Rapimento Moro, il vicolo cieco del complottismo 2 parte/fine

Pubblichiamo la seconda parte della intervista concessa alla rivista Utopia21 (l’integrale potete leggerla qui) che dopo aver intervistato, lo scorso febbraio 2025, Dino Greco (qui), in passato segretario generale della Camera del lavoro di Brescia e direttore del quotidiano Liberazione, autore del libro Il bivio, dal golpismo di Stato alle Brigate rosse, come il caso Moro ha cambiato la storia d’Italia, Bordeaux edizioni, Roma 2024, ha deciso di proseguire la sua disamina del «caso Moro» su un altro versante storiografico che mette radicalmente in discussione l’ipostazione complottista proposta da Greco. Gian Marco Martignoni ha sentito Paolo Persichetti, autore del volume La polizia della storia, la fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, apparso per DeriveApprodi nel 2022 e precedentemente con Marco Clementi ed Elisa Santalena di, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi 2017. Chi volesse legegre la prima parte può trovarla qui.

Utopia21, marzo 2025
Intervista di Gian Marco Martignoni a Paolo Persichetti

Un capitolo a sé lo merita il lavoro dell’ex senatore Sergio Flamigni, membro delle commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, che tra i suoi libri ne ha dedicato uno in particolare a Mario Moretti dal titolo più che eloquente «La sfinge delle Brigate rosse». Nel libro sei molti critico, per usare un eufemismo, verso il suo lavoro: perché?
Flamigni era un grigio funzionario della sezione Affari dello Stato del Pci, il ministero dell’Interno di Botteghe oscure. Privo di qualunque latitudine politica è rimasto ottusamente legato alla vecchia propaganda complottista elaborata dal suo partito a metà degli anni 80 per trovare un alibi al fallimento completo della strategia politica messa in piedi nella seconda metà degli anni 70. Quando Ugo Pecchioli, responsabile di quella struttura, in una delle sue ultime prese di posizione, prima di morire, a metà degli anni 90, affermò che ormai era necessaria un’amnistia che chiudesse la pagina della lotta armata perché quel fenomeno aveva concluso il suo ciclo e non aveva più senso tenere in piedi l’apparato di contrasto ideologico-complottista, Flamigni – come accade spesso alle terze linee – non è stato in grado di riformattare il proprio pensiero e dare un senso più proficuo alla propria vita. Il vecchio apparatčik della disinformazione ha continuato il proprio lavoro di intossicazione elaborando, grazie al monopolio delle fonti all’epoca nelle mani solo degli apparati, della magistratura e delle commissioni d’inchiesta parlamentare con il loro circo Barnum di consulenti, un metodo narrativo che avrebbe fatto rabbrividire persino l’Ovra fascista: ignorare i documenti scomodi, manipolarne altri, inventare menzogne, diffondere calunnie. I suoi libri sono una compilazione di questa tecnica disinformativa che nel tempo rivela anche aspetti divertenti: come la riduzione a poche righe o la scomparsa delle pagine dedicate a ricostruzioni che successivamente si sono dimostrate false. Mai una riflessione autocritica o una presa d’atto delle clamorose bufale diffuse in precedenza. Cito alcuni esempi: Flamigni ignora il verbale del 1994 nel quale il teste Alessandro Marini, quello che racconta della moto Honda, spiegava che il parabrezza del suo motorino si era rotto cadendo a terra nei giorni precedenti il sedici marzo e quindi non era vero che fosse stato distrutto dagli spari dei due fantasmi in motocicletta. Mentre si ostina a cercare lo sparatore da destra, non vede le numerose foto del motorino di Marini, parcheggiato sul marciapiede sinistro di via Fani, col parabrezza tenuto da una vistosa striscia di nastro adesivo. Cita ripetutamente una frase di D’Ambrosio, generale amico del colonnello Guglielmi, per insinuare che questi avesse coordinato l’attacco in via Fani, omettendo l’integrità del verbale d’interrogatorio, acquisito finalmente dalla Commissione Moro 2, che smentisce completamente le sue affermazioni. Per anni confonde il ruolo di un notaio che aveva svolto solo la funzione di sindaco supplente, dunque nemmeno effettivo, nella società immobiliare Gradoli proprietaria di alcuni appartamenti, ma non di quello abitato dai brigatisti, con quello di amministratore della stessa società. Quando glielo hanno spiegato ha cambiato obiettivo prendendo di mira Domenico Catracchia, l’amministratore del civico 96, piccolo imprenditore immobiliare privo di scrupoli che affittava seminterrati a stranieri clandestini. Ossessionato dalla presenza di un quarto uomo in via Montalcini, informazione ricevuta durante i colloqui con due brigatisti dissociati, quando emergerà che la sua identità era quella del brigatista Germano Maccari, e non di un «misterioso» agente segreto, sosterrà che ve n’era per forza un quinto, non delle Br ovviamente. Passa al setaccio tutti i proprietari degli appartamenti situati nelle strade che hanno interessato il sequestro, per denunciare i loro nomi quando si tratta di persone ai suoi occhi sospette, ma dimentica di rivelare che accanto al civico 8 di via Montalcini abitava il senatore Giuseppe D’Alema, padre di Massimo. Calunnia Balzerani e Moretti, sostenendo che sono loro ad aver fatto il nome di Maccari, evitando di citare la confessione della Faranda. E mi fermo qui!

Qual è il Il tuo giudizio sul Memoriale Morucci-Faranda, detto che seppur la loro collaborazione mirava ad ottenere degli sconti di pena e una più agevole collocazione penitenziaria, al contempo «ripudiavano le letture dietrologiche degli eventi».
Parliamo di un Memoriale che raccoglie le deposizioni di Valerio Morucci e Adriana Faranda davanti alla magistratura e a cui i due dissociati, poi divenuti collaboratori, per ottenere l’accesso ai benefici penitenziari aggiunsero i nomi dei partecipanti all’azione di via Fani, prima indicati solo con dei numeri. Secondo Flamigni, poi ripreso dalla Commissione Moro 2, si tratterebbe di un testo che avrebbe suggellato un patto di omertà tra brigatisti e Democrazia cristiana per nascondere, «tombare» secondo l’espressione di Giuseppe Fioroni, la verità indicibile sul sequestro. Si tratta nella realtà di un resoconto che nella parte politica valorizza la loro dissidenza contro la dirigenza brigatista. Non si capisce quale interesse avrebbero avuto gli esponenti delle Br a fare proprio un testo a loro ostile. Non solo, oggi sappiamo che del Memoriale Morucci-Faranda vennero messi al corrente Pecchioli e Cossiga che sulla questione si consultarono. Se anche il Pci era della partita, perché il patto occulto riguarderebbe solo la Dc? Inoltre i fautori di questa tesi non sono in grado di fornire informazioni essenziali sui tempi e i luoghi dell’accordo, oltre che sull’oggetto dello scambio: Morucci e Faranda erano nel carcere per pentiti di Paliano, mentre Moretti e compagni si trovavano sparpagliati nelle prigioni speciali. Inesistenti i rapporti tra loro, segnati dalle precedenti rotture traumatiche (Morucci e Faranda rubarono armi e soldi della Colonna romana) e ostilità per le scelte dissociative e collaborative. Flamigni, consapevole di questo vulnus, si inventa che l’accordo si sarebbe materializzato nei giorni finali del sequestro, così la toppa è peggiore del buco. Il rifiuto della trattativa per liberare Moro si sarebbe materializzato nell’accordo per farlo sopprimere: come, dove, quando? E il vantaggio ricavato? I secoli di carcere ricevuti nelle sentenze? Un abisso logico senza risposta. In un altro volume ho ricostruito la dinamica del sequestro e della via di fuga avvalendomi delle testimonianze degli altri partecipanti che in alcuni punti hanno persino corretto dei dettagli, dovuti ad errori di memoria, presenti nella ricostruzione di Morucci.

