Consociativismo e think tank, il potere all’ombra di Enrico Letta

Enrico Letta, classe 1966, nonostante ciò considerato un giovane nella politica italiana, è nipote di Gianni Letta, il braccio destro di Berlusconi, il suo plenipotenziario. Cattolico, nutrito di cultura imprenditoriale, da sempre vicino al mondo confindustriale, vice presidente di Aspen istitute Italia dal 2003 (sorto in Colorado nel 1950 ha la sua sede centrale a Washington ed è finanziato dalla Carnegie Corporation, la Rockefeller Brothers Fund e la Ford Foundation), è membro del club Bilderberg assieme allo zio Gianni e fa parte della stessa Commissione Trilaterale. Insomma non si è fatto mancare nulla: uomo di relazioni, la sua agenda è ben fornita. Collocato da tempo in tutti i posti che contano, quelle necessarie camere di compensazione situate nelle retrovie dove le élites occidentali si incontrano riservatamente, anticipano strategie, elaborano accordi, creano un tessuto di relazioni e conoscienze dirette necessario alla gestione delle politiche, le governances, del capitalismo attuale. Enrico Letta ha l’aria di uno di quelli che ci stava già da piccolo, tanto si muove a suo agio in questo mondo felpato.
Ma c’è qualcosa di più che forse bisogna conoscere per capire meglio alcuni dei passaggi politici realizzati in questi ultimi giorni da questo grande tessitore della tela consociativa italiana, di quel «consociatvismo bipolare» come le definisce Mauro Fotia nel suo, Il consociativismo infinito, Dedalo edizioni 2011 (un testo che andrebbe riletto alla luce di quanto è accaduto dal varo del «governo dei tecnici» guidato da Mario Monti alla nascita di questo esecutivo di «grande coalizione»).
Enrico Letta è anche l’ispiratore di un think tank bipartisan, “veDrò”, una specie di laboratorio per le elités, «nato – così recita la homepage del sito – per riflettere sulle declinazioni future dell’Italia e delineare scenari provocatori, ma possibili, per il nostro Paese. Sulla scena dal 2005, la nostra è una rete di scambio di conoscenza formata da più di 4.000 persone: professori universitari, imprenditori, scienziati, liberi professionisti, politici, artisti, giornalisti, scrittori, registi, esponenti dell’associazionismo».
Leggete questi due interressanti articoli che seguono, sono illuminanti.


VeDrò, il potere all’ombra di Enrico Letta

di Stefano Feltri
Il Fatto Quotidiano, 28 Agosto 2012

LettaEnrico Letta ha soprattutto una funzione rassicurante: se il centrosinistra dovesse vincere le elezioni, legge elettorale permettendo, un pezzo del capitalismo italiano avrebbe qualcuno con cui parlare. Qualcuno che non propone patrimoniali e che non parla solo di cassintegrati e sindacati, tipo Stefano Fassina, il responsabile economico del partito. La convention estiva di Letta, VeDrò (che si svolge appunto a Dro, a Trento) è sempre un’anticamera dell’anno economico-politico che si riapre a settembre dopo le vacanze. Qui, tra un cocktail a bordo lago (di Garda) e un pranzo veloce nel prato della ex centrale elettrica di Fies, si è costruito parte del progetto di Matteo Renzi, sempre qui Corrado Passera, due anni fa, ha mosso i primi passi verso il governo. Finanza, comunicazione e politica si incontrano in questo salotto estivo (lobby, corrente, festa dell’unità fighetta, le definizioni che circolano sono molte) per tenere i rapporti con il centrosinistra, Letta è padrone di casa discreto, garante di quel clima trasversale rappresentato dalla coppia di “vedroidi” più fotografata, Nunzia De Girolamo (Pdl) e Francesco Boccia (Pd).
Tema di quest’anno sono i supereroi americani, con l’idea che servono superpoteri per salvare l’Italia e l’Europa. “Se sono super è anche merito dei miei partner”, esulta un Superman su una scheda fornita ai partecipanti (sul petto ha le virgolette simbolo di VeDrò). I partner sono poi gli sponsor, quelli che finanziano l’iniziativa, pagata anche dalle quote degli iscritti, da 150 a 300 euro più l’albergo. I tre “partner” principali sono Eni, Enel e Telecom. Come usa nei grandi raduni italiani, pagare una fiche garantisce in cambio visibilità sul palco dell’evento. Lo scorso anno Paolo Scaroni, capo dell’Eni, si era prodotto in un monologo.
Quest’anno tocca a Fulvio Conti, amministratore delegato dell’Enel da poco diventato anche uno degli esponenti più forti della nuova giunta di Confindustria, di cui dirige il centro studi. L’intervista sentimentale è condotta da Antonello Piroso, l’ex direttore del Tg La7 che nel 2011 a VeDrò discuteva con Fedele Confalonieri di musica classica. Conti celebra la propria parabola di self made man, da “cascherino” (garzone del fornaio) a top manager. E soltanto da un palco come quello di VeDrò si possono dire cose tipo “quello di Fukushima non è stato un incidente nucleare in senso stretto” (vero, c’è stato lo tsunami, prima) e “il nucleare non è una disgrazia” senza rischiare fischi. Visti i tempi, Conti coglie l’occasione per ricordare un paio di volte come le decisioni importanti le ha spesso discusse con “Pier Luigi” (che sarebbe Bersani, aspirante premier).
L’Enel è ovunque a VeDrò: Conti sul palco, le macchine elettriche nel parcheggio, uno stand ben visibile nel cortile, funzionari di vario grado nei gruppi di lavoro in cui si suddividono i “vedroidi” nel pomeriggio. Poi c’è Telecom Italia, il presidente Franco Bernabè è al suo debutto a VeDrò, nel suo monologo non parla di telefoni e banda larga ma di innovazione, dice tra l’altro che più che i cambiamenti tecnologici servono quelli organizzativi, “a Telecom se usassimo tutto il potenziale della tecnologia a disposizione dovremmo ridurre drammaticamente il personale impiegatizio”. Brividini di piacere tra i liberisti in platea. Il potere economico vedroide è soprattutto pubblico e parapubblico, con tutte le zone grigie intermedie, per cui è facile trovare un anno qualcuno in una grossa azienda, l’anno dopo al ministero, quello successivo magari in proprio come consulente. Ma c’è anche tanta finanza, ci sono venture capitalist che nelle pause caffè discutono di potenziali investimenti. C’è una folta colonia londinese di banchieri, di cui ha fatto parte a lungo anche Ivan Scalfarotto (vicepresidente del Pd), pure lui vedroide. Sono banchieri democratici, nel senso che da Londra seguono il Pd (più Matteo Renzi che Letta, a dire il vero). E a sancire questa rilevanza finanziaria, ieri, doveva esserci un grande dibattito tra i capi italiani delle tre principali agenzie di rating. Si è presentato soltanto Alessandro Settepani, di Fitch, intervistato da un altro storico vedroide Oscar Giannino. Settempani però non si sbilancia troppo sui destini dell’Italia: “L’ultima volta che ho fatto una dichiarazione mi è arrivato un avviso di garanzia”, dice ricordando l’inchiesta della Procura di Trani sulle comunicazioni dei rating sull’Italia.
Il potere economico vedroide non pare troppo preoccupato dalla fine dell’esperienza tecnica di Mario Monti. E neppure particolarmente inquieto sugli scenari futuri. Perché, in fondo, il senso di VeDrò è anche questo: assicurare ai partecipanti che, chiunque vinca, ci sarà sempre una rete trasversale di conoscenze e rapporti a garantire il business as usual.


Riparte VeDrò il think tank di Enrico Letta per raccontarci il leader del futuro

di Celestina Dominelli
Il Sole 24 Ore,  28 agosto 2010

Altrove, all’ombra dei palazzi della politica, il tema della leadership del centrosinistra e di come costruire un’alternativa convincente a Silvio Berlusconi sta conoscendo svariate declinazioni. E così i partiti dell’opposizione discettano a ogni pie’ sospinto di alleanze e primarie , di «un nuovo Ulivo» e di leggi elettorali . Ma c’è anche chi, molti chilometri più a Nord, nella centrale idroelettrica Fies di Dro (Trento), sul nodo delicatissimo del leader del futuro ha costruito una quattro giorni di lavoro intensivo. Un metodo diverso, per cominciare, che è ormai l’architrave rodata di VeDrò-L’Italia del futuro, il think thank bipartisan promosso da Enrico Letta e Giulia Bongiorno e presieduto da Benedetta Rizzo, e giunto quest’anno alla sua sesta edizione. Una scelta, quella di delinerare il percorso del leader del futuro, nata prima del dibattito delle ultime settimane. «In un sistema bipolare come il nostro il tema della leadership – spiega il vicesegretario del Pd, Enrico Letta – è diventato rilevante per l’opinione pubblica, poi l’attualità ha fatto il resto trasformandolo in un argomento caldissimo». Ma a suggerire la strada è stata soprattutto la crisi economica che, aggiunge Letta, «ha accresciuto il bisogno di leadership convincenti». Che il pensatoio bipartisan intende costruire con un dettagliatissimo percorso: 17 working group cui spetterà il compito di mettere a fuoco tutte le caratteristiche del futuro leader, dagli strumenti di comunicazione al programma, dalla personalità al rapporto con il territorio. Insomma, una road map accuratissima tenuta insieme da un fil rouge che è un po’ il motore di tutto il progetto: l’assenza di modelli rigidi di confronto e la libertà totale di espressione. Che Benedetta Rizzo, compagna d’avventura di Letta e presidente del think thank, sintetizza così. «A VeDrò tutti coloro che siedono attorno al tavolo hanno lo stesso diritto di parola». E dietro quel “tutti” c’è un panel molto ricco che racconta l’altra chiave del successo dell’appuntamento: il “taglio generazionale” (i partecipanti sono nati a partire dagli anni ’60) e la trasversalità politica, religiosa e culturale di chi arriverà in questo angolo di Trentino. Dall’amministratore delegato del Gruppo Intesa-San Paolo, Corrado Passera, a esponenti politici di entrambi gli schieramenti (i presidenti di Regione, Renata Polverini e Vito De Filippo, i sindaci di Firenze e Verona, il viceministro Adolfo Urso, ma anche molti parlamentari), da firme prestigiose del giornalismo a imprenditori (Anna Maria Artoni, Luisa Todini, Ivan Lo Bello) e a magistrati (Raffaele Cantone, Nicola Gratteri,Stefano Dambruoso). Tutti a discutere di come dovrà essere il leader del 2020. Per arrivare, attraverso i working group, a un identikit completo. Che sarà messo a confronto con i risultati del Rapporto VeDrò 2010, dal titolo assai suggestivo: “Italiano sarà lei. Gli italiani e la leadership». Così al lavoro prospettico dei gruppi si affiancherà la ricerca su un campione di cittadini che fornirà di nuovo l’aggancio con l’attualità. Ma di Pd e di alleanze qui non si parla. E Letta si prepara alla full immersion. «Quest’anno saremo in 600 – racconta – e abbiamo dovuto rimandare indietro molta gente. Quando partimmo eravamo la metà». Quel “quando” riporta indietro la lancetta al 2005 e a un Letta “folgorato” sulla via dell’Aspen Institute in Colorado. «Rimasi colpito dalle modalità del confronto e dall’informalità e tornando in Italia ho pensato a qualcosa che avesse lo stesso taglio». Così Dro, provincia di Trento, ha strizzato l’occhio agli States.

