Congresso Idv: i populisti lanciano un’Opa su ciò che resta della Sinistra

Di Pietro alla ricerca della legittimazione democratica s’inventa dopo 12 anni un congresso largamente blindato in partenza. L’uomo dei vizi privati e delle pubbliche virtù cerca di sbancare ciò che resta a Sinistra.
E la Sinistra si inchina

Paolo Persichetti
Liberazione 6 febbraio 2010

Ormai ridottosi a partito fantasma, rimasuglio di lobby, potentati locali, combriccole, senza una strategia, il Pd è costretto a cercare l'abbraccio di Di Pietro per non perdere una base cresciuta a pane e giustizialismo. Il mito dell'azione penale, della funzione salvifica della magistratura, presentano alla fine il conto. La bancarotta culturale, l'asservimento all'ideologia giustizialista e al peronismo dipietrista. Prc, Pdci e Sinistra ecologia e Libertà che speravano nella nascita di un fronte peronista radicale restano a bocca asciutta. Amanti rifiutate, cornute e mazziate

Dodici anni sono passati da quando il 21 marzo 1998 Antonio Di Pietro fondò l’Italia dei valori. Da allora il movimento politico di cui è sempre stato il presidente-padrone dotato di poteri assoluti non ha mai affrontato un congresso. Più che un partito è stato una specie di Spa, una piccola matrioska che nascondeva al proprio interno il segreto di famiglia, il sodalizio tra l’uomo di Montenero di Bisaccia, sua moglie e Silvana Mura, l’inossidabile tesoriera. «Tutto gira in una sorta di associazione “clandestina” – ha ricordato in una intervista rilasciata pochi giorni fa Elio Veltri, stretto collaboratore dell’ex pm e suo ghostwriter fino al 2001 –  fondata da tre persone, nella quale si può entrare solo con il placet di Di Pietro ma, appunto, davanti ad un notaio». In virtù di questo singolare statuto, Di Pietro è il titolare esclusivo della ripartizione dei finanziamenti, della supervisione sugli iscritti, della composizione delle liste elettorali. Nelle sue mani risiede la chiave che consente il cambiamento dello statuto. Insomma un castello fortificato non certo una comunità partecipata. Secondo gli idealtipi della sociologia weberiana si tratta di una classica formazione politica fondata sul potere carismatico del suo leader, improntata al più genuino populismo. In altri tempi, nel Novecento, sarebbe stato catalogato come un movimento politico “predemocratico”. Tuttavia c’è sempre una prima volta per tutti. E così, anche se con grave ritardo, questo movimento ha cominciato timidamente ad aprirsi in direzione della dialettica interna. Ieri si è tenuta presso il Marriot Park Hotel di Roma, vicino all’aeroporto di Fiumicino, la prima assise nazionale del partito. Slogan d’apertura: «L’alternativa per una nuova Italia». I lavori si concluderanno domenica. Tuttavia parlare dell’avvio di un percorso di trasparenza e normale vita partecipativa resta un grosso azzardo, anche se fornire la sensazione della «svolta» è l’obiettivo di questo primo congresso: liberarsi della vecchia immagine personalistica, offrire l’idea di una formazione finalmente democratica, partecipata, aperta alla società. In realtà le modifiche statutarie introdotte sono assolutamente minime, l’Italia dei valori resta proprietà privata di Di Pietro. Si tratta solo di un adeguamento dovuto alla “crisi di crescita” che il movimento ha riscontrato negli ultimi anni, soprattutto dopo la frantumazione della sinistra. In sala erano presenti 3.607 delegati, in rappresentanza di quasi 100 mila iscritti (secondo i dati forniti e che sarebbero raddoppiati nell’arco di un anno) e di 24 deputati, 12 senatori, 7 europarlamentari. Soprattutto il congresso si apre sull’onda di sondaggi molto favorevoli che consoliderebbero per le prossime elezioni regionali l’8% conquistato nelle elezioni europee di un anno fa. Dichiarazioni di voto che hanno spinto alcuni esponenti di punta dell’Idv, come il pm Luigi De Magistris, eletto come indipendente con un numero di voti superiore a quello dello stesso Di Pietro e ritenuto lo sfidante potenziale, ad avanzare l’obiettivo del 10% nell’ottica di un allargamento verso Rifondazione, SeL, noglobal e “popolo viola”. Non a caso all’apertura dei lavori hanno partecipato tutti gli attuali segretari di partito della sinistra, da Pierluigi Bersani a Paolo Ferrero, da Nichi Vendola al segretario della Cgil, Guglielmo Epifani. Una delle decisioni finali del congresso dovrebbe essere quella di togliere il nome di Di Pietro dal simbolo per segnalare che la fase della personalizzazione del partito sarebbe finita. La sostanza della discussione dovrebbe portare, invece, sulle alleanze da costruire e sulla scelta dei territori politici sui quali estendere l’influenza dell’Idv: verso il Pd  o più a sinistra? Uomo di destra, portatore di valori ultramoderati, Di Pietro ha sfoderato tutto il cinismo politico possibile invadendo i territori tradizionali della sinistra popolare e operaia, allargando i temi d’intervento politico, modificando il linguaggio, prestando attenzione non più solo ai temi della legalità ma anche alle questioni sociali sociali e ambientali, alla crisi economica, ai licenziamenti che stanno colpendo i posti di lavoro. Un uomo chiave di questo restyling “operaista” è stato Maurizio Zipponi, già segretario della Fiom di Brescia, uscito da Rifondazione, che gli ha aperto la via nelle roccaforti operaie del nord.  De Magistris, che non sembra avere fretta, all’apertura dei lavori ha subito indicato che voterà la mozione del presidente facendo capire però che lui rappresenta il futuro. Scontato a questo punto l’esito finale del congresso. Nonostante tutto il deputato campano Francesco Barbato si è candidato alla segreteria con un documento che sostiene una «diversa visione del partito costruita su un movimento civico dal basso», senza «i signori delle tessere, la parentopoli dell’Idv, con incarichi a parenti in linea diretta, discendenti e ascendenti, intere famiglie per non dire clan che si sono accasati nell’Idv con doppi e tripli incarichi». Posizione che echeggia il durissimo attacco venuto dalle pagine di Micromega lo scorso settembre con un’inchiesta devastante che metteva in luce un partito di eletti costituito da lobby, cacicchi locali, capibastone. Un sottobosco che ricorda il ceto politico giolittiano del primo Novecento che Salvemini non aveva esitato a definire «malavitoso». Un partito fatto di notabili «a cui mai darei la mano», dice Barbato e segnalano documentatissime inchieste, ma ciò non scalfisce l’immagine di un Di Pietro immacolato difensore delle virtù pubbliche. E’ singolare che la sinistra radicale lo rincorra con l’unico risultato di lasciarsi assorbire, abbandonando alla destra il dovere della battaglia. Una destra un po’ ingrata che deve a Di Pietro e “Mani pulite” lo sdoganamento politico che le ha aperto l’autostrada del potere.