Alberto Franceschini dopo la sua cattura, avvenuta a Pinerolo nel 1974, ha detto che successivamente le Br si sono macchiate di numerosi delitti, oltre ad aver giudicato Mario Moretti di essere inadeguato a far parte dell’esecutivo nazionale delle Br. Da dove nasce il dissidio tra Franceschini e Moretti?
La figura del rinnegato è un classico antropologico nella storia dell’umanità. La differenza che lo distingue da colui che ripensa in modo critico il proprio passato, fino anche a ripudiarlo, sta nella attribuzione delle responsabilità, nella collocazione del proprio io all’interno del bilancio esistenziale. Il rinnegato fa l’autocritica degli altri, esime se stesso da ogni colpa e trova nell’altrui comportamento tutte le responsabilità. Punti chiave nella vita di Franceschini sono il momento della sua cattura e le ripetute fallite evasioni. Viene arrestato per caso, non doveva stare con Curcio a Pinerolo dove il generale Dalla Chiesa aveva teso una trappola con l’esca Girotto, eppure attribuisce la responsabilità dell’accaduto a Moretti. Va detto che un ruolo centrale nella costruzione delle leggenda nera su Moretti la gioca Giorgio Semeria. Arrestato una prima volta nel maggio del 72, seguendo lui i carabinieri realizzano la retata contro l’intera colonna milanese. Riarrestato e quasi ucciso da un carabiniere nel marzo del 1976 alla stazione centrale di Milano, grazie all’attività di un confidente, Leonio Bozzato, operaio dell’Assemblea autonoma di Porto Marghera arruolato nella colonna veneta, Semeria una volta in carcere sostiene che dietro il suo arresto e quelli precedenti di Franceschini e Curcio ci fosse sempre Moretti. Quella di Semeria, chiamato «Fiaschetta» dai suoi compagni, è una ossessione costante con cui martella gli altri prigionieri fino a convincerli, tanto da spingerli a chiedere all’esecutivo esterno di verificare la posizione di Moretti. C’è poco di politico e tanto male di vivere nella costruzione di questa diffidenza che si sfalderà poi nel tempo. Franceschini e Semeria si dissoceranno uscendo dal carcere, mentre Moretti è ancora in esecuzione pena dopo 44 anni di detenzione. Ma veniamo agli argomenti sollevati ex-post da Franceschini dopo essersi dissociato ed essere stato riaccolto a braccia aperte dal vecchio Pci emiliano, Rino Serri in testa, ex segretario della Fgci dalla quale egli stesso proveniva. E’ con questa nuova funzione che inizia la sua collaborazione con Flamigni. Nel corso del sequestro Sossi, dopo aver forzato un posto di blocco, spara colpi di mitra contro una macchina che seguiva, senza accorgersi che al suo interno c’era Mara Cagol. L’episodio dimostra come personalmente fosse già pronto al conflitto a fuoco e ipoteticamente a uccidere nonostante le Br all’epoca fossero ancora lontane da una scelta del genere. E’ tra i militanti che scelgono il passaggio alla clandestinità ed è presente quando nell’estate del 1974 si avvia la discussione interna per creare quella nuova struttura organizzativa che poi caratterizzerà il funzionamento delle Br negli anni successivi. Dal carcere si distinguerà per i continui inviti a elevare il livello di scontro all’esterno e chiedere di organizzare evasioni. Richieste che distoglieranno le colonne esterne dal lavoro politico nei posti di lavoro e nei territori. E quanto i tentativi di evasione falliranno, come quello messo in piedi dalla colonna romana dall’isola dell’Asinara, dopo averci lavorato una intera estate, imputerà il fallimento a una mancata volontà politica radicalizzando sempre più le sue posizioni fino a formulare, dopo un durissimo pestaggio subito a Nuoro, richieste di rappresaglia che mettevano in luce un suo squilibrio mentale, come affondare uno dei traghetti che collegavano la Sardegna al continente. Figura instabile e sempre più carica di risentimento, alla ricerca continua di capri espiatori fece del sospetto un rovello ossessivo fino a sfociare in un delirio paranoico durante la stagione delle torture e dei pestaggi praticati dalle forze di polizia sui militanti appena catturati. Con Semeria decretò la caccia ai «traditori», ovvero a quei militanti ai quali erano state estorte dichiarazioni con l’uso della forza. In un clima di caccia alle streghe, dove le divergenze d’opinione, una diversa linea politica, il mancato allineamento alle tesi del «Mega», soprannome con cui amava farsi chiamare con deferenza nelle carceri speciali, veniva immediatamente tacciata di «resa» al nemico, «tradimento» e «infamità», un piano inclinato che portò lo stesso Semeria a macchiarsi dell’omicidio di Giorgio Soldati. Flamigni non avrebbe potuto scegliersi miglior collaboratore.
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Infine, ha destato una certa sorpresa il giudizio assai tranciante di Dino Greco su Rossana Rossanda, accusata rispetto alla sua intervista a Mario Moretti con Carla Mosca di aver costruito un artefatto, rimanendo affascinata dalla figura tutt’altro che cristallina di Mario Moretti. Cosa pensi di questo perentorio giudizio?
Dino Greco contro Rossana Rossanda? Con tutto il rispetto per il mio ex direttore, abbandonerei qualunque idea di confronto tra i due. Capisco che a un «berlingueriano immaginario», come Greco, bruci il giudizio storico di una intellettuale comunista dello spessore di Rossanda. Dico berlingueriano immaginario perché quando lavoravo a Liberazione ne ho visti circolare diversi tipi: quelli che all’epoca erano ancora in fasce e Berlinguer lo hanno conosciuto attraverso l’iconografia postuma, e quelli che negli anni 70-80 erano su altre posizioni politiche ben più estreme, per non dire extraparlamentari. Si trattava dunque di una singolare fascinazione postuma, una reinvenzione del personaggio che si suddivideva in due categorie: i nostalgici del compromesso storico, raffigurati nel recente film di Segre, e quelli che assolutizzavano la svolta dell’alternativa democratica: il Berlinguer dei cancelli alla Fiat e della questione morale, per intenderci. Greco all’epoca era tra i secondi, ma oggi mi pare sia ritornato sui suoi passi. A differenza di lui, Rossanda non ha realizzato una compilazione selezionata di pubblicazioni dietrologiche ma, come si diceva una volta, ha fatto l’inchiesta. E’ andata ai processi, ha letto le carte, ha fatto verifiche, ha incontrato i mostruosi brigatisti, ci ha discusso, si è confrontata. Ha sentito tante voci, persone e studiosi che la realtà delle fabbriche del Nord o della periferia romana conoscevano davvero. Un percorso lungo, maturato nel tempo modificando i pregiudizi ideologici iniziali che ha poi messo da parte. Una conoscenza che le ha permesso di superare anche il giudizio che espresse nel famoso articolo sull’album di famiglia, dove pur riconoscendo la filiazione delle Brigate rosse con la storia del movimento comunista, le rappresentava erroneamente come epigoni dello zdanovismo cominformista e non parte della nuova sinistra post-68. Trascinata dalla polemica con le posizioni di Botteghe oscure rinfacciava al Pci una paternità che invece, sul piano sociologico, politico e culturale, era tutta dentro la storia di quel che era accaduto a cavallo dei decenni 60-70. Dubito che Greco abbia mai letto un documento primario, una carta processuale. Cita la terza relazione della Moro 2 che riassume i lavori del 2017 (la Moro 2 non ha mai prodotto una relazione conclusiva) ma non credo abbia mai letto le relazioni del Ris sul garage di via Montalcini, le analisi splatter sulle macchie di sangue o la perizia acustica. Avrebbe scoperto che i carabinieri riconoscono la compatibilità del luogo e della dinamica, fino ad aver ricostruito la fattezza originaria del box, oggi modificato e ristretto a seguito di alcuni lavori. Per non parlare della nuova perizia tridimensionale della polizia scientifica che tanto ha mandato fuori di testa Flamigni e i membri più dietrologi della commissione parlamentare. La ricerca e la riflessione storica sono altra cosa dalla difesa di una posizione politica, per giunta smentita dalla storia.

2/fine

Processo Spiotta, la storia fa paura alla pubblica accusa e alle parti civili

Il colpo di scena provocato dalle dichiarazioni fatte da Lauro Azzolini lo scorso martedì 11 marzo nell’aula di corte d’assise di Alessandria, quel «C’ero io quel giorno di cinquant’anni fa alla Spiotta! […] io sono l’unico che ha visto quello che quel giorno è davvero successo», rappresenta un gesto di trasparenza che inevitabilmente capovolge il senso del processo. Liberatosi delle schermaglie procedurali, Azzolini si è riappropriato della verità. Spetta ora alla corte d’assise apprezzarla e soprattutto fare luce su tutti i momenti di quel tragico 5 giugno 1975 che si è chiuso con l’uccisione di Margherita Cagol e il ferimento di tre carabinieri, uno dei quali, l’appuntato Giovanni D’Alfonso, morirà nei giorni successivi.

Processo ribaltato
Il teorema accusatorio iniziale, messo in campo con dispendio enorme di energie e risorse pubbliche dalla procura, ha così iniziato a traballare. Anche la strategia delle parti civili adagiate comodamente sul presunto silenzio e sulla inazione degli imputati è stata scossa, suscitando iniziale sorpresa. La testimonianza di Azzolini, «l’ultima immagine che ho di Mara, che non dimenticherò mai, è di lei ancora viva che si era arresa con entrambe le braccia alzate, disarmata, e urlava di non sparare…», ha rimesso al centro del processo le circostanze mai chiarite della sua morte. Per uscire dal disorientamento c’è stato chi ha provato a sostenere che l’imputato, ormai alle strette, avesse parlato solo perché non aveva altra scelta: «accerchiato da prove inesorabili». In realtà le parti civili quando nel novembre del 2021 chiesero la riapertura delle indagini avevano ben altri obiettivi: nell’esposto depositato in procura indicavano in Mario Moretti il sospetto fuggitivo. Lo stesso figlio dell’appuntato Giovanni D’Alfonso scrisse una prefazione a un libro di due giornalisti, uscito appena due giorni dopo la presentazione del suo esposto, nel quale si sosteneva la responsabilità di Moretti nella sparatoria e lo si accusava di aver abbandonato Margherita Cagol al suo destino, con l’obiettivo di sostituirla al vertice delle Brigate rosse. «Piano diabolico» che i due giornalisti romanzarono ulteriormente in un secondo volume, dove il Centro Sid di Padova veniva indicato come il vero regista dell’intera operazione per il tramite di un confidente, arruolato all’interno della Assemblea autonoma di Porto Marghera e da qui confluito successivamente nella nascente colonna veneta delle Brigate rosse, che nulla c’entrava con la colonna torinese organizzatrice del sequestro. Confidente che ascolato dai pm torinesi ha sostenuto per ben due volte che il brigatista fuggito fosse Alberto Franceschini, già in carcere al momento dei fatti. Almeno pubblicamente, non risulta che le parti private abbiano mai preso le distanze da questa rappresentazione spionistica della vicenda. Al contrario un suo attuale rappresentante, l’ex magistrato Guido Salvini, nel corso di un dibattito sul web del 22 settembre 2022 ha ribadito il suo convincimento sulle responsabilità di Moretti, dipinto come figura «ambigua» e «oscura».

La storia non deve entrare in aula
Forse è anche per questo che nella parte finale dell’udienza, quando si è discusso sull’ammissibilità delle prove e dei testi, dalla pubblica accusa e dalle parti civili è venuta una levata di scudi contro la presenza nel processo dello storico e docente universitario Marco Clementi, chiamato a deporre, in qualità di consulente storico, dall’avvocato Francesco Romeo che difende Mario Moretti: sulle modalità operative e sulla struttura organizzativa delle Brigate rosse nel 1975 e successivamente. La discussione che ne è seguita ha avuto aspetti surreali, a cominciare dall’avvocato della parte civile Sergio Favretto che si è opposto, giudicando Clementi, già audito nel giugno 2016 dalla Commissione Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni, seduta nella quale depositò importanti documenti: «inadeguato a fornire una consulenza all’interno di un processo penale». Sventolando un volume apparso nel 2017, il rappresentante della famiglia D’Alfonso ha accusato il professore di aver dedicato «appena mezza pagina alla Spiotta», senza citare nemmeno «Giovanni D’Alfonso che fu una vittima della Spiotta». L’avvocato Favretto avrebbe fatto migliore figura se avesse consultato con più modestia e maggiore accuratezza gli altri lavori pubblicati. Il suo collega, l’ex magistrato Guido Salvini, non potendo opporsi perché durante la sua passata attività di giudice istruttore e gip si è avvalso per decenni dell’ausilio di un consulente come Aldo Giannuli, esperto di Servizi segreti ma non di Brigate rosse, ha chiesto come «controprova» l’audizione dell’ex pm Armando Spataro. Richiesta singolare perché in primis la controprova sarebbe semmai quella presentata dalla difesa, la richiesta di Salvini è solo una prova ausiliare della pubblica accusa, poi perché un ex pm, che ha arrestato e fatto condannare tutti e tre gli imputati chiamati a giudizio, non sembra stare proprio nei panni della figura terza che fornisce consulenza alla corte. Deve essere davvero disperata la situazione tra i fautori della dietrologia, di cui l’ex giudice Salvini è uno dei più accesi sostenitori, se da quelle parti scarseggiano storici in grado di descrivere il funzionamento organizzativo delle Brigate rosse nel corso della loro storia. D’altronde se per decenni si è sostenuto che dietro le Br c’erano gli organigrammi di Langley, poi diventa difficile trovare esperti che sappiano dire qualcosa di diverso.

Un pm senza storia
Ma forse l’argomentazione più stupefacente è venuta dal pubblico ministero Emilio Gatti, il quale opponendosi fermamente all’audizione di Clementi, ha sostenuto di non amare il lavoro degli storici: «perché c’è sempre un qualcosa di soggettivo in questo rimettere insieme le fonti […] io – ha proseguito – non vi produco l’interpretazione, non è una prova l’interpretazione». Una rivendicazione sprezzante della superiorità dell’ontologia giudiziaria rispetto a quella storica che, senza scomodare Marc Bloch, il padre della storia moderna, inevitabilmente riporta alla mente il libro di Carlo Ginzburg sul giudice e lo storico, sui loro mestieri differenti nonostante entrambi cerchino di ricostruire dei fatti con strumentazioni spesso simili, anche se poi i primi si limitano a ricercare la responsabilità penale mentre i secondi, per loro fortuna, possono andare molto oltre, scavando e ricostruendo in ogni dove. Non sarà forse un caso se i migliori giudici sono quelli che sanno fare anche gli storici mentre i peggiori sono quelli che restano solo dei Torquemada.
Ora in un processo che si svolge cinquant’anni dopo i fatti e dove la pubblica accusa ha portato come fonti di prova sette libri e imputa a Curcio e Moretti quanto affermato nei loro libri-intervista, fondando l’accusa su una interpretazione discutibile delle loro parole, proprio perché non corredata dalla conoscenza storica sul funzionamento delle strutture organizzative delle Brigate rosse, questa ostilità verso il lavoro storico appare quantomeno sospetta. In questo caso, infatti, l’expertise storica aiuterebbe chi deve giudicare ad ancorare il processo alla realtà dei fatti. L’atteggiamento della pubblica accusa poco si concilia con l’affermazione di Luigi Ferrajoli, secondo cui «Il processo è per così dire il solo caso di “esperimento storiografico”». Sembra di rivedere l’ostinato atteggiamento del procuratore generale di Roma Antonio Marini quando rivendicava l’intangibilità del giudicato processuale davanti all’emergere di nuove conoscenze che la ricerca storica veniva producendo e che intaccavano le responsabilità penali sancite nelle sentenze del processo Moro. Venticinque imputati sono stati condannati per il tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini, la mattina del 16 marzo in via Fani. Un fatto, oggi sappiamo, mai accaduto. Durante i lavori della seconda commissione Moro, lo stesso ingegner Marini ha ammesso che il parabrezza del suo motorino si era infranto nei giorni precedenti l’assalto brigatista, a causa di una caduta accidentale del mezzo dal cavalletto, e non in seguito a colpi di arma da fuoco esplosi contro di lui, circostanza per altro mai confermata dalle perizie balistiche. Sono trascorsi quasi dieci anni da quelle ammissioni, ancora di più dalla scoperta di un verbale del 1994, in cui lo stesso ingegnere rivelava per la prima volta come si era rotto il parabrezza, e del ritrovamento delle foto del motorino col parabrezza tenuto da nastro adesivo sul marciapiedi di via Fani, ma la «scienza giuridica» non è ancora corsa ai ripari per ristabilire la sua ontologica superiorità correggendo un clamoroso errore giudiziario.

