Sarko-choc: «Via la cittadinanza ai francesi di origine straniera autori di reati»

Dietro l’attacco ai «troppi diritti», portato dal presidente francese, c’è l’intensione di smantellare l’assistenza medica universale

Paolo Persichetti
Liberazione 31 luglio 2010


«La nazionalità francese deve poter essere ritirata a tutte le persone di origine straniera che hanno volontariamente attentato alla vita di un poliziotto o di chiunque altro rappresenti l’autorità pubblica». E’ la proposta choc lanciata ieri da Nicolas Sarkozy durante la cerimonia d’insediamento del nuovo prefetto dell’Isère, incaricato di riportare l’ordine dopo le settimane di violenze urbane che hanno contrapposto giovani della banlieue di Grenoble alle forze dell’ordine. «Non dobbiamo esitare a rivedere le condizioni per ottenere il diritto ad acquisire la cittadinanza francese», ha dichiarato ancora il presidente francese, spiegando che bisogna «avere il coraggio di togliere la nazionalità a quelle persone nate all’estero che abbiano intenzionalmente cercato di uccidere un agente di polizia, un gendarme o qualunque altro rappresentante dell’autorità pubblica». L’inquilino dell’Eliseo ha poi ulteriormente rincarato la dose con un’altra proposta: per i minori nati in Francia da genitori stranieri una volta raggiunti i 18 anni di età l’acquisizione della nazionalità non deve essere più un diritto, qualora questi commettano dei crimini.
Accompagnato dalla ministra della Giustizia Alliot-Marie e dal responsabile dell’Interno Hortefeux (condannato pochi mesi fa per aver pronunciato frasi razziste contro un militante d’origine araba del suo stesso partito), Sarkozy ha nuovamente sfoderato la retorica sicuritaria. Nomadi e giovani delle periferie sono diventati così i capri espiatori dopo lo scandalo suscitato dall’inchiesta giudiziaria sui finanziamenti illegali che il candidato presidenziale avrebbe ricevuto durante la campagna elettorale dalla vedova Bettencourt, la ricca ereditiera della L’Oréal nota per le sue simpatie fasciste. Per risalire la china Sarkozy sta ripescando tutti gli argomenti contro la delinquenza che gli erano valsi la vittoria nelle presidenziali del 2007. Discorsi muscolari e annunci roboanti per invocare il pugno di ferro contro le periferie, gli stranieri, le popolazioni nomadi. La questione sociale, l’irrisolto disagio delle periferie, la disoccupazione (per gli stranieri non comunitari siamo ad un tasso del 24%, cioè il doppio della media nazionale), il fallimento dell’integrazione, l’esplosione degli identarismi comunitari, si riassumono in un’unica dimensione criminale, un fatto d’ordine pubblico, un problema che chiama in causa solo l’intervento delle forze di polizia. Non a caso a riportare l’ordine a La Villeneuve, quartiere sensibile della periferia di Grenoble teatro di una sommossa, è stato chiamato il prefetto Eric Le Douaron, una lunga carriera nella polizia fino a divenire nel 1999 direttore generale della pubblica sicurezza. Sotto la sua gestione entrò in funzione la nuova figura del “poliziotto di quartiere”. Il presidente ha infine concluso il suo discorso attaccando i «troppi diritti» conferiti alle persone straniere in situazione irregolare, auspicando la revisione delle prestazioni a cui hanno accesso. In poche parole Sarkozy mira a smantellare l’assistenza medica universale e magari, perché no, anche le mense per poveri.

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Francia, riesplode la banlieue. Guerriglia urbana a Grenoble
Francia, crociata del governo contro Gitani e Sinti

Francia, crociata del governo contro Gitani e Sinti. Con il placet Ue

Sarko (ri)mostra i muscoli. Presto chiusi 300 campi Rom

Paolo Persichetti
Liberazione 30 luglio 2010


In Francia le uniche Gitanes ammesse saranno d’ora in poi soltanto le sigarette. Non ha detto proprio così il presidente della repubblica Sarkozy, ma il senso delle severe misure repressive decise dal consiglio dei ministri riunitosi mercoledì scorso non si discosta molto da questa radicale soluzione. Niente più nomadi Rom e Sinti in situazione irregolare. Il governo francese intende smantellare più della metà dei 300 campi considerati illegali installati nel Paese dalle Gens du voyage, come vengono chiamati da quelle parti. Il ministro degli Interni, Brice Hortefeux, ha annunciato che le autorità procederanno parallelamente alla espulsione con ricondotta «quasi immediata» in Romania e Bulgaria dei nomadi che avrebbero commesso azioni contro l’ordine pubblico. Una volta tanto gli Zingari si ritrovano messi all’indice non per essere sospettati di aver commesso furti e ruberie, oppure per aver messo in piedi un sistema organizzato di accattonaggio insieme a traffici vari o, peggio ancora, come narrano inossidabili leggende metropolitane, per aver «rubato bambini». No, stavolta contro i nomadi ricade un’accusa che ha l’odore sulfureo della perdizione politica, qualcosa che ormai per le culture statuali rasenta l’anticamera del terrorismo. I Rom sono colpevoli di essersi ribellati. Nella notte tra il 17 e il 18 luglio scorso hanno dato vita ad una sommossa nel villaggio di Saint-Aignan, 3500 anime perdute nelle campagne del Loir-et-Cher, dipartimento situato nel centro della Francia. La dinamica dei fatti è identica alla gran parte delle altre rivolte che si sono svolte negli ultimi decenni nelle banlieues delle maggiori metropoli francesi.
Prima l’aria diventa satura di rabbia. La comunità gitana sente montare sulle proprie spalle un clima di stigmatizzazione che si traduce in atteggiamenti sempre più oppressivi e vessatori da parte delle forze dell’ordine a cui le autorità hanno dato briglia sciolta. Quindi c’è l’innesco che provoca l’esplosione della rivolta. In genere un episodio cruento in cui sono coinvolte le forze di polizia, come fu per Clichy sous-bois dove trovarono la morte Zyed e Bouna, due adolescenti di 15 e 17 anni fulminati da una scarica elettrica partita da una centralina dietro la quale si erano riparati per sfuggire alle mani di alcuni poliziotti che li rincorrevano soltanto perché erano in strada. Un classico è l’intoppo ad un posto di blocco, come è accaduto ancora una volta poche settimane fa a Grenoble. In questi casi la versione dei fatti fornita dalle autorità e quella riportata dalle popolazioni locali appaiono ogni volta diametralmente opposte. In quest’ultima vicenda la gendarmeria riferisce un tentativo di sfondamento di un posto di blocco che avrebbe messo a rischio la vita dei militari, i quali avrebbero così sparato per legittima difesa uccidendo uno dei passeggeri. Il giovane deceduto apparteneva alla comunità nomade del posto, si chiamava Luigi e aveva solo 22 anni. Ovviamente chi era al suo fianco a bordo di una sgangherata R19 con 300mila chilometri nel motore, il cugino Miguel Duquenet consegnatosi più tardi alle autorità, ha riportato una versione completamente diversa, denunciando addirittura una esecuzione a freddo della gendarmeria, con modalità da vero e proprio «agguato». L’episodio ha scatenato una rivolta senza precedenti. Due caserme della gendarmeria prese d’assalto a colpi d’ascia e barre di ferro da una cinquantina di nomadi infuriati, alberi sradicati, vetture incendiate, semafori e arredo urbano distrutto, una panetteria saccheggiata. Notevoli i danni materiali ma nessun ferito da registrare. Inammissibile per il governo. Se anche i nomadi hanno imparato a ribellarsi la situazione diventa davvero pericolosa. E allora cacciamoli tutti, anche se vivono in Francia da decenni. Da qui il via allo smantellamento dei campi improvvisati «entro i prossimi tre mesi», come ha spiegato il ministro degli Interni. Una decisione avallata dalla Commissione europea che ieri, attraverso la portavoce della commissaria alla Giustizia e ai diritti, Viviane Reding, ha sottolineato come «le leggi europee sulla libera circolazione danno il diritto agli Stati membri di controllare il territorio e lottare contro la criminalità». La soluzione è semplice, basta criminalizzare l’intera comunità.

