Un fascista del terzo millennio

(Adnkronos) – Era un uomo dalla doppia vita il 50enne Gianluca Casseri, l’uomo che oggi ha ucciso due senegalesi, ferendone tre e suicidandosi durante un conflitto a fuoco con la polizia, a Firenze. Nato in provincia di Pistoia, Casseri faceva il ragioniere, ma allo stesso tempo era un appassionato scrittore con simpatie neonaziste, pagane, antisemite e razziste. Aveva fondato la rivista La Soglia, ed era membro dell’associazione culturale La Runa. Simpatizzava con CasaPound. Amava i fumetti e i film di fantascienza, e i libri di Lovecraft. Nel suo saggio «I protocolli del Savio di Alessandria» rilancia la teoria antisemita del complotto mondiale degli ebrei, e le tesi negazioniste sull’Olocausto. Tra le altre sue passioni letterarie, Nietzsche, Jung e Evola. Ha anche scritto un libro, La Chiave del Caos, in cui le solite tematiche negazioniste e razziste si intrecciano con esoterismo e magia.
Insomma un vero fascista del terzo millennio!

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L’Italia s’è destra
Destra il terrorismo dei lupi solitari le passioni tristi della crisi il massacro dei senegalesi di Firenze

Omicidio Verbano, recapitato davanti alla porta di casa della madre un nuovo dossier sui fascisti

Novità nelle indagini sull’assassinio rivendicato dai Nar di Valerio Verbano. Fatta ritrovare in un borsone una nuova schedatura dell’estrema destra romana aggiornata fino al 1982

Paolo Persichetti
Liberazione 13 aprile 2011


Dopo la riapparizione in un armadio dei carabinieri di una copia, non si sa bene ancora se parziale o integrale, del vecchio dossier scomparso da decenni, un nuovo colpo di scena interviene nell’inchiesta sulla morte di Valerio Verbano, il giovane militante dell’Autonomia ucciso il 22 febbraio di 31 anni fa nella sua abitazione da un commando di suoi coetanei di fede fascista, che si firmò con la sigla dei Nuclei armati rivoluzionari. Un nuovo schedario sull’estrema destra romana è stato consegnato alla madre di Valerio, dopo che dal suo blog, e su Facebook, il 24 marzo scorso aveva lanciato un appello ai vecchi compagni del figlio: «Se avete della documentazione, vi prego fatemela avere, è molto importante per le indagini». Carla Verbano aggiungeva che avrebbe mantenuto il più stretto riserbo su chi gliel’avrebbe fatta pervenire. E così, il primo aprile, un giovane ha suonato al citofono di casa: «Signora le devo consegnare una cosa». Il ragazzo è salito fino alla porta ed ha lasciato un grosso borsone: «E’ per lei». Poi è subito sgusciato via. Che ci fossero in giro più versioni dell’archivio Verbano era emerso dopo la pubblicazione sul Corriere della sera e su Liberazione di alcuni estratti della copia del dossier depositato nell’attuale fascicolo delle indagini. Proprio Liberazione aveva segnalato questa circostanza a partire da un raffronto con altri documenti citati nel libro di Valerio Lazzaretti, Valerio Verbano, ucciso da chi, come e perché, Odradek. I carabinieri del Ros lo stavano cercando da giorni, una perquisizione era stata condotta di recente in un box legato alla famiglia di un vecchio amico di Valerio, morto nel frattempo. Nella borsa c’erano due grossi raccoglitori e una rubrica marrone che all’interno, sulla prima pagina, riporta la scritta «onore al compagno Valerio Verbano caduto sulla strada che porta al comunismo». Il materiale risulta aggiornato fino al 1982. Un lavoro molto pulito. Le singole schede, dei fogli A4, sono conservate in camicie di plastica e le note sono dattilografate in modo ordinato. La data è impressa con un timbro. Gli aggiornamenti sono battuti con un’altra macchina, il che lascia pensare che vi abbiano lavorato più persone in tempi diversi. Nessun appunto è a mano. Un lavoro da veri professionisti. La sensazione è che si tratti di un archivio nel quale sono confluiti differenti dossier sui fascisti presenti nella piazza romana, compreso quello meno ordinato che venne sequestrato a Verbano. Altre infomazioni forse risalgono addirittura alla madre di tutti gli schedari sui fascisti preparati dalla sinistra extraparlamentare, quello sullo «squadrismo romano» realizzato da Lotta continua nel lontano 1972. Anche se la prima schedatura su larga scala dei militanti di destra – come ricorda Guido Panvini in, Ordine nero, guerriglia rossa, Einaudi – fu elaborata dalla sezione “Problemi dello Stato” del Pci, diretta da Ugo Pecchioli, mentre a destra, negli apparati dello Stato o in aziende come la Fiat, l’attività di schedatura dei “rossi” andava avanti fin dagli albori della Repubblica.
Alcune schede contengono informazioni con la dicitura: «Tratto dal lavoro del compagno Valerio Verbano». Tono deferente che porta a ritenere questo dossier successivo alla sua morte, messo in piedi per dare una risposta risolutiva all’attivismo aggressivo dei neofascisti romani. I due raccoglitori contengono dei sottofascicoli suddivisi per zone della Capitale: Roma Est, Sud, Nord, Colle oppio, Monteverde, Eur, Centro, Testaccio-Aventino, Parioli, piazza Tuscolo, piazza Bologna, piazza Indipendenza. Nella rubrica un indice indica la presenza di nomi (circa 900 con relative zone di provenienza), numeri di targa e proprietari corrispondenti, luoghi di ritrovo, storia e vita dei Nar, approfondimenti su piazza Tuscolo, aggiornamenti sul quartiere Trieste relativi al periodo tra il 1980-82.
Per volere di Carla Verbano l’intero materiale è stato consegnato alla procura dal legale, Flavio Rossi Albertini, che nel frattempo si è visto rifiutare la richiesta di copia delle parti del vecchio dossier Verbano allegate nel fascicolo, perché in questa fase sarebbero «ancora coperte da segreto istruttorio» nonostante fossero già filtrate all’esterno.
Questa mole di carte, riemerse da un passato lontano, almeno su un punto comincia a fare chiarezza: il dossier Verbano c’entra molto poco con la sua morte. La dietrologia, le connessioni tra apparati e ambienti della criminalità, più volte evocate negli anni passati, non trovano conferme se non su aspetti già ampiamente noti. Sull’omicidio i carabinieri hanno un’ipotesi investigativa molto diversa dalla cortina fumogena di nomi e ambienti apparsi sui media nelle scorse settimane. La pista imboccata da via Inselci è quella della vendetta legata alla morte di Cecchetti. Le loro indagini si concentrano attorno ad un gruppo di neofascisti che frequentavano un noto locale di Talenti.
Ma c’è dell’altro, l’inchiesta sulla morte di Verbano rischia di trasformarsi in una sorta di matrioska che al suo interno può riservare altri sviluppi d’indagine, questa volta sul fronte opposto. Non a caso nell’area dell’antagonismo romano cominciano a farsi strada, anche se con notevole ritardo, le prime perplessità. C’è chi comincia a prendere coscienza che “l’antifascismo giustizialista” – che ormai sembra aver preso il sopravvento nella gestione politica del caso Verbano – non porti da nessuna parte, se non al rischio di nuovi arresti a distanza di oltre 30 anni sulla base di indizi labili di persone distanti anni luce da quelle vicende. La via penale per cercare la verità su quelle morti irrisolte comincia a non essere più vista come la migliore delle soluzioni.