Il consulente non verrà ascoltato
Alla fine la corte ha deciso di non dare la parola al professor Clementi. Se ne riparlerà più avanti, forse. Una decisione grave che ha privato la difesa dell’unico teste richiesto e che imbavaglia i suoi argomenti. Il messaggio è chiaro: questo processo deve tramandare la storia di un’organizzazione costruita in modo gerarchico, verticistico, piramidale, con a capo una cupola che dava ordini insindacabili al resto del gruppo. L’accusa ha bisogno di questa narrazione processuale perché si arrivi alle condanne. Si deve impedire che qualcuno venga a smentire tutto ciò, sollevi dubbi nei giudici ricordando che nelle Brigate rosse vigeva un principio d’autonomia delle decisioni, la circolazione orizzontale dei flussi informativi che determinavano le scelte politiche finali e che la decisione di ricorrere ai sequestri di autofinanziamento, ripresi dall’esperienza delle guerriglie sudamericane, fu collegiale, controversa e dibattuta e che le modalità operative furono demandate, come sempre, alla colonna che operava sul territorio. Tutta un’altra storia ma soprattutto una altro processo.

Sequestro Moro, il vicolo cieco del complottismo /prima parte

Dopo aver intervistato, lo scorso febbraio 2025, Dino Greco (leggi qui), in passato segretario generale della Camera del lavoro di Brescia e successivamente direttore del quotidiano Liberazione e ora membro della redazione della rivista «Su La Testa», autore del libro Il bivio, dal golpismo di Stato alle Brigate rosse, come il caso Moro ha cambiato la storia d’Italia, Bordeaux edizioni, Roma 2024, la rivista Utopia21 ha deciso di proseguire la sua disamina del «caso Moro» su un altro versante storiografico che mette radicalmente in discussione l’ipostazione complottista proposta da Greco. Gian Marco Martignoni ha sentito Paolo Persichetti, autore del volume La polizia della storia, la fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, apparso per DeriveApprodi nel 2022 e precedentemente con Marco Clementi ed Elisa Santalena di, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi 2017. A causa della lunghezza del testo, pubblichiamo oggi solo la prima parte della intervista, il seguito nei prossimi giorni. Chi volesse già da ora leggerla integralmente può trovarla qui

Utopia21, marzo 2025
Intervista di Gian Marco Martignoni a Paolo Persichetti

Sul rapimento e poi l’uccisione di Aldo Moro esiste una letteratura assai ampia, anche recentemente sono usciti nuovi libri, si pensi a quelli di Stefania Limiti e Dino Greco. Il filone delle pubblicazioni sembra inesauribile.
Lo storico Francesco Maria Biscione, recentemente scomparso, ha curato una bibliografia sulla figura e la vicenda di Aldo Moro. Nell’ultima stesura del marzo 2023 aveva catalogato circa 1100 volumi, una cifra in difetto perché scorrendola mi sono accorto che mancava ancora qualcosa. Se poi a essi aggiungiamo le pellicole cinematografiche realizzate prima della morte dello statista democristiano, come Forza Italia di Roberto Faenza e Todo Modo di Elio Petri, entrambe cadute in disgrazia perché incompatibili con la narrazione costruita dopo il rapimento e la sua scomparsa, o le successive – con l’aggiunta delle serie televisive – come i film di Giuseppe Ferrara e Marco Bellocchio, per citarne solo alcuni, o ancora le rappresentazioni teatrali di Pesce, Timpano, Gifuni, senza soffermarsi sulla sterminata produzione giornalistica, oppure le canzoni autoriali che hanno fatto riferimento alla sua vicenda politica, da Rino Gaetano a Giorgio Gaber, quest’ultima subito censurata, ci rendiamo conto di quanto il rapimento Moro si sia costruito nel tempo come un «caso» a sé stante separato dalla vicenda storica della lotta armata e delle Brigate rosse. Un affaire che deve molto all’industria editoriale arrivata a farne un nuovo genere letterario di tipo spionistico con i suoi lettori appassionati e che produce fenomeni di costume tra i più diversi. Si va dai gruppi social dedicati che affrontano la vicenda come un gioco di società, ispezionando i luoghi e cercando le ex basi brigatiste per poi affannarsi in lambiccate ipotesi complottiste, fino a società di turismo che propongono a sprovveduti clienti tour-fiction con interpretazioni attoriali su luoghi che storicamente nulla c’entrano col sequestro. Qualcosa che ricorda lo sketch di Totò quando cercava di vendere a un ignaro turista la Fontana di Trevi. Il sequestro Moro è divenuto per certi versi un mercato per allocchi dove imperversano personaggi senza scrupoli, millantatori, mitomani e furbastri di ogni genere. Personaggi di una farsa surreale che hanno rimpiazzato i protagonisti tragici di quella storia.

Nel sottotitolo del tuo ultimo libro fai un esplicito riferimento all’affaire Moro.


Certo, la costruzione dell’«affaire», come lo definì Sciascia, è ormai un tema storico che vanta una lunga lista di specialisti e addetti. Un oggetto storiografico separato e rilevante soprattutto per la potenza distorsiva che contiene. Si tratta di un livello parallelo che poco c’entra con quanto è realmente accaduto. Se si omette l’insorgenza sociale degli anni 70, diventa difficile comprendere come sia stato possibile che la mattina del 16 marzo 1978 un gruppo di operai scesi dalle fabbriche del Nord si sia dato appuntamento in via Fani con dei giovani delle periferie romane per tentare di cambiare il corso della storia. La stratificazione delle narrazioni che si è succeduta nei quasi cinquant’anni che ci separano dal sequestro, l’attività delle commissioni parlamentari, soprattutto delle ultime due, la Stragi presieduta da Pellegrino e la Moro presieduta da Fioroni, hanno disseminato fake news opacizzando la comprensione dei fatti. Dal punto di vista delle pubblicazioni, i libri veramente incisivi arrivano a fatica a poche decine. Il filone predominante resta quello dietrologico-complottistico, tra cui si annoverano i due volumi che hai appena citato. Ruminamenti delle vecchie tesi complottiste, quel regno dei misteri che i gruppi parlamentari del Pci misero in forma nel lontano 1984, alla conclusione del primo processo Moro e della prima commissione d’inchiesta parlamentare, e che da allora si trascinano come un disco rigato, nonostante nel frattempo abbiano perso pezzi grazie alla desecretazione dei documenti e al difficile, ma ostinato, lavoro storiografico indipendente. Ignorare le smentite sopravvenute ripetendo goebbelsianamente le stesse menzogne è il segreto di questa tecnica di falsificazione del passato.

Perché nel 2022 hai dato alle stampe il libro «La Polizia della Storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro», che fin dal titolo si contraddistingue per essere decisamente controcorrente rispetto alla piega che il dibattito ha assunto ormai da molto tempo?
Perché nel giugno 2021 ho subìto una pesante incursione della polizia di prevenzione, su mandato della procura di Roma, che si è impossessata del mio archivio digitale, del mio materiale di ricerca storica raccolto in anni di lavoro negli archivi pubblici e nelle interviste ai testimoni. E’ stata la mia risposta a quell’attacco senza precedenti alla libertà di ricerca. Una inaccettabile rappresaglia contro la storiografia indipendente, estranea alle narrazioni di regime. Quando ho avuto in mano le prime carte dell’inchiesta e sono riuscito a decifrarne la logica ho deciso di raccontare tutto, di denunciare quanto accaduto, riprendendo anche il filo del lavoro di ricerca con gli ultimi aggiornamenti sulle nuove conoscenze intervenute sul sequestro Moro e fornendo un resoconto radicalmente critico dell’attività mistificatrice condotta dall’ultima commissione Moro, i cui lavori avevo seguito da vicino.

Prima di proseguire nell’intervista mi sembra opportuno chiederti a che punto è la tua vicenda processuale?
Dopo oltre tre anni di indagine la procura ha chiesto l’archiviazione del fascicolo perché non è riuscita ad individuare alcun reato e perché in ogni caso quelli ipotizzati, parliamo del 2015, erano ormai prescritti. In via teorica l’azione giudiziaria si attiva per individuare i responsabili di reati commessi, dopo una notizia criminis, ovvero quando un fatto-reato esiste, è accertato. A quel punto si va alla ricerca dei responsabili che lo avrebbero commesso. In questo caso c’è stata invece un’azione «preventiva», ci si è mossi per individuare reati non ancora accertati ma solo ipotizzati. Più che un’inchiesta si è trattato di un rastrellamento giudiziario: «vengo a casa tua, sequestro tutto, qualcosa di illecito sicuramente trovo perché tu con il lavoro storico che fai sei ai miei occhi un sospettato permanente». Il risultato è che non hanno trovato nulla che potessero usare penalmente! Hanno certamente aggiornato le loro informazioni, raccolto una quantità di notizie, appunti, arricchito un background di conoscenze. Che poi è il vero lavoro che sta dietro l’attività di qualunque polizia. Una specie di «vita degli altri». Significativo è il fatto che nei rapporti dell’inchiesta il lavoro di ricerca, l’attività storica da me realizzata veniva apparentata ad una sorta di nuova militanza, una specie di «banda armata storiografica…..».
La colpa che mi veniva imputata era quella di fare storia fuori dai canoni ritenuti legittimi. La domanda è: una società dove il ministero dell’Interno si erge ad arbitro del lavoro storico e pretende di decidere cosa si deve scrivere in un libro e chi ha il diritto di scriverlo, che società è? Da qui la polizia della storia.

A fronte di questa incredibile storia come hai fatto a comporre questo libro, stante che materialmente ti è stato impedito di proseguire «nei cantieri di ricerca aperti»?
Mi sono aiutato con il mio blog, Insorgenze.net, dove sono presenti oltre 1200 articoli frutto del mio lavoro di giornalista e di ricercatore. Un vero archivio che ho ripreso in mano aggiornando e incrementando gli interventi presenti anche grazie all’aiuto di amici e altri ricercatori che avevano copia di alcune parti della documentazione che mi era stata sottratta. Insomma ho chiesto aiuto e ho nuovamente recuperato quanto era possibile rintracciare dalle fonti aperte.

