Nuova commissione d’inchiesta, De Tormentis è il vero rimosso del caso Moro – 5a e ultima puntata

Concludiamo il nostro piccolo viaggio sui falsi misteri costruiti attorno al sequestro Moro raccontando come il diversivo dietrologico venne impiegato per coprire l’impiego delle torture. Potete leggere qui le puntate precedenti, (1), (2), (3), (4)

Paolo Persichetti
Il Garantista 15 marzo 2015

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«La teoria del complotto è la sottigliezza degli ignoranti». Prendo questa citazione dal libro di Daniel Pipes, Il lato oscuro della storia, (Lindau). Non sempre però l’ossessione del grande complotto affonda le sue radici nella superstizione. Se il cospirazionismo moderno trae origini da teorie politiche che, intrise di controriformismo cattolico, rifiutano la modernità e trovano il loro testo fondatore nell’opera dell’abbé Barruel, avversario del rivoluzione francese, la modernità con il suo corpus di ideologie apologetiche del capitalismo non ne è certo esente. A dire il vero l’intero Novecento fa fatica a liberarsi dai veleni del complottismo che pervadono razzismi, nazionalismi e totalitarismi fascisti e nazisti. E se non è affatto condivisibile la tesi di Popper, che vede nelle teorie critiche ispirate dal marxismo solo delle culture del sospetto nemiche di un idealismo razionalista esente da qualunque pecca, è vero anche che anarchismo, socialismo e comunismo non sono riuscite a sottrarsi al virus complottista.
jpg_2178052Oggi però la crisi del pensiero forte e il balbettio delle teorie politiche danno alimento ad una diversa stagione che vede nelle teorie del complotto un appiglio consolatorio, un riempitivo del vuoto di pensiero. Tanto che se un tempo i complotti erano figli di un pensiero ossessivo, oggi sono solo ossessioni prive di pensiero. Il pregiudizio dietrologico ha avuto però anche applicazioni più strumentali: un esempio di questo utilizzo può essere rintracciato agli albori dell’affaire Moro. La vicenda Triaca, con la quale concludiamo il nostro piccolo viaggio nella dietrologia che circonda la storia del sequestro del presidente della Dc, e stata un esempio di diversivo complottista finalizzato a coprire l’impiego delle torture.
La sera del 17 maggio 1978, Enrico Triaca, il militante che gestiva la tipografia delle Brigate rosse di via Pio Foà a Roma, venne preso in consegna da una squadra travisata di poliziotti che dalla caserma di Castro Pretorio, dove era finito dopo l’arresto avvenuto in mattinata, lo condussero in un luogo segreto. Torturato durante la notte, sotto la guida esperta del professor De Tormentis, soprannome affibbiato al funzionario dell’Ucigos Nicola Ciocia che comandava la squadra speciale del ministero degli Interni esperta negli interrogatori non ortodossi, a Triaca furono estorte alcune informazioni che portarono alla scoperta di una base brigatista, all’Aurelio, e all’arresto di due altri militanti. IMG_0475
Il clamore suscitato dal rinvenimento, avvenuto appena una settimana dopo il ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani, creò qualche problema agli inquirenti in difficoltà nello spiegare come si era arrivati alla macchina da scrivere a testina rotante con cui era stata redatta la risoluzione strategica del febbraio 1978. Mancava una confessione ufficiale, e legale, perché quelle informazioni erano state strappate con la tortura dell’acqua e sale. Si tentò di correre ai ripari sottoponendo a Triaca una deposizione “spontanea”, ma il funzionario incaricato, Michele Finocchi, fece degli errori ed in ogni caso la data in calce era sempre successiva al ritrovamento della base. I conti non tornavano e bisognava Ciociatenere coperti i metodi illegali impiegati anche perché, nel frattempo, Triaca, ritrovate le energie psicologiche, stava per denunciare il trattamento subito. Cosa che avvenne il 19 giugno davanti al procuratore capo Achille Gallucci che per rappresaglia tentò di tappargli la bocca denunciandolo per calunnia.
In quegli stessi giorni sui giornali cominciarono a filtrare strane ricostruzioni che dipingevano il tipografo delle Br come un personaggio poco chiaro, una «inquietante figura» in contatto con la questura durante il sequestro, scrive la Mazzocchi sulla Stampa del 19 giugno; un «infiltrato», sostiene il Messaggero del 17, che avrebbe condotto di persona la polizia nella base di via Palombini. Lo steso giorno Paese sera titola, «Il tipografo delle Br aveva amici nella Ps», ma Repubblica batté tutti: «C’è un informatore nella colonna romana», mentre nell’occhiello sollevava interrogativi sulla presenza di una «fonte confidenziale» che avrebbe portato agli arresti e rivelò che Triaca al momento della perquisizione aveva nel portafoglio due biglietti omaggio per sale cinematografiche rilasciati dal terzo distretto di polizia.