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Sarko-choc, “Via la cittadinanza ai francesi di origine straniera autori di reati”
Francia, riesplode la banlieue. Guerriglia urbana a Grenoble

Brescia, le gant cache-misère

Politiques ségrégationnistes en Italie du Nord

par Lynda Dematteo

En Italie du Nord, les transports publics focalisent les tensions, car ce sont des lieux de promiscuité sociale. Lors de mes nombreux séjours en Lombardie, il m’est arrivé d’être prise à partie par des voyageurs impatientés par l’incivilité des étrangers. Les Italiens qui en ont les moyens ont depuis longtemps cessé de fréquenter les transports collectifs, leur préférant de loin la voiture ou le scooter. La détérioration matérielle des wagons, des rames et des bus n’y est pas non plus étrangère. Ils sont parfois tellement sales qu’on se demande où s’asseoir et d’appuyer la tête sur les reposoir prévu à cet effet. Le réseau des transports publics de Lombardie, l’une des régions les plus riche d’Europe de l’Ouest, s’apparente ainsi aux moyens de transport des pays pauvres. Le gant prophylactique cache en réalité la misère des transports publics italiens. Attendre un bus, monter dans un tram, prendre un train de banlieue ne font plus partie des habitudes de nombreux Lombards. Cela serait déchoir socialement. En effet, leurs usagers sont, pour l’essentiel, les plus fragiles socialement: les retraités, les jeunes travailleurs étrangers et les étudiants dont les parents n’ont pas les moyens de leur offrir une vespa. De ce point de vue, la capitale de la mode va plutôt à l’encontre de la tendance, car cette réalité n’est pas sans poser des problèmes d’ordre environnemental: l’Italie du Nord est aujourd’hui l’espace qui concentre le plus grand nombre d’automobiles au monde (en moyenne trois moyens de locomotion par foyers). La voiture est un bien de consommation surinvesti socialement, un véritable status symbol comme les Italiens le disent eux-mêmes, et ils n’hésitent pas à s’endetter pour acheter des Suv et des berlines station wagon dont la consommation d’hydrocarbure est très élevée. Lorsque l’on jouit chaque jour de l’extension et la capillarité du réseau parisien, il est difficile d’imaginer la réalité du réseau de la capitale économique italienne. Le réseau du métro est insuffisant (trois lignes), même s’il est en partie compensé par l’ancien réseau des tramways. Les vieux trams, très étroits, avec leurs bancs lustrés par l’usage et le temps, sont un symbole identitaire fort pour les milanais. Ce réseau est perçu comme un héritage austro-hongrois dans la mesure où ce moyen de transport collectif s’est surtout développé et perpétué dans les villes d’Europe centrale. Les trains de banlieue ne sont pas suffisamment nombreux et leurs horaires sont souvent aléatoires. Les travailleurs qui chaque jour passent plusieurs heures dans les transports sont perpétuellement au bord de la crise de nerfs et ne cessent d’alerter, en vain, les représentants des collectivités territoriales. La cohérence du réseau des transports publics à l’échelle de la Région ne semble pas faire l’objet d’études. On préfère élargir les autoroutes qui enserrent Milan. Malgré cela, les engorgements sont constants. En cas, d’intempéries, les cadres préfèrent réserver des chambres dans les hôtels qui bordent les artères ; ils savent que ce soir, le mauvais temps les empêchera de regagner leurs foyers dans les provinces environnantes. Demain, ils repartiront directement au bureau. Les plus malins, se sont déjà équipés de lit de camp et dormiront sur place. Les élus de la Ligue du Nord exploite la grogne sans vraiment chercher de solutions. Récemment, le député Matteo Salvini de la Ligue du Nord a proposé à l’Atm de réserver des places aux milanais sur les transports publics du réseau urbain. Selon lui, «qui prend le bus, le métro ou le tram, préfèrerait souvent se trouver ailleurs compte tenu de la mauvaise éducation, de l’arrogance et de la violence à laquelle il doit faire face tous les jours à cause surtout des étrangers et des clandestins». Il propose même de réserver des rames pour les femmes italiennes et étrangères qui ont renoncé à prendre les transports en commun à cause des attouchements qu’elles y subiraient (7mai 2009, Sky tv 24). Les mesures ségrégationnistes avancées par cet élu de la Ligue du Nord évoquent un racisme que l’on pensait pourtant définitivement révolus depuis l’abolition de l’apartheid en Afrique du Sud. Le corps humain est un symbole de la société comme nous l’enseigne l’anthropologue britannique Mary Douglas dans son ouvrage classique De la souillure, “la saleté est attribuée aux étrangers qui s’attaquent aux points faibles de la structure” (p.131)

Razzismo a Brescia, distribuiti guanti ai passeggeri che salgono sul bus dei migranti

L’iniziativa proposta da un’agenzia pubblicitaria e promossa dal Comune. «Utile contro i rischi di contagio»