Quando analizzi l’arrivo delle Brigate rosse in via Fani il 16 marzo del 1978 ad un certo punto descrivi il posizionamento della 128 bianca, con due «irregolari» della Colonna romana a bordo. Quale era il confine tra militanti «regolari» e militanti «irregolari», e quando la clandestinità ha preso il sopravvento rispetto alle scelte organizzative delle Brigate rosse?
Contrariamente a quel che si crede, le Brigate rosse non nascono come una formazione clandestina. All’inizio operano con modalità semilegali: tutti i loro componenti vivono nelle loro case, hanno famiglia, figli, mogli o mariti, genitori. Vanno a lavorare regolarmente. Solo la loro azione politica di propaganda armata è «clandestina». Una clandestinità molto aleatoria che non garantisce a lungo la sicurezza del gruppo. Presto verranno individuati e pedinati e nel maggio del 1972 l’organizzazione, che all’epoca era prevalentemente incentrata su Milano, viene sgominata. Una retata fa cadere quasi tutte le basi e un bel pezzo della loro rete militante e di sostegno. I pochi scampati si ritrovano in un casolare del Lodigiano, gestito da Piero Bertolazzi, uno dei fondatori del gruppo, dove riflettendo sullo smacco subìto elaborano una innovativa teoria dell’organizzazione che prevedeva la «clandestinità strategica», così la chiamarono. Clandestini allo Stato e ai suoi apparati ma non alle masse, agli operai che erano il loro punto di riferimento, la loro base sociale, l’acqua dove nuotavano e da dove provenivano: le fabbriche. Ovviamente il nuovo modello organizzativo che prevedeva il passaggio alla vita clandestina dei quadri militanti presupponeva anche il rafforzamento della capacità logistiche: l’approvvigionamento di risorse economiche con le rapine di autofinanziamento, la creazione di una rete di basi sicure dove alloggiare i militanti clandestini e creare archivi, depositi e laboratori. La capacità di fornire loro copertura con la realizzazione di documenti contraffatti. Tutto in completa autonomia, senza ricorrere al mondo della malavita che era monitorato dalle forze di polizia e pieno di confidenti. Senza una forte logistica la lotta armata non sarebbe durata una settimana e la logistica è l’indicatore che da prova del radicamento sociale delle Brigate rosse. La logistica si avvale del grado di sviluppo delle forze produttive dell’epoca, del sapere operaio, delle sue elevate capacità tecnologiche e dell’esistenza di un radicato sostegno, appoggio, simpatia che si manifesta con modalità e intensità diverse. Quando si porrà il problema di produrre patenti di guida, per esempio, saranno degli operai delle aziende tessili del Biellese che forniranno la famosa tela rosa sulle quali erano stampate le patenti dell’epoca. Quindi vennero messe in piedi delle tipografie grazie alla presenza di militanti tipografi, così stamparono di tutto: riprodussero ogni tipo di timbro, carta di circolazione, bolli auto e contrassegni delle assicurazioni. Altri operai fornirono la plastica per fabbricare targhe, venne inventato un termoaspiratore che grazie ad un calco riproduceva le targhe. Tornitori e fabbri si occupavano di riparare armi e costruire silenziatori artigianali, altoparlanti…. Poi c’erano anche medici e infermieri degli ospedali che fornivano la necessaria assistenza. Dopo gli arresti del 1972 viene gradualmente elaborata una teoria dell’organizzazione assolutamente innovativa e senza precedenti rispetto alle altre esperienze guerrigliere passate e contemporanee. Un modello che si costruisce sperimentalmente sulla base dell’esperienza diretta e che troverà definitiva formalizzazione nel novembre 1975. Le forze «regolari» sono quadri dell’organizzazione che entrano in clandestinità, supportati dall’apparato logistico che ho descritto. Attenzione a non confondere i latitanti, ricercati dalle forze di polizia, con i regolari. Entrambi sono clandestini ma i primi per necessità, i secondi per scelta. In origine gran parte dei regolari non sono conosciuti dalle forze di polizia, quindi non sono latitanti. Lo diverranno col tempo, una volta identificati. Tra i latitanti vi possono essere anche degli «irregolari», ovvero militanti dell’organizzazione che conducevano vita legale, spesso nelle brigate territoriali o nei posti di lavoro. I due irregolari cui fai riferimento sono Alvaro Loiacono, che infatti indossa un «mephisto» con cui travisa il volto perché già fotosegnalato dalle forze di polizia, e Alessio Casimirri. Nella squadra che opera la mattina del 16 marzo c’è un regolare che all’epoca non era ancora completamente clandestino, Bruno Seghetti. Viveva in un monolocale dell’organizzazione situato in Borgo Vittorio. Per questa ragione dopo la retata di inizio aprile che le forze di polizia condurranno a Roma negli ambienti dell’autonomia, Seghetti che ufficialmente era domiciliato a casa dei genitori a Centocelle, dove la polizia andò a cercarlo, si presentò in commissariato per non destare sospetti. In questo modo dovendo dare spiegazioni sulla sua assenza bruciò la base di Borgo Vittorio che venne subito smantellata.

Nel tuo libro c’è un capitolo che riprende una intervista a Giuliano Ferrara, a quel tempo membro della segreteria torinese del Pci e responsabile delle fabbriche. Perché le parole di Ferrara sono così importanti?
Perché per la prima volta un importante dirigente del Pci racconta le tecniche che quel partito impiegò per contrastare le Brigate rosse, il loro «principale antagonista a sinistra», come disse Berlinguer in una intervista apparsa su Repubblica nell’aprile del 1978. Emerge così la catena di trasmissione che lega la procura sabauda e la federazione comunista torinese, con Caselli (il magistrato che ha arrestato più operai nella storia d’Italia), e con lo stesso Violante che nel 1978 era nell’ufficio legislativo del ministero della Giustizia per creare le basi della svolta emergenzialista con l’introduzione dei principi di trattamento differenziato: carceri e legislazione speciale. I due magistrati tenevano riunioni in federazione, concertando le strategie di contrasto alla lotta armata con i dirigenti del partito comunista locale mentre il partito, quando emersero difficoltà nella composizione della giuria popolare, filtrò diversi giurati. Una interferenza politica nel processo non certo in linea con i dettami costituzionali, l’autonomia della magistratura e il codice di procedura penale. Una testimonianza, quella di Ferrara, assolutamente rilevante sul piano storico che non trovò spazio nel giornale dove lavoravo all’epoca. L’allora direttore Dino Greco si rifiutò di pubblicarla perché «non in linea con la verità politica» che a suo avviso Liberazione, il quotidiano di Rifondazione comunista, doveva preservare. Una verità politica, ovvero una menzogna storica, costruita negando quanto era avvenuto nella realtà. La stessa «verità politica» che senza battere ciglio Greco ripropone nel libro che ha dedicato alla ricostruzione della storia della Brigate rosse e del sequestro Moro.

Cosa vuoi dire quando evidenzi che «attorno alle parole di Moro si è combattuta e tuttora si combatte una battaglia importante, una battaglia politica»?
Nel corso della prigionia Moro fu descritto dall’ampio schieramento politico e giornalistico che sosteneva la linea della fermezza (Dc, Pci, Repubblica di Scalfari) come una vittima della sindrome di Stoccolma, un politico privo di senso dello Stato, autore di lettere che non erano moralmente e materialmente ascrivibili alla sua persona. In un precedente volume ho pubblicato ampi stralci dei verbali delle riunioni della Direzione del Pci, nei quali oltre a denunciare l’uso di violenza psichica e preparati chimici per far collaborare l’ostaggio, si esprimevano giudizi pesantissimi nei confronti del prigioniero. Oggi sappiamo che si trattava di una versione di comodo, elaborata in quei giorni nelle stanze del Viminale grazie all’opera del professor Franco Ferracuti e del suo assistente Francesco Bruno, che suggerì di ritenere pubblicamente Moro un ostaggio sotto influenza dei suoi rapitori per delegittimare le proposte di trattativa e scambio di prigionieri elaborate in via Montalcini. Si trattò di una cinica operazione di disinformazione, un’azione di controguerriglia psicologica che governo, forze politiche e grande stampa accolsero e utilizzarono. Fu un assassinio anticipato, prim’ancora del suo corpo vennero fucilati dalle forze dell’emergenza la sua coscienza e il suo pensiero politico. Non a caso Moro, perfettamente consapevole della scelta fatta dal suo partito e dal Pci, scrisse: «il mio sangue ricadrà su di voi». Soltanto nel 2017, trentanove anni dopo la morte, il memoriale difensivo e le lettere scritte in via Montalcini sono state inserite nell’opera omnia edita dalla Presidenza della Repubblica, riconoscendone appieno, seppur con un grave ritardo, l’autenticità e l’importanza storica, politica ed etica. Ormai nessuno ha il più il coraggio di mettere in discussione l’integrità morotea di quegli scritti. Un recente lavoro di analisi filologica condotto da Michele Di Sivo ha definitivamente sepolto ogni disputa, relegando nella pattumiera della storia tutti quelli che hanno provato ad argomentare sulla inautenticità. Ma per le forze politiche, gli intellettuali e i giornali che sostennero l’inautenticità delle parole di Moro restava il problema di trovare una via di uscita per giustificare la scelta fatta e liberarsi della responsabilità di aver trovato politicamente più conveniente la sua morte. E’ nata così la dietrologia, l’affannosa ricerca di responsabili di sostituzione, di una narrazione che capovolgesse la condotta tenuta nei 55 giorni del sequestro attribuendo ad altri la mancata liberazione dell’ostaggio e l’esito nefasto del sequestro.

1/continua

L’ex Br Bertulazzi: «Sono in fuga dal 1980, ma non regalo mea culpa»

Oggi è un liutaio, per anni ha lavorato come grafico e traduttore, è stato un militante della colonna genovese delle Brigate rosse ai suoi esordi, nella pirma metà degli anni 70. Nel 1980 lascia l’Italia, quando viene processato vive già all’estero da tempo ma i giudici pensano sia un clandestino in attività così lo condannano ad una pena abnorme, 27 anni, nonostante fosse stato un irregolare, cioè mai clandestino, senza reati di sangue contestati. Dopo esser passato per la Grecia, approda in Salvador dove vive fino al 2002, quando entra in Argentina dove viene arrestato. La magistratura tuttavia nega l’estradizione perché condannato in contumacia. Poco dopo gli viene concesso l’asilo politico, procedura che interrompe il processo di estradizione annullando il rigetto già pronunciato. Nel 2013 la sua condanna va in prescrizione, la cassazione italiana conferma ma successivamente la procura di genova fa riaprire il procedimento ottenendo l’annullamento della decisione. Nell’estate 2024 la nuova giunta argentina del presidente Milei, un nostalgico delle dittature fasciste sud americane e del piano Condor, con una decisione arbitraria annulla la concessione dell’asilo politico. Il governo Meloni ne approfitta e rilancia l’estradizione avvalendosi della mancata conclusione della precedente procedura di estradizione, dove era stato espresso parere favorevole. I nuovi giudici, allineati col nuovo potere revanchista, concedono una estradizione col trucco accettando la promessa fatta dalla procura genovese che una volta in Italia Berrtulazzi sarà nuovamente processato: nonostante la legge e la giurisprudenza non lo prevedano.

Mario Di Vito, il manifesto 18 marzo 2025

Leonardo Bertulazzi, classe 1951, fino al 1980, anno in cui è cominciata la sua fuga, è stato un militante irregolare della colonna genovese delle Brigate rosse con il nome di battaglia di Stefano. Condannato in contumacia a 27 anni per il sequestro di Pietro Costa del 1977 e per banda armata, pur non avendo fatti di sangue a suo carico per l’Italia è uno dei maggiori ricercati internazionali: due settimane fa i giudici hanno detto sì alla sua estradizione dall’Argentina. Ad agosto gli era stato sospeso lo status di rifugiato politico ed è stato arrestato. Adesso è ai domiciliari con un bracciale elettronico e il suo destino è appeso all’ultimo grado di giudizio, quello della Corte suprema di Buenos Aires, città in cui vive dal 2002.