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Il Settantasette di Valerio Verbano, tornano le carte perdute

Personale e politico di un sedicenne dell’Autonomia. Ecco cosa c’è nel “dossier”

Liberazione descrive le carte di Verbano riapparse da un archivio dei carabinieri. Si tratta di una parte del materiale sequestrato nell’abitazione di Valerio il 20 aprile di 31 anni fa. Prima scomparso dall’ufficio corpi di reato del tribunale di Roma, poi ritrasmesso in copia fotostatica dalla digos al giudice che indagava sul suo omicidio, infine definitivamente inviato al macero nel 1987. Quasi 400 pagine, tra cui l’agenda rossa del 1977 e la rubrica con i nomi dei militanti neofascisti. Il legale di Carla Verbano invoca trasparenza e chiede copia del dossier alla procura

Appasro su Liberazione dell’8 marzo 2011 con gli psudonimi di Giorgio Ferri e Nicola Macò

L’Agenda rossa 1977 di Valerio Verbano sequestrata il 20 aprile 1079

Ci sono i voti del semestre appena concluso, l’orario delle lezioni, il testo della canzone di De André, Il bombarolo, e poi in stampatello sul frontespizio: «Portare l’attacco al cuore dello Stato», con una falce e martello e un mitra sovrapposti e sotto la sigla Ccr, collettivo comunista rivoluzionario quarta zona, composto dagli studenti del liceo scientifico Archimede. E’ la copia fotostatica dell’agenda rossa 1977, edita dalla Savelli, appartenente a Valerio Verbano, allora studente appena sedicenne, riemersa da un buio lungo 31 anni. Ai lati dei fogli la firma di Rina Zapelli, nome da ragazza di Carla Verbano, madre di Valerio, apposta al momento del sequestro la sera del 20 aprile 1979.

L’inchiesta sui fascisti
Tra le pagine che abbiamo potuto consultare, poco meno della metà dei 379 fogli che sembrano comporre quanto resta del “dossier Verbano”, ci sono anche 41 fogli di una rubrica nei quali sono riportati circa 900 nomi di attivisti di estrema destra corredati da indirizzi e in alcuni casi con numero di telefono. Redatti tutti con la grafia di Verbano. Altri 16 fogli, trascritti da più mani, riportano appunti, minute di schede, appartenenza politica, piantine e altre informazioni, come alcuni luoghi di ritrovo dell’estrema destra.
Carla Verbano vi ha già riconosciuto quella di un amico di Valerio deceduto nel frattempo. Un accurato lavoro di mappatura delle diverse realtà del neofascismo romano dove lucide intuizioni e scoperte anzitempo si sommano anche ad imprecisioni e approssimazioni notevoli. Alcune schede collimano solo in parte con quelle riportate nel recente libro di Valerio Lazzaretti, Valerio Verbano, ucciso da chi, come e perché, Odradek 2011. Questa circostanza conferma quanto ricordato nei giorni scorsi da Carla Verbano sulla esistenza di più versioni del dossier, «realizzato da Valerio insieme ad altri sei o sette amici». La riprova sta proprio nel libro di Lazzaretti che riporta uno schedario con circa 1200 nomi aggiornato ad un periodo successivo alla morte di Verbano. Nel dossier “riapparso” in una scheda numerata “002” si legge che Pierluigi Bragaglia, ex militante del Fdg divenuto «gregario delle strutture collaterali dei Nar», ha 18 anni, mentre nel documento citato da Lazzaretti gli anni salgono a 20 e il testo della scheda, seppure quasi identico, vede l’ordine delle frasi spostato a conferma del fatto che le informazioni salienti contenute nel “dossier” erano patrimonio di un’area più larga che le ha conservate ed aggiornate nel tempo.
E’ azzardato trarre delle conclusioni sulla base di una visione troppo parziale della carte riemerse – secondo quanto sostenuto dal Corriere della sera – da un archivio dei carabinieri a cui la procura ha recentemente attribuito la delega per le nuove indagini sull’omicidio. L’avvocato Flavio Rossi Albertini, legale di Carla Verbano, si è già rivolto ai pm per avere copia del “dossier”. Le carte di Verbano rivestono ormai una valenza storica ancor prima che giudiziaria. Il buco nero che per lunghi decenni ha inghiottito le sue agende, rubriche e foto, consigliano oggi un dovere di trasparenza assoluta, tanto più che eventuali sviluppi dell’inchiesta si attendono dall’esame tecnico di altri reperti.


Gli elenchi distrutti

Quello che si legge nel verbale di sequestro del materiale trovato dalla digos nella stanza di Valerio Verbano è un lungo elenco: l’agenda rossa che fu il suo diario personale nel 1977, quaderni, decine di fogli sparsi, fotocopie, ritagli di giornali, fotografie e una pistola. In tutto, ben diciotto schedari pieni di documenti e altri sei di foto. Dopo il sequestro, cominciano le ‘stranezze’. Tutto il materiale – spiega Marco Capoccetti Boccia nel suo, Valerio Verbano, una ferita ancora aperta, Castelvecchi 2011 – sarà tenuto in custodia dalla digos per una settimana prima di essere consegnato all’ufficio corpi di reato del tribunale di Roma per essere repertato e messo a disposizione del fascicolo processuale «Verbano + 4». Pochi giorni dopo la morte di Valerio i legali della famiglia ne chiedono la restituzione. Si scopre così che l’originale del cosiddetto “dossier” non è più al suo posto; è praticamente sparito. Il 27 febbraio 1980 il giudice istruttore Claudio D’Angelo, che si occupa dell’omicidio di Valerio, constatata la scomparsa del dossier dall’ufficio corpi di reato riceve dalla digos una «copia fotostatica della documentazione sequestrata nell’abitazione di Verbano Valerio». Se ne evince che si tratta ancora di una copia integrale ma Carla Verbano, che all’epoca poté visionare le carte, sostiene che il materiale inviato dalla digos era «dimezzato» rispetto all’originale. Nell’ottobre 1980, il giudice istruttore nega alla famiglia la restituzione delle carte sequestrate, ormai presenti solo in copia, perché ancora sottoposte a segreto istruttorio. Quattro anni dopo, l’11 aprile 1984, la corte d’appello che aveva giudicato Valerio ordina la distruzione dei reperti, comprese le carte e le foto, nonostante queste fossero state nuovamente repertate nell’inchiesta aperta per il suo omicidio. In realtà, come documenta Capoccetti, l’effettiva distruzione della copia fotostatica inviata dalla digos avverrà solo il 7 luglio 1987. Da quel momento non c’è più traccia del dossier negli atti giudiziari. Per ritrovarne copia Capoccetti ha scritto anche alla digos, ricevendo lo scorso luglio un’evasiva risposta che tra le righe non smentisce affatto l’attuale possesso di copia del «materiale oggetto di sequestro». Documentazione che all’improvviso è riapparsa in mano ai carabinieri dopo la recente riapertura dell’inchiesta. Si è detto anche che il dossier sarebbe passato nelle mani del giudice Amato, ucciso mentre conduceva un’inchiesta contro Nar e Terza posizione, ma sempre secondo quanto accertato da Capoccetti non c’è alcuna traccia di protocollo che ne dia conferma. Questo trasmigrare, sparire e ricomparire, dimagrire, per infine esser distrutto e poi riapparire in copia fotostatica dove nessuno se lo aspetta, è senza dubbio una delle circostanze più sconcertanti di tutta la vicenda.