Paolo Persichetti
Liberazione 6 luglio 2010

E’ un vero e proprio guanto di sfida quello che l’amministrazione comunale di Brescia ha deciso di lanciare sui mezzi pubblici cittadini. Un guanto – spiegano l’assessore ai Trasporti, Nicola Orto, e il presidente di Brescia trasporti, Andrea Gervasi – per proteggersi dal contatto diretto con i sostegni e i corrimano presenti negli autobus, sui quali salgono ogni giorno decine di migliaia di persone e tra queste, l’allusione è evidente, tanti stranieri e immigrati. 
La parola d’ordine è dunque protezione, timore, paura da qualsiasi contatto con estranei, con l’altro, con l’umanità in genere, soprattutto se dolente. Più che da un’assessorato alla Mobilità (termine che dovrebbe rimare con mescolanza, contaminazione), l’iniziativa sembra venire dall’assessorato alla Paranoia. Nessuna ragione d’igiene pubblica giustifica una simile iniziativa. Non vi sono epidemie o pandemie da contatto in giro, c’è invece un virus ideologico di stampo razzista che cerca le vie più perfide per insinuarsi, camuffandosi anche sotto le giustificazioni più grottesche. 
Se è pericoloso attaccarsi alle maniglie degli autobus, figuratevi quanto può esser contagioso manipolare il denaro che passa per mano (poche e sempre le stesse, a dire il vero). Se la logica è questa perché non premunirsi anche di fronte alla cartamoneta con un bel profilattico per dita da ritirare in banca? Pecunia non olet, il denaro non puzza e nemmeno contagia. Il contagio segue altre strade, è risaputo, sale sulla linea 3, l’autobus che dalla Badia taglia Brescia passando per quartieri ad alta densità popolare e arriva a Rezzato, comune dell’hinterland. Guarda caso uno dei mezzi pubblici più utilizzati dalla popolazione immigrata. Il rischio di contagio segue dunque le vie dell’odio sociale contro i più svantaggiati. Il progetto è ancora in fase sperimentale, per un mese accanto alla macchinetta obliteratrice ci sarà anche un contenitore metallico che dispensa gratuitamente i guanti. Se gli utenti mostreranno il loro gradimento verrà esteso sull’intera rete cittadina. Oltre ad offrire «maggiori opportunità in termini d’igiene», spiegano i promotori dell’iniziativa, l’uso del guanto rappresenta anche un innovativo mezzo di «comunicazione esterna dall’alto grado di scambio e condivisione di messaggi pubblicitari».
Indossato come un preservativo amanuense, il guanto verrebbe utilizzato anche per dialogare direttamente con i cittadini e veicolare pubblicità per le aziende interessate. Sulla sua superficie ogni giorno appariranno le notizie e gli annunci più svariati. 
L’obiettivo principale – scrivono gli ideatori del prodotto, denominato Ufo, ovvero alcuni docenti e studenti di Machina Lonati fashion, un istituto di design bresciano, insieme all’Accademia di Belle Arti di Santagiulia – «è quello di assicurare una diffusione omogenea e coerente dell’immagine aziendale, attraverso la divulgazione della propria attività, dei propri servizi, delle proprie policy, eventi culturali. Ciò al fine di rafforzare la credibilità dell’azienda stessa alla quale viene conferita maggiore trasparenza e visibilità». Su una cosa i designers hanno ragione, il guanto è «una nuova forma di comunicazione diretta al cittadino, in quanto da la possibilità di poterla portare appresso». Diffonde razzismo sublimale, banalizza i sentimenti più torvi dell’animo umano. Ma restino tranquille le anime belle, il profilattico palmare non inquina, «è ecologico, realizzato con materiale biodegradabile al 100% per il massimo rispetto dell’ambiente». 
Davvero interessante questa nuova concezione dell’ecologia che considera scorie della natura la parte di umanità costretta a migrare. C’è chi sostiene che negli anni 80 il design è servito a dare forma plastica al vuoto pneumatico di pensiero causato dalla dalla fine delle ideologie. A Brescia il design fa un passo avanti, non da più senso al vuoto dandogli forma, rende invece sinuose ruvide ideologie irte d’odio. Si fa cosmesi del disprezzo.

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Racisme dans la ville de Brescia. Des gants pour les passagers qui utilsent le bus des immigrés

«Bien utile contre les risques de contagion». Une initiative conçue par une agence publicitaire et promue par la Mairie

Paolo Persichetti
Liberazione
, 6 juillet 2010, Rome

C’est un véritable gant de défi que l’administration communale a lancé aux transports publics de la ville de Brescia. Un gant – expliquent Nicola Orto, le Conseiller communal chargé des transports, et Andrea Gervasi, le Président de Brescia Transport – pour se protéger du contact direct avec les barres d’appui et les manettes présentes dans les bus sur lesquels montent chaque jour des milliers de personnes parmi lesquelles, l’allusion est évidente, beaucoup d’étrangers et d’immigrés. Les mots d’ordre sont donc protection, crainte, peur du contact quel qu’il soit, avec les étrangers, les autres, avec l’humanité en tant que telle, surtout  souffrante. Plus que d’un Bureau de la Mobilité (intitulé qui devrait rimer avec mixité, contamination), l’initiative semble provenir du Bureau de la Paranoïa. Aucune raison d’hygiène publique ne saurait justifier une telle mesure. Il n’y a aucune épidémie ou pandémie de contact dans l’air, en revanche il y a un virus idéologique de type raciste qui cherche les voies les plus perfides pour s’insinuer en se camouflant au prix des justifications les plus grotesques. S’il est dangereux de s’accrocher aux barres des autobus, figurez-vous combien il peut être contagieux de manipuler l’argent qui passe de mains en mains (en vérité, en nombre limité et toujours les mêmes). Si la logique c’est celle-ci, pourquoi ne pas se prémunir aussi des billets de banques avec un beau dispositif prophylactique pour des doigts que l’on retirerait à la banque? Pecunia non olet, l’argent ne pue pas et il n’est pas non plus contagieux. La contagion suit d’autre voie, c’est bien connu, elle prend la ligne 3, c’est-à-dire l’autobus qui part de la Badia et traverse Brescia en passant par les quartiers à forte densité populaire pour arriver à Rezzato, une commune en périphérie. Comme par hasard, il s’agit de l’un des moyens de transport les plus utilisé par la population immigrée. Le risque de contagion suit donc les voies de la haine sociale à l’égard des plus désavantagés. Le projet est encore dans sa phase expérimentale: pendant un mois, à côté des machines à oblitérer, les usagers trouveront  un distributeur métallique qui dispensera gratuitement des gants; s’ils manifestent leur satisfaction, le dispositif sera étendu à tout le réseau urbain. Outre le fait d’offrir «de majeurs opportunités en terme de santé publique», expliquent les promoteurs de l’initiative, l’usage du gant représente également un nouveau «moyen de communication externe à haut degré d’échange et de partage de messages publicitaires». Porté comme un préservatif à mains, ce gant serait également utilisé pour dialoguer directement avec les citoyens et véhiculerait les annonces publicitaires des établissements intéressés. Sur cette surface apparaîtrait chaque jour des informations et des annonces variées. L’objectif principal – avancé par les concepteurs de ce produit baptisé Ovni, quelques enseignants et étudiants du Machina Lonati Fashion, un institut de design de Brescia lié aux Beaux Arts de Santagiulia – «serait de d’assurer une diffusion homogène et cohérente de l’image de l’entreprise à travers la publicisation de son activité, de ses services, de ses orientations et d’évènements culturels. Ceci afin de renforcer la crédibilité de l’entreprise elle-même, laquelle en retirera un surcroît de transparence et de visibilité». Sur un point, les designers ont raison, le gant est une «nouvelle forme de communication directe avec les citoyens, dans la mesure où il est possible de la porter directement sur soi». Il diffuse un racisme subliminal, banalise les sentiments les plus troubles de l’être humain. Mais que les belles âmes se rassurent, le préservatif à mains ne pollue pas, «il est écologique, réalisé dans un matériau 100 % biodégradable pour le plus grand respect de l’environnement ». Vraiment très intéressante cette nouvelle conception de l’écologie qui voit les personnes contraintes d’émigrer comme des scorie de la nature. Certains soutiennent que dans les années 1980 le design aura donné une forme plastique au vide pneumatique engendré par la mort des idéologies. À Brescia, le design fait un pas en avant, il ne donne plus sens au vide en lui donnant forme, au contraire, il diffuse de manière sinueuse des idéologies grossières chargées de haine. Il maquille le rejet.