Approfondimenti
Consociativismo

Sotto la toga, niente. Orazione in morte del giustizialismo di sinistra

La messa è finta, andate in pace…

Su questo blog avevamo anticipato la fine più che meritata della sinistra giustizialista, almeno quella più oltranzista. Dismessa la questione sociale a vantaggio di quella penale, abbandonato addirittura nome e simbolo, la falce e martello, (che furono al centro della scissione di pochi anni fa con i vendoliani), per dare vita ad una coalizione d’apparati sempre più rachitici, totalmente subordinata all’ala più irriducibile del partito dei giudici, questo ceto politico residuale formatosi nel decennio novanta ha realizzato la propria definitiva eutanasia.
Non è male tutto quel che finisce male. Un dannoso equivoco, quello della represione emancipatrice, ha trovato finalmente soluzione.
L’eclissi di Di Pietro e le sue dimissioni dall’Idv (l’Antonio da Montenero di Bisaccia mostra di avere un senso politico molto più acuto dei suoi ex commilitoni rimasti aggrappati alle poltrone di partiti senza seguaci e militanti), la fuga repentina di Luigi De Magistris l’arancione (detto “Gigino a manetta”) e di Leoluca Orlando, l’ex retino nemico del giudice Falcone che Leonardo Sciascia bollò come «professionista dell’antimafia», il drastico ridimensionamento della Lega che ha perso più della metà dei sui voti, non permettono ancora di dire se il giustizialismo tout court  sia un ricordo del passato. Pd e Pdl, seppur esangui dopo l’emeorragia di voti persi (10 milioni dal 2008, 4 per il Pd e 6 per il Pdl), sono sempre lì con le loro schiere di magistrati e una politica penale che non rimette in discussione nulla delle passate stagioni.
Non è ben chiara la fisionomia dell’armata brancaleone grillina. Il loro populismo ha connotati chiaramente legalitari, con richiami cittadinisti, il comico genovese ha più volte fatto delle sparate inquietanti, chiaramente reazionarie. Siamo di fronte ad un neo-ceto politico nella stragrande maggioranza dei casi privo di cultura politica (i neoleletti a partire dal prossimo 4 marzo verranno resettati in un centro convegni alle porte della Capitale. Lezioni intensive di diritto costituzionale condotte da una squadra di docenti della Luiss Guido Carli di Roma – sic!).
Per questo dichiarare la fine del giustizialismo ci sembra abbastanza prematuro, tuttavia è evidente come sia mutata la fase, il trend giustizialista è in netto declino, i 5 stelle hanno raccolto più di 8 milioni di voti diventando in assoluto la prima forza politica del Paese senza imbarcare magistrati anche se uno dei loro cavalli di battaglia è stato il divieto di candidare persone con precedenti penali. Qualcuno ha scritto che si tratta di un populismo sterilizzato; personalmente ho dei forti dubbi anche se il richiamo al valore escatologico dell’azione penale è meno evidente, sostituito da un’idea un po’ bislacca di democrazia diretta, di trasversalità che ha il sapore più del newage che di una rivoluzione democratica dal basso. Vedremo.
In Val di Susa i 5 stelle hanno raccolto una valanga di voti, quasi sempre oltre il 40% con il picco di Exilles dove hanno ottenuto addirittura il 53,1%. Il 23 marzo alla marcia No Tav da Susa a Bussoleno è prevista la partecipazione dei 163 parlamentari grillini. A questo punto l’azione legislativa in favore della chiusura dei cantieri Tav in valle deve essere accompagnata anche da un intervento a tutela di tutti coloro che in questi hanno hanno manifestato subendo una durissima repressione poliziesca e giudiziaria. Il sostegno a queste lotte non può dunque prescindere da una inizativa che imponga un’amnistia-indulto generale per le lotte sociali, contro la persecuzione della manifestazioni pubbliche, tutelando la resistenza messa in pratica nelle piazze italiane.
Sarà una modo per metterli alla prova.

Per l’intanto gustatevi questa bellissima e inesorabile orazione funebre di Guido Viale. Amen!

Guido Viale
il manifesto, 27 Febbraio 2013

20130225-210427

Il flop di Rivoluzione civile non era scontato, ma largamente prevedibile. Quella lista era stata promossa da tre ex pm che portavano in dote uno (Antonio Ingroia), una sacrosanta polemica con il presidente della Repubblica e un’inchiesta contrastata sulla trattativa Stato-mafia, ma che era solo all’inizio, o era stata interrotta precocemente (mancava sicuramente, in quell’indagine, lo scambio tra l’arresto di Riina e la «messa in salvo» del suo archivio, consegnato indenne a Provenzano.
E il ruolo in tutto ciò del procuratore Caselli (oggi grande fustigatore dei NoTav); l’altro (Luigi De Magistris) portava in dote una strepitosa vittoria alle comunali di Napoli, che però comincia a far acqua di fronte ai lasciti catastrofici delle precedenti amministrazioni (è la stessa situazione in cui si trova Pizzarotti: non si possono affrontare a livello locale burocrazia, patto di stabilità, debiti pregressi, banche e altro ancora, senza mobilitazioni di respiro nazionale); quanto al terzo (Antonio Di Pietro), ecco una lunga militanza a favore del massacro dei manifestanti del G8 di Genova, del Tav Torino-Lione, della legge obiettivo, della Tem e delle altre autostrade lombarde, di una serie di malversazioni nei finanziamenti pubblici al suo partito e l’elezione di tre parlamentari (De Gregorio, Scilipoti e Razzi), raccattati tra la feccia del paese per regalarli a Berlusconi.
A queste tre toghe se ne è poi aggiunta un’altra: quella dell’avvocato Li Gotti, già segretario del Movimento sociale di Catanzaro, che si era impegnato a fondo, come patrono delle vittime della strage di Piazza Fontana, a proteggere fascisti e servizi dagli indizi che li inchiodavano, perseverando nell’accusare Valpreda e, soprattutto (visto che stiamo parlando di mafia), a proteggere gli assassini di Mauro Rostagno e i mandanti mafiosi di un omicidio che ricorda da vicino quello di Peppino Impastato, sostenendo e gridando ai quattro venti che a uccidere Mauro erano stati i suoi ex compagni di Lotta Continua per «farlo tacere» sull’omicidio Calabresi.
Era difficile, in queste condizioni, concorrere con Sel, Pd e Grillo; o convincere i milioni di elettori delusi che non si sentono più cittadini di questa Repubblica che «l’alternativa» era questa.
Ma andando a frugare sotto quelle quattro toghe, lo spettacolo è ancora più deprimente: quattro dinosauri, segretari di altrettanti partiti senza più elettori, si sono impossessati di quella lista piazzando se stessi, i loro funzionari e i loro notabili (alcuni dei quali francamente impresentabili, tra cui un noto affarista, un difensore della tortura di stato e un fautore dei condoni edilizi) nelle teste di lista di almeno tre regioni per ciascuno: un «catenaccio» che peggiora ancora le già perfide regole del «porcellum», garantendo con dimissioni mirate, nel caso che la lista avesse superato lo sbarramento, l’ingresso in parlamento dei candidati designati. Il tutto «edulcorato» con l’inserimento in lista di alcuni (pochi e infelici) «rappresentanti della società civile», scelti, beninteso, da lorsignori, avendo ben cura di scartare le candidature indicate, anche con maggioranze schiaccianti, dalle assemblee di cambiaresipuò. In questo meccanismo è rimasto tra l’altro schiacciato anche Vittorio Agnoletto, indicato, quasi a furor di Prc, candidato di cambiaresipuò a Milano; proprio mentre il partito che lo appoggiava trattava a Roma il modo per farlo fuori.
Nessuno dei partiti che l’hanno fatta da padroni nella lista di Rivoluzione Civile (Verdi, Prc, Pdci, Idv) avrebbe mai avuto la forza di presentarsi da solo alle elezioni; e i risultati lo confermano (andate a vedere quelli dell’Idv, che in Lombardia si è presentata da sola!) Ma nemmeno la possibilità di promuovere una riedizione del fallimentare «arcobaleno» se il terreno non fosse stato spianato dalle assemblee di cambiaresipuò. Che quei quattro partiti sono riusciti a usare «come un taxi» (senza nemmeno pagare la corsa) per farsi portare non in parlamento, dove non sono arrivati, ma solo a una presentazione temporaneamente – e solo temporaneamente – unitaria, nascosti sotto le toghe di quei tre ex pm.
Certamente anche cambiaresipuò porta la responsabilità di quest’esito: è nata troppo tardi; si è fatta stroncare dall’anticipo delle elezioni; è stata ingenua; non ha avuto una vera direzione politica capace di contrastare per tempo assalti e trappole tese da chi la aspettava al varco. In questo gioco un ruolo decisivo lo ha avuto De Magistris, vero «cavallo di Troia» per introdurre in cambiaresipuò prima Ingroia e poi i quattro partiti che ne hanno preso il controllo per scaricarla. Però lo scopo di quei partiti nascostisi sotto le toghe dei pm era la mera sopravvivenza: presidiare un’area sterile e striminzita di voti «di sinistra», che certo molti di loro immaginavano, sbagliando, più consistente. Non certo offrire un’alternativa a milioni di elettori disgustati dalle forze politiche al comando del paese.
Avevano un programma raffazzonato riprendendo i punti fondamentali di cambiaresipuò, perché i dieci punti proposti inizialmente da Ingroia erano drammaticamente inadeguati (ma d’altronde, i programmi, chi li legge?). I candidati erano già stati selezionati in barba alle 100 e più assemblee tenute da cambiaresipuò. Quanto alla tattica, solo i risultati catastrofici proteggono la lista dall’accusa di aver provocato il flop di Pd e Sel con una campagna condotta tutta contro di loro, invece che per qualcosa di diverso.
Ora, senza parlamentari e senza finanziamento pubblico, quei quattro partiti sono condannati all’estinzione (Di Pietro avrà ancora denaro pubblico per un anno: vedremo che cosa ne farà, dopo aver sostenuto le spese della candidatura di Ingroia). Ma – e lo chiedo alle centinaia di militanti di quei partiti impegnati, a volte fino allo spasimo, nel sostegno di lotte, movimenti e iniziative civiche – si può combattere per obiettivi così miseri? Non ci stiamo battendo tutti quanti, ciascuno a modo suo, per qualcosa di più e di meglio?
Si è persa l’occasione per offrire a milioni di elettori una opzione diversa: non il tentativo di portare in parlamento uno sparuto drappello di oppositori, pronti a disperdersi ciascuno per la propria strada (magari anche quella di Scilipoti) non appena eletti; ma la possibilità di usare la campagna elettorale per una vera battaglia politica: per un’altra Europa, un’altra economia, un altro regime del lavoro, un’altra istruzione, un’altra cultura. Non un programma di governo (magari non avremmo preso, anche in quel caso, nemmeno i voti necessari per «condizionare» il nuovo governo), ma sicuramente un punto di riferimento per raccogliere una spinta che la mancanza di prospettive ha risospinto nel voto al Pd, o a Grillo, o nell’astensione; comunque nella rabbia e nella frustrazione.
[…]
Il successo del movimento 5 stelle è la riprova del grande bisogno di novità e delle grandi aspettative di un cambiamento reale che ci sono in questo paese. Una situazione che negli ultimi due mesi molti di noi hanno potuto verificare anche nella delusione e nel ripiegamento provocati dal sequestro e dall’affondamento di cambiaresipuò, reazioni che hanno riguardato una cerchia di persone impegnate in lotte, movimenti, iniziative civiche, progetti culturali, che vanno ben oltre la cerchia di chi aveva partecipato in vario modo alle assemblee. […].