ComplottoI biglietti, come accerterà l’indagine condotta dalla Digos (n.050714 del 17 giugno 1978), provenivano dalla moglie di un funzionario di polizia che li aveva regalati al personale di una sartoria di cui era cliente, e nella quale lavorava anche la sorella di Triaca che li aveva ceduti al fratello. La “fonte confidenziale” invece c’era, ma Triaca e i suoi compagni ne avevano solo fatto le spese. Anche sulle origini di questa “spiata”, che il 28 marzo segnala il nome di Spadaccini insieme ad altre persone, si è speculato a lungo. Nel libro Doveva Morire di Ferdinando Imposimato e Sandro Provisionato (Chiarelettere), si afferma che si sarebbe trattato di un informatore già impiegato in precedenza contro i Nap, conosciuto in codice come “fonte cardinale”. Questa informazione non trova conferme. Secondo Triaca la segnalazione sarebbe venuta da ambienti del partito comunista del Tiburtino, zona di origine degli arrestati. Uno di loro, Giovanni Lugnini, dopo la scarcerazione ricevette le scuse di un militante della sezione locale del Pci in lacrime. Anche sui tempi dell’indagine, che si concluse il 17 maggio, 50 giorni dopo, ci sono state illazioni e polemiche. La commissione Pellegrino condusse delle verifiche per accertare se davvero gli arresti furono ritardati per favorire l’eterodirezione del sequestro. Il senatore Sergio Flamigni all’epoca, e recentemente Ferdinando Imposimato che fu giudice istruttore e interrogò Triaca ignorando la sua denuncia delle torture, hanno sposato questa tesi; smentiti tuttavia dai risultati della inchiesta condotta dalla commissione. Non ci furono ritardi, dopo lunghi pedinamenti le indagini si concretizzarono solo il primo maggio. Quel giorno Spadaccini fu visto incontrare per la prima volta Triaca. Si viene a scoprire così l’esistenza della tipografia. Il successivo 7 maggio partono le richieste di perquisizione che dovevano scattare il 9 mattina. I provvedimenti contengono una correzione a mano che li posticipa di tre giorni, ma il ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani fa saltare l’operazione che verrà realizzata solo il 17 maggio con tanto di interrogatorio a base di acqua e sale. Repubblica
Si arriva così alla storia della stampatrice presente nella tipografia brigatista di via Pio Foà 31, nel quartiere di Monte Verde vecchio a Roma. I macchinari utilizzati per stampare la famosa risoluzione della Direzione strategica del febbraio 1978 risultarono, infatti, provenienti da stock ministeriali in disuso. La stampante AB-DIK260T apparteneva in origine al raggruppamento unità speciali di forte Braschi, dove aveva sede il Sismi, mentre la fotocopiatrice AB-DIK 675 proveniva dal ministero dei trasporti. Per i dietrologi fu una manna, lo smoking gun tanto agognato. Per anni è stato uno dei loro cavalli di battaglia finché la seconda commissione Moro presieduta dal senatore Pellegrino decise di condurre una propria istruttoria che mise la parola fine sulla vicenda. Acquistata nel 1972 presso la ditta Nebuloni & Picozzi dal ministero della difesa per la cifra di 10 milioni e 500 mila lire, e attribuita al Rus di Forte braschi, la stampatrice fu posta in disuso già nel settembre 1975. Nel novembre successivo venne destinata al magazzino del genio militare per essere venduta ad una ditta rottamatrice ma alla fine del 1976 fu sottratta e venduta illecitamente dal tenente colonnello Federico Appel del Rus al cognato Renato Bruni per sole 30 mila lire. Questi la consegnò come saldo di un debito a Paolo Tomasello che all’inizio del 1977 la cedette a Stefano Noto, un tecnico della Nebuloni & Picozzi che arrotondava lo stipendio riparando vecchie macchine. Tramite un annuncio sul Messaggero Noto la rivende per 3 milioni di lire (provenienti dal sequestro Costa) a Stefano Ceriani Sebregondi ed Enrico Triaca che stavano allestendo la tipografia delle Br. Un percorso simile riguarda la fotocopiatrice acquistata nel 1969 dal ministero dei trasporti. Insomma, una tipica storia italiana di peculato e appropriazione indebita finita per alimentare le più insulse teorie dietrologiche, cinicamente utilizzate per coprire il warterboarding denunciato da Triaca. Altro che misteri, le torture – riconosciute recentemente anche dalla corte di appello di Perugia – sono la vera questione irrisolta del caso Moro. La nuova commissione avrà intenzione di indagare?