Ponte Galeria, migranti in rivolta salgono sui tetti

Protesta contro le bestiali condizioni di vita e l’internamento ingiustificato

Paolo Persichetti
Liberazione
14 marzo 2010

Mentre il popolo viola si radunava in piazza del Popolo per ascoltare i discorsi dei leader dell’opposizione, da Bersani a Ferrero, da Vendola a Di Pietro, ad una ventina di chilometri di distanza, nella zona suburbana della Capitale, si scatenava la rivolta dentro il Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria. Dopo aver dato fuoco ai materassi una trentina di migranti sono riusciti a salire sui tetti al grido di «libertà», mentre colonne di fumo e fiamme si alzavano verso il cielo. Altri hanno tentato di arrampicarsi sulle reti di recinzione che separano la zona maschile da quella femminile. Le donne dopo aver provato anche loro a ribellarsi sono state subito rinchiuse al’interno dei reparti. Fuori dalla cinta del campo d’internamento, oltre le reti, il filo spinato, le torrette d’avvistamento e i fari, un presidio dei Centri sociali appoggiava la protesta con slogan e fumogeni colorati. Fotografia sintomatica di due mondi diversi e lontani. Quelli di piazza del Popolo sotto i riflettori occupano la scena mediatica, contraltare quasi speculare della commedia berlusconiana; i secondi, su quei tetti, da dove si arriva quasi a scorgere la linea azzurra del mare che bagna il litorale romano, condannati alla drammatica solitudine dei vinti. D’altronde l’occultamento dello sciopero generale del giorno precedente, dell’unica manifestazione che in questi giorni aveva da proporre qualcosa, un’idea di società un po’ diversa, la dice lunga sul grado zero della politica che sta dietro la nevrastenica e confusa indignazione del variegato universo dei viola. Due mondi che non comunicano, un po’ come accadeva sui ponti del Titanic. I rinchiusi nella stiva, la grande pancia del titano del mare in movimento, e quelli sopra impegnati nello loro dispute mondane. Ecco uno dei problemi, anzi delle voragini che hanno risucchiato la sinistra verso l’inconsistenza, un po’ come quegli smottamenti di terreno che inghiottono i paesini della Calabria. La rivolta delle nude vite lasciata sola. A Ponte Galeria, dopo la fine dello sciopero della fame che gli internati avevano deciso insieme ad altri loro compagni rinchiusi in altri Cie d’Italia, si vivevano giorni difficili pieni di frustrazione e delusione. L’arrivo dei nuovi gestori che hanno rimpiazzato la Croce rossa non ha migliorato le condizioni di vita. Anzi sembra che l’insediamento della cooperativa Auxilium vincitrice della gara d’appalto, e che già gestiva il Cara (Centro di accoglienza per richiedenti asilo) di Bari, sia coinciso con un giro di vite ulteriore. Regole sempre più dure, cibo scadente privo di vitamine, riscaldamento fuori uso e somministrazione quasi forzata della terapia, una vera sedazione di massa. Gelo, freddo, minacce, umiliazioni e pestaggi, sono il pane quotidiano. Un inferno. La rivolta di ieri era stata preceduta da un’altra sommossa. Proprio nei giorni in cui avveniva il passaggio di consegne, dall’ala inaugurata di recente partiva un tentativo di fuga. Tuttavia solo un ragazzo riusciva a raggiungere il muro di cinta e provare il salto verso la libertà. Ma la speranza durava poco. Subito ripreso, il giovane veniva pestato brutalmente dalle forze dell’ordine. Secondo le testimonianze, tra gli autori della violenta punizione inflitta a mo’ d’esempio vi sarebbe stato lo stesso dirigente della polizia. Dopo le percosse il ragazzo veniva portato via. Iniziava così la protesta. Grida, coperte date alle fiamme e devastazione sistematica di tutto ciò che si riusciva a spaccare. Parola d’ordine: «distruggere il lager». Per sedere la sommossa il giovane veniva ricondotto tra i suoi compagni. Malconcio ma finalmente in mani sicure. Nella serata di ieri i rivoltosi erano ancora sui tetti decisi a restarvi per tutta la notte. Dopo averli rincorsi e colpiti tentando di farli desistere anche con il lancio di gas, la polizia schierata in assetto antisommosa presidia l’edificio. All’esterno, in segno di solidarietà i manifestanti hanno bloccato i treni della linea ferroviaria. Soltanto dopo una lunga trattativa con i funzionari delle forze dell’ordine tutto è tornato tranquillo.