L’agenda rossa del 1977
Siamo entrati nelle pagine del diario di Valerio del 1977 con un sentimento di pudore. Ci sembrava di violare la sua intimità, i suoi segreti, quelli di un adolescente cresciuto in fretta. In quegli anni si diventava adulti presto travolti dalla forza di una corrente che insegnava come fosse possibile cambiare il mondo. Valerio surfava veloce su quell’onda di rivolta che non conosceva rassegnazione. Il suo era un coinvolgimento totale: almeno quattro riunioni politiche a settimana, tra collettivi, comitato e assemblee, non solo all’Archimede ma anche all’università. Annotava le manifestazioni e gli scontri del periodo, le ricorrenze, l’uccisione dei militanti di sinistra, da Francesco Lorusso ad Antonio Lo Muscio e Walter Rossi, insieme ai compiti in classe, i pomeriggi al muretto con gli amici, gli incontri con le ragazze e anche un  «abbiamo giocato a nascondino» che fa sorridere. Tanti gli slogan, roventi come la temperatura al suolo dell’epoca, ma anche una battuta del tipo: «Atac: associazione telline aspiranti cozze». Meglio non prendersi troppo sul serio. Il 4 marzo annota: «Mancia ripassa a scuola». Angelo Mancia, conosciuto come Manciokan, fattorino del Secolo d’Italia, era un noto picchiatore del quartiere. Venne ucciso per rappresaglia dalla «Volante rossa» poche settimane dopo la morte di Valerio, anche se con il suo assassinio non c’entrava nulla. Il 12 marzo sono appuntati gli scontri durante la manifestazione nazionale per l’uccisione da parte di un carabiniere di Francesco Lorusso e, qualche giorno dopo, il 15, la discussione nel collettivo «sui fatti di sabato e le baiaffe». Facevano discutere le pistole apparse durante il corteo e l’armeria presa d’assalto il sabato precedente. Il 22 settembre Valerio annota la partenza per Bologna dove partecipa, fino al 25, al convegno nazionale contro la repressione. Dormirà a casa di una zia accompagnato dalla madre, ci racconta Capoccetti. Il 15 novembre si legge «Vado all’Archimede, vengo aggredito». Quasi un presagio.

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Paolo Persichetti
Liberazione 14 febbraio 2010 (versione integrale)


Ad un certo punto del suo libro (scritto con Alesando Capponi, Sia folgorante la fine, Rizzoli 2010) Carla Verbano prende quasi per mano il lettore accompagnandolo lungo le strade che tracciano il quadrante nordest della Capitale. Un viaggio della memoria che si addentra per le vie dei quartieri Trieste, Salario, Nomentano, Montesacro, Talenti, Tufello, Val Melaina. La zona è tagliata in due dal ponte delle Valli che sul finire degli anni 70, come accadeva in molte altre strade o piazze d’Italia, «separava il bene dal male», segnava lo spartiacque politico tra i territori rossi e quelli neri. La “passeggiata” è costellata da tappe: marciapiedi, portoni, incroci, fermate d’autobus, bar, dove sono avvenuti scontri, attentati o sparatorie contro militanti di sinistra e di destra, giudici, poliziotti o persone ignare, uccise per sbaglio. Topologia di un conflitto, della sua parte più inutile, che ancora oggi la memoria ufficiale evita di nominare per quello che fu: una guerra civile strisciante. Senza contare i morti, ricorda la madre di Valerio Verbano: «Solo tra 1978 e 1979 tra Montesacro e Talenti ci sono stati 42 attentati dinamitardi a edifici, 87 aggressioni, 12 incendi ad automobili».
Il percorso che Carla Verbano propone, tenta di venire a capo della morte di suo figlio Valerio, diciannovenne militante dell’autonomia ucciso il 22 febbraio 1980. Dopo 30 anni i suoi assassini sono ancora senza volto. Un omicidio anomalo sul piano operativo, ma nel libro si ricorda un precedente, un ferimento realizzato da elementi dell’estrema destra avvenuto con le stesse caratteristiche ma dimenticato dalle indagini. Diversi sono i morti di quell’epoca rimasti senza responsabili: a cominciare da quelli commessi dalle forze dell’ordine, come Fabrizio Ceruso, ucciso il 5 settembre 1974 davanti ad un’occupazione di case a san Basilio, Pietro Bruno, morto nel 1975 nel corso di una manifestazione, Mario Salvi e Giorgiana Masi, entrambi colpiti alle spalle, il primo il 7 aprile 1976, la seconda il 12 maggio 1977. Nel pantheon della destra un posto particolare è riservato ai «martiri» che non hanno trovato esito giudiziario: Zicchieri, Cecchin, Mancia, Di Nella, i tre di Acca Larentia. A sinistra senza nome sono rimasti gli omicidi di Fausto Tinelli, Lorenzo Iannucci, Ivo Zini, uccisi tra il marzo e il settembre 1978. La lista ovviamente non pretende di essere esaustiva per nessuna delle parti.
A oltre trent’anni dai fatti, cosa è ancora possibile fare senza cadere nel culto cimiteriale della mistica vittimaria con cui, per esempio, la destra incensa i propri morti e che alcuni a sinistra tentano di imitare opponendo le proprie icone insanguinate in una sorta di guerra memoriale, prolungamento metaforico dello scontro con i fascisti degli anni 70? Questa costruzione postuma di un’identità vittimaria avvitata su se stessa, oltre a non essere rappresentativa del reale storico dell’epoca, ripropone in modo univoco e preponderante il paradigma antifascista come asse identitario e percorso prioritario dentro il quale ricostruire l’azione politica.
Forse c’è un solo percorso che può servire alla ricostruzione completa di quegli anni senza cadere nella trappola identitaria: un’amnistia. Solo l’uscita dall’ipoteca penale può aiutare a scrivere finalmente quelle pagine bianche. Sarà poi la storia che si occuperà di dare il suo giudizio.
La vera domanda è cosa sia la destra oggi e come combatterla. Pensare di riproporre analisi e modelli d’azione che ripescano il vecchio paradigma dell’antifascismo militante è quantomeno inadeguato, senza voler qui riaprire una vecchia querelle che pur merita di tornare ad essere affrontata. Già negli anni 70 sull’antifascismo militante come ideologia non vi era unanimità. Nato dall’impulso iniziale del Pci che tentò di convogliare sul pericolo neofascista la spinta dei movimenti sociali, venne fatto proprio da alcuni settori della nuova sinistra fino a divenire una sorta d’ideologia che esorbitava dalla questione concreta delle violenze fasciste. Considerata da altre realtà politiche della sinistra rivoluzionaria come un diversivo che “sopravvalutava contraddizioni secondarie o arretrate”, l’ideologia ipostatizzata dell’antifascismo in tutte le sue varianti era criticata perché conteneva in nuce derive democraticiste, legalitarie, giustizieriste, complottistiche che allontanavano dalla centralità del conflitto anticapitalista. Il dibattito sembra oggi riproporsi e come sempre la memoria ci parla del presente.

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Omicidio di Valerio Verbano: la procura riapre l’inchiesta e punta l’attenzione su due nuovi sospetti

L’omicidio sarebbe nato dalla volontà di un nucleo armato dell’area di Tp del quartiere di utilizzare l’azione per accreditarsi con i Nar. Il quadro probatorio resta tuttavia ancora indiziario