Per farla finita con la sinistra giudiziaria 2/fine

Dagli ingraiani agli ingroiani, l’ultimo stadio della sinistra terminale

Il quadro politico attuale vede sulla scena due destre. Una berlusconiana e l’altra montiana. La seconda è sicuramente quella più intransigente e pericolosa. Dura, padronale, arrogante, una sorta di neothatcherismo con il loden addosso. L’altra, quella berlusconiana, leggermente temperata dalla matrice populista del suo leader, un groviglio di interessi autoreferenziali preoccupati solo di non essere travolti, con attorno la destra etnica leghista, indebolita e trincerata nei suoi bastioni lombardo-veneti, e i patetici cespuglietti neo-post-ex-trans fascisti.
C’è poi un centro che ruota attorno al partito democratico, rimasto lontano dalla realizzazione di qualsiasi progetto post-socialdemocratico ma piuttosto vicino ad una vecchia idea democristiana della politica, a quella che fu la sinistra democristiana, un inveramento del ceto politico del compromesso storico.
Ci sono quindi i populisti con il nuovo arcipelago grillino che hanno preso il posto dei dipietristi. Una specie di carnevale dei delusi e dei rancorosi di destra come di sinistra. Rappresentano la vera incognita sia per le dimensioni che potranno raggiungere in Parlamento che per il comportamento politico che terranno. Non sono ancora un ceto politico strutturato, anche se molti di loro provengono dal mondo del professionismo della società civile. Le due cose tuttavia non si equivalgono e bisognerà vedere in che modo reagiranno una volta saliti nelle sale del Palazzo: se si trasformeranno in “mercato della vacche”, in un serbatoio dove comprare voti come è stato per il dipietrismo a vantaggio del berlusconismo, magari questa volta a favore del Pd; oppure se saranno in grado di dare vita ad una fisionomia politica propria, non oscillatoria.
C’è infine la sinistra, o forse sarebbe meglio dire “la fine della sinistra”. Da una parte Sel, che vede l’ipotesi carismatica giocata attorno alla figura di Vendola in netto declino. Persa la scommessa delle primarie nel Pd, dopo l’entrata in gioco di Renzi e lo spostamento a destra della partita politica dentro i democratici, Sel si è ritrovata senza strategia (essendo la scelta governista il suo presupposto) e quindi relegata in una posizione subalterna, da mera ruota di scorta di Bersani. Nessuno crede che possa esercitare una capacità condizionante tale da controbilanciare le pressioni, i ricatti, la forza che metterà in campo il blocco montiano dopo le elezioni. Una forza che non si pesa solo in voti parlamentari.
Dall’altra Rivoluzione civile con il suo porta bandiera Ingroia che ha messo insieme i cocci, la “posa”, i residui dei vari cetini politici “ex parlamentari” e ormai gruppuscolari provenienti dalla dissoluzione del Pci e da alcuni gruppetti dell’estrema sinistra anni 80, sigle vuote come quella dei Verdi, e ciò che resta della ditta in fallimento di Di Pietro. Un rimasuglio in cerca di una poltrona parlamentare che li faccia sopravvivere ancora un po’, prima di maturare definitivamente il diritto alla pensione.

Il giustizialismo è una sorta di mastice ideologico comune a queste formazioni, fatta eccezione per Sel (ma anche lì bisognerebbe vedere quanto è chiara la questione), grosso modo nessuno mette seriamente in discussione questo paradigma. Magari lo interpreta diversamente, con maggiore o minore vigore e furore, con distinzioni varie, con un uso a geometria varabile come avviene per l’area berlusconiana, o con alcuni distinguo e timidi dubbi in certi limitati settori del Pd. Leghisti, ex-post-trans fascisti, grillini e igroiani sono invece tutti apertamente, dichiaratamente e furiosamente, giustizialisti.

Ma in queste elezioni lo sono più di ogni altra formazione quelli di Rivoluzione civile per l’evidente significato simbolico e programmatico rappresentato dalla scelta di avere come candidato premier proprio Antonio Ingroia, senza dover scorerre alcune delle candidature proposte nonché il leitmotiv della campagna.