5/fine

Le altre puntate
Via Fani, le nuove frontiere della dietrologia – 1a puntata
Il caso Moro e il paradigma di Andy Warhol – 2a puntata
Via Fani e il fantasma del colonnello Guglielmi – 3a puntata
La leggenda dei due motociclisti che sparano e il tentativo di cambiare la storia di via Fani – 4a puntata

Per saperne di più
La dietrologia nel rapimento Moro

Dietrologie torture

Il mito consolatorio del doppio Stato

Il ruolo della dietrologia nella narrazione storiografica della sinistra italiana

Paolo Persichetti
Liberazione 21 maggio 2009

Il doppio Stato: a sinistra il primo, alla sua destra il secondo

Dal dopoguerra alla caduta del muro di Berlino l’Italia è stata una repubblica a “sovranità limitata”. Poi le cose non sono andate meglio. La mutata situazione geopolitica ha solo proiettato verso l’esterno la “soggezione atlantica” dei vertici istituzionali, in precedenza volta soprattutto a puntellare con ogni mezzo la fedeltà occidentale interna. Ai protocolli ancora oggi segreti, corollari del Patto atlantico del 1949 che sottopongono l’Italia a strettissimi vincoli geopolitici, con relativa superfetazione d’apparati, reti d’influenza, cessione di sovranità territoriale alle basi Usa e Nato, se ne sono aggiunti dei nuovi, in particolare dopo l’avvento della «guerra asimmetrica». La vicenda delle extraordinary rendition (consegne 35 Arte predire passatostraordinarie), il rapimento dell’imam milanese Abu Omar, realizzato dalla Cia con il coinvolgimento diretto del Sismi e l’inchiesta della procura milanese che ne è seguita, hanno portato alla luce l’esistenza di nuovi accordi segreti su cui i governi Berlusconi e Prodi hanno posto con perfetta continuità e spirito bipartizan il segreto di Stato. È da questa constatazione storica, difficilmente contestabile, che deve partire una riflessione sul modo in cui è stata raccontata a sinistra la sudditanza atlantica dell’Italia.

L’inesistente doppio Stato
La costituzione di Weimar, come lo statuto albertino, non furono mai aboliti dal nazismo e dal fascismo. Vennero disattivati grazie al potere di sospensione proprio dello stato d’eccezione e affiancati da una seconda struttura, che nel caso dell’esperienza nazista il costituzionalista Ernst Fraenkel definì, in un libro del 1942, «Stato duale». Nasce da qui, in modo azzardato, la formula del «doppio Stato», ripresa in un saggio del 1989 da Franco De Felice.
Questa categoria, che ha fornito una parvenza concettuale alla retorica del complotto, insieme ai continui riferimenti all’azione di «poteri invisibili» e «occulti» (Bobbio) o di uno «Stato parallelo» (Giannuli), e poco importa se la data d’origine debba risalire allo sbarco degli americani in Sicilia, al Gobbo del Quarticciolo, a Portella delle ginestre, al rumor di sciabole e alle Intentone degli anni 60 (la letteratura dietrologica propone infinite varianti), hanno davvero aiutato a comprendere la storia del dopoguerra e del decennio 70 in particolare?
La rappresentazione del sessantennio repubblicano come un coerente continuum criminale traversato da trame e segreti, tentativi eversivi e assalti rivoluzionari eterodiretti, P2 e mafia, servizi traviati, tutti perfettamente intrecciati e sorretti da un’unica regia e un medesimo disegno: «impedire il compimento della democrazia», ovvero quell’alternativa o alternanza di governo (qui il lessico muta con le svolte politiche), risponde a verità?
Come spiegare allora il fatto che un giovane sostituto procuratore di nome Luciano Violante, destinato ad una carriera d’esponente storico del primo Stato (quello che la vulgata dietrologica ritiene buono), interviene su informativa del ministro degli interni democristiano Paolo Emilio Taviani, medaglia d’oro della Resistenza bianca, fondatore di Gladio insieme ad Aldo Moro, dunque entrambi esponenti del secondo Stato (quello deviato), per indagare contro Edgardo Sogno, membro a questo punto di un terzo Stato (stavolta traviato), che tramava un golpe gollista di ristrutturazione autoritaria della repubblica, nel mentre operava attraverso i carabinieri della divisione Pastrengo un quarto Stato (deviatissimo e traviatissimo) in combutta col Mar del neofascista Carlo Fumagalli, le bombe stragiste, le cellule nere del Triveneto, il tutto in presenza del «super Sid», scoperto dal giudice Guido Salvini, che forse era dunque un quinto Stato (ancora più che deviato o traviato, uno Stato invertito)?
Poi c’erano gli Stati negli Stati come la mafia, cioè lo Stato doppione e, infine, gli antistati, come le Br, che però certuni vorrebbero una diramazione di uno dei precedenti cinque Stati. Che vuol dire tutto questo? Che forse l’Italia era un paese eccessivamente statalista?