«Quello è stato un anno terribilmente speciale per l’Argentina – dice al manifesto -. Terribile perché la bancarotta finanziaria provocò un impoverimento repentino di una porzione importante della società e speciale perché sviluppò un’immediata risposta in termini di auto-organizzazione e lotta: que se vayan todos era lo slogan».

E lei arriva lì.
Bettina, mia moglie, ed io arrivammo a Buenos Aires nel giugno del 2002 e iniziammo a conoscere i quartieri popolari e a frequentare le assemblee in cui i vicini discutevano l’organizzazione di mense e farmacie popolari, e altre forme di autogestione. Venivamo da molti anni vissuti in Salvador, dove avevamo lavorato in contesti simili. A novembre l’Interpol mi arrestò per una richiesta d’estradizione italiana. Le organizzazioni dei piqueteros e le assemblee di quartiere manifestarono una grande solidarietà nei miei confronti e ci fu una campagna in mio favore.

E poi?
Dopo sette mesi di detenzione, il giudice decise che l’estradizione di un condannato in contumacia non era ammessa e mi liberarono. L’anno seguente, con la presidenza Kirchner, mi venne riconosciuto lo status di rifugiato politico, perché le leggi speciali e le pratiche d’emergenza, il pentitismo, la tortura, i processi collettivi, le pene esorbitanti, i carceri speciali, il 41 bis e le condanne in contumacia non garantivano un funzionamento affidabile della giustizia.

Cosa ha fatto in Argentina in questi 23 anni?
Ho lavorato come disegnatore grafico e come traduttore fino al 2015, quando ho cominciato a frequentare una scuola municipale di liuteria. Si trattava di un grande magazzino in periferia dove, già in precedenza, operava una falegnameria con la sua attrezzatura. Abbiamo avviato un’impresa di produzione di strumenti musicali per le orchestre degli alunni delle scuole della periferia di Buenos Aires. Abbiamo chiamato quel grande magazzino Fabbricando Futuro, come le due effe sulla tavola armonica del violino, e questo è diventato il luogo d’incontro di alunni, studenti, genitori, professori, liutai e apprendisti liutai.

Da allora il paese è molto cambiato.
Lo spirito della mobilitazione sociale che abbiamo conosciuto al nostro arrivo si è affievolito a causa di delusioni, stanchezza, rassegnazione e repressione che, poco a poco, hanno tagliato le ali della speranza. Il governo Milei ha espulso dal mondo del lavoro centinaia di migliaia di lavoratori e ha represso con violenza ogni tentativo di resistenza. Oggi nella società argentina si percepisce la paura e insieme un senso di rabbia repressa che aspetta solo che la tortilla se de vuelta.

In Italia, intanto, c’erano già delle condanne che la riguardavano.
La legislazione speciale l’ha fatta da protagonista: la ricerca a tutti i costi della collaborazione del pentito, con la carota delle leggi premiali o, quando non bastava, con la tortura e poi le condanne a decine di anni che si basavano unicamente sulle dichiarazioni dei pentiti. Si tratta di un iter giudiziario che affonda le proprie radici nelle atrocità del fascismo e nella mancata epurazione della magistratura dopo la caduta del regime. Si tratta di una pesante eredità che è diventata un abito mentale, una mentalità radicata nel profondo. Non sorprende, quindi, che la legislazione speciale promulgata negli anni ’70, molto più forcaiola dello stesso Codice Rocco, non abbia provocato nessuna contraddizione in coloro che l’hanno applicata con tanta diligenza. 

Veniamo ai suoi processi.
Ho due condanne: 15 anni per il sequestro Costa e 19 per banda armata, poi unificate per una pena unica di 27 anni. I processi si sono svolti quando avevo già lasciato il paese da anni.

La procura di Genova scrive: «In conclusione, è ragionevole riconoscere che nessun elemento allo stato attuale può provare la conoscenza del processo in capo al condannato e delle accuse definitivamente formulate a suo carico e poi accertate in sua contumacia».
Lo stesso giudice argentino, che nel 2003, Kirchner presidente, aveva respinto la richiesta di estradizione, oggi, con Milei, ha accolto la richiesta, sostenendo che non c’è ragione di dubitare della parola della procura genovese che assicura che avrò diritto a un nuovo processo.

Ancora la procura di Genova: «L’ipotesi che la mancata presenza del Bertulazzi ai suoi processi per esercitare i suoi diritti possa essere stata involontaria, anziché frutto di una libera scelta, è da scartare CATEGORICAMENTE (sic, ndr)».
Speravano che la mia contumacia “volontaria” potesse giustificare l’estradizione. Ma non è andata così. Il giudice argentino ha respinto la richiesta di estradizione e sono stato riconosciuto come rifugiato politico. Ma ecco che nel 2024 cambiano i rapporti fra i governi, e Milei e Meloni si abbracciano. Mi viene revocato lo status di rifugiato e la procura di Genova presenta la stessa richiesta d’estradizione di 22 anni prima. Ma con quale giustificazione? Nessuna. Basta avere la faccia tosta di dire che non sapevo di essere sotto processo e che, una volta estradato in Italia, avrò diritto a un nuovo processo. 

Sugli anni della lotta armata, in una delle risposte al questionario per ottenere lo status di rifugiato politico in Argentina, lei scriveva: «Nel 1968 è apparso un movimento sociale, sorprendente nelle sue dimensioni, che per più di 10 anni ha messo in discussione le relazioni sociali e politiche del Paese e ha determinato il destino di molte persone, me compreso. Il movimento stava conquistando sempre più spazio nella società, generava speranze di cambiamento e stava già producendo cambiamenti di mentalità. Per me e per molti della mia generazione era una festa, la festa della speranza, in cui si incontravano studenti e lavoratori di tutte le categorie, donne e uomini, vecchi combattenti antifascisti e nuovi».
Il percorso ascendente della parabola ha resistito per anni, e poi? Poi c’è l’oggi, fatto di lavoro precario, disoccupazione, sanità che risponde al motto “più ricco, più sano”, un Mar Mediterraneo che accoglie i cadaveri degli emigranti, povera gente che muore perché cerca una vita degna di essere vissuta, mentre si incita al riarmo, si abitua la gente all’idea della guerra e dilaga il fascismo. Io ho lottato per un presente diverso. Nel giudicare il passato, non si può prescindere da questo presente, che è quello a cui hanno condotto coloro che ci hanno sconfitto. Non regalerò un mea culpa ai guerrafondai, a quelli che hanno provocato il rigurgito fascista.

Lei non è il primo caso di ricercato per fatti di mezzo secolo fa. Ricordiamo, per ultimi, i dieci di Ombre rosse in Francia. Non crede che i fatti di quel periodo storico siano una ferita ancora aperta per l’Italia?
Bisogna rileggere le parole dei giudici francesi: “I fatti sono molto vecchi. Senza trascurarne l’eccezionale gravità, in un contesto di estrema e ripetuta violenza che non può essere legittimata da esigenze politiche, si deve ritenere che il turbamento dell’ordine pubblico causato si sia esaurito”. Questa considerazione esprime lo spirito della prescrizione. Nella società italiana, il tempo della ferita aperta è scaduto. Ho letto di inchieste sugli “anni di piombo” che rivelano che tantissimi non sanno nemmeno di cosa si stia parlando.

Perché allora c’è ancora tanta attenzione su quei fatti?
Penso che un perché vada ricercato in quell’eredità di cui parlavo. Nel 2016, un avvocato ha fatto richiesta di prescrizione delle mie condanne. Il 12 giugno 2017 la Corte d’Appello di Genova dichiara l’estinzione delle pene. Il 23 febbraio 2018 la sentenza va in Cassazione e diventa definitiva. Intanto, però,la Suprema Corte aveva assunto un nuovo orientamento secondo cui anche l’arresto a seguito della richiesta d’estradizione interrompe la prescrizione. La procura di Genova se n’è accorta in ritardo, quando la sentenza che riconosceva la prescrizione delle mie pene era diventata definitiva. Ma la procura chiede che si riapra il processo, adducendo come giustificazione un fatto nuovo che non era stato preso in considerazione. 

Quale sarebbe il fatto nuovo?
Il mio arresto del 3 novembre 2002 a Buenos Aires.

La Cassazione aveva annullato la prescrizione.
Ironia della persecuzione: la mia richiesta di prescrizione delle pene, iniziata nel 2016 e conclusasi nel 2018 con il no alla prescrizione, è il pretesto usato da Milei per cessare il mio rifugio, perché avrei tentato di avvalermi volontariamente della protezione del paese di appartenenza. C’è poi tutto un dispositivo composto da politici e comunicatori che per rendere digeribile ai più la persecuzione attuata dallo Stato, si incaricano di descrivere il perseguitato come un diavolo. Quando nel 2017 mi è stata riconosciuta la prescrizione, si gridò allo scandalo. In realtà, stavano chiedendo di ribaltare la sentenza, cosa che è avvenuta poco dopo.

Lei è in fuga dal 1980. Ha rimpianti?
Ci sono cose che importano e che però non ho potuto fare. Ricordo un articolo di qualche anno fa su un giornale. Parlava dei fuoriusciti degli anni ’70 che si erano rifugiati in America Latina, facendo un’allusione particolare ai genovesi. L’articolo ne descriveva la bella vita ai Caraibi, fra amache, palme e mojito. Mi chiedevo come fosse possibile che una persona potesse immaginare un esiliato in quel modo, come fosse possibile che un giornalista, senza nessuna conoscenza diretta delle persone di cui parlava, scrivesse un articolo del genere. Ma ho pensato anche che, nella sua ignoranza, ci aveva azzeccato: è vero che ho vissuto bene, ma di un bene che non ha niente a che vedere con la sua immaginazione. Ho conosciuto tante persone, molte delle quali in situazioni esistenziali complesse. Le loro storie e la loro memoria sono il libro più bello che abbia mai letto e costituiscono la mia ricchezza.