Il capolinea: giustizialismo malattia senile del ceto politico comunista
Mai come in questa campagna l’identità politica delle formazioni raccolte nella lista di Ingroia è stata incentrata attorno al tema giustizialista: una vera e propria malattia senile dei partitini comunisti.
Come si è arrivati a questo punto?
La crisi terminale della sinistra italiana nasce probabilmente dalla incapacità di ripensare il decennio novanta (che a sua volta mette radici in quel che accadde negli anni 70, e nel modo in cui si conclusero). Eppure l’intera fisionomia di quel che resta della sinistra di oggi nasce da lì, da come il Pci reagì alla caduta del muro cambiando nome e dal quel che accadde subito dopo.
Merita di esser indagata meglio questa strana rimozione perché gli anni novanta hanno forgiato in buona misura l’identità della sinistra attuale, sia nella versione riformista che in quella radicale e persino antagonista.
L’illusione giustizialista ha cullato la sinistra nell’idea che il fenomeno berlusconiano fosse sorto dal mancato compimento della missione purificatrice di Tangentopoli e non sia stato invece una sua diretta conseguenza. Lo tsunami giudiziario, che ha investito il sistema politico-istituzionale nel corso della prima metà degli anni novanta, non ha lavato la politica e ancora meno moralizzato la cosa pubblica. In realtà, travolgendo le figure tradizionali della mediazione istituzionale fuoriuscite dal dopoguerra, ha semplificato le linee di comando, ridotto le zone intermedie, portando a compimento l’instaurazione del meccanismo maggioritario, favorendo così l’accesso diretto alla politica dei nuovi quadri direttamente espressi dal mercato, dalla società commerciale, dalle aziende, per non parlare dei nepotismi e degli harem. La selezione è peggiorata in negativo anche a seguito della scomparsa di quei grandi contenitori che erano i partiti di massa, dove si esercitava una grammatica politica.
La  rivoluzione conservatrice avviata negli anni ottanta ha raggiunto tutti i suoi obiettivi e il partito impresa ha trovato la strada spianata verso la sua ascesa al governo. A questo risultato hanno contribuito l’ideologia della repressione emancipatrice, il mito dell’azione penale, la teoria dell’interferenza, divenuta patrimonio di larghi settori della magistratura. Come era prevedibile fin dall’inizio Mani pulite non ha eliminato i meccanismi della corruzione, ha semplicimente liquidato per via giudiziaria una parte del vecchio ceto politico della Prima repubblica la cui attività regolatrice costituiva oramai un intralcio troppo costoso rispetto ai nuovi parametri della competitività internazionale. La sua funzione è stata eminentemente politica, un vero capolavoro: realizzare un Termidoro evitando la presa della Bastiglia. Reazione preventiva ad una rivoluzione mai avvenuta.
Così il giudiziario, da strumento di tutela reciproca tra classi dominanti, si è trasformato per un certo periodo in luogo di conflitto anche tra élites, ricorrendo a pratiche tradizionalmente riservate alle sole classi pericolose o ai nemici interni.
Lentamente l’oppio giudiziario ha contaminato buona parte delle culture presenti nella sinistra, mutandone profondamente l’universo simbolico, insieme a quello dei movimenti, ed ai vari repertori che giustificavano l’azione collettiva.
 Tutto ciò è sembrato essere anche una diretta conseguenza della crisi delle grandi narrazioni rivoluzionarie che descrivevano cammini di liberazione. L’ambizioso progetto che un tempo animava i propositi di cambiare il mondo è reclinato verso la modesta pretesa di giudicarlo. Alla costruzione d’ideali carichi di prospettive e speranze si è opposto il culto della vendetta e la furiosa libidine dell’azione penale. L’ideologia giudiziaria è apparsa come una risposta al disincanto di un mondo ormai percepito come decaduto e corrotto.
La politica ha mutato attori, tecniche e contenuto. Cacciata dai posti di lavoro, emarginata dalle piazze, sottratta agli stessi emicicli, è passata prima nelle corbeilles e poi nelle procure, mentre chi un tempo occupava le strade ha cominciato a sedersi sui banchi della parte civile e chi ha continuato a farlo ha finito per vestire i panni della nuova icona del male, il black bloc, il terrorista urbano.
Il ricorso sfrenato alle scorciatoie giudiziarie ha cristallizzato umori forcaioli e reazionari. L’abbassamento generale del livello di garanzie giuridiche ha portato unicamente pregiudizio alle classi più deboli che da sempre hanno minori mezzi e strumenti di difesa, riempiendo le carceri e contribuendo ad edificare una legislazione sempre più minacciosa.
La fonte della legittimità proviene dalla legalità o dal suffragio, sono arrivati a chiedersi alcuni pasdaran della soluzione penale come Flores D’arcais (su MicroMega). Il risultato è stato il lungo ventennio Berlusconiano e poi lo stato d’eccezione tecnocratico di Monti.

Senza un radicale mutamento di paradigma politico che si liberi una volta per tutte dell’ideologia giudiziaria e penale non si riuscirà a ricostruire nulla, anche la ripresa di eventuali temi di classe avrebbe le ali piombate.

Sullo stesso tema
Per farla finita con l’ideologia giustizialista 1/continua

Per farla finita con l’ideologia giustizialista e legalitaria 1/continua

di Paolo Persichetti

La crisi in cui versano le società occidentali non nasce da un deficit di legalità ma da una vertiginosa caduta della loro legittimità. La convinzione diffusa che la retorica della legalità possa invertire questa crisi e salvare la società è quindi un diversivo, una vecchia illusione che si protrae da almeno 20 anni, quando iniziò “Mani pulite”.
La retorica della legalità, forgiata inizialmente dal Pci, travasata poi nelle varie sigle successive, Pds-Ds e Pd, rimessa in discussione in modo assolutamente confuso e timido solo negli ultimi tempi, che ha visto nascere nel frattempo una solida corrente populista di tipo giustizialista dalle caratteristiche ampiamente trasversali (presente a destra come a sinistra) ed oggi, dopo la crisi dell’Idv di Di Pietro, ereditata dai grillini del M5 stelle e da Rivoluzione civile, la lista dei cocci capeggiata dal pubblico ministero Ingroia, è soltanto parte del problema non certo la sua soluzione.

In un breve articolo apparso su Repubblica del 16 febbraio scorso (pagina 29), Giorgio Agamben prendendo spunto dalla vicenda delle dimissioni di papa Ratzinger dal seggio di Pietro ha sottolineato l’indebita confusione che viene ormai operata tra legalità e legittimità, «due principi essenziali che la nostra tradizione etico-politica ha sempre distinto nettamente», ma di cui oggi le nostre società – spiega ancora il filosofo – sembrano aver perso ogni consapevolezza della loro differenza.

«Se la crisi che la nostra società sta attraversando è così profonda e grave, è perché essa non mette in questione soltanto la legalità delle istituzioni, ma anche la loro legittimità; non soltanto, come si ripete troppo spesso, le regole e le modalità dell’esercizio del potere, ma il principio stesso che lo fonda e legittima.

I poteri e le istituzioni non sono oggi delegittimati, perché sono caduti nell’illegalità: è vero piuttosto il contrario, e cioè che l’illegalità è così diffusa e generalizzata, perché i poteri hanno smarrito ogni coscienza della loro legittimità. Per questo è vano credere di potere affrontare la crisi delle nostre società attraverso l’azione – certamente necessaria – del potere giudiziario: una crisi che investe la legittimità, non può essere risolta soltanto sul piano del diritto.

L’ipertrofia del diritto, che pretende di legiferare su tutto, tradisce anzi, attraverso un eccesso di legalità formale, la perdita di ogni legittimità sostanziale. Il tentativo della modernità di far coincidere legalità e legittimità, cercando di assicurare attraverso il diritto positivo la legittimità di un potere, è, come risulta dall’inarrestabile processo di decadenza in cui sono entrate le nostre istituzioni democratiche, del tutto insufficiente. Le istituzioni di una società restano vive solo se entrambi i principi (che, nella nostra tradizione, hanno anche ricevuto il nome di diritto naturale e diritto positivo, di potere spirituale e potere temporale) restano presenti e agiscono in essa senza mai pretendere di coincidere».

Qualcosa di analogo era stata accennata all’inizio dell’estate passata un altro filosofo, Roberto Esposito (Repubblica del 4 giugno), in una recenzione che sviluppando una critica serrata dell’attuale tendenza della filosofia a concentrarsi sul tema dei valori metteva l’accento sulla genealogia del normativismo legalitario, La prevalenza dell’etica. Perché i filosofi non possono fare solo la morale.

Esposito notava come «dopo una fase in cui il compito del pensiero è apparso quello di decostruire i valori consolidati, ponendo un interrogativo critico sulla loro vigenza, oggi la filosofia torna a riproporli in prima persona, parlando direttamente il linguaggio della morale». Accade così che il dover essere del pensiero normativo ha scalzato ogni approccio critico ed analitico della realtà e della storia. Ovviamente ciò non vale solo per la filosofia che essendo un riflesso di quanto accade nella società non può non tradurre in teoria, in vera e propria ideologia, in questo caso in forma di filosofie normative, le trasformazioni che hanno investito il modo di agire umano, le sue pratiche sociali e politiche.

L’attenuarsi della capacità riflessiva, al di là delle genuine intenzioni mosse dalla voglia di riscatto, che hanno trovato espressione nella “ideologia dell’indignazione” verso i diffusi comportamenti «nutriti da un cinismo diffuso, da un minimalismo etico», ha fatto del pensiero una sorta di filo spinato che circonda la realtà spingendo, realtà e pensiero, verso il baratro del conformismo e della omologazione. Se il pensiero è normativo, la politica diventa inevitabilmente disciplinare, un approdo che conduce alla tirannia dei valori, a forme di Stato etico, ad un legalitarismo claustrofobico.

Il valore non è mai oggettivo, bensì solo soggettivamente riferito alla realtà, spiegava Carl Schmitt (La tirannia dei valori, presentato in Italia da Adelphi con una prefazione di Franco Volpi, 2008). «Il valore non è, ma vale» e ciò che vale «aspira apertamente a essere posto in atto». I valori assumono per definizione una natura “agonistica”, ma la loro logica polemica protende ad un assoluto che non può riassumersi nel conflitto ma nella crociata, la vocazione dei valori è imperialistica e sopraffattrice: «Ogni riguardo nei confronti del nemico viene a cadere, anzi diventa un non-valore non appena la battaglia contro il nemico diventa una battaglia per i valori supremi. Il non-valore non gode di alcun diritto di fronte al valore, e quando si tratta di imporre il valore supremo nessun prezzo è troppo alto. Sulla scena perciò restano solo l’annientatore e l’annientato».

La filosofia contemporanea – obiettava con passione Esposito – non può sottostare passivamente a questa tirannia e rinunciare alla propria anima analitica e critica. Obiezione che vale a maggior ragione per le pratiche politiche e sociali, tanto più se intenzionate a lavorare per la trasformazione dell’esistente. «I valori – suggerisce ancora Esposito – vanno messi in rapporto con i tre ambiti della storia, della vita e del conflitto».[…]
«è necessario portare a coscienza il fatto che essi [i valori ndr] non soltanto non sono eterni, ma si intrecciano inestricabilmente con le pratiche umane in una forma che non consente di assolutizzarli. Come è noto, molte delle peggiori nefandezze politiche, vicine e lontane, sono state consumate in nome del bene, della verità, del coraggio.
Il problema è di sapere cosa, quale groviglio di egoismi e di risentimenti, si nascondeva dietro queste gloriose parole. Il significato della genealogia – come quella attivata da Nietzsche e, dopo di lui, da Foucault, sta nella consapevolezze che ciò che si presenta come primo, o come ultimo, ha dentro di sé i segni del tempo, le cicatrici delle lotte, le intermittenze della memoria. Nulla è più opaco, impuro, bastardo delle origini da cui proveniamo. Il genealogista buca la crosta dell’evidenza, scopre tracce nascoste, solleva i ponti gettati dagli uomini per coprire i buchi della falsa coscienza. Come ben argomenta Massimo Donà in Filosofia degli errori. Le forme dell’inciampo (Bompiani 2012), senza una pratica consapevole degli errori, una analitica degli ostacoli, non vi sarebbe filosofia.
[…]
Se la filosofia perde il nesso con la contraddizione che è parte di noi, smarrisce il senso più intenso dell’esperienza».