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La nuova questione meridionale: il lavoro schiavile dei migranti

Migrazioni a Sud Italia: è troppo tardi per le scuse

Elisabetta Dellacorte

Ci sono migliaia di lavoratori immigrati che, da un decennio e oltre, mandano avanti il settore agricolo al Sud d’Italia, in luoghi che nella storia recente, dopo la seconda guerra mondiale, videro insorgere contro i latifondisti i braccianti agricoli che rivendicavano il diritto alla proprietà della terra. Passano gli anni e per lavorare quelle terre che gli italiani non vogliono più curare arrivano migliaia di migranti, pronti a sfacchinare per noi, per far arrivare sulle nostre tavole frutta e verdura. Questo il primo apparente paradosso, un trabocchetto cognitivo che avvolge il Meridione: il lamento sul ritardo del Sud,  le emergenze ambientali sempre un po’ misteriose, pentiti, complotti, partiti defunti che continuano ad eleggere i loro finti rappresentanti, grande penuria di posti di lavoro per gli autoctoni e un fiume di soldi pubblici sprecati per tamponare la finta emergenza della disoccupazione. Sulla scena di questo teatrino il Sud fa il suo corso, i giovani disoccupati a differenza delle generazioni precedenti hanno studiato, si sono laureati non sono più disposti ad accettare lavori faticosi e sottopagati, si muovono tra lavori precari, protetti in ogni caso dalle relazioni parentali.  Così, resasi indisponibile la forza-lavoro locale, l’avvento dei migranti è stata una vera manna per gli imprenditori meridionali: i migranti costano di meno, lavorano di più, accettano lavori pesanti, si ingaggiano a giornata dribblando oneri sociali e assicurativi. Ad oliare il modello dell’Italia meridionale- che si rispecchia in quello più largo dell’Europa del Sud (King, 2000, Kasismis 2006) – contribuiscono: l’illegalità diffusa, acuita da leggi comunitarie restrittive e pacchetti sicurezza nazionali; la diversità dei luoghi di provenienza dei migranti che facilitano la concorrenza al ribasso tra persone provenienti dai paesi dell’est Europa e l’Africa;  dalla compresenza, a cui si accennava, di migranti e di altri tassi di disoccupazione o sotto-occupazione per gli autoctoni; dall’assenza di politiche di accoglienza a livello locale.
Per molti anni il sistema agricolo meridionale ha succhiato sangue da queste vite senza nome, anche se  molti sapevano delle condizioni disumane di vita dei migranti del Maghreb nel ghetto di san Nicola Varco vicino Eboli, di quelle degli africani alla Cartiera di Rosarno andata in fumo un anno fa, così come di dominio pubblico sono le notizie dei migranti presi a pistolettate, sempre a Rosarno, da due teste calde locali, o ancora gli  omicidi di Castelvolturno, senza contare le angherie quotidiane, quelle meno veicolate dai media. Inattese, invece, sono state  le rivolte dei migranti, i roghi, i cortei che hanno fatto seguito ai fatti di sangue, poi il can can mediatico, le molte promesse,  e infine di nuovo come nel gioco dell’oca il ritorno alla casella di partenza: ghetti, sfruttamento, e cattiva vita.http://www.insutv.it/blog/wp-content/uploads/2008/09/immigrati-castelvolturno-2.jpg

Tutti sanno molti non agiscono
Anche prima delle rivolte queste realtà non erano sconosciute a politici, amministratori, sindacalisti, associazioni di vario tipo, solo che per anni si è deciso di non decidere rimpallando di volta in volta le responsabilità e gli interventi, fino allo sgombro del ghetto di san Nicola Varco che, per quanto sgangherato e inadeguato, pieno di spazzatura e rifiuti, era il luogo dove questi lavoratori, dopo una giornata di  fatica, trovavano un giaciglio per dormire, un fornello per cucinare, un posto per incontrarsi a prescindere dai permessi di soggiorno. Lì, a San Nicola Varco, pochi mesi prima del recente sgombero, si  parlava di un intervento di ristrutturazione del ghetto, un gesto minimo sfumato dinanzi agli interessi economici ed imprenditoriali del ceto politico-affaristico che su quell’area intende costruire un nuovo enorme centro commerciale, l’ennesimo outlet, ovvero, un parco giochi per consumatori, il risultato di un modello di sviluppo insensato, un’ideuzza da beoti che invece di valorizzare le risorse locali, dall’agricoltura alla riconversione “sostenibile” dell’infausto settore turistico, preferisce l’outlet che in termini concreti vuol dire ingorgare ancora di più di camion, auto, merci, imballaggi la piana del Sele.
Per fare questo devono far sparire il ghetto e i migranti. Nella seconda settimana di novembre 2009 interviene la polizia sulla base della dubbia motivazione dell’emergenza ambientale, ma il raid non riesce poiché  la maggior parte delle potenziali prede si dilegua.
Le centinaia di lavoratori migranti, circa millequattrocento, per non farsi trovare all’incontro con i celerini e la carcerazione scappano; e vengono spinti così al vagabondaggio nelle fredde notti novembrine alla ricerca di alloggi di fortuna nei campi o nelle serre. Paradossalmente, per risolvere un’emergenza se ne crea un’altra, che presenta tratti ben più feroci delle temute epidemie,  utili ai politici e ai prefetti per argomentare lo sgombero. A distanza di due settimane, chi è stato o vive in zona sa che i  migranti continuano a lavorare come sempre, anche perché sono indispensabili, poiché senza di loro il settore agricolo entra in crisi nel giro di pochi giorni; certo sono più timorosi, si fanno vedere meno in giro perché la caccia al migrante continua, tanto che gli imprenditori per imbrigliarli nuovamente hanno raddoppiato il salario giornaliero da 25 a 45 euro. Per assurdo l’operazione di sgombro ha fatto temporaneamente levitare i magri salari.

La piana del Sele
Spostandoci dalla piana del Sele a Rosarno, nella Calabria meridionale, la situazione non cambia di molto. Nella piana tra Gioia Tauro, Rosarno e San Ferdinando, circa duemila migranti vivono in condizioni disumane; altri crocifissi viventi, per dirla con l’efficace immagine usata da don Vitaliano della Sala. Anche a Rosarno la presenza dei migranti indispensabili al settore agricolo non è un fenomeno recente, non sono arrivati ieri, ma negli anni ’90, quindi di tempo per riflettere e agire ce n’è stato, ma  visitando i posti in cui vivono, ad esempio le Rognette in centro a Rosarno o gli stabili Arssa sulla statale di fronte all’inceneritore, si apre uno scenario inquietante: centinaia di persone  accampate in stabili che cadono a pezzi; alcuni dormono in piccole tende, altri direttamente nei silos e altri ancora in quel che resta dei magazzini. Alle Rognette, invece, i migranti hanno occupato un vecchio edificio senza tetto e lì vivono in baracche di legno e cartone coperte dalla plastica, tra fango e rifiuti. Sia nel ghetto dell’Arssa che alle Rognette i bagni sono stati costruiti dai migranti all’aperto: una fossa circondata da grossi pneumatici. “Meglio la vita in Africa”- dice un ganese che ci abita. Certo la forza della disperazione non manca e quindi a partire da quelle condizioni inumane, rispetto alle quali chi dovrebbe e potrebbe intervenire ha deciso di chiudere gli occhi, i migranti si sono organizzati, qualcuno ha messo su un recinto per le pecore e uno per  i polli, un piccolo negozietto che vende cibi in scatola e cose per la vita quotidiana. Ma detto questo, dopo aver elogiato la capacità di resistenza di queste persone, rimane il fatto che la situazione di Rosarno in Calabria, come pure quella di Eboli in Campania, mostrano la volontà istituzionale di non intervenire, di lasciare tra color che son sospesi migliaia di persone.