Paolo Persichetti
Liberazione 23 febbraio 2011


Ufficialmente nessun nome è stato ancora iscritto nel registro degli indagati per le nuove indagini sull’omicidio di Valerio Verbano, il diciannovenne militante dell’Autonomia operaia ucciso il 22 febbraio di 31 anni fa da un commando di tre neofascisti che gli tesero un agguato nella sua abitazione dopo aver immobilizzato i genitori. E’ vero tuttavia che l’attenzione degli inquirenti si è concentrata su due personaggi che all’epoca avevano più o meno la sua stessa età. A loro si sarebbe arrivati attraverso un aggiornamento dei vecchi identikit, realizzati sulla base delle testimonianze della madre di Valerio, Carla, che aprì la porta agli attentatori e vide uno di loro in faccia, e di un vicino di casa che incrociò i tre sulle scale mentre si allontanavano precipitosamente. Grazie a dei moderni programmi di grafica informatica in uso alle forze di polizia, il Ros dei carabinieri che conduce le indagini per conto dei pm Pietro Saviotti e Erminio Amelio ha invecchiato gli identikit dell’epoca comparandoli con i volti attuali di alcuni sospettati, giungendo a sovrapporli con quelli di due neofascisti di quegli anni. Non ci sarebbero dunque nuovi riconoscimenti. Insomma il quadro probatorio raccolto allo stato sarebbe prettamente indiziario, supportato da ricostruzioni logiche, per questo in procura si procede con cautela. Domani si svolgerà un esame molto importante, un accertamento tecnico irripetibile su quei pochi reperti sfuggiti alla distruzione dei corpi di reato decisi dal giudice istruttore Claudio D’Angelo, che per oltre un decennio ha avuto in mano il dossier. Di fatto la procura sta espletando solo oggi alcune di quelle richieste che nel gennaio 1987 il nuovo pm incaricato delle indagini, Loreto D’Ambrosio, aveva chiesto senza trovare ascolto. Giovedì i tecnici di laboratorio tenteranno di individuare eventuali tracce genetiche dal bottone, gli occhiali e la pistola, una beretta 7,65, lasciati dagli attentatori. Probabilmente verrà svolta anche una perizia comparativa sull’arma per verificare, come chiesto nuovamente dai legali di Carla Verbano, l’eventuale compatibilità della pistola con un’arma da fuoco dello stresso calibro impiegata in una rapina realizzata da tre esponenti di Terza posizione nel 1979. Ad individuare i due volti si sarebbe giunti dopo un accurato lavoro di mappatura della violenza politica nei quartieri dell’area nord est della Capitale, una delle zone dove lo scontro tra rossi e neri fu più sanguinoso. Non è escluso che ad indirizzare questo lavoro di analisi vi sia stato il contributo di qualche “gola profonda”. Uno o più collaboratori di giustizia a cui sarebbe stato chiesto di raschiare il fondo del barile. L’ipotesi su cui sembrano aver lavorato gli inquirenti è quella di un’azione messa in piedi da un “nucleo di quartiere”, appartenente all’area dello spontaneismo armato di destra, per candidarsi all’ingresso nei Nar. Lo scenario è abbastanza verosimile, risponde infatti a delle dinamiche molto frequenti in quegli anni di forte accelerazione militarista, dove gruppi esterni spesso composti da giovanissimi realizzavano azioni indipendenti per accreditarsi presso i gruppi maggiori. I Nuclei armati rivoluzionari erano una sigla aperta che si prestava ad episodi del genere. L’azione venne rivendicata a nome del comando «Thor, Balder e Tir», mai ricomparso successivamente, e fu criticata dai militanti storici dei Nar con un altro comunicato. Secondo quanto riferito da Repubblica, i sospetti si sarebbero incentrati su un «professionista» affermato e su un attivista di estrema destra riparato da molti anni all’estero. I due non sarebbero affatto degli sconosciuti e sicuramente uno di loro sarebbe stato fermato in passato per possesso di armi. La descrizione del militante espatriato lascia pensare ad un latitante riparato in Sud America, in un Paese tuttora coinvolto in una accesa controversia giuridico-diplomatica con l’Italia. Per altro il personaggio è stato condannato per aver partecipato proprio alla rapina del 1979 nella quale venne utilizzata una 7,65, arma di cui si sta cercando di verificare la compatibilità con quella che Valerio Verbano strappò dalle mani dei suoi assassini. Inesatto appare invece il richiamo al ferimento di Roberto Ugolini, il militante ex di Lc colpito alle gambe dopo una irruzione nell’abitazione dei genitori nel marzo 79 da un nucleo di Terza posizione di cui sono noti i nomi. Uno di loro era in carcere al momento dell’assassinio di Verbano, l’altro, Giorgio Vale, nell’80 già faceva parte dei Nar. Identiche modalità d’azione che però conducono ad ipotizzare l’intervento di una medesima area armata anche se con autori diversi.

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Ucciso 31 anni fa da un commando dei Nar e poi dalle omissioni e le inadempienze della magistratura. Agli antipodi di Roberto Saviano. Valerio Verbano diceva ad una sua amica: «No, io non ci terrei proprio ad essere un eroe. Mi sembra proprio di buttar via la vita. Le cose le devi fare, ma devi riuscire ad ottenere qualcosa in cambio senza doverci mettere la tua vita»

Paolo Persichetti
Liberazione 20 febbraio 2011


Il 22 febbraio 1980 moriva a Roma Valerio Verbano, giovanissimo militante dell’autonomia operaia ucciso da un commando neofascista che l’attendeva all’interno della sua abitazione, nel quartiere di Montesacro, dopo aver immobilizzato i genitori. I Nar, Nuclei amati rivoluzionari, sigla “aperta” dello spontaneismo armato della destra estrema, rivendicarono l’azione fornendo alcuni riscontri inequivocabili. A 31 anni di distanza due corposi volumi tornano a scandagliare con cura quella vicenda rimasta senza una verità giudiziaria definita: Valerio Verbano, ucciso da chi, come e perché, di Valerio Lazzaretti, Odradek, 461 pagine, 25 euro; Valerio Verbano, una ferita ancora aperta. Passione e morte di un militante comunista, di Marco Capoccetti Boccia, Castelvecchi, 380 pagine, 19,50.
All’interno dell’area antagonista romana la memoria di Valerio Verbano, e della sua breve e intensa storia politica, si è tramandata con forza. Ogni anno l’anniversario della sua morte è scandito da un corteo che traversa le strade del suo quartiere e da numerose iniziative in suo ricordo. I due volumi appena usciti sono una testimonianza di questa memoria ancora incandescente. E’ questa una prima difficoltà per lo storico: districarsi da ciò che i portatori di memoria vogliono affermare nel presente. Due sono i temi caldi che appassionano l’evento memoriale rinnovato attorno alla figura di questo giovane militante comunista: l’identità sconosciuta degli autori dell’assassinio e la volontà di riaffermare la pratica dell’antifascismo militante in un periodo storico che vede diversi esponenti della destra armata degli anni 70, alcuni dei quali persino coinvolti nelle indagini per la sua morte, far parte a pieno titolo del ceto politico-istituzionale. Sia Lazzaretti che Capoccetti attraverso un certosino lavoro di controinchiesta e un’analisi impietosa delle indagini giudiziarie mostrano come gli autori dell’omicidio non siano da ricercare tanto lontano, contrariamente a quanto affermato da Sandro Provvisionato e Adalberto Baldoni in un’intervista apparsa sull’Espresso di qualche tempo fa. Secondo Provvisionato e Baldoni le morti di Verbano e poi quella del picchiatore missino Angelo Mancia, avvenuta poche settimane dopo ed anch’essa rimasta senza responsabili, sarebbero da addebitare ad una «entità» che avrebbe agito per elevare il livello di scontro politico tra aree estreme. Come se a Roma tra il 1979 e il 1980 ci fosse stato bisogno di imput del genere. Con la loro inchiesta Lazzaretti e Capoccetti ribadiscono la matrice neofascista dell’assassinio, come testimonia quella prima rivendicazione che per autocertificarsi riportò alcuni dettagli riservati conosciuti solo dagli autori del delitto. Il nucleo dei Nar che rivendicò l’episodio citava i comandi «Thor, Balder e Tir», mai comparsi successivamente. Verbano ingaggiò una lotta furibonda contro i suoi aggressori. La ricostruzione di quanto avvenne sulla scena del delitto fa pensare che egli riuscì a disarmare uno dei tre attentatori e stese a terra gli altri due. Il colpo mortale venne sparato alle sue spalle dal basso verso l’altro mentre stava cercando di raggiungere il balcone. L’omicidio fu probabilmente una forzatura che suscitò discussioni nell’area dello spontaneismo armato neofascista. Un successivo comunicato siglato Nar, poi si seppe scritto da Valerio Fioravanti, criticò l’azione. Arrestato il 20 aprile 79, Verbano venne scarcerato il 22 novembre dello stesso anno. Tre mesi dopo fu ucciso. L’arresto c’entra in qualche modo con la sua morte perché durante la perquisizione della sua stanza che ne seguì, oltre ad una pistola, la digos scoprì un corposo dossier composto da foto, nomi, indirizzi e schede sull’estrema destra romana. Si trattava di un lavoro di controinformazione che Valerio conduceva insieme ad altri compagni del collettivo che aveva messo in piedi. Uno schedario forse in parte ereditato da precedenti strutture politiche. Fatto sta che quel dossier una volta finito nell’ufficio corpi di reato del tribunale scomparve. In tribunale all’epoca lavorava un magistrato istruttore con molte relazioni, Antonio Alibrandi, padre di Alessandro, esponente di primo piano dei Nar morto tempo dopo in un conflitto a fuoco. Alibrandi padre, spiegavano le cronache dell’epoca, era una pedina di Giulio Andreotti per conto del quale aveva incriminato Paolo Baffi, allora direttore generale della Banca d’Italia, e arrestato nel marzo 1979, Mario Sarcinelli, suo vice. La vicenda del dossier e lo scontro di piazza Annibaliano con un gruppo di fascisti, nel quale Verbano aveva perso i documenti, avevano attirato su di lui l’attenzione trasformandolo in un obiettivo.
Convince meno, in questa battaglia per la memoria, l’idea che dai percorsi giudiziari possa scaturire dopo tanti decenni la verità. I due libri documentano la scandalosa condotta della magistratura, addirittura la distruzione dei corpi di reato lasciati dagli assassini, sottratti così alle nuove tecniche d’indagine. Un paradosso visto che l’omicidio è ormai un crimine imprescrittibile, ragion per cui reperti e corpi di reato dovrebbero essere conservati per sempre. Questo bisogno di un colpevole, richiesta umanamente comprensibile, rischia però di trasformarsi in un boomerang politico. Lo si è già visto con la richiesta della riapertura delle indagini, lo scorso anno. Alemanno aveva incontrato i dirigenti della procura. Si era parlato di 19 casi irrisolti, per poi alla fine assistere soltanto alla riapertura dell’inchiesta sul rogo di Primavalle, unico episodio ad avere una verità processuale accertata ma utile alla retorica vittimista della destra. L’unica strada è l’uscita dalle ipoteche penali accompagnata da una richiesta di trasparenza totale.
Il volume di Lazzaretti, grazie ad un’imponente documentazione archivistica, sgretola la narrazione vittimistica diffusa dalla destra negli ultimi anni. E’ impressionante la mole di aggressioni fasciste che avvenivano nella città di Roma. Quello di Capoccetti, ricavato da un ulteriore sviluppo della sua tesi universitaria, ricostruisce attraverso molte interviste il vissuto politico di Verbano, compresa la graduale maturazione di un suo dissenso con la strategia politica dei collettivi autonomi. I due libri tuttavia evitano di approfondire alcuni non detti confinati nelle pieghe della sua storia. Tra questi, per esempio, il nodo dell’antifascismo militante. Il dissenso contro lo «sparare nel mucchio» che aveva portato Verbano ad intervenire pubblicamente sulle frequenze di radio Onda rossa per criticare l’uccisione di Stefano Cecchetti, che non era fascista, colpito a caso davanti ad un bar frequentato da militanti di destra. Omicidio che per crassa ignoranza gli venne imputato dai suoi assassini nel volantino di rivendicazione. Esistevano all’epoca diverse interpretazioni dell’antifascismo militante, alcuni lo ritenevano tema centrale, altri una questione di retroguardia. Alcuni l’utilizzavano per frenare la spinta verso i gruppi armati (l’esatto contrario di quel che sostiene Guido Panvini in, Ordine Nero, guerriglia rossa, Einaudi 2009). C’erano poi idee diverse sul modo di condurlo. Insomma, da questo punto di vista certamente un’occasione persa.