I dietrologi nella stanza dei bottoni
Dopo le due alternanze del 1996 e del 2006, che hanno visto post-comunisti e comunisti al governo, hanno ancora diritto di cittadinanza leggende del genere? Come mai trame e segreti non sono stati dissolti? Non era una promessa delle sinistre? Perché permane il segreto di Stato su molte vicende? Perché gli apparati più discussi sono stati irrobustiti proprio negli anni dell’Ulivo? I carabinieri trasformati in quarta forza armata?
La retorica del complotto non assomiglia forse ad una narrazione consolatoria, un alibi capace di scaricare altrove ogni tipo di difficoltà, errore, sconfitta e avversità sopravvenuta? Non è stata, quella del doppio Stato, una pessima ideologia che oltre ad aver allontanato dalla verità ha sedimentato un vittimismo recriminatorio che continua a fare velo? L’abitudine alla dietrologia non ha forse portato l’esercizio della critica a disfarsi di ogni capacità critica? Siamo passati dalla radicalità di un pensiero che andava alla ricerca della radice delle cose ad una concezione indiziaria, una visione poliziesca che ha fatto del “sospetto” la chiave di lettura della realtà. È disarmante l’idea che il lavoro di ricostruzione storica debba ridursi a una sorta di risalita gerarchica verso un vertice, una struttura a base piramidale che nasconde l’ordito del complotto. Variante volgare, nel migliore dei casi, delle ben più solide teorie elitiste.

La disciplina che predice il passato
Dove ha origine questa porosità culturale della sinistra verso le tesi dietrologiche? Forse c’entra l’influenza cattocomunista, quel compromesso storiografico che ha messo insieme la leggenda complottista antilluminista de l’abbé Barruel contro la rivoluzione francese e le purghe stalinane degli anni 30?
La «dietrologia», ovvero questa moderna arte divinatoria protesa a «predire il passato», ha tolto alla sinistra la capacità di capire la storia. Se i fatti sociali si vedono sistematicamente ridotti a eventi delittuosi, se il tentativo d’analisi e spiegazione che ne segue ricalca la trama giudiziaria, il fare storia non ha più nulla a che vedere con le scienze sociali ma diventa solo un capitolo, l’ennesimo, del paradigma penale. È in questo modo che la dietrologia contro le trame di Stato si è fatta dietrologia dello Stato contro la società. Forse si spiega così il fatto che gli scaffali delle librerie trabocchino di volumi che ripetono la medesima litania complottista ispirata o scritta da magistrati (Violante, Caselli, Priore, Imposimato ecc.), da giornalisti della giudiziaria o consulenti delle commissioni parlamentari che sulla dietrologia hanno costruito le loro carriere, mentre i contributi di storici e sociologi si contano sulla punta delle dita. Gli anni 70 sono diventati appannaggio della letteratura noir ma non della storiografia. Su quegli anni si romanza, s’inventa, si fantastica, si fa astrologia e cartomanzia, criminologia, vittimologia, fiction, tutto fuorché scienza sociale.