Il mercato delle braccia a Rosarno e la concorrenza tra poveri
Al mattino, tra le cinque e le sei, i migranti si fanno trovare sulla strada che da Rosarno porta a Gioia Tauro, aspettando che qualcuno passi per dargli una giornata di lavoro, 25 euro al giorno per 8 o più ore a secondo del caso, oppure a cottimo 1 euro a cassetta – 3 euro li pagano a chi li accompagna in auto o pullman sul posto di lavoro. Altri, invece, quelli più fortunati finiscono nel settore edile, ma da alcuni anni, dopo l’ingresso della Romania in Europa, gli uomini rumeni sono diventati i diretti competitori degli africani sia in agricoltura che nelle costruzioni. Per le donne provenienti dall’Europa dell’est le cose vanno meglio: sono presenti nei lavori di cura alle persone anziane e alle famiglie, senza competizione, almeno per adesso. “Not work” è il refrain che molti ripetono, ed è anche il conto che la crisi presenta,  alcuni hanno perso il lavoro al Nord d’Italia e non riescono a trovarne un altro al Sud. L’Italia l’hanno girata per anni nei circuiti stagionali della raccolta nel settore agricolo o in quello edile e continuano a muoversi tra  le difficoltà e le possibilità che di volta in volta si aprono. Alle spalle hanno lasciato i loro paesi e le loro vite di prima, alcuni sono rifugiati per motivi umanitari; sulla loro pelle i segni delle torture fisiche e nei ricordi di alcuni la vita lasciata alle spalle, i percorsi universitari interrotti: matematica, letteratura inglese, conoscenze riposte ai margini di questa nuova condizione di vita che li “accoglie” solo come lavoratori manuali, artigiani totali, utili sì, ma ospitati in modo ostile e degradante. Certo la storia, come si sa, procede dal lato del male, e da qui in poi le responsabilità sono comuni.

Il danno e la beffa dei fondi pubblici
Al danno si somma la beffa se si pensa che a Rosarno non è stata ancora trovata una soluzione abitativa decente per i lavoratori stagionali che, così come quelli del tavoliere delle Puglie, della piana del Sele e di Scafati in Campania, da anni vivono nei ghetti del disprezzo.  Intanto, qui la beffa – a segnalarlo è Antonello Mangano in un articolo disponibile on line “Migranti, Rosarno schiavi in un  mare di soldi”- c’è un giro di fondi pubblici già destinato o da destinare all’accoglienza, in uno scenario in cui a beneficiare degli interventi non sono i migranti bensì gli autoctoni, in competizione, anche loro, per la spartizione delle risorse. Gli effetti sono nulli dal momento che le condizioni abitative e di vita dei presunti beneficiari non cambiano.  Quando si cerca di capire quali origini ha l’immobilismo rispetto a situazioni come la Roghetta o il ghetto dell’Arssa, spesso dal cappello dell’interlocutore sbuca il vecchio ritornello della malavita: se non si fa nulla è per la ‘ndrangheta, la camorra, e via così, si tratta di un paravento comodo per ogni stagione o fazione politica: se mancano acqua, luce e bagni è colpa del potere mafioso non di quello istituzionale.
Ma dopo aver fatto un giro tra Eboli e Rosarno ci si dovrebbe confrontare con il principio di realtà. Gli errori percettivi non sono una colpa, tutti a volte possiamo innamoraci o nasconderci dietro un’idea sbagliata credendo che sia quella giusta, quella che mette meglio in luce la situazione, ma dopo il confronto con la realtà, quella fatta di carne e sangue, di presenza e non di virtualità, ci si accorge che  forse quelle analisi sono leggermente sfuocate; e in questo non c’è niente di male, basta non impuntarsi, confrontarsi e rivederle. Dal confronto con il reale emerge bene la grande capacità adattiva di chi gira da un campo all’altro nelle stagioni di raccolta; e un’ostinata abilità nel tirar sangue dalle rape. Questo in presenza di una politica governativa che continua a produrre clandestini utili per il lavoro nero. Se da decenni, in particolare al Sud, i comuni non sono stati in grado di pianificare e organizzare dei sistemi di accoglienza dignitosi per questi utili lavoratori non è per colpa della malavita ma per la brutta abitudine di decidere di non decidere, usando di volta in volta l’alibi dei poteri mafiosi o della clandestinità: “si può  fare qualcosa solo per quelli regolari” è l’altro refrain istituzionale. Così come non mancano altre fandonie più creative, come quelle dell’assessore alle politiche sociali della ricca Cosenza che, per giustificare la totale assenza d’invertenti in un campo rom, dove tra cumuli di spazzatura e topi, senza luce, acqua e bagni vivono circa 250 persone, ha detto che stava aspettando l’apertura di una sede del consolato rumeno in città, ma come si sa il consolato non ha competenze di tipo territoriale, per cui parlare con l’assessora è stato come andare al pronto soccorso con un principio d’infarto per  sentirsi dire dal cardiologo aspettiamo che passi il giro d’Italia, un non senso.

Dal  White Christmas al Big Hug
Certo, in questo giro di vite non mancano le anime belle, quelle che senza chieder niente in cambio ogni domenica si danno da fare per offrire un pasto caldo, o un piccolo riparo affettivo; quelli che nel vedere vite ridotte in sofferenza si rivoltano, ma rimane il fatto che per decenni la logica è stata quella dell’emergenza, dei raid punitivi e degli allontanamenti. In questi giorni a Rosarno, comune che come Gioia Tauro e San Ferdinando, è commissariato per infiltrazioni mafiose, i prefetti stanno pensando l’ennesimo intervento tampone, fatto di container, bagni chimici e un po’ di soldi da spendere per rattoppare un sistema al collasso. E’ l’ennesima ipocrisia della politica del rifiuto che sotto Natale distribuisce qualche coperta, ma non assicura l’assistenza sanitaria, l’acqua calda, la luce, un’abitazione che si possa dire tale e, soprattutto, la libertà di restare o andare. Eppure di soluzioni ce ne sarebbero, la Calabria è punteggiata da paesini spopolati; e allora si potrebbe fare come a Riace in Calabria, o come stanno cercando di fare a Sicignano, Laviano, Contursi in Campania dove la soluzione proposta è stata quella di mettere a disposizione alcune case vuote per rifugiati e i migranti, utilizzando i fondi in modo sensato. Ancora, sul fronte delle università si potrebbero facilitare e non osteggiare la ripresa dei percorsi universitari interrotti.  Come dire, contrapporre al folle White Christmas – il bianco natale dei bianchi che coglie l’occasione per  allontanare i clandestini così come vuole il sindaco leghista di Boccaglio – un Big Hug, un grosso abbraccio solidale dal caldo Sud, per cambiare il corso di una brutta storia fatta di esclusione e disagio, che negli anni a venire pagheremo con odio e disprezzo. Per chiudere senza concludere tocca segnalare che tra pochi giorni, lunedì 30 novembre, si terrà a Cosenza la prima Conferenza regionale sulle migrazioni, a cui parteciperanno Perugini, il sindaco di Cosenza, Oliverio, il presidente della Provincia, e Loiero, il governatore della Regione, insieme ad altri studiosi, analizzeranno il caso migrazioni e chissà come potranno giustificare i ritardi e le omissioni quando è già troppo tardi per le scuse.