Sequestro Moro, dopo 47 anni continua ancora la caccia ai fantasmi

Pochi sanno che per il sequestro e l’esecuzione di Aldo Moro e dei cinque uomini della scorta sono state condannate 27 persone. La martellante propaganda complottista sulla permanenza di «misteri», «zone oscure», «verità negate», «patti di omertà», ha offuscato questo dato. Il sistema giudiziario ha concluso ben 5 inchieste e condotto a sentenza definitiva 4 processi. Oggi sappiamo, grazie alla critica storica, che solo 16 di queste 27 persone erano realmente coinvolte, a vario titolo, nel sequestro. Una fu assolta, perché all’epoca dei giudizi mancarono le conferme della sua partecipazione, ma venne comunque condannata all’ergastolo per altri fatti. Tutte le altre, ben 11 persone, non hanno partecipato né sapevano del sequestro. Due di loro addirittura non hanno mai messo piede a Roma. Il grosso delle condanne giunse nel primo processo Moro che riuniva le inchieste «Moro uno e bis». In Corte d’assise, il 24 gennaio 1983, il presidente Severino Santiapichi tra i 32 ergastoli pronunciati comminò 23 condanne per il coinvolgimento diretto nel rapimento Moro. Sanzioni confermate dalla Cassazione il 14 novembre 1985. Il 12 ottobre 1988 si concluse il secondo maxiprocesso alla colonna romana, denominato «Moro ter», con 153 condanne complessive, per un totale di 26 ergastoli, 1800 anni di reclusione e 20 assoluzioni. Il giudizio riguardava le azioni realizzate dal 1977 al 1982. Fu in questa circostanza che venne inflitta la ventiquattresima condanna per la partecipazione al sequestro, pronunciata contro Alessio Casimirri: sanzione confermata in via definitiva dalla Cassazione nel maggio del 1993. Le ultime tre condanne furono attribuite nel «Moro quater» (dicembre 1994, confermata dalla Cassazione nel 1997), dove vennero affrontate alcune vicende minori stralciate dal «Moro ter» e la partecipazione di Alvaro Loiacono all’azione di via Fani, e nel «Moro quinques», il cui iter si concluse nel 1999 con la condanna di Germano Maccari, che aveva gestito la prigione di Moro, e Raimondo Etro che aveva partecipato alle verifiche iniziali sulle abitudini del leader democristiano.Tra i 15 condannati che ebbero un ruolo nella vicenda – accertato anche storicamente – c’erano i 4 membri dell’Esecutivo nazionale che aveva gestito politicamente l’intera operazione: Mario Moretti, Franco Bonisoli, Lauro Azzolini e Rocco Micaletto; i primi due presenti in via Fani il 16 marzo. Furono poi condannati i membri dell’intero Esecutivo della colonna romana e la brigata che si occupava di colpire i settori della cosiddetta «controrivoluzione» (apparati dello Stato, obiettivi economici e politico-istituzionali): Prospero Gallinari, Barbara Balzerani, Bruno Seghetti, Valerio Morucci, tutti presenti in via Fani. Gallinari era anche nella base di via Montalcini. Adriana Faranda, che aveva preso parte alla fase organizzativa e il già citato Raimono Etro, che dopo un coinvolgimento iniziale venne estromesso. C’erano poi Raffaele Fiore, membro del Fronte logistico nazionale, sceso da Torino a dar man forte, Alessio Casimirri e Alvaro Loiacono, due irregolari (non clandestini) che parteciparono all’azione con un ruolo di copertura e Anna Laura Braghetti, prestanome dell’appartamento di via Montalcini. Era presente anche Rita Algranati, la ragazza col mazzo di fiori che si allontanò appena avvistato il convoglio di Moro e sfuggì alla condanna per il ruolo defilato avuto nell’azione.Tra gli 11 che non parteciparono al sequestro, ma furono comunque condannati, c’erano i membri della brigata universitaria: Antonio Savasta, Caterina Piunti, Emilia Libèra, Massimo Cianfanelli e Teodoro Spadaccini. I cinque avevano partecipato alla prima «inchiesta perlustrativa» condotta all’interno dell’università dove Moro insegnava. Appena i dirigenti della colonna si resero conto che non era pensabile agire all’interno dell’ateneo, i membri della brigata furono estromessi dal seguito della vicenda. La preparazione del sequestro subì ulteriori passaggi prima di prendere forma e divenire esecutiva. In altri processi la partecipazione all‘attività informativa su potenziali obiettivi, quando non era direttamente collegata alla fase esecutiva, veniva ritenuta un’attività che comprovava responsabilità organizzative all’interno del reato associativo, nel processo Moro venne invece ritenuta un forma di complicità morale nel sequestro. Furono condannati anche Enrico Triaca, Gabriella Mariani e Antonio Marini, membri della brigata che si occupava della propaganda e che gestiva la tipografia di via Pio Foà e la base di via Palombini, dove era stata battuta a macchina e stampata la risoluzione strategica del febbraio 1978. Tutti e tre all’oscuro del progetto di sequestro. Furono condannati anche due membri della brigata logistica della capitale, Francesco Piccioni e Giulio Cacciotti: il primo aveva preso parte, nel mese di aprile 1978, a un’azione dimostrativa contro la caserma Talamo da dove era fuggito insieme agli altri tre suoi compagni, con la Renault 4 rosso amaranto che il 9 maggio venne ritrovata in via Caetani con il cadavere di Moro nel bagagliaio. Gli ultimi due condannati furono Luca Nicolotti e Cristoforo Piancone, membri della colonna torinese mai scesi a Roma ma coinvolti – secondo le sentenze – perché avevano funzioni apicali in strutture nazionali delle Br, come il Fronte delle controrivoluzione.
Tra i 27 condannati, 25 furono ritenuti colpevoli anche del tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini, il testimone di via Fani che dichiarò di essere stato raggiunto da colpi di arma da fuoco sparati da due motociclisti a bordo di una Honda. Spari che avrebbero distrutto il parabrezza del suo motorino. Marini ha cambiato versione per 12 volte nel corso delle inchieste e dei processi. Studi storici hanno recentemente accertato che ha sempre dichiarato il falso. In un verbale del 1994 – da me ritrovato negli archivi – ammetteva che il parabrezza si era rotto a causa di una caduta del motorino nei giorni precedenti il 16 marzo. La polizia scientifica ha recentemente confermato che non sono mai stati esplosi colpi verso Marini. Queste nuove acquisizioni storiche non hanno tuttavia spinto la giustizia ad avviare le procedure per una correzione della sentenza. Al contrario in Procura sono attualmente aperti nuovi filoni d’indagine, ereditati dalle attività della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Fioroni, per identificare altre persone che avrebbero preso parte al sequestro: i due fantomatici motociclisti, un ipotetico passeggero seduto accanto a Moretti nella Fiat 128 giardinetta che bloccò il convoglio di Moro all’incrocio con via Stresa, eventuali prestanome affittuari di garage o appartamenti situati nella zona dove vennero abbandonate le tre macchine utilizzate dai brigatisti in via Fani. Si cercano ancora 4, forse 5, colpevoli cui attribuire altri ergastoli. Non contenta di aver condannato 11 persone estranee al sequestro, la giustizia prosegue la sua caccia ai fantasmi di un passato che non passa.

«Sì all’estradizione di Bertulazzi in cambio di un nuovo processo in Italia», i giudici argentini accolgono la promessa fatta dalla procura di Genova che non verrà mantenuta

Si fonda su una bugia l’avviso favorevole concesso dalla magistratura argentina alla estradizione dell’ex brigatista Leonardo Bertulazzi, riparato negli anni 80 in America Latina, prima in Salvador e poi dal 2002 in Argentina, dove vent’anni fa gli era stato riconosciuto l’asilo politico, ritirato con una decisione arbitraria dopo l’arrivo al potere del governo fascio-revanchista Milei. La procura generale di Genova ha fatto sapere ai giudici di Buoneos Aires che una volta in Italia Bertulazzi avrà sicuramente diritto ad un nuovo processo, tanto è bastato per concede l’ammissibilità alla estradizione.
Sono state pubblicate ieri, 7 marzo, le motivazioni giuridiche che hanno portato a questa decisione sancita nella udienza del 27 febbraio scorso. I giudici argentini sono tornati sui loro passi, smentendo l’avviso contrario espresso 21 anni fa, il 5 giugno del 2003, quando rifiutarono l’estradizione perché l’Italia non forniva sufficienti garanzie sullo svolgimento di un nuovo processo contro Leonardo Bertulazzi. Va detto che l’ordinamento penale argentino non prevede la contumacia. Purtroppo l’iter decisionale dei giudici argentini non venne completato perché nel frattempo giunse il riconoscimento dello status di rifugiato, che secondo la legislazione argentina, e la convenzione sui diritti dei rifugiati, impedisce la consegna e persino il processo di estradizione quando lo status di rifugiato è in vigore. Situazione che portò la corte suprema a revocare quella prima decisione e non dichiarare irricevibile la domanda di estradizione. Così al governo Milei è bastato ritirare con un pretesto lo status di rifugiato per riaprire la partita.
Bertulazzi era stato condannato nel 1985 in due diversi processi – quando già da diverso tempo aveva lasciato l’Italia – a 15 anni di reclusione per complicità nel sequestro Costa del 1977 e 19 anni per il reato associativo, condanne che una volta cumulate, nel 1997, hanno portato a una pena definitiva di 27 anni. Una enormità considerando la breve militanza all’interno della colonna genovese, interrotta anche da un periodo di detenzione, e il fatto che fosse un «irregolare» a cui non sono stati mai contestati reati di sangue.
Secondo i giudici, in questa nuova procedura sarebbe intervenuto un fatto nuovo che avrebbe cambiato le carte in tavola: ovvero le garanzie fornite dal procuratore generale della Repubblica di Genova, in una nota del 9 settembre 2024, in merito alla possibilità per Bertulazzi di ottenere un nuovo processo una volta riconsegnato all’Italia.
Le garanzie della procura genovese tuttavia contrastano con l’ordinamento italiano, art. 175 comma 2 cpp, che non prevede automatismi in caso di condanne in contumacia ma soltanto la possibilità per il condannato estradato, entro 30 giorni dalla consegna, di poter chiedere la riapertura del processo a certe condizioni.
Dominus della decisione resta la corte di appello non la procura generale. Corte che non si è ancora pronunciata e non ha inviato alcuna rassicurazione ai giudici argentini. Sul punto poi esiste una costante giurisprudenza di cassazione che scoraggia le richieste di riapertura. Il principio di intangibilità della cosa giudicata resta fortemente radicato nel sistema giudiziario italiano e nella cultura giurisprundenziale, un muro invalicabile, un tabù intoccabile.
A favore di Bertulazzi tuttavia postrebbero giocare altri passaggi presenti nell’ordinanza dei giudici argentini, lì dove si afferma esplicitamente che «per la Repubblica Argentina, dal punto di vista dell’estradizione, [Bertulazzi} è un accusato, tenendo conto che queste condanne devono essere riaperte nella Repubblica Italiana». Altro passaggio da sottolineare è quello dove i giudici ricordano che, «la persona condannata in contumacia deve essere considerata un imputato e godere di garanzie sufficienti per esercitare il suo diritto alla difesa una volta arrivata nel suo paese».
Insomma per i giudici argentini Bertulazzi, poiché condannato in contumacia, non va considerato e non può essere estradato in qualità di condannato ma solo di persona imputata, ovvero in attesa di giudizio.
Il concetto è molto chiaro, meno chiara è l’interpretazione che ne sarà data in Italia se la corte suprema federale dovesse confermare l’estradizione e il Conare rigettasse il ricorso contro l’abolizione del status di rifugiato politico.
Cosa farà allora la magistratura italiana che sciopera in questi giorni contro il progetto di separazione delle carriere voluto con forza dal governo Meloni? Cosa diranno l’opposizione, l’avvocatura, i giuristi?