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Strage di Brescia, De Luna: «Senza verità giudiziaria il passato non passa»

Dopo l’assoluzione degli imputati per la strage di Brescia del 1974 parla Giovanni De Luna: «Senza verità giudiziaria il passato non passa»

La tesi sostenuta dal professor De luna in questa intervista è oggi molto diffusa. Essa ritiene infatti che la liturgia del processo penale possa svolgere una funzione terapeutica, favorendo la riparazione psicologica della vittima. A nostro avviso si tratta di una deriva sbagliata, anzi devastante poiché:

a) innesca una privatizzazione del diritto di punire;
b) la giustizia processuale perde in questo modo il suo ruolo peculiare di ricerca delle responsabilità per rivestire la funzione di ricostruzione clinica della persona offesa;
c) conseguenza che apre la portà al rischio di verità giudiziarie di comodo, verità politiche – altrimenti dette “ragion di Stato” – necessarie a placare domande che vengono dall’opinione pubblica o servono a lenire semplicemente la sofferenza dei familiari, ad appagarne il risentimento;
d) devasta la dimensione psicologica delle vittime stesse, messe di fronte all’assurdo paradosso di dover pretendere verità da quello stesso Stato coinvolto nei fatti incriminati;
e) verità che evidentemente non potrà mai venire senza che sia investita la dimensione del cambiamento politico delle istituzioni coinvolte;
f) ne può uscire soltanto un atteggiamento vittimistico e querulante che di fronte al frustrante fallimento degli esiti processuali, o peggio al mancato appagamento che la scena giudiziaria offre (“la verità giudiziaria non dice tutto”, “i colpevoli nascondono altre verità”, ”la pena deve essere infinità anche una volta sconata per intero”), trascina la figura della vittima in una spirale di risentimento senza fine, di avvitamento rancoroso;

E’ sulla verità storica che occore dunque lavorare. Ciò dipende da quelle categorie, gli imprenditori della memoria, che lavorano con la materia storica ma dipende anche e soprattutto dall’autorganizzazione sociale, dalla capacità di creare le condizioni politiche perché questa verità esca fuori.

Paolo Persichetti
Liberazione
18 novembre 2010


Nonostante le cinque fasi istruttorie e gli otto gradi di giudizio l’ennesimo processo per la strage di piazza della Loggia a Brescia si è concluso senza essere riuscito ad accertare, «oltre ogni ragionevole dubbio», l’identità degli autori e dei mandanti dell’attentato che il 28 maggio 1974 provocò 8 morti e 102 feriti durante una manifestazione antifascista. Come è accaduto anche per gli undici gradi di giudizio sulla strage di piazza Fontana la macchina della giustizia sembra girare a vuoto quando si tratta di identificare autori e mandanti della violenza stragista che ha insanguinato la prima parte degli anni 70.
Sia chiaro, i processi non servono soltanto a condannare le persone chiamate in giudizio ma a stabilire una «verità giudiziaria» (che non per forza è la copia carbone della verità storica), la quale prevede anche la possibilità di giungere a delle assoluzioni (circostanza che si ha tendenza a dimenticare troppo facilmente). Credere che un processo non sia servito a nulla quando non porta a delle condanne è dunque un errore di prospettiva che contiene un’idea deformata di giustizia. Tuttavia il dispositivo di assoluzione emesso martedì dalla corte d’assise di Brescia suscita molta frustrazione poiché non afferma la piena estraneità delle persone assolte, ma ricorre all’ambigua formula della «prova mancante e contraddittoria».
In sostanza la sentenza (capiremo meglio una volta rese pubbliche le motivazioni scritte), sembra riconoscere un fondamento alla ricostruzione del contesto all’interno del quale è maturata la strage. L’ambiente neofascista veneto, le cellule ordinoviste, la presenza d’infiltrati e doppiogiochisti del servizio segreto militare italiano e della Cia. Nonostante ciò il processo – riconosce sul manifesto lo storico Mimmo Franzinelli – era appesantito da una ricostruzione dei fatti «sovrabbondante, talvolta dietrologica», sorretta da «un castello accusatorio poi crollato con la ritrattazione di Maurizio Tramonte» (la fonte Sismi denominata Tritone), «personaggio infido, collaboratore di giustizia premiato con larghe prebende», e la presenza di altri testi che hanno ritrattato in aula le precedenti ammissioni, come Martino Siciliano e Carlo Digilio, ordinovista in contatto con la Cia, mentre l’autore materiale sarebbe stato un altro ordinovista morto per overdose nel 1991.
Dopo questa ennesima sconfitta comincia a farsi strada l’idea che ad oltre 30 anni dai fatti il mezzo processuale abbia esaurito ogni capacità conoscitiva sulle vicende più oscure e drammatiche degli anni 70.

