sociali fino a negare la capacità del soggetto di muoversi e pensare in piena autonomia, secondo interessi legati alla propria condizione sociale, politica, culturale, dando vita ad una sorta di nuovo negazionismo storiografico. Recintare lo spazio storiografico degli anni 70, stabilire chi può fare storia è l’obiettivo di fondo di questa inchiesta giudiziaria.