Antistoria
È noto come il discorso dietrologico segua una logica ermetica, un procedere circolare, un divenire chiuso. Questa sordità cognitiva lo tutela dalle smentite che si accumulano nel tempo rendendo estenuante e del tutto inefficace la verifica della semplice coerenza interna ed esterna delle sue asserzioni. Le teorie complottiste non recepiscono mai la confutazione, che anzi viene letta come una dimostrazione ulteriore della cospirazione contro la verità (dispositivo che ricorda la famosa «prova diabolica» dell’inquisizione). Tallonare i molteplici e mutevoli asserti che alimentano le teorie del complotto, quegli arcana imperii, quei «lati oscuri», quel «sottosuolo inquietante» sempre evocato, non sortisce risultati per la semplice ragione che la dietrologia è un’antistoria.
Quando si scoprì che il terzo uomo presente in via Montalcini, la prigione di Moro, non era la fantomatica «eminenza grigia», il «grande vecchio», «l’entità superiore», sempre evocata, ma un altro militante delle Br (Germano Maccari), Sergio Flamigni, arcigno esegeta del complotto, replicò che allora ve n’era sicuramente un quarto ancora ignoto, ed oggi per uscire dall’angolo si sostiene che la prigione fosse altrove.
Con un immenso lavoro documentale Vladimiro Satta ha pazientemente smontato tutto ciò, chiarito ogni «mistero» sul caso Moro, ma è servito a poco. In queste vicende il vero mistero restano le fonti dei teorici del mistero. La logica e i principi della razionalità illuministica non funzionano di fronte ad una retorica che ricorre a tecniche argomentative come il metodo dell’amalgama, la confusione di tempi e luoghi, ad acquisizioni parziali, ricostruzioni lacunose, errori macroscopici, manipolazioni, invenzioni, sentito dire, correlazioni arbitrarie, affermazioni ipotetiche, false equazioni.
Liberarsi dalle superstizioni e tornare a pensare una realtà traversata da processi, conflitti, contraddizioni; recuperare la categoria di storicità degli eventi, è il solo modo per uscire dalla superstizione del complotto.
Ma è forse già troppo tardi. La sinistra ha perso la voglia di pensare.


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Qualche breve cenno bibliografico per districarsi con un po’ d’intelligenza tra i deliri complottistici e le menzogne costruite attorno alla storia del rapimento Moro

Libri – Marco Clementi, La pazzia di Aldo Moro (Rizzoli 2006, Rizzoli ora in BUR) Vladimiro Satta, Odissea del caso Moro. Viaggio controcorrente attraverso la documentazione della commissione stragi, Edup, Roma 2003, pp. 445, euro 16