Professor De Luna, il giudice Salvini dice che ora gli storici devono sostituirsi ai giudici. Se la verità giudiziaria non è accessibile – ha spiegato – l’unica via è una commissione di esperti indipendenti per la memoria del Paese.
Mi sembra una idea strampalata. Ognuno deve fare il suo mestiere. I giudici fanno i giudici e gli storici gli storici. Non confondiamo le due cose. La storia non è un tribunale.

L’idea che la verità sia accessibile unicamente per via giudiziaria, questo voler delegare continuamente alla magistratura la funzione di scrivere la storia degli anni 70 non è un errore, oltre che la prova di una mancanza di coraggio della società civile e di timidezza da parte degli storici?
L’assenza di verità giudiziaria impedisce l’elaborazione del lutto, non rimargina le ferite perché vengono meno i presupposti di verità e giustizia che delle istituzioni virtuose dovrebbero fornire. Questo vuoto rende impossibile la convivenza civile, tiene aperta una memoria conflittuale, un passato che non passa che nutre rancori, desideri di vendetta, richieste di risarcimenti, bisogno di legittimazione. Un groviglio identitario di passioni, una dimensione emotiva e sentimentale della memoria che resta campo di battaglia permanente tra opposti atteggiamenti vittimari.

Eppure di fronte a verità giudiziarie pienamente accertate, pesanti condanne emesse e scontate, come è avvenuto per la lotta armata di sinistra, questa vertigine vittimaria non è affatto cessata. Al contrario, alimentata dalle più fantasiose dietrologie, si è spesso mostrata ancora più aggressiva.
E’ vero, però c’è una differenza di fondo tra chi chiede verità e giustizia, quando questa manca, e chi mantiene un atteggiamento vittimario quando siamo di fronte a sentenze che hanno certificato le responsabilità individuali. In questo caso l’atteggiamento vittimario cambia di segno e perde il suo interesse pubblico e il suo valore civile per trasformarsi in una memoria che può essere carica di rancore o restare confinata in una dimensione individuale.

Lei distingue un vittimismo virtuoso da uno ripiegato su se stesso.
Non tutte le memorie vittimarie sono uguali. Il familismo civico è stato possibile grazie alla presenza di una verità giudiziaria. E’ in questo modo che molti familiari hanno potuto elaborare il lutto ed in alcuni casi avvicinarsi addirittura alla ragioni degli assassini. Quella legata alla mancanza della verità giudiziaria è oggettivamente una memoria pubblica che dovrebbe ispirare i valori della cittadinanza.

Ma se la verità giudiziaria, quando c’è, non è appagante, cosa deve fare un Paese perché il passato passi?
Avere delle istituzioni virtuose in grado di recintare uno spazio pubblico fatto di verità, di giustizia, di valori riconoscibili dove non c’è più una democrazia legata al mondo dell’indicibile e del nascosto ma del visibile e della trasparenza.

E se queste istituzioni non sono virtuose o addirittura appaiono colluse con la stagione delle stragi?
Poco prima che cadesse il governo Prodi era stata approvata la legge per togliere il segreto di Stato. Un segnale di trasparenza. Poi i regolamenti attuativi non sono mai stati realizzati. Finché le istituzioni si comporteranno così quel ruolo virtuoso non sarà mai ricoperto.

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Quando la memoria uccide la ricerca storica

Fini e il futuro della destra nazionale verso un nuovo conservatorismo

Il cuore oltre Berlusconi. A Mirabello il Presidente della Camera ha dato l’addio al populismo

Guido Caldiron
Liberazione
7 settembre 2010


Gianfranco Fini ha scelto la platea di Mirabello, dove il vecchio Movimento Sociale di Almirante rinnovava ogni estate la sfida della destra nazionale nel cuore dell’Emilia rossa, per dar vita a un nuovo capitolo di quella storia paradossale cui la politica italiana ci ha abituato da tempo. Dopo aver guidato un partito, Alleanza nazionale che scelse di abbandonare il Novecento, inaugurando la stagione “post-fascista”, all’ombra dei successi del montante berlusconismo – la svolta sancita dal congresso di Fiuggi seguì di alcuni mesi la nascita del primo esecutivo guidato dal Cavaliere -, il Presidente della Camera decide che è venuto ora il momento di abbandonare la nave e di denunciare le derive plebiscitarie e personalistiche del populismo a cui Berlusconi ha dato voce e corpo. L’ingresso nella famiglia della destra europea, a tendenza liberale e conservatrice, per altro più volte annunciato, avviene perciò all’insegna della rottura con l’uomo grazie al quale l’Msi ha avuto i suoi primi ministri, è uscito da un isolamento durato mezzo secolo e si è potuto imporre come una grande forza politica nazionale. Le parole utilizzate da Fini non lasciano alcun dubbio. Bruciata apparentemente sul campo negli ultimi mesi l’ipotesi di costituzionalizzare il berlusconismo, l’ultimo leader del Msi ha scelto domenica di chiamare le cose con il loro nome. Ha spiegato che il tempo della gratitudine per quanto fatto da Berlusconi nel 1994 è finito, che il Cavaliere deve smetterla di confondere la leadership con l’atteggiamento di un propritario d’azienda e che il Pdl, partito di cui è stato il co-fondatore, si è trasformato in una Forza Italia allargata «con qualche colonnello o capitano che ha soltanto cambiato generale e magari è pronto a cambiarlo ancora», tanto per chiarire come valuti il sostegno assicurato al Cavaliere dai vari Alemanno, Gasparri e La Russa. E forse anche il riferimento fatto da Fini all’«egoismo diffuso» dell’Italia di oggi andava nella stessa direzione.
Il primo paradosso riguarda perciò questa sorta di “parricidio”, andato in scena sul palco biancorossorverde di Mirabello e a cui è stato chiamato simbolicamente a partecipare anche Giorgio Almirante, citato dal Presidente della Camera all’inizio del suo discorso come «un uomo certamente capace di guardare avanti (che) indicò al suo popolo la necessità di un salto di generazione», scegliendo oltre vent’anni fa lo stesso Fini per guidare la comunità della fiamma tricolore. Il secondo, decisamente più grave, riguarda le aspettative che da sinistra in molti sembrano aver riposto, e continuano a riporre, nel Presidente della Camera. A Mirabello Fini ha parlato da uomo di destra, tornando a citare, come aveva fatto lo scorso anno in occasione dell’ultimo congresso di An, che sanciva la nascita del Pdl, una celebre frase di Ezra Pound che suona più o meno così: «Se un uomo non è disposto a lottare per le proprie idee o non valgono niente le sue idee o non vale niente lui». Ha parlato di patria e di famiglia, di una «sintesi tra capitale e lavoro», di giovani, meritocrazia e «etica del dovere». Ha parlato, ancora una volta, di integrazione per gli immigrati onesti e di lotta all’immigrazione clandestina: tema su cui in una sinistra che oscilla tra il “miserabilismo” di chi non vede che gli immigrati appena sbarcati da un gommone e la “rincorsa securitaria” di chi vorrebbe dare la caccia ai lavavetri, si registra la maggiore eco delle sue proposte.
La destra di Fini si smarca da Berlusconi e dalla Lega, considerata quest’ultima una forza «a dimensione locale» e solo in parte un concorrente, e smette di inseguire le sirene del populismo, dopo che nell’ultimo decennio gli intellettuali “d’area” hanno dedicato pagine e pagine al posibile paragone tra il Cavaliere e il generale De Gaulle che, certo, oltre a sostenere il presidenzialismo fu tentato più volte dalla prova di forza muscolare, pur essendo decisamente di un’altra stoffa rispetto all’uomo di Arcore. Ma la rottura con la nuova politica inaugurata dall’ex padrone di Mediaset non pone Fini al di fuori della destra, come sembra invece suggerire un altro paradosso italiano, ne rivela invece il possibile profilo futuro. Dopo l’Msi e ora, almeno in prospettiva, dopo Berlusconi, la destra nazionale sembra alla ricerca di un approdo che è, in massima parte figlio della contingenza e dei paradossi della nostra politica, ma che continua a alimentarsi di alcuni saldi punti di riferimento. Il viaggio sembra però appena iniziato. Al punto che nell’introduzione a uno dei testi che danno conto dei lavori in corso dentro e attorno a Futuro e libertà, In alto a destra, Coniglio editore (pp. 288, euro 14,50), e che raccoglie contributi di Campi, Croppi, Lanna, Perina, Terranova e Raisi, per non citare che alcuni dei partecipanti, Giuliano Compagno spiega come «da una lettura attenta di questa raccolta di articoli, ripresi dal Secolo, da Farefuturowebmagazine e da Charta Minuta, si trae il convincimento che la destra, quale categoria del politico, non sia più definibile con certezza, in essa albergando, semmai fosse, tanto un’ampia polisemia di riferimenti concettuali quanto un esteso richiamo a opere, a pensatori e a miti che hanno illustrato il nostro Novecento per tacere di un passato ancor più remoto». Questo mentre Salvatore Merlo, in La conversione di Fini. Viaggio in una destra senza Berlusconi, Vallecchi (pp. 220, euro 16,00) attribuisce al ruolo personale giocato dallo stesso Fini la possibilità di indicare l’insieme di questo percorso: lontano dai tempi delle scuole di partito, oggi «il leader è una figura capace di evocare un’idea anche attraverso la sua sola immagine». Così, per capire dove voglia andare ora il presidente della Camera, conviene, suggerisce Merlo, guardare alla sua formazione politica piuttosto che all’evoluzione della sua carriera. Qualche certezza, in questo quadro ancora provvisorio, l’aveva però indicata lo stesso Fini che, solo lo scorso anno, nel suo libro, Il futuro della libertà (Rizzoli) aveva manifestato un grande interesse per la politica inaugurata da Ronald Reagan trent’anni fa. L’elezione di Reagan «a presidente degli Stati Uniti nel novembre del 1980 – scriveva Fini – fu il primo grande segnale che l’Occidente e il mondo libero stavano per lanciare la loro grande controffensiva politica, economica, culturale e tecnologica dopo le battute d’arresto degli anni Settanta»: «Dietro lo stile di Reagan c’era il ritorno della tensione morale e ideale della politica».