Primo sì dei giudici argentini alla estradizione dell’ex Br Bertulazzi, Milei si aggiudica la prima manche della lunga battaglia legale

Anche se nessuna agenzia lo ha ancora scritto, giunge dall’Argentina la notizia del parere favorevole alla estradizione dell’ex brigatista della colonna genovese, oggi settantacinquenne, Leonardo Bertulazzi, concesso dai giudici di Buonos Aires stanotte (ora italiana).
Dopo una udienza lampo è stata accolta la richiesta proveniente da parte italiana. Il contenuto giuridico del provvedimento sarà noto solo nei prossimi giorni, sapremo così come i giudici hanno risolto, forse è meglio dire aggirato, il problema della contumacia.
Entrato nella colonna genovese quasi alla sua nascita, fu arrestato e condannato nel 1976 per un episodio minore. Scarcerato nel 1979, dopo un periodo di congelamento fu reintegrato nell’organizzazione fino al settembre 1980, quando incappò con due suoi compagni in un posto di blocco da dove riuscì a fuggire. Condannato a 15 anni di reclusione in contumacia per un presunto ruolo marginale nel sequestro Costa, attribuitogli da un pentito entrato nelle Br solo più tardi, e poi a 19 anni per i reati associativi, Bertulazzi è stato duramente sanzionato dalla giustizia genovese perché era fuggiasco. Una volta cumulate le condanne con la continuazione la pena finale si è cristallizzata a 27 anni di reclusione. Una enormità per un irregolare che non ha mai sparato un colpo di pistola. Pena ampiamente estinta in un qualunque altro paese d’Europa ma in Italia è bastato un cavillo tecnico per inficiare il tempo trascorso e ripartire d’accapo con il conteggio. E così quarantanove anni dopo è arrivato il primo sì alla estradizione.
Milei si è dunque aggiudicato, come era nelle previsioni, questa prima partita. La strettissima intesa con il governo di Giorgia Meloni che in cambio ha rinunciato ad estradare il sacerdote torturatore Franco Reverberi (leggi qui), tanto che pochi giorni fa il ministro della giustizia argentino ha concordato con Nordio i passaggi della estradizione e quest’ultimo si recherà nei prossimi giorni i Argentina, e la necessità dello stesso MIlei di ottenere una vittoria simbolica nella speranza di riuscire a incarcerare, prima o poi, gli esponenti della vecchia resistenza armata degli anni 70 e primi anni 80 alle giunte militari fasciste di cui si proclama il naturale erede, hanno fatto il resto.
La partita tuttavia non è ancora conclusa. La decisione di ieri notte può essere appellata davanti alla corte suprema federale (equivalente della nostra cassazione), prima che sia definitiva. Ma soprattutto è ancora aperto il ricorso di fronte al Conare, l’organo federale che decide sulla concessione dell’asilo politico e che bloccherebbe l’estradizione. Bertulazzi aveva già ottenuto questo beneficio nel 2004 ma con una decisione arbitraria la protezione gli è stata tolta lo scorso agosto, quando venne arrestato. Arresto poi rimesso in discussione dai giudici della corte suprema federale con una sentenza molto dura. La procedura davanti al Conare è stata più vote rinviata e alla fine ritardata: probabilmente per consentire alla procedura di estradizione di fare passi avanti e creare una situazione che renda più difficile concedere l’asilo. Milei sta barando in tutti i modi cercando di accomodare una situazione che altrimenti giuridicamente gli sarebbe andata contro. Mentre il Conare rinvia, Milei sta cambiando i vecchi giudici della corte suprema con uomini di fiducia ed ha varato un decreto che impedisce la concessione dell’asilo a chi è stato condannato per reatio di terrorismo, circostanza che non dovrebbe valere per Bertulazzi, sempre che non venga calpestato la regola della non retroattività. Il suo ricorso davantio al Conare è precedente al decreto del presidente ma soprattutto Bertulazzi non sta chiedendo per la prima volta protezione. Ma la partita giuridica sembra sempre più truccata.

Anche le democrazie torturano

«In Italia abbiamo sconfitto il terrorismo
nelle aule di giustizia e non negli stadi»

Sandro Pertini, Presidente della Repubblica 1982

Nel maggio 1978 la nazionale di calcio italiana era in Argentina dove stava completando la preparazione in vista del campionato del mondo che sarebbe cominciato il mese successivo, vinto alla fine dai padroni di casa. Due anni prima, nel marzo 1976, un golpe fascista aveva portato al potere una giunta militare ma nonostante ciò i mondiali di calcio si tennero lo stesso. Furono una bella vetrina per i golpisti mentre i militanti di sinistra sparivano, desaparecidos; prima torturati nelle caserme o nelle scuole militari, poi gettati dagli aerei nell’Oceano durante i viaggi della morte, attaccati a delle travi di ferro che li trascinavano giù negli abissi. Intanto i neonati delle militanti uccise erano rapiti e adottati dalle famiglie degli ufficiali del regime dittatoriale.
Nel resto dell’America Latina imperversava il piano Condor orchestrato dalla Cia per dare sostegno alle dittature militari che spuntavano un po’ ovunque nella parte di continente che gli Stati Uniti consideravano il cortile di casa. Cinque anni prima, l’11 settembre del 1973, era stata la volta del golpe fascio-liberale in Cile, dove gli stadi si erano trasformati in lager.
In Italia l’opposizione sfilava solo nelle strade. In parlamento da un paio di anni si era ridotta a frazioni centesimali di punto a causa di un fenomeno politico che gli studiosi avevano ribattezzato col termine «consociativismo»: ovvero la propensione a costruire larghe alleanze trasversali e trasformiste che annullano gli opposti e mettono in soffitta alternanze e alternative. Il 90% delle leggi erano approvate con voto unanime nelle commissioni senza passare per le aule parlamentari. Il consociativismo di quel periodo aveva un nome ben preciso: «compromesso storico». Necessità ineludibile, secondo il segretario del Pci dell’epoca Enrico Berlinguer, per scongiurare il rischio di derive golpiste anche in Italia. 
Dopo un primo «governo della non sfiducia», in carica tra il 1976-77, mentre la Cgil imprimeva con il congresso dell’Eur una svolta fortemente moderata favorevole politica dei sacrifici e il Pci, sempre con Berlinguer, assumeva l’austerità come nuovo orizzonte politico, improntata ad una visione monacale e moralista dell’impegno politico e del ruolo che le classi lavoratrici dovevano svolgere nella società per dare prova della loro vocazione a dirigere il Paese, nel marzo 1978, il giorno stesso del rapimento Moro, nasceva il «governo di solidarietà nazionale», col voto favorevole di maggioranza e opposizione. Oltre al calcio e alla folta schiera di oriundi cosa poteva mai avvicinare una strana democrazia senza alternanza, come quella italiana, ad una dittatura latinoamericana come quella argentina? La risposta sta in una parola sola: la tortura.
Anche la repubblica italiana torturava gli oppositori, definiti e trattati come terroristi. In quei giorni del maggio 1978 veniva arrestato e poi torturato Enrico Triaca, tipografo della colonna romana delle Brigate rosse. Non era la prima volta che accadeva e non sarebbe stata l’ultima. Nel film documentario realizzato da Stefano Pasetto, Il Tipografo, Enrico Triaca racconta la propria vicenda, un agente dei Nocs (Nucleo operativo centrale di sicurezza), Danilo Amore, testimonia l’esistenza di quelle sevizie, il dottor Massimo Germani spiega gli effetti devastanti che la tortura procura sulla psiche di chi la subisce, Paolo Persichetti ricostruisce il quadro storico all’interno del quale le istituzioni italiane diedero il via libera agli interrogatori «non ordossi» degli arrestati.

Per chi vuole approfondire:

«Comportamenti senza rilevanza penale», il pm Albamonte chiede l’archiviazione dell’indagine sull’archivio storico sequestrato a Persichetti

Millecentottantasei giorni dopo la lunga perquisizione (era I’8 giugno 2021) condotta nella mia abitazione e conclusasi con il sequestro integrale del mio archivio raccolto in anni di ricerca storica sugli anni 70 e le vicende della lotta armata, di tutti i miei strumenti di lavoro, dell’intera documentazione digitale presente in casa e negli storage online, computer e telefono nonché l’archivio familiare, con materiali di mia moglie e medico-scolastici dei miei figli, è arrivata dagli uffici della procura la richiesta di archiviazione firmata lo scorso 13 settembre dal sostituto procuratore della repubblica Eugenio Albamonte.

Comportamenti privi di rilevanza penale
Il pm che ha condotto l’indagine avviata dalla Direzione centrale della polizia di prevenzione nel 2019, scrive che «non è possibile qualificare penalmente la condotta del Persichetti», in relazione al reato di violazione del segreto d’ufficio (326 cp) e che «tanto meno si può ritenere probabile» in base agli elementi raccolti «l’esito positivo di un eventuale giudizio».
Quanto invece all’ipotizzato favoreggiamento (378 cp), Albamonte lascia intendere che molto più semplicemente il reato non sussiste poiché «la natura delle informazioni» (alcune pagine della bozza della prima relazione della commissione Moro 2 del dicembre 2015), che l’8 dicembre 2015 avevo inviato ad Alvaro Baragiola Loiacono, ex brigatista coinvolto nel sequestro Moro, riparato in Svizzera dove ha acquisito la cittadinanza e da questi trasferite a una altro ex, Alessio Casimirri, anch’egli da decenni riparato in Nicaragua, «non appare avere rilievo sulle rispettive responsabilità e non comporta ulteriori incriminazioni rispetto a quelle già comprovate». Detta in modo più chiaro, quelle informazioni erano neutre, prive di rilevanza penale, per altro rese pubbliche appena 48 ore dopo dalla stessa commissione.

Reati prescritti


Il pm conclude la sua richiesta sottolineando che «il reato ipotizzato [favoreggiamento], e altri eventualmente configurabili (violazione di segreto d’ufficio e ricettazione (648 cp) sarebbero stati commessi nel 2015 e quindi prescritti o prossimi alla prescrizione».
Nella richiesta di archiviazione non viene citata una quarta imputazione: l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo (270 bis cp) che pure era stata utilizzata nel decreto di perquisizione dell’8 giugno 2021 e firmata dallo stesso sostituto Albamonte e dall’allora procuratore capo Prestipino (incarico poi dichiarato illegittimo dal Tar del Lazio e dal Consiglio di Stato – leggi qui). Capo d’imputazione passe-partout, strumento perfetto per implementare la scenografia investigativa e avvalersi di strumenti di indagine altamente invasivi. A dire il vero l’ipotesi d’accusa associativa non aveva retto alla prima verifica: bocciata dal tribunale del riesame già nel luglio 2021, perché priva delle necessarie condotte di reato, e successivamente lasciata cadere dallo stesso pm. La procura, infatti, si era limitata a enunciare le accuse senza riportare circostanze, modalità e tempi in cui esse si sarebbero materializzate. Come se non bastasse, nella indagine aveva fatto capolino anche una quinta imputazione suggerita dallo stesso Tribunale del riesame che al posto del «favoreggiamento», aveva proposto – senza successo – la «rivelazione di notizia di cui sia stata vietata la divulgazione» (262 cp). Cinque capi d’imputazione per una inchiesta che alla fine si era trasformata in una caccia al tesoro alla affannata ricerca del reato che non c’era.

Le ragioni dell’inchiesta
Se il mio comportamento era privo di rilevanza penale, in sostanza non violava la legge, allora per quale ragione la polizia di prevenzione e la procura di Roma hanno portato avanti con tanta ostinazione una simile inchiesta ricorrendo a intercettazioni telematiche e telefoniche, rogatorie internazionali che hanno coinvolto addirittura l’Fbi americana, fino a perquisire la mia abitazione per una intera giornata e svaligiare il mio archivio, strumento fondamentale del mio lavoro di ricerca storica?