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Cronache migranti
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I dannati della nostra terra
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Le ronde non fanno primavera
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Dopo i fatti di Rosarno, manifestazione di protesta al Cie di Crotone

Sono circa 20 e non 4 i richiedenti asilo fuggiti ai pogrom di Rosarno, si trovano adesso all’interno del centro. Gli altri hanno lasciato Crotone tra molte difficoltà, poichè le promesse sul pagamento dei biglietti per altre destinazioni non è stata mantenuta. Altri immigrati provenienti da Rosarno sono ancora in attesa dei dei salari che gli imprenditori non hanno ancora pagato

Rete antirazzista di Cosenza
12 Gennaio 2010

Dopo le tragiche giornate di Rosarno il bilancio è pesantissimo: decine di feriti, almeno 5 arrestati e numerosi dispersi ancora nelle campagne. A Rosarno gli africani non ci sono più, non ci sono più nemmeno i ruderi diroccati, vergogne a cielo aperto dove per anni migliaia di lavoratori hanno vissuto in condizioni disumane. Come se, insieme ai ruderi, le ruspe potessero cancellare tempestivamente ogni traccia della loro ingombrante presenza sul territorio. Come se si volessero cancellare sangue e sudore di chi per anni ha sostenuto l’economia agricola della Piana di Gioia; come se si volesse rimuovere il coraggio dei ragazzi africani, gli unici ad aver dimostrato la forza di ribellarsi all’arroganza e alle angherie dei clan mafiosi locali.
Gli africani non salveranno più Rosarno!
La nostra presenza oggi davanti al Cpa S’Anna di Isola Capo Rizzuto vuole essere un gesto di solidarietà e vicinanza a quei migranti reclusi nel campo di Crotone come in quello di Bari dove circa 1200 degli africani di Rosarno sono stati confinati in seguito alla loro cacciata. È assurdo che dopo anni di vessazioni, sfruttamento, riduzione in schiavitù e indifferenza, queste persone oggi rischino di essere espulse dal territorio e vengano ulteriormente criminalizzate. “Siamo stati troppo tolleranti”, ha dichiarato il ministro leghista, ed è vero! Lo sono stati nei confronti di chi da tempo lucra sulla pelle degli indifesi a spregio dei più elementari diritti della persona. Le pesanti condizioni di vita in cui versavano i migranti a Rosarno erano conosciute da tempo: dalle forze dell’ordine ai sindacati di categoria, dai partiti politici alla società civile. Rosarno era una polveriera pronta da tempo ad esplodere ma che nessuno ha concretamente provato a disinnescare. Si è preferito fomentare l’odio sociale e la guerra tra poveri, anziché raccogliere la sfida della ribellione contro chi nel nostro territorio detta le leggi a suon di Kalasnikov, forti delle complicità istituzionali, sia esse locali che nazionali. I governi si susseguono, le maggioranze si rovesciano e le porte continuano a chiudersi in faccia a questa umanità dolente che ha provato ad alzare la testa. La mafia ringrazia!

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Cronache migranti
Il nuovo lavoro schiavile

Khadim, arrestato mentre lasciava l’Italia perché… in passato non aveva lasciato l’Italia

Manette in aereoporto. Non sapeva della condanna a 7 mesi per non aver lasciato l’Italia. Voleva tornare a casa ma è clandestino

Paolo Persichetti
Liberazione 6 gennaio 2010

Nemmeno Kafka sarebbe arrivato a congeniare una storia tanto assurda. Assurda al punto da raggiungere il sublime, se non fosse che un uomo che non ha mai rubato nulla, trafficato sostanze illecite, esercitato violenza o truffato alcuno, ma al contrario ha sempre lavorato, lasciandosi sfruttare al nero, giace nel fondo di una prigione. Khadim, un cittadino senegalese quarantunenne che da otto anni viveva in Italia in situazione amministrativa irregolare aveva deciso di rientrare nel suo Paese. Notizie non buone sullo stato di salute di alcuni suoi familiari l’avevano finalmente spinto a mettere fine alla sua esperienza di migrante, mai pervenuta al raggiungimento dell’agognato permesso di soggiorno. Otto anni di vita da clandestino sono pesanti anche se alla fine chi ti è vicino ti vuole bene, hai saputo crearti degli amici, hai l’impressione di vivere tra la gente una esistenza quasi normale, sempre che non ti capiti di incontrare una uniforme, di dover varcare un ufficio amministrativo o un ospedale. Khadim era stanco e così aveva acquistato di tasca propria un biglietto per Dakar. Giunto all’imbarco dell’aereo che doveva riportarlo a casa è stato arrestato e condotto in carcere perché sulla sua testa pesava, a sua insaputa, una condanna a 7 mesi di carcere. In passato non aveva ottemperato ad alcune misure di espulsione dal territorio pronunciate nei suoi confronti. La procedura era andata avanti fino a trasformarsi in una condanna penale. Khadim ignorava tutto ciò, aveva un passaporto regolare e pensava di poter lasciare tranquillamente l’Italia. Non poteva immaginare che sarebbe stato arrestato proprio perché non aveva lasciato l’Italia.
Su due piedi si fa un po’ fatica a capire che una persona possa essere arrestata perché una legge dice che, data la sua situazione amministrativa irregolare, deve lasciare il territorio e ciò accade proprio quando lui sta lasciando il territorio. Ma la legge, come si dice, è cieca. E così, invece si di salire sul volo per Dakar, Khadim si è ritrovato nel carcere laziale di Civitavecchia. Era l’11 ottobre scorso. La notizia è stata resa nota dal garante dei detenuti della regione Lazio, Angiolo Marroni, allertato a sua volta da alcuni conoscenti italiani di Khadim, proprio quelli che l’avevano accompagnato all’aeroporto romano di Fiumicino. Questi credevano il loro amico in Senegal e invece si sono visti recapitare una sua lettera dal carcere. Una volta imprigionato, Khadim non si è perso d’animo, anche se i primi giorni sono stati duri. Senza effetti personali, trattenuti al momento dell’arresto, e recuperati anche grazie all’intervento del garante. Ha subito avviato le pratiche per l’espulsione. Ipotesi prevista come misura alternativa per diversi reati con condanna inferiore ai due anni. Tuttavia la sua istanza è stata respinta dai magistrati perché la legge “Bossi-Fini” non consentirebbe questo tipo di soluzione per chi non ha ottemperato all’espulsione. Peccato che Khadim stesse ottemperando da solo. Ora dovrà restare in carcere fino allo scadere dei 7 mesi previsti. Difficilmente potrà accorciare la sua permanenza usufruendo dei 45 giorni di liberazione anticipata previsti in caso di buona condotta. Questo beneficio scatta solo dopo ogni semestre e i tempi tecnici per il suo riconoscimento sono abbastanza farraginosi. In ogni caso, dopo il carcere, Khadim non sarà subito libero. Non potrà salire sul primo aereo per Dakar ma finirà dritto in un Cie, dove dovrà attendere settimane e forse mesi, fino a un massimo di altri sei, perché le pratiche della sua espulsione vengano portate a termine e la polizia possa ricondurlo forzatamente alla frontiera. Peccato che Khadim, se lo lasciassero andare, partirebbe tranquillamente da solo. Questa storia è emblematica dei livelli di oscena stupidità che possono essere raggiunti dalle burocrazie repressive. Appena 9 mila sono gli immigrati espulsi, ha detto il ministro dell’Interno. Ciò dimostra che le leggi contro l’immigrazione più che a scacciare i migranti, servono a cacciarli in una condizione di clandestinità che li trasforma in una sottoclasse ipersfruttata. Chi predica la lotta alla clandestinità, vuole in realtà ripristinare lo schiavismo.