Che cosa vogliono dirci questi due importanti autori? Che se vogliamo veramente cambiare le cose dobbiamo sbarazzarci una volta per tutte dei continui richiami alla legalità, rimandare a casa i magistrati che si candidano in politica, disattivare le teorie dell’azione penale che propugnano l’interferenza, ovvero l’uso politico dell’attività giudiziaria, la supplenza giudiziaria della politica, per tornare a interrogare i fondamenti della società attuale, ovvero la legittimità del sistema politico, economico e sociale, perché non tutto ciò che è legale è giusto e non tutto ciò che è giusto è legale.

E’ rimettendo in discussione la legittimità del sistema che si può ripartire. L’ideologia della legalità, come si è ben visto in tutti questi anni, ha avuto soltanto una funzione conservativa. Abbiamo bisogno di interrogativi radicali, di una critica senza remore che rimetta al centro l’autodeterminazione e l’autogoverno, oltre al diritto di resistenza nei conflitti sociali e la legittimità di pratiche che prefigurano livelli più avanzati di democrazia. C’è bisogno di una nuova legittimità che fondi una società nuova non di una legalità che preservi ciò che è vecchio.

Per approfondire
Basta con la tirannia dei valori che ispira l’ideologia legalitaria bisogna tornare all’esercizio radicale della critica
Arriva il partito della legalità
Oggi l’ideologia della società civile è il nuovo embrione dello Stato etico
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Il populismo penale

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Archeologia dell’ignoranza. Se Roberto Saviano ignora Michel Foucault

«Quanto più uno è ignorante, tanto più è audace e pronto a scrivere»

Baruch Spinoza

 di Paolo Persichetti

Domanda: Saviano ha mai letto qualche pagina di Michel Foucault?
Nelle note biografiche si legge che è laureato in filosofia. Ciò lascia supporre che almeno qualche paginetta di antologia sull’autore in questione dovrà pure averla sfogliata prima degli esami in facoltà. A quanto pare non è così. Dopo aver letto la lunga denuncia-querela che nel gennaio di due anni fa pensò di scagliarmi contro, magari con la speranza nemmeno tanto recondita che mi venisse revocata la semilibertà, si ricava la netta sensazione che di Foucault egli non abbia la benché minima cognizione. Zero assoluto. Perché dico questo? Lo vedremo tra poco.

In una intervista uscita su Panorama del 22 dicembre 2009, Saviano aveva fatto un’ammissione coraggiosa, e certamente rivelatrice, riconoscendo un debito culturale verso alcuni importanti autori della tradizione reazionaria. «Come scrittore – spiegò in quella circostanza – mi sono formato su molti autori riconosciuti della cultura tradizionale e conservatrice, Ernst Jünger, Ezra Pound, Louis Ferdinand Celine, Carl Schmitt. E non mi sogno di rinnegarlo, anzi. Leggo spesso persino Julius Evola, che mi avrebbe considerato un inferiore».
Intendiamoci subito, non è mica uno scandalo leggere la letteratura di destra. Personalmente ritengo che uno di questi autori, mi riferisco a Carl Schmitt, pur partendo da una lucida posizione reazionaria abbia coniato dei concetti la cui portata operativa contiene una formidabile potenza cognitiva che esula di gran lunga i confini culturali e politici della sua riflessione. Spesso e volentieri al pensiero dell’umanità è stata più utile la narrazione disincantata del realismo reazionario che l’apologetica dei buoni sentimenti delle anime belle. Ma questo è un altro discorso. A noi qui interessa, se tale è il debito culturale dichiarato (non le letture che possono essere molte altre), la cifra interpretativa del pantheon ideologico di Saviano. Infatti non fu certo un caso se Pierangelo Buttafuoco si gettò su quelle confesioni per sottolinerare, alcuni mesi dopo su Libero (qui), che l’autore di Gomorra era, in realtà, l’icona perfetta dell’immaginario superomista, della politica come potenza, un vero divulgatore di valori e codici di destra. «E’ roba nostra – sosteneva con forza – non regaliamolo alla sinistra. E’ un patriota, un cazzuto, uno che sa tenere una pistola in pugno, uno che sa sbrigarsela al modo dell’uomo vero». Più tardi, distratti come sempre, anche altri commentatori situati su sponde terziste o benpensanti, da Pg Battista (qui) a Michele Serra (qui), riconobbero questa indiscutibile matrice di destra nel discorso tenuto da Saviano.
Non stupisce dunque che Foucault abbia trovato poco spazio in un pensare così intriso di postulati d’ordine, ispirato da paradigmi autoritari e purificatori che si declinano inevitabilmente col verbo legalitario e securitario. Incuriosice semmai che un autore del genere, legato per giunta alla propria origine ebraica, sia così irresistibilmente calamitato dal mondo della criminalità organizzata e dalla letteratura antisemita, quasi fosse soggiocato dal fascino oscuro e demoniaco del male, attratto da ciò che egli designa come il suo contrario ma rispetto alla quale lascia trasparire una seduzione inconfessabile.

Che cosa è un dispositivo?
Torniamo ora al questito iniziale. Perché mi sono chiesto se Saviano conosca Foucault? Perché uno dei concetti foucaultiani più noti, quello di «dispositivo», è stato al centro della querela promossa nei miei confronti. Solo che né Saviano, né tantomeno il suo legale, l’avvocato Antonio Nobile di Caserta (a cui Saviano con una procura speciale ha concesso tutti i poteri di legge per essere rappresentato davanti alla giustizia nella tutela della sua immagine e onorabilità), hanno mostrato di capirlo, direi ancor più, di saperlo.
L’autore di Gomorra si era sentito offesso e diffamato dalla definizione di «dispositivo» che avevo usato nei suoi confronti (senza tanta originalità ma riprendendo il discorso fatto da Alessandro Dal Lago nel suo Eroi di carta, qui) e che chiosava uno dei miei articoli querelati, nel quale raccontavo la vicenda della diffida che il centro Peppino Impastato, insieme ai sui familiari, aveva rivolto ad Einaudi perché desse luogo alla correzione di alcune pagine del libro di Saviano, La parola contro la camorra. Di seguito il passaggio incriminato e qui l’integrale.

Saviano non è nuovo ad operazioni del genere. Quando non abbevera i suoi testi alle fonti investigative da mostra di evidenti limiti informativi. In un’altra occasione aveva anche raccontato di una telefonata ricevuta dalla madre di Impastato, «che abbiamo verificato non essere mai avvenuta» ha spiega Umberto Santino. Quest’ultimo episodio ripropone nuovamente gli interrogativi sul ruolo di amministratore della memoria dell’antimafia che a Saviano è stato attribuito da potenti gruppi editoriali. L’inquietante livello di osmosi raggiunto con gli apparati inquirenti e d’investigazione, che l’hanno trasformato in una sorta di divulgatore ufficiale delle procure antimafia e di alcuni corpi di polizia, dovrebbe sollevare domande sulla sua funzione intellettuale e sulla sua reale capacità d’indipendenza critica. Saviano oramai è un brand, un marchio, una sorta di macchina mediatica in mano ad alcuni apparati. L’uomo Saviano sembra divenuto una marionetta, un replicante. Quest’ultima omissione non appare affatto innocente ma la diretta conseguenza di una diversa concezione dell’antimafia risolutamente opposta all’antimafia sociale di Peppino Impastato. La verità sul suo assassinio venne a lungo tenuta nascosta anche grazie al depistaggio di carabinieri e magistratura. Un passato che con tutta evidenza il dispositivo Saviano non può più raccontare.

Ora, secondo l’avvocato Nobile il significato di dispositivo si può agevolmente desumere «Senza scomodare i dizionari della lingua italiana dalla mera lettura di quanto riportato dalla definizione dal sito internet Wikipedia, appunto alla voce “dispositivo”». Dunque niente Treccani, niente Devoto Oli, nessuna traccia dei, forse troppo noiosi e difficili, dizionari politico-fisosofici.
E cosa scopre il principe del foro casertano su Wikipedia?

Secondo le più comuni definizioni, un dispositivo è «un congegno, un apparecchio che svolge una determinata funzione; una macchina, o parte di una macchina». L’occulto manovratore di questo «congegno», di questa «macchina» – prosegue l’avvocato – sarebbe da individuarsi negli «apparati» cui Persichetti fa cenno en passant, senza dilungarsi sulla giustificazione, o quanto meno sulla spiegazione per i comuni lettori, di tale criptica affermazione. Che oltre ad essere sibillina è evidentemente lesiva della reputazione e dell’onore di Roberto Saviano, che non è una macchina, né un congegno, né un «brand», né un «dispositivo», né una «marionetta». Come non è diritto di cronaca o di critica quello esercitato da Paolo Persichetti, che altro non vuole – e non fa – che vomitare il proprio odio ossessivo ed ossessionato nei confronti di un soggetto, del quale non si preoccupa minimamente di commentare, criticare, stigmatizzare le azioni, ma rispetto al quale esprime un “verdetto”.