Bisognerà attendere il deposito integrale del fascicolo presso l’ufficio del gip per trovare qualche risposta in più. Per ora ci dobbiamo accontentare delle cinque pagine che compongono la richiesta di archiviazione nelle quali il pm Albamonte ricostruisce seppur sinteticamente i passaggi salienti dell’indagine arrampicandosi come può sugli specchi nel tentativo di giustificarne la legittimità. Scopriamo che tutto sarebbe iniziato dopo una rogatoria internazionale promossa dalla procura generale nei confronti di Alessio Casimirri che innesca una indagine del Federal Bureau of investigation degli Stati uniti. Nel marzo 2020 l’Fbi americana fa pervenire alla Direzione centrale della polizia di prevenzione la corrispondenza e-mail intercettata all’ex brigatista: «emergevano – scrive Albamonte – numerosi scambi tra Casimirri e Loiacono». L’attenzione dei funzionari di polizia si concentrava su una mail dell’8 dicembre 2015 che conteneva in allegato alcune fotografie in formato jpeg della bozza della prima relazione della commissione Moro 2 che Loiacono inviava a Casimirri dopo averle ricevute da me. Bozza che due giorni dopo verrà resa pubblica, senza variazioni, dalla stessa commissione parlamentare.
Le e-mail avevano un contenuto inequivocabile, il contesto era molto chiaro: stavo interloquendo con una fonte orale testimone diretta dei fatti oggetto del mio studio nell’ambito dei lavori preparatori che poi sfociarono nel libro pubblicato nel 2017 con due altri autori, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, Deriveapprodi editore. Quelle poche pagine le avevo inviate anche ad altri testimoni diretti del sequestro Moro, sempre nell’ambito delle ricerche e dell’attività preparatoria del volume. Circostanza perfettamente nota ai funzionari della polizia di prevenzione che dall’Fbi avevano ricevuto altre mail nelle quali erano presenti alcune pagine delle bozze preparatorie di un capitolo del futuro volume dedicate alla ricostruzione dei fatti di via Fani.
Quando nel 2020 gli inquirenti leggono le mail attenzionate conoscono da ben tre anni il libro. Per questa ragione si dilungano nei loro rapporti depositati nel fascicolo in disquisizioni e raffronti tra il contenuto degli scambi telematici e quanto riportato in alcuni suoi capitoli. Ciò dimostra ulteriormente che gli inquirenti avevano ben chiaro testo e contesto di quei messaggi. Tuttavia l’iniziale e comprensibile attività di intelligence condotta per cercare di capire se in quegli scambi fossero contenute delle rivelazioni penalmente rilevanti che potevano aggiungere novità (la presenza di altre persone non ancora identificate), rispetto alla verità accertata giudiziariamente nella vicenda del sequestro Moro, muta improvvisamente. Una volta accertato che quegli scambi tra i due ex brigatisti, ritenuti «genuini» dagli stessi inquirenti, non cambiavano la verità acquisita nei processi, l’indirizzo dell’inchiesta muta improvvisamente rotta.

Cosa era successo?
L’ipotesi della violazione del segreto d’ufficio aveva perso ulteriore consistenza dopo la deposizione, nel gennaio 2021, dell’ex presidente della commissione Moro 2, Giuseppe Fioroni, che aveva chiarito come la «riservatezza» delle bozze (per altro inesistente nel regolamento interno della commissione) era venuta meno al momento della sua pubblicazione, ovvero 48 ore dopo. In quel breve lasso di tempo nessuna «concreta offensività» era emersa – come sottolinea lo stesso Albamonte nella richiesta di archiviazione. Oltretutto lo stesso Fioroni aveva lamentato le continue violazioni della riservatezza e del segreto da parte dei membri della commissione, rilevando come: «elaborati dei consulenti fossero dati in lettura a singoli deputati prima di essere versati alla Commissione, cosa che il Presidente ha più volte stigmatizzato in sede di Ufficio di presidenza. Queste prassi non incidono tanto sul piano formale (perché prima del versamento i documenti, specie se sono elaborati dei consulenti, sono considerati alla stregua di bozze e dal punto di vista della Commissione sono inesistenti), quanto sul piano sostanziale, in quanto potrebbero alimentare flussi di informazioni indebite verso terzi».
Nei suoi tre anni di attività la commissione si era mostrata un vero colabrodo, in almeno sette circostanze erano emerse violazioni del segreto e della riservatezza degli atti, interrogatori e documenti da parte di suoi membri: commissari o consulenti (leggi qui). Circostanze che non hanno mai attirato l’interesse della procura a riprova che non era l’ipotizzata violazione del segreto d’ufficio il vero tema dell’indagine.

La velenosa insinuazione
Durante la sua deposizione Fioroni elabora un «movente» che armerà la polizia di prevenzione e la procura contro il mio lavoro e il mio archivio: secondo l’ex presidente della Moro 2 la commissione nel corso della sua attività avrebbe raggiunto verità indicibili, in particolare nella vicenda di via Licino Calvo e via dei Massimi (ipotesi dietrologiche, in realtà, già elaborate dai primi anni 80 in precedenti commissioni parlamentari e numerose pubblicazioni e che non hanno mai trovato conferme), per questo – a suo dire – ci sarebbe stata un’attività di intelligence per carpire in anticipo queste informazioni e allertare presunti colpevoli non ancora identificati. Si realizza così il cortocircuito tra tesi complottiste e azione investigativa. Con un intento alla volta conoscitivo e punitivo gli inquirenti prendono di mira il mio archivio convinti di potervi scovare quelle verità tenute nascoste che nella mia attività di ricerca avrei potuto raccogliere dalle confidenze degli ex brigatisti. Da qui l’accusa di favoreggiamento e l’iniziale contestazione dell’associazione sovversiva. Il risultato è ora sotto gli occhi di tutti!

Il baratto della verità
Nella stessa deposizione Fioroni ammise di aver tentato «anche dei contatti informali con il Loiacono tramite alcuni componenti della Commissione». Durante la sua audizione l’allora ministro degli esteri Gentiloni aveva pronunciato una lunga serie di inesattezze sulla complessa posizione giuridica di Loiacono, processato e condannato in Svizzera per alcuni episodi di lotta armata avvenuti in Italia. Condanna scontata completamente ma che l’autorità giudiziaria italiana non ha mai voluto riconoscere in barba al ne bis in idem. Infastidito dalle parole del ministro, Loiacono aveva inviato una rettifica con tanto di documentazione allegata. Fioroni, convinto che dietro quel gesto vi fosse una inconscia volontà di testimoniare, iniziò un lungo corteggiamento per il tramite di un commissario che era in contatto con me. Nelle settimane che precedettero la discussione della relazione del 2015 mi trovai così al centro di un flusso di messaggi tra le parti. Ovviamente non se ne fece nulla a riprova del fatto che Fioroni era un pessimo psicologo.

Qualche tempo dopo io e un’altra persona venimmo convocati in una sede istituzionale per sentirci esporre un messaggio proveniente sempre dallo stesso presidente della commissione Moro 2: ovvero una proposta di baratto tra l’apertura dell’attività d’indagine parlamentare anche sulle torture praticate nel maggio 1978 contro Enrico Triaca e quelle successive dell’82 (il 21 gennaio 2016 era stata depositata in commissione una dettagliata richiesta di audizione di undici testimoni sul tema delle torture) in cambio dell’accettazione da parte di alcuni ex brigatisti, mai pentiti né dissociati coinvolti nel caso Moro, di farsi audire a san Macuto. L’intera vicenda – ci venne detto con tono austero – sarebbe stata monitorata dalla stessa presidenza della Repubblica. Rispondemmo che indagare sulle torture faceva parte delle competenze istituzionali della commissione non sottoponili ad alcuno scambio. Quanto alla convocazione degli ex brigatisti, Fioroni avrebbe potuto chiamarli direttamente o scrivere loro spiegando le sue intenzioni. Infine sul presunto interessamento del Quirinale, dichiarammo che avremmo certamente apprezzato un suo intervento pubblico sul tema.
La cosa allora sembrò finire lì ma quando mi portarono via l’archivio compresi che forse non era proprio andata così.

Un grave precedente
Il fallimento clamoroso di questa inchiesta non deve tuttavia distogliere dalla sua natura pretestuosa e dal rischioso precedente che rappresenta per la libertà della ricerca storica. Il sequestro dei materiali di studio di un ricercatore, l’attacco diretto alla ricerca storica, l’intromissione indebita del ministero dell’Interno e della magistratura nel lavoro storiografico, la pretesa di stabilire ciò che uno studioso può scrivere in un libro, il tentativo di recintare col filo spinato gli anni 70, un periodo ancora caldo nonostante il cinquantennio trascorso, rappresenta una inaccettabile invasione di campo.
Un episodio che è stato denunciato purtroppo solo da un gruppo di studiosi e addetti ai lavori (leggi qui) ma che ha visto la reazione pavida e indifferente del grosso dell’accademia, convinta forse che in fondo la questione restasse confinata solo alla mia persona per il mio passato militante che come tale cristallizza la vita intera, congela ogni percorso, toglie qualsiasi futuro.
Eppure tutti quelli che hanno girato la testa dovrebbero ricordare che chi sequestra il passato prende in ostaggio anche il futuro, ogni futuro persino il loro ammesso che ne abbiano mai immaginato uno.

La decisione finale spetta al Gip

Spetta ora al gip Valerio Savio pronunciarsi sulla richiesta di archiviazione. Lo stesso gip che già in passato aveva anticipato l’esito dell’indagine sottolineando come mancasse «una formulata incolpazione anche provvisoria» e non si capisse quale fosse la condotta illecita contestata che – scriveva – «ancora non c’è e addirittura potrebbe non esserci mai». Il giudice dovrà decidere anche sulla sorte della copia forense di tutto il materiale digitale sequestrato e tuttora non si capisce bene se nelle mani della procura o della stessa polizia di prevenzione.

Arresto dell’ex Br Bertulazzi, la Cassazione argentina censura il presidente Milei

L’affaccio di Meloni accanto a Milei dal balcone della Casa rosada

Con una decisione dai contenuti durissimi la corte di Cassazione argentina ha censurato l’operato del governo Milei che aveva arbitrariamente revocato lo statuto di rifugiato politico a Leonardo Bertulazzi, l’ex Br della colonna genovese riparato da quattro decenni in America Latina e da 20 anni residente a Buenos Aires.
I giudici hanno annullato con rinvio le precedenti decisioni delle corti di prima istanza che avevano rigettato la richiesta di scarcerazione avanzata dai suoi legali. Bertulazzi è attualmente già ai domiciliari dopo aver trascorso le prime settimane in carcere.
L’equivalente della nostra corte d’appello dovrà quindi nuovamente pronunciarsi nei prossimi giorni sulla sua scarcerazione tenendo conto delle indicazioni vincolanti espresse dalla Cassazione. La liberazione di Bertulazzi è dunque rimandata anche se i media italiani, telegiornali in testa, hanno dato ieri la notizia inesatta della sua scarcerazione.

Un arresto arbitrario e una revoca illegittima
I magistrati di Cassazione hanno definito «arbitraria», la decisione del governo Milei di revocare lo status di rifugiato politico riconosciuto a Bertulazzi nel 2004, spiegando che la protezione non può essere revocata prima che sia concluso l’iter amministrativo che dovrà decidere sulla sua validità. La procedura di revoca infatti è regolata da un iter giuridico che prevede un ricorso e una decisione finale che non può essere anticipata da un atto unilaterale del governo. Sulla detenzione di Bertulazzi i giudici dell’alta corte hanno sottolineato come non sia mai esistito alcun pericolo di fuga: Bertulazzi vive da 20 anni a Buenos Aires, ha una casa, ha sempre lavorato, ha radici profonde nella società argentina. Le precedenti argomentazioni delle corti che hanno rifiutato la scarcerazione sono state etichettate come «dogmatiche».
I giudici di Cassazione hanno duramente stigmatizzato il comportamento del governo del presidente Milei rimettendo la vicenda su dei correti binari di giudizio fondati sulle regole del diritto interno e non sui voleri politici revanscisti dell’attuale governo ultrareazionario di Milei, che poco prima dell’arresto di Bertulazzi aveva annunciato di voler riaprire tutti i processi contro gli ex Montoneros, guerriglieri avversari della dittatura militare argentina di cui MIlei si rivendica erede.
Questa decisione positiva per Bertulazzi tuttavia è solo un primo step, la procedura amministrativa sulla conferma o revoca dello status di rifugiato è ancora in corso mentre un’altra corte sta ultimando la fase istruttoria prima di valutare la richiesta di estradizione, fotocopia di quelle passate, rilanciata recentemente dall’Italia.
Certo è che le parole della Cassazione avranno un peso sul seguito di questa vicenda.