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Neofascismo, il millennio in provetta

G8, massacro alla Diaz. Per i giudici d’appello il blitz fu ordinato da De Gennaro

Depositate le motivazioni della sentenza d’Appello

1 agosto 2010 Avevano l’obbligo d’impedire le violenze e non lo hanno fatto. Gli alti funzionari della polizia presenti durante l’irruzione e il sangiunoso pestaggio nella scuola Diaz di Genova durante il G8 sono stati condannati dalla Corte d’Appello in base all’articolo 40 del codice penale. La norma appare estremamente chiara in proposito, “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. E’ quanto emerge dalle motivazioni della sentenza di secondo grado per le violenze alla Diaz nel 2001. 310 pagine depositate con largo anticipo sui tempi previsti dalla Corte d’Appello di Genova. I giudici spiegano che Gratteri, Canterini e Luperi, inviati a Genova dal capo della polizia Gianni De Gennaro, erano i più alti funzionari presenti al momento dell’irruzione, quindi responsabili gerarchicamente dell’operato dei loro sottoposti. Hanno visto quello che accadeva e, poiché la loro superiore posizione gerarchica lo consentiva, avrebbero potuto impedire le violenze. Ma non lo fecero. Secondo la norma, una omissione che cagioni un evento che non si sarebbe dovuto verificare equivale a cagionare l’evento stesso, quando l’agente che per funzione ha l’obbligo giuridico d’impedirlo non interviene per farlo. Per questa ragione il 18 maggio scorso, ribaltando la sentenza di primo grado, vennero condannati ben 25 poliziotti, tra cui l’intero vertice della polizia di Stato. 4 anni di reclusione per l’allora capo dell’anticrimine Francesco Gratteri, oggi responsabile della polizia di prevenzione (ex Ucigos), 5 anni per l’ex comandante del primo reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini, “riparato” in Romania con l’Interpol, 4 anni a Gianni Luperi attuale dirigente dell’intelligence interna, 3 anni e 8 mesi per Spartaco Mortola, vice del questore di Torino. “Preso atto del fallimentare esito della perquisizione – si legge nelle motivazioni – si sono attivamente adoperati per nascondere la vergognosa condotta dei poliziotti violenti concorrendo a predisporre una serie di false rappresentazioni della realtà a costo di arrestare e accusare ingiustamente i presenti nella scuola”, come avvenne con le famose bottiglie molotov. Mentre in primo grado fu ritenuto unico responsabile Pietro Troiani, l’Appello ha stabilito che i filmati dell’episodio sono inequivocabili poiché indicano un conciliabolo tra alti dirigenti della polizia nel cortile con le bottiglie in mano. Dalle motivazioni si evince come il blitz, sia nato da un’esplicita richiesta del capo della polizia di riscattare l’immagine del corpo. Ora tocca alla Cassazione pronunciarsi e finché non vi è sentenza passata in giudicato l’imputato deve considerarsi innocente. Ma a quanto pare esistono degli innocenti più innocenti degli altri. Per i vertici della polizia non si pone alcun problema di opportunità dopo la condanna con la funzione esercitata. Restano tutti al loro posto. In fondo non hanno tutti i torti. Il lavoro sporco venne fatto per conto del governo e vicepresidente del consiglio era un certo Giafranco Fini, che nei giorni delle violenze si era acquartierato nella centrale operativa della caserma dei carabinieri di san Giuliano.

Link Una banda armata chiamata polizia

Una banda armata chiamata polizia

Ciò che legittima il preteso monopolio dello Stato nel ricorso a mezzi coercitivi (vedi la nota definizione di Max Weber) e lo distingue da una qualunque banda, cosca, ‘ndrina, clan, branco è il principio di autolimitazione e automoderazione. Più l’uso della forza è normato, più la violenza è regolamentata, ridotta ai minimi termini, ai momenti più estremi, maggiore è il grado di legittimazione che la forza pubblica acquisisce. Ma nel momento in cui la violenza istituzionale abbandona questi requisiti, lo Stato ed i suoi appparati tornano ad essere una banda come le altre, non la banda legittima ma soltanto la banda più forte… finché dura.


Libri – autorecensione. Rabbia, odio, spirito di corpo. Nel libro di Carlo Bonini, Acab, Einaudi, i duri delle forze dell’ordine raccontati a partire dalle loro discussioni segrete sul Web. Quello che i celerini non dicono ma fanno