Quindi nelle parole del legale di Saviano il dispositivo sarebbe una sentenza, la parte tecnica, quella che riporta la condanna. Così infatti scrive:

Un “dispositivo” – per usare le sue parole – cui, però, non seguirà alcuna motivazione; una vera e propria condanna inappellabile; come inappellabile fu la condanna a morte che dovette subire il generale dell’Aeronautica Licio Giorgieri, assassinato il 20 marzo 1987 da un commando terroristico; in relazione a tale efferato delitto – con sentenza divenuta irrevocabile – Paolo Persichetti è stato condannato a ventidue anni e sei mesi di reclusione (attualmente, l’editorialista di “Liberazione” risulta scontare il residuo della pena in regime di semilibertà).

Ovviamente nel ricordare processo e condanna l’avvocato Nobile dimostra poca conoscenza del fascicolo, ignora le alterne sentenze che lo caratterizzarono. Insomma al pari del suo cliente dimostra di parlare di cose che non conosce.

Una querela incentrata sul tipo d’autore
Se il dispositivo a cui mi riferivo è con tutta evidenza un’altra cosa, rivelatrice è invece l’interpretazione fornita dall’avvocato Nobile per conto di Saviano. Una lettura stravolta tutta protesa alla ricerca di un effetto di suggestione che tenta di costruire un parallelo tra le vicende giudiziarie che hanno riguardato la mia storia passata e il lavoro giornalistico attuale. Un nesso tuttora giustificato – sostiene il querelante – dalla pratica di «aggressione» e ricorso alla «violenza», seppur eufemizzata attraverso la scrittura.
Siamo in presenza di un utilizzo spregiudicato del diversivo tipologico, impiegato come una clava per svilire e criminalizzare il lavoro giornalistico, l’esercizio della libertà di critica e la serietà metodologica del lavoro svolto:

«sembra di sentire l’eco di un giornalismo aggressivo, figlio di un’epoca fortunatamente chiusasi, ma i cui strascichi ancora avvelenano il presente. L’epoca nella quale molti – “nemici di classe” – trovarono la morte, per mano di coloro i quali (qualcuno [chi?] li definirebbe “vittime della storia”) ritennero la via della violenza maestra del cambiamento della società. E così, dalle colonne di “Liberazione” Persichetti aggredisce Saviano […] Per lui lo scrittore è: «amminitratore della memoria dell’antimafìa», potere asseritamene attribuitogli da: «potenti gruppi editoriali»; «divulgatore ufficiale delle procure antimafia e di alcuni corpi di polizia»; per questo, si suppone, Persichetti mette in guardia i propri lettori: «sulla sua (di Saviano, ndr) reale capacità di indipendenza critica».
E’ consequenziale che l’articolista affermi che: «Saviano è oramai un brand, un marchio, una sorta di macchina mediatica in mano ad alcuni apparati» e che: «L’uomo Saviano sembra divenuto una marionetta, un replicante», per concludere “in bellezza” con la “definizione finale”, secondo la quale egli sarebbe un «dispositivo».
Va dato atto al Persichetti dell’utilizzo di parole in grado di comumcare precisamente il contenuto delle proprie idee, per quanto bislacche e deliranti esse possano essere giudicate dai lettori».

Il dispositivo secondo Foucault (estratto dalla memoria difensiva dell’avvocato Francesco Romeo)

In realtà, la critica mossa da Persichetti attinge ad un livello più sofisticato (che all’evidenza non viene colto, ne compreso dal denunciante). Il “dispositivo” da lui citato si richiama all’elaborazione dei filosofi Michel Foucault, Gilles Deleuze e Giorgio Agamben. In Sorvegliare e punire (Einaudi, Torino 1976 e numerose edizioni successive), Foucault definisce il “dispositivo” come l’insieme di tecniche sociali con cui si crea una relazione tra potere e soggetti: per esempio il carcere moderno è un “dispositivo” discreto che subentra alle punizioni spettacolari e pubbliche della società antecedente la Rivoluzione francese. Giorgio Agamben, in Che cos’è un dispositivo (Nottetempo, Roma 2006) e Gilles Deleuze (Che cos’è un dispositivo, Cronopio, Napoli 2007) estendono il concetto alle tecnologie informali con cui, nella nostra società, i media costruiscono l’identità dei soggetti. Diversamente dalla vecchia nozione di “manipolazione”, il concetto di dispositivo rappresenta il ruolo che alcune mitologie mediali svolgono influenzando il pubblico. In questo senso, Roberto Saviano – inteso come figura pubblica di romanziere-combattente anticamorra-opinionista-showman idolatrato dai media, rappresenta un vero e proprio “dispositivo” di influenza, volta per volta mito “mediale”, “esempio”, “eroe” ecc. Proprio questa funzione di “dispositivo” di Roberto Saviano è stata oggetto di analisi sociologica da parte del Prof. Alessandro Dal Lago nel volume Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee, Manifestolibri, Roma 2010.Dunque, solo una critica legittima e, colta, su quello che Roberto Saviano, al di la della sua persona, rappresenta nel panorama culturale italiano di questo periodo.

Aggiungo solo un’ultima cosa, correndo anche il rischio di nobilitare eccessivamente quello che viene definito un autorevole erede del romanzo d’appendice campano di cui fu caposcuola Francesco Mastriani: la funzione intellettuale svolta da Saviano (attraverso il dispositivo di cui sopra) ricorda la categoria degli imprenditori morali, il prototipo dei creatori di norme, come codificato dal sociologo Howard S. Becker in Outsiders, che in proposito scrisse: «Opera con un’etica assoluta: ciò che vede è veramente e totalmente malvagio senza nessuna riserva e qualsiasi mezzo per eliminarlo è giustificato. Il crociato è fervente e virtuoso, e spesso si considera più giusto e virtuoso degli altri».

Ps: Chi tra di voi ha stima di Saviano, se lo incontra gli regali un libro di Foucault. Compirà un’opera di bene evitandogli altre brutte figure in futuro.

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Disavventure – Si mette male per il paladino dei giustizialisti. Di seguito l’ottimo articolo di Filippo Facci sull’archiviazione della querela che Roberto Saviano aveva presentato contro due miei articoli apparsi nell’ottobre e nel novembre 2010 su Liberazione.
Da sottolineare la scelta sublime dell’avverbio “pure” nel titolo proposto da Libero che sembra inverare la parabola cristiana degli ultimi che saranno i primi

A processo contro Saviano pure il brigatista ha ragione

Filippo Facci
Libero 24 gennaio 2013

269269_420426621370450_406642157_nLe celebrità dovrebbero andarci pianissimo con le querele, perché rischiano l’accusa di lesa maestà anche quando hanno ragione. Figurarsi se la ragione non ce l’hanno, come nel caso che andiamo a raccontare e che riguarda un querelante di nome Roberto Saviano. Figurarsi, poi, se il giornalista querelato (e assolto) si chiama Paolo Persichetti, ex brigatista latitante in Francia, condannato a 22 anni per l’omicidio del generale Licio Giorgieri e ora in regime di semi-libertà: un personaggio, insomma, che per ottenere ragione da un giudice potrebbe faticare più di altri.
Ma vediamo il caso. Persichetti, su Liberazione, nel 2010 scrisse due articoli. Il primo riguardava i contenuti del libro di Saviano «La parola contro la camorra» e, soprattutto, la disputa che ne seguì con il Centro Peppino Impastato. La polemica in effetti ci fu: il Centro rivendicava un ruolo nella riapertura del caso di Giuseppe Impastato – ucciso dalla mafia a Cinisi nel 1978 – dopo che Saviano, nel libro, aveva attribuito ogni merito al film «I cento passi» di Marco Tullio Giordana senza il quale, parole sue, la vicenda sarebbe rimasta «una storia minore confinata nelle pieghe degli anni Settanta». Il Centro non veniva neppure menzionato. Tornando all’articolo: Persichetti oltretutto forniva la ricostruzione di una presunta telefonata tra Saviano e Felicia Impastato (madre di Giuseppe) e giungeva a sostenere che la conversazione non era mai esistita: e citava, come fonti, due parenti della madre (che nel frattempo è morta, e non può confermare o smentire) ma anche Umberto Santino, direttore del Centro Impastato: «Ma lui, Saviano, non ha avuto il coraggio di querelarlo», dice ora Persichetti, «perché ha preferito rivolgere i suoi strali contro il direttore di Liberazione e me, ritenendomi forse l’anello più debole e delegittimato della catena».
Forse lo status di un brigatista condannato per assassinio, in effetti, potrebbe sembrare inferiore a quello di un mostro sacro dell’antimafia. Sta di fatto che la cosa non impedì a Persichetti, nei suoi articoli, di metterla giù molto dura: «Quando Saviano non abbevera i suoi testi alle fonti investigative», scriveva, «dà mostra di evidenti limiti informativi». La critica si faceva più stringente nel concentrarsi sul «ruolo di amministratore della memoria dell’antimafia che a Saviano è stato attribuito da potenti gruppi editoriali», qualcosa che l’ha trasformato in «un brand, un marchio, una sorta di macchina mediatica». Il contrario dell’antimafia «sociale» promossa da Giuseppe Impastato, la cui vera storia «venne a lungo tenuta nascosta anche grazie al depistaggio dei carabinieri e della magistratura. Un passato che Saviano non può raccontare».
Diciamo che non le mandò a dire, Persichetti. Non bastasse, nel secondo articolo se la prese con l’impostazione autocelebrativa dello scrittore nel programma «Vieni via con me» andato in onda sui Raitre nel novembre 2010. La sua prestazione veniva definita «imbarazzante» a margine di una «memoria selettiva e arrangiata», di «pochezza culturale», di «un monologo melenso di trenta minuti, senza contraddittorio, privo di senso del ritmo… accompagnato solo da uno smisurato e pretenzioso egocentrismo». Poi l’accusa forse più sanguinosa: l’essere Saviano «un derivato speculare dell’era berlusconiana». 