Paolo Persichetti
Liberazione
domenica 28 settembre 2003

copj13-1-asp1Il tema della cospirazione ha dominato la letteratura storica dell’Italia recente. Concetti come “potere invisibile” o “Stato parallelo” sono entrati nel lessico corrente, ispirando ricostruzioni in cui la storia del dopoguerra viene interpretata unicamente come la trama oscura di un “doppio Stato”. Nel fitto intreccio di misteri e segreti intessuto da una fantasiosa pubblicistica, più vicina al mondo del romanzo giallo che a quello della ricerca socio-storica, il caso Moro più di ogni altro episodio ha alimentato la retorica del complotto. I primi segni di insofferenza nei confronti di questa vulgata dietrologica, che ha relegato la storiografia italiana contemporanea in una posizione periferica rispetto a quella di altri paesi europei, sono venuti da storici di scuola liberale come Giovanni Sabbatucci, “I misteri del caso Moro”, in Miti e Storia dell’Italia unita, Il Mulino 1999. Un risveglio storiografico che era stato preceduto dai sia pur parziali lavori di sociologia editi sempre dal Mulino nel corso degli anni 90, a cura di Raimondo Catanzaro e Donatella Della Porta. Ma la vera svolta è arrivata con il pionieristico lavoro di revisione storiografica realizzato da Marco Clementi, autore di una monografia sul rapimento Moro, La “pazzia” di Aldo Moro, Odradek 2001 (poi ristampato dalla Rizzoli). Storico di matrice culturale opposta a quella di Sabbatucci, Clementi evidenzia l’inconsistenza delle tesi del complotto architettato contro il Pci.
Questa giovane scuola storiografica si arricchisce oggi del fondamentale contributo fornito da Vladimiro Satta, documentarista del Senato incaricato 8817010359di seguire i lavori della commissione stragi dal 1989, Odissea del caso Moro, Edup 2003, euro 16,00. Fino ad oggi le tesi complottistiche si erano avvalse di una copiosa serie di analisi di dettaglio, di fatto poco accessibili e per questo al riparo delle molte possibili contestazioni. A ben guardare il vero mistero restavano le fonti dei teorici del mistero. Si pensi ai numerosi lavori pubblicati dall’ex senatore ad ex membro della Moro, Sergio Flamigni, che hanno largamente ispirato tutta la successiva narrazione dietrologica, fino al recente thriller Piazza delle cinque lune. Acquisizioni parziali, ricostruzioni lacunose, errori, manipolazioni, invenzioni, sentito dire, correlazioni arbitrarie, affermazioni ipotetiche, false equazioni, hanno nutrito per decenni le precostituite tesi cospirative. Mentre in passato la residua critica storiografica si era concentrata essenzialmente, attraverso il vaglio di inchieste altrui, sulle incongruenze logiche e la natura perfettamente reversibile delle tesi del complotto, il libro di Satta ribalta lo schema fornendo la più completa indagine documentale fino ad oggi disponibile. Accade così che gli esegeti della superstizione storiografica, gli alchimisti del complotto, i dietrologi di ogni natura e colore, 2566301esperti nell’arte di prevedere il passato, ne escano malconci. Grazie ad un sistematico e meticoloso lavoro di analisi e verifica documentale, vengono affrontate tutte le questioni irrisolte nonché le diverse tesi cospirative con relative varianti. Dopo aver passato al setaccio la pista atlantica, quella dell’Est e quella israeliana, l’autore conclude sulla decisione indipendente e sulla capacità autonoma delle Br nel rapire Moro.
Non trovano alcun riscontro, infatti, le tesi della “infiltrazione” durante il sequestro, né quella della “eterodirezione” (avanzata a suo tempo da Giuseppe Vacca) sia nella versione pregressa al rapimento che in quella successiva. Allo stesso modo sono prive di conferme la “teoria del doppio delitto” e quella del “doppio ostaggio”, cara all’ex presidente della commissione stragi, Giovanni Pellegrino.
Infinite sono le occasioni in cui la verità dei fatti viene ripristinata su aneddoti e dettagli che in passato, grazie al loro travisamento, erano divenuti pietre miliari del complotto. Valga per tutti l’episodio della doccia di via Gradoli, sul quale si è 9788806157395gcostruito per anni un edificio di strumentali congetture in continuo divenire. Sarebbe bastato osservare le foto della scientifica (da tutti trascurate) per constatare come il tubo della doccia fosse correttamente al suo posto e non disposto, come si è sempre maliziosamente postulato, in modo da provocare una volontaria perdita d’acqua (dovuta in realtà ad una banale quanto fatale dimenticanza del rubinetto aperto) che conducesse alla scoperta della base.eseguendo-la-sentenza Terminata la lettura del volume resta comunque in piedi una domanda: sarà sufficiente questo mastodontico lavoro di confutazione dettagliata e pignola per mettere a tacere definitivamente le tesi cospirative ed aprire la strada ad una matura stagione storiografica?
La risposta forse la si trova nello stesso volume di Satta (pp. 430). Infatti quando si appurò che il quarto uomo di via Montalcini, dove era stato nascosto Moro, non era affatto la tanto evocata “entità superiore”, il “livello occulto”, l’emissario di una potenza straniera”, ma “Gulliver”, al secolo Gennaro Maccari, ex militante di Potere operaio divenuto brigatista (si leggano in proposito la sua testimonianza raccolta da Giovanni Bianconi in, Mi dichiaro prigionieri politico. Storie delle Brigate rosse, Einaudi 2003; e Aldo Grandi, Il partito dell’insurrezione, Einaudi 2003), Sergio Flamigni sentenziò «se lui è il quarto uomo, allora erano cinque» (l’Unità 20 giugno 1996).
Purtroppo ci sarà sempre un uomo in più da scovare, mancherà comunque il personaggio decisivo, perché le teorie cospirative hanno un bisogno perenne di alibi che rendano le smentite ineffettuali. La retorica del complotto si alimenta di un pensiero circolare che rifiuta intromissioni perché prescinde dal fatto sociale. Per questo i modelli di cripto-storia non recepiscono la confutazione, ma introducono continuamente nuovi livelli di cospirazione. Benché decisivo per il rilancio della storiografia sugli anni 70, il libro di Satta rischia di restare isolato finché non si metterà mano ad una indagine che ricostruisca le matrici culturali ed i meccanismi ideologici che hanno consentito la diffusione delle teorie cospirative come spiegazione della realtà, facendone addirittura un elemento identitario della cultura di sinistra. E pensare che le moderne teorie del complotto hanno avuto origine in quell’abbé Barruel, esponente dell’emigrazione controrivoluzionaria che nel 1798 pubblicò un pamphlet sulle cause della rivoluzione francese spiegate attraverso il complotto ordito da logge massoniche infiltrate dai giacobini. Se non altro questo illustre precedente storico ci aiuta a capire quali sono gli schieramenti che si affrontano sui due lati della barricata.

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