di Carlo Bonini
Repubblica
16 gennaio 2009

“Le violenze alla Diaz dopo il G8 di Genova? Non mi vergogno di nulla. L’Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino”.
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“Cari colleghi, riteniamo giusto rammentare, per senso di responsabilità, che DoppiaVela è uno spazio per i poliziotti messo a disposizione dalla polizia di Stato. Le critiche, le lamentele, le segnalazioni di disservizi, anche se esternate in modo aspro ma corretto, fanno parte delle normali dinamiche di dialogo tra l’amministrazione centrale e i singoli dipendenti. Trovano dunque una sede naturale all’interno del portale che non può, però, garantire spazi che la normativa vigente attribuisce ad altri soggettii”.
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Ogni volta che entrava in quella benedetta chat intranet, Drago ne gustava la dimensione perversa. A cominciare da quel nome un po’ ingessato – DoppiaVela, la sigla della centrale operativa nelle comunicazioni radio – e dal post politicamente corretto che metteva sull’avviso i naviganti. Perché la verità era che lì dentro si poteva finalmente essere un po’ guardoni e un po’ scorpioni. Masturbarsi dietro un avatar, leggendo l’illeggibile o scrivendo l’inconfessabile. Divorarsi a vicenda – sì, proprio come scorpioni in bottiglia – soltanto per scoprirsi più soli nella propria rabbia. Finita sulle prime pagine dei giornali con sei rotondi anni di ritardo, la “macelleria messicana” del dottor Fournier era stato un potente lassativo. Il forum era impazzito. Genova, troppo lontana e spaventosa per sembrare ancora vera, era diventata solo l’occasione per un outing collettivo. La prova, ammesso ce ne fosse bisogno, che il tempo era stato una pessima medicina. Che odio chiama odio.
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G. DA ROMA Ecco che spunta fuori un nostro bel funzionario, che da buon samaritano riaccende fiamme polemiche e propositi dinamitardi. Che, sicuramente, nelle prossime manifestazioni gli antiglobal metteranno in atto perché più autorizzati che mai. Ma quando la finiremo di fare sempre queste mere figure e inizieremo a tenere la bocca chiusa?
Per Aspera ad astra.
N. DA ANZIO Fournier poteva e doveva risparmiarsi la frase a effetto, “macelleria messicana”. Adesso, per i colleghi ci sarà la solita Santa Inquisizione mediatico-politica.
Unus sed leo.
I. DA GENOVA Ma questo Fournier dov’era durante gli scontri? Ancora non l’ho capito. Era fra i manifestanti? Ha respirato lacrimogeni? O aveva una mascherina? Secondo me si è messo a cantare perché non gli hanno dato nessuna promozione.
P. DA BARI È ancora in polizia o ha chiesto di passare alla politica?
Sono pronto a mostrare il petto e non voglio essere bendato. Ma tu hai il coraggio di guardarmi negli occhi? E che cazzo, mostra ai più di essere uomo. Barcollo ma non mollo.
D. DA LA SPEZIA Colleghi, basta di parlare di questo soggetto. È penoso e noi lo stiamo aiutando nella sua viscida campagna elettorale.
A. DA CAGLIARI Genova, presente con orgoglio e senza nulla da nascondere. Posso testimoniare di Bolzaneto! Non si tratta di essere grandi e non è veramente falsa modestia è solo servizio! Ero al VI reparto mobile di Genova.
L. DA SALUZZO Io c’ero. VI reparto mobile. Tanto orgoglio, tanta rabbia!
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(…)
C. DA ROMA Non capisco perché non vogliate parlare degli errori commessi. Qui si tratta di dire chiaramente:
I colleghi che gridavano Sieg Heil ci fanno vergognare, o no?
I colleghi che avrebbero minacciato di stupro le signorine antagoniste meritano la nostra esecrazione, o no?
I colleghi che si accanivano con trenta manganellate sul primo che passava senza sapere se era solo un povero illuso pacifista o un violento vero, hanno sbagliato, o no?
La collega che al telefono con il 118 di Genova, riferendosi alla Diaz, parla di “Uno a zero” dimostra di essere intelligente?
Su queste cose non ci può essere ambiguità!!!
L’esistenza è battaglia e sosta in terra straniera.
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E bravo il nostro C., pensò Drago. Stai a vedere che ora gli vanno addosso i padovani. Se ne stanno zitti da troppo tempo. Ma è più forte di loro. Se c’è da far vedere chi ce l’ha più duro, loro non sanno resistere. Rinfrescò la chat. Solo per vincere una scommessa troppo facile.
Clic.


E. DA PADOVA Caro C., rispondo alle tue domande:
“I colleghi che gridavano Sieg Heil ci fanno vergognare, o no?”
No. Non mi vergogno del fatto che in polizia ci siano dei coglioni. Non più del fatto che ci siano in Italia. Sono fiero di essere celerino e italiano, nonostante loro!
“I colleghi che avrebbero minacciato di stupro le signorine antagoniste meritano la nostra esecrazione, o no?”
No. Per questa domanda, oltre a valere la risposta sopra, concedimi anche il beneficio del dubbio. Chi prenderebbe seriamente un tentativo di violenza a una capra malata? Il popolo antagonista non brilla certo per l’attaccamento all’igiene! Non credo a quello che, sicuramente in malafede, sostengono questi personaggi!
“I colleghi che si accanivano con trenta manganellate sul primo che passava senza sapere se era solo un povero illuso pacifista o un violento vero, hanno sbagliato, o no?”
No. Pur essendo convinto assertore della totale inutilità di infierire su un manifestante inerme (questo è l’unico sbaglio, sprecare le forze su uno solo), sappi che è impossibile farsi rivelare dal manifestante durante la carica, se è un “povero illuso pacifista” o meno. È inoltre abbastanza difficile, dopo ore di sassaiole subite, magari con fratelli feriti anche gravemente, beccare uno dei personaggi che ti stanno avanti e picchiarli solo un pochettino. Quello che dico è che il povero illuso, visti gli stronzi che stavano con lui, poteva tornarsene a casa invece di manifestarci insieme! Se gli è andato bene fare da scudo per questi delinquenti, allora non si può lamentare di subirne le conseguenze! Che poi qualche collega si sia comportato come un qualsiasi essere umano sotto stress non mi sembra né incomprensibile né disdicevole. Sicuramente qualcuno avrà commesso sbagli. Sai quanti poliziotti c’erano a Genova? Di sicuro non mi vergogno per i loro errori!
“La collega che al telefono con il 118 di Genova, riferendosi alla Diaz, parla di “Uno a zero” dimostra di essere intelligente?” No. Ma come si dice a Roma, sti cazzi! Hanno messo a ferro e a fuoco una città, rischiando di farci fare una figura di merda a livello internazionale, provocando danni, feriti, spese enormi e si preoccupano della frase di una telefonista? Non mi vergogno per quello che ha detto. Mi vergogno perché oggi la madre di un teppista imbecille, dimostrando una mancanza di scrupoli e un cinismo degni di una Kapò, è riuscita a farsi eleggere senatrice della Repubblica; perché un partito italiano ha fatto intitolare un’aula all’imbecille!
Non voglio i soldi di questi politici. Non voglio i soldi da questo governo (e da un altro come questo). A difendermi ci penso da me, con l’aiuto di Dio e dei fratelli celerini, che mi stanno accanto e non mi tradiscono nel momento del bisogno.
Once in the Celere, always in the Celere.
C. DA ROMA Quindi, per te, avere al fianco un cretino non è un problema?
Lo dico serenamente: due che tengono e uno che mena non mi sembra da eroi. E poi ti rispondo da romano: “sti cazzi un par di palle”. Tu non lavori nel Cile di Pinochet e non ti pagano con lo stipendio in pesos messicani (forse è di cattivo gusto visto il titolo del thread di discussione, “macelleria messicana”, e me ne scuso con quanti si sentono feriti). Il giuramento che hai prestato parla di far rispettare le leggi, non di fartene di tue. In quanto al rischio della “figura”, mi pare che l’abbiamo fatta e basta. E le responsabilità, lo dico da mesi, non sono di chi stava in strada, ma di chi ha permesso che si arrivasse a questo. Siamo stati mandati lì, sapendo quello che ci avrebbero fatto e sapendo come avremmo reagito. Ti piace questo? Ti piace essere una pedina e poi pagarti l’avvocato? Io questo vorrei evitare. Vorrei capire come si può evitare che un collega mandato a fare il proprio dovere si ritrovi indagato in due processi e, dopo la Maddalena, forse anche nel terzo. Scusate la lunghezza.
L’esistenza è battaglia e sosta in terra straniera.
P. DA BARI Scusate, il Sig. Dott. Funz. Uff. Fournier quando lo faranno santo?
Sono pronto a mostrare il petto e non voglio essere bendato. Ma tu hai il coraggio di guardarmi negli occhi? E che cazzo, mostra ai più di essere uomo. Barcollo ma non mollo.
E. DA FIUMICINO Io penso che questi degni eredi di quei cattivi maestri che dicevano in piazza “Uccidere uno sbirro non è reato” ci considererebbero picchiatori fascisti anche se andassimo in servizio di Op vestiti di rosa e con un mazzo di fiori in mano.
B. DA PADOVA Quando alcune centinaia di ultras o di autonomi sono schierati a cinquanta metri da te con spranghe, catene, bombe carta e coltelli, io ritengo opportuno fargli così tanto schifo e paura che non devono pensare di poterci attaccare senza lasciarci le ossa!
L’Italia non è uno stivale. È un anfibio di celerino.
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