Da qui la querela. L’avvocato di Saviano la depositava il 12 gennaio 2011 ai danni di Persichetti e del suo direttore Dino Greco, personaggi che non avrebbero fatto altro che «vomitare il proprio odio ossessivo e ossessionato». La querela è lunghissima (30 pagine) e non risparmia il tentativo di buttare nel mucchio anche la condanna a 22 anni che Persichetti sta scontando: le parole del giornalista contro Saviano, infatti, sono definite come «una condanna inappellabile, come inappellabile fu la condanna a morte che dovette subire il generale Giorgieri». Parole come proiettili, come si dice. Dulcis in fundo, le critiche di Persichetti parevano al legale «senza alcuna finalità di pubblico interesse».
Il 6 luglio 2012, tuttavia, il pm Francesco Minìsci non era dello stesso avviso: e chiedeva l’archiviazione. La notizia di reato a suo dire era «infondata» proprio perché ricorreva l’interesse pubblico del caso. E forse proprio per ravvivarlo, il caso, ecco che Saviano il 15 gennaio scorso compariva in aula a Roma: la presenza fisica, in questi casi, riveste sempre una giusta considerazione. La sua testimonianza ha un che di grave: «Intendo qui difendere la memoria della signora Impastato che ebbe con me una conversazione telefonica (negata nell’articolo querelato)… nella quale mi esprimeva la sua solidarietà… Negare l’esistenza della telefonata non costituisce una critica, ma un attacco teso a minare il mio stesso impegno sociale e civile».
Lunedì scorso, tuttavia, il gip Barbara Càllari si è presa il rischio di minare l’impegno sociale e civile di Saviano: ed ha archiviato. Il giudice ha fatto propri i rilievi mossi nella richiesta di archiviazione anche a proposito della presunta telefonata: «Nessun intento diffamatorio può essere attribuito a Persichetti, che si è limitato a fornire una diversa ricostruzione della vicenda, basata su fonti attendibili… Ricorre senza dubbio l’obiettivo interesse pubblico delle questioni sollevate… Malgrado il tono dei due articoli sia a tratti aspro… le valutazioni dell’autore attengono a circostanze precise e ben definite».
E una querela è andata. Resta in ballo, per ora, la causa civile che Roberto Saviano ha promosso ai danni di Marta Herling, nipote di Benedetto Croce e segretario dell’Istituto Italiano di Studi storici: lo scrittore ha chiesto un risarcimento di quasi cinque milioni di euro (a lei e a Marco Demarco, direttore del Corriere del Mezzogiorno) per via delle contestazioni ricevute dopo la sua ricostruzione del salvataggio di Benedetto Croce durante il terremoto di Casamicciola. Questione, siamo certi, al centro dei vostri pensieri.


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Il 13 luglio la cassazione dovrà dirci se le merci contano più delle persone

Se la gestione dell’ordine pubblico condotta durante il G8 del luglio 2001 è quella riconosciuta appena una settimana fa dalla quinta sezione penale della corte di cassazione, allora vuol dire che esiste un nesso molto forte con il verdetto che un’altra sezione della cassazione dovrà pronunciare il prossimo 13 luglio.
I giudici sono chiamati a decidere sulla pertinenza del reato di “devastazione e saccheggio” contestato nei confronti di dieci manifestanti condannati a pene molto pesanti per un totale di quasi 100 anni di reclusione.
Dagli atti processuali emerge come la contestazione di questo reato sia stata il  frutto di una scelta politica fatta a tavolino dai vertici dell’ordine pubblico. Quegli stessi vertici condannati e rimossi pochi giorni fa dagli incarichi di direzione investigativa più importati del Viminale per il ruolo svolto nella catena di comando che portò all’assalto e al massacro dentro la Diaz e alla successiva attività di falsificazione delle prove nel tentativo di depistare e coprire le brutali violenze commesse.
All’indomani dei fatti di Genova il capo della Polizia diede incarico a tre prefetti di condurre un’inchiesta amministrativa sul comportamento delle forze di polizia. Da questa ricostruzione si venne a sapere che Francesco Gratteri, allora capo dello Sco, su incarico diretto dello stesso De Gennaro dalla mattina del 21 luglio smise di occuparsi della sicurezza dentro la zona rossa per seguire in prima persona ciò che accadeva all’esterno. Le nuove direttive erano molto chiare: «bisognava fare più arresti, si chiedeva un cambio di passo, una maggiore incisività nella gestione della piazza». In fondo il giorno prima c’era stato solo un morto. Evidentemente non bastava, dalla politica giungevano altre pressioni.
Ricevuto il nuovo mandato, Gratteri mette subito in campo una strategia molto più aggressiva: fin dal mattino dirige personalmente la perquisizione nella scuola Paul Klee, dove vengono effettuati 23 arresti. «Si tratta di un episodio fondamentale per comprendere l’esito successivo degli eventi», spiega l’avvocato Francesco Romeo. E’ la prova generale del dispositivo che verrà impiegato in serata con la famigerata irruzione nelle scuole Diaz e Pascoli. «Le persone fermate alla Paul Klee vengono arrestate utilizzando lo stesso schema di accusa che sarà poi impiegato per la Diaz: ovvero associazione a delinquere finalizzata alla devastazione saccheggio». A dimostrazione che fin dal mattino era stato congeniato un modello operativo che prevedeva la contestazione di un capo d’imputazione confezionato ancora prima che alcuni degli episodi contestati dovessero accadere. Altre contestazioni – come fu per le molotov e le armi improprie rinvenute alla Diaz – vennero inventate di sana pianta.

L’indeterminatezza e la geometria variabile del capo d’accusa
Il reato di devastazione e saccheggio è una eredità dal codice Zanardelli. Faceva parte delle imputazioni che attentavano alla sicurezza interna dello Stato, tant’è vero che in un unico articolo erano previste insieme «guerra civile, devastazione, saccheggio e strage». Reato politico per definizione, la sua applicazione richiedeva una violenza politica organizzata sotto il profilo associativo. Con il varo del codice Rocco, “devastazione e saccheggio” perde una parte della sua estensione e politicità. Le condotte incriminate vengono suddivise: alla vecchia “devastazione, saccheggio e strage finalizzati alla sovversione dello Stato”, reato punito con l’ergastolo si affianca il semplice danneggiamento. In mezzo c’è il 419 cp, ovvero la sola “devastazione e il saccheggio”, punita con pene che oscillano da 8 a 15 anni. Si tratta di un reato contro l’ordine pubblico, privo però di una precisa definizione per quanto riguarda l’estensione, l’intensità e la gravità dei fatti incriminati.
Indeterminatezza che contrasta con l’esigenza, prevista dalla costituzione, di indicare condotte «determinate e precise» per ogni reato. «Lo strumento era pronto e predisposto dal regime fascista – spiega sempre l’avvocato Romeo – ma chi lo ha raffinato e reso efficiente ai fini della repressione dei movimenti sociali di piazza è stata certamente la magistratura repubblicana che ha ridotto l’ambito di estensione delle condotte di danneggiamento e di furto per poter ritenere compiuto il reato più grave di devastazione, anche di fronte ad episodi circoscritti sia nel tempo che nello spazio». Tutto ciò in totale contrasto con il significato letterale dei due termini: devastazione vuole dire rendere deserto, distruggere totalmente; saccheggio significa depredazione totale. Per cui si è arrivati al punto di qualificare come atti di devastazione e saccheggio anche leggeri danneggiamenti, vetrine rotte o bancomat danneggiati, allineandosi in questo modo alle direttive europee che fin dal 2001 raccomandavano di introdurre i tradizionali scontri di piazza all’interno di una definizione estensiva dellla nozione di terrorismo.
Questa incertezza ha lasciato ampio spazio alle interpretazioni arbitrarie degli investigatori e della magistratura, come è accaduto per Genova. Tant’è che a parità di comportamenti altri manifestanti coinvolti in scontri, anche più duri, avvenuti in altre zone della città hanno visto derubricata la devastazione a semplice danneggiamento. E’ avvenuto per il corteo delle Tute bianche. Tuttavia lo stesso giudizio non è stato applicato per questi dieci manifestanti. Perché? La brutta sensazione è che si sia utilizzato un metro politico: i buoni da una parte e i cattivi, i soliti Black bloc, dall’altra (anche se alcuni di loro nemmeno vi facevano parte).

Le merci valgono più delle persone?
La Cassazione dovrà dirci anche se ritiene ammissibile un diritto processuale asimmetrico e diseguale. Per esempio tra il trattamento riservato al personale di polizia coinvolto nelle brutali violenze di Bolzaneto, e quello toccato agli imputati di devastazione e saccheggio. Perché i manifestanti che si trovavano nelle vicinanze di una vetrina rotta hanno dovuto rispondere di “compartecipazione psichica” con le violenze commesse contro le cose, mentre il personale di polizia che ha assistito alle sevizie contro i fermati dentro la caserma di Bolzaneto non si è visto contestare nessuna compartecipazione, nonostante il loro status di pubblici ufficiali imponesse l’obbligo di intervenire per interrompere la consumazione di qualsiasi reato?
Alla fine le violenze e le sevizie fisiche e morali esercitate contro le persone, con l’aggravante del loro stato di fermo, derubricate in assenza del reato di tortura a semplici lesioni e abuso di autorità sono cadute in prescrizione mentre il danneggiamento di vetrine, bancomat ed autovetture rubricati come atti di devastazione e saccheggio restano tuttora passibili di condanne che oscillano tra gli 8 e i 15 anni. La cassazione dovra dirci anche questo: se l’integrità delle merci conta più di quella delle persone.