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Il prefetto di Venezia rimosso per non aver avvertito le ronde padane

Mesi di azioni squadriste della Lega contro i Sinti andate in fumo

Paolo Persichetti
Liberazione 19 dicembre 2009

Sarà la Sicilia la nuova destinazione del prefetto di Venezia, Michele Lepri Gallerano, rimosso dall’incarico per aver acconsentito al trasferimento, in condizioni di sicurezza, di 38 famiglie nomadi di etnia Sinti nel nuovo insediamento di Favaro Veneto, un villaggio nei pressi di Mestre. Struttura d’accoglienza costruita dal comune di Venezia con i fondi regionali e il voto favorevole dello stesso centrodestra per una spesa di 2,8 milioni di euro, ma che ha sempre incontrato la feroce opposizione dei leghisti e della presidente della provincia, Francesca Zaccariotto. A Lepri vengono rimproverate circostanze e modalità del trasferimento deciso dal sindaco di Venezia, con l’ordine della massima riservatezza. Gli stessi Sinti avevano saputo solo un’ora prima che era arrivato il momento di raccogliere tutte le loro cose e trasferirsi nella nuova struttura. Una serie di casette prefabbricate con la piazzola per la roulotte, al posto del vecchio e fatiscente campo alla periferia di Mestre. Una struttura insalubre dichiarata del tutto inagibile dalla Asl per «gravissime carenze igieniche e sanitarie». Il ministro Maroni, che al campo Sinti aveva dedicato una delle quattro visite a Venezia, l’aveva saputo il giorno dopo, come tutti i cittadini. Il blitz – un corteo di lampeggianti nella notte – aveva vanificato mesi di barricate leghiste. Una vera beffa. Il Carroccio, mosso dalla sua consueta empietà politica e abiezione morale, non voleva dare quelle casette ai Sinti. Per questo era arrivato a fomentare la guerra tra poveri facendo demagogicamente balenare l’ipotesi di destinare i prefabbricati agli anziani del quartiere o alla peggio di lasciarli inutilizzati. La notte del trasloco nel nuovo campo di via Vallenari, il prefetto sia pur preavvertito dal comune si era guardato bene dal comunicare tempi e i modi del trasferimento al ministro degli Interni, con il quale stava cenando in occasione di una manifestazione ufficiale. La circostanza è stata considerata un vero e proprio “sgarbo” dall’inquilino del Viminale. Da qui la rottura del «rapporto fiduciario», hanno fatto sapere gli ambienti leghisti della provincia che avevano immediatamente chiesto la sua testa. «Il prefetto non poteva agire senza informare il ministro», hanno sostenuto, furiosi per lo smacco subito. Mesi di barricate andate in fumo. E così Lepri è stato collocato in posizione di “fuori ruolo” presso la presidenza del consiglio dei ministri per assumere l’incarico di Commissario dello Stato per la Regione Siciliana. Eppure sulla legittimità del trasloco c’era ben poco da obiettare. La decisione rientrava nei poteri del sindaco Cacciari ed era sostenuta dalle sentenze del Tribunale amministrativo regionale e del consiglio di Stato che avevano rigettato tutti i ricorsi. Ai leghisti e al ministro Maroni non è piaciuto quello che hanno ritenuto un atteggiamento di connivenza del prefetto col sindaco. Pretendevano al contrario che da parte sua ci fosse un atto delatorio che permettesse loro di organizzare il boicottaggio dell’operazione con blocchi stradali e azioni squadriste contro la carovana in movimento, favorite dalla tolleranza attiva del ministro degli Interni. Nel comportamento tenuto del prefetto, che pure in agosto aveva ricevuto l’incarico dallo stesso Maroni, sono emerse in realtà solo considerazioni legate alla necessità di evitare disordini dovuti a possibili degenerazioni dell’ordine pubblico. Questa vicenda dimostra quale sia la natura depravata dell’occupazione leghista del potere. L’idea che il territorio e l’amministrazione pubblica siano cosa propria, una sorta di “cosa nostra padana” accompagna la faziosa gestione del ministero degli Interni, trasformato in bunker dell’intolleranza, connivente con le violenze e le angherie leghiste e fasciste nelle zone d’osservanza padana. Una macchina della violenza istituzionale che bracca migranti e nomadi, bastona lavoratori, precari, studenti. La notizia della rimozione del prefetto ha suscitato i duri commenti del sindaco Cacciari che ha definito la decisione frutto di una politica «rozza, intollerante e ancora prima e ancora peggio stupida». Per Gianfranco Bettin, consigliere regionale dei Verdi, l’allontanamento del prefetto è «un atto nello stile dei regimi autoritari: al posto del federalismo vogliono i federali». Anche Giancarlo Galan, dopo essere stato estromesso dalla ricandidatura a governatore per far posto alla Lega, ha d’improvviso scoperto che «mala tempora currunt».

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Rapporto Migrantes, Italia sempre più multietnica
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