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Ma Gianfranco Fini perché sta zitto? Invece di annoiarci con le sue dichiarazioni sulla necessità di dare vita ad una grande coalizione perché non chiarisce una volta per tutte il ruolo svolto durante il G8 genovese del 2001? In quei giorni l’allora vicepresidente del consiglio si mostrò più interessato alla gestione dell’ordine pubblico, si fa per dire… che all’esito del meeting internazionale. Insieme ad un altro parlamentare del suo partito, il carabiniere Filippo Ascierto, s’era acquartierato nella sala operativa dell’Arma dentro la caserma di san Giuliano, proprio nelle ore fatidiche in cui senza motivo i parà del Tuscania caricavano a freddo uno dei cortei che procedeva lungo il percorso regolarmente autorizzato, ed un altro carabiniere, Mario Placanica, uccideva Carlo Giuliani.
Dopo la sentenza della cassazione della scorsa settimana, che ha confermato la condanna dei vertici della Polizia per il massacro alla Diaz e il successivo tentativo di falsificazione delle prove, un po’ tutti hanno preso parte alla cerimonia delle scuse. Scuse tardive, ipocrite, pronunciate a denti stretti magari pensando esattamente il contrario (cf. i due articoli a firma Giovanni Bianconi apparsi sul Corriere della sera del 6 e 7 luglio 2012), ma comunque formulate come si conviene nella più diplomatica delle ipocrisie.
Il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri e l’attuale capo della Polizia Antonio Manganelli non si sono sottratti alla formula di rito, persino il prefetto De Gennaro, oggi sottosegretario alla presidenza del consiglio ma all’epoca ai vertici della Forza pubblica, ha farfugliato qualcosa evitando accuratamente di pronunciare scusa.
Assordante invece è stato il silenzio della politica: dell’allora ministro dell’Interno Claudio Scajola come dell’attuale presidente della Camera Gianfranco Fini. E a ben vedere qualcosa dovrebbero dire anche quelli del governo precedente, che organizzarono in dettaglio fino ad un mese prima l’evento: da Giuliano Amato e il suo ministro dell’Interno Enzo Bianco che a Napoli, nel marzo precedente, aveva dato vita alla prova generale di quella che sarebbe stata la gestione militare dell’ordine pubblico durante il G8.
Se le Forze di polizia sono colpevoli, come ha sancito in modo definitivo la quinta sezione penale della cassazione, la politica non è innocente.

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Oggi l’ideologia della società civile è il nuovo embrione dello Stato etico

Non può esserci teoria e prassi critica senza una serrato regolamento di conti con le ideologie che si richiamano alla società civile, al cittadinismo, alla teoria de valori, a concezioni penali e legalitarie della politica

Paolo Persichetti
Altri 29 giugno 2012


Da circa tre decenni a questa parte l’impiego nel dibattito pubblico del termine società civile è divenuto sempre più insistente. Tuttavia il richiamo a questo concetto non appare sempre in sintonia con le definizioni che di esso hanno dato filosofi e teorici della politica. Sempre meno strumento concettuale d’analisi e sempre più tema mobilizzatore iscritto a pieno titolo nel repertorio dei nuovi riferimenti ideologici legittimi dell’azione collettiva.

Già, all’inizio degli anni Ottanta, con l’affermarsi dell’ideologia della fine delle ideologie la società civile è stata proposta come il luogo da dove emergevano opzioni innovative, non ideologizzate e depoliticizzate, rispetto al tradizionale sistema dei partiti e delle correnti ideologiche che avevano accompagnato la nascita della Repubblica, e che aveva fatto dire a Togliatti: «i partiti sono la democrazia che si organizza». Erano le prime avvisaglie di quelle forme di populismo che prenderanno l’avvento nel decennio successivo, quando assisteremo al crollo della Prima Repubblica ed alla fine dello scricchiolante sistema dei partiti.

L’emergere della nozione di società civile è un processo della modernità che descrive, anzi sarebbe più corretto dire: riempie, popola, la sfera dello spazio pubblico che viene a formarsi con il recedere progressivo della sfera totalitaria del potere monarchico-feudale che occupava l’intero spazio sociale restante oltre la sfera privata (Habermas).

Il Leviatano era la societas civitas che Hobbes opponeva al primordiale stato di natura; la burgerliche gesellshaft, dove burgerliche sta per borghese nel senso di civile, è la definizione kantiana che riassume società politica e Stato contrapposti allo stato di natura o alla società religiosa.

Dobbiamo ad Hegel, invece, la radicale separazione tra società civile, luogo dell’immediatezza degli interessi di ogni individuo e dell’organizzazione dei bisogni e della vita familiare, e lo Stato momento separato e autonomo. Una contrapposizione insufficiente secondo Marx, che invita a fare la necessaria anatomia della società civile per individuarvi quelle relazioni sociali e quei rapporti economici che animano i molteplici conflitti tra gruppi e classi con finalità per nulla armoniche. Questo perché la società civile non è un organismo compatto ma un conglomerato d’interessi contrapposti, alcuni persino inconciliabili.

Non deve stupire dunque se la natura antinomica di questo concetto, che nel pensiero filosofico-politico – come abbiamo visto – si è dato per contrapposizione, ne ha fatto da sempre una categoria utilizzata a scopi polemici per affermare, ad esempio – come spiegava Norberto Bobbio in una celebre definizione – «che la società civile si muove più rapidamente dello Stato, che lo Stato non è in grado di cogliere tutti i fermenti che provengono dalla società civile, che nella società civile si forma continuamente un processo di delegittimazione che lo Stato non sempre è in grado di arrestare», al punto che «nei momenti di rottura si predica il ritorno alla società civile, come i giusnaturalisti predicavano il ritorno allo stato di natura».

La novità che abbiamo visto emergere a partire dagli anni Novanta non è dunque la presenza, caratteristica perfettamente sistemica, di nuovi movimenti dall’interno della società civile: dal popolo delle partite iva, alle rivolte antifiscali del nord leghista, ai family day, al ceto medio riflessivo di volta in volta raccoltosi nei Girotondi, nei raduni del Palascharp o nel popolo viola, fino al fenomeno delle Cinque stelle; quanto la volontà, espressa con sfumature e forza diverse da ognuna di queste realtà, di parlare a nome di una società civile compatta, anzi di essere la società civile tout court. Una circostanza che permette di dire che con alcuni di questi movimenti nasce un’ideologia propria della società civile. Ideologia che ha trovato una sponda determinante, sia per il rilancio mediatico che per la capacità di metterla in forma e orientarla, nell’azione politico-editoriale del gruppo Repubblica-Espresso che non disdegna di presentarsi come il partito della società civile.

In passato i movimenti politici, ideologici, economici, sociali o categoriali, pur se interpretati come espressione di settori consistenti della società civile non si muovevano in nome di questa. In uno dei momenti in cui è stata più alta la mobilitazione dei gruppi sociali, “movimenti e soggetti” come si definivano negli anni Settanta, quei gruppi avevano ben chiara quale era la geografia delle relazioni sociali, l’asimmetria dei rapporti economici e di dominazione. Ciò gli impediva di parlare a nome di un’ipocrita interclassismo, di una trasversalità che non c’era e non poteva esserci. Per questo rivendicavano percorsi di liberazione, nuovi diritti e conquiste sociali e politiche per i meno forti, i più indifesi e deboli.

Al contrario, chi oggi agita l’ideologia della società civile come richiamo ad una fonte pura e incontaminata, lo fa schermando conflitti e rapporti di dominazione in nome di un interesse comune che non esiste. Questa tendenza, che in genere ha la pretesa di presentarsi come a-ideologica, ha avuto nel tempo declinazioni diverse: nel decennio 90, per esempio, era d’uso corrente il riferimento al “gentismo”, inteso come “la gente”. Oggi invece prevale una sorta di “cittadinismo”, imbevuto di un’ideologia normativa che somma in modo confuso tematiche diverse e di segno opposto: tutela dei territori, in taluni casi accenno ai beni comuni, insieme a posizioni xenofobe e fobiche contro le economie criminali. Il tutto condito da un’“ideologia dell’indignazione” verso il cinismo diffuso e il minimalismo etico messo in mostra dal ceto politico (vedi la polemica anticasta che tende ad addossare ad un ceto politico, ormai spoliato di sovranità reale dalle dinamiche del capitalismo finanziario, tutte le colpe. Un diversivo che non intacca minimamente i gestori del potere reale: imprenditori, banche, corporation, il sistema della finanza globale). Una pulsione ideologica che spinge verso concezioni disciplinari della società animate dalla tirannia dei valori, da forme di Stato etico e legalitarismo claustrofobico che non a caso individuano nella magistratura, ovvero in una delle componenti essenziali dell’apparato statale, una sorta di portavoce, di rappresentante delle proprie istanze purificatrici. Operazione che muove nei due sensi e trova nella compagine giudiziaria settori che teorizzano apertamente questa funzione guida. In questo modo la società civile si fa Stato, una milizia dello Stato.

Se è vero, come spiegava il già citato Bobbio, che la società civile dovrebbe essere «anche tutto ciò su cui non si esercita il potere statale: non-statale come pre-statale (associazioni), anti-statale (nel significato assiologico di gruppi per l’emancipazione del potere politico, contropoteri), post-statale (nel significato insieme assiologico e cronologico di ideale che sorge dalla dissoluzione dello Stato)», il fatto che oggi ogni forma di critica antisistema non sia più percepita da questi nuovi teorici della società civile come una fisiologica produzione interna alla società ma esterna ad essa, non solo quindi extralegem, ma al di fuori addirittura della stessa umanità, per questo bandita fin da subito come terrorista, il richiamo alla società civile in chi lo esercita assume connotati normativi molto chiari e paradossali, in totale contrasto con il significato originario del termine.
In questo modo la società civile viene a coincidere con una sorta di Stato dei cittadini in azione, un embrione dello Stato etico.

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