Link
Di Pietro: “Noi siamo la diarrea montante”
Retroscena di una stagione: Di Pietro e il suo cenacolo
La sinistra giudiziaria
Dipietrismo: malattia senile del comunismo?
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Populismo penale, una declinazione del neoliberismo
Populismo penale

Feticci della legalità e natura del populismo giustizialista

Botta e risposta a proposito di un articolo apparso su questo blog e nel quale si spiegava che l’aggressione subita da Berlusconi non trova origine in un presunto ritorno al clima degli anni 70 ma nella guerra civile borghese strisciante che traversa l’Italia di oggi

Aggressione a Berlusconi: ma cosa c’entrano gli anni 70? E’ guerra civile borghese

1) Vecchiume

“giovani che sventolavano Il Fatto, quotidiano portavoce del giustizialismo populista più fazioso, «destra d’opposizione» qualunquista, reazionaria, ultralegittimista, borghese e forcaiola”.

Non dico che ci sia anche una parte di verita ma che semplificazione banale. Tra quelli che sventolano il “Fatto” piuttosto che votare “Italia dei Valori” ci sono persone in carne ed ossa, con un nome una storia personale. Molti come il sottoscritto, compagni, che senza dare un significato strategico (non ci si muove solo con campagne super pianificate di lunga durata) magari per protestare contro quei peraccottari di Rifondazione e company hanno anche votato Di Pietro. E cosa siamo: qualunquisti borghesi!
Meno male che ci sei tu a spiegarcelo. Visto che avevi capito tutto a tempi della lotta armata giustamente sei ancora qui a illuminare le nostre deboli menti che tutto questo non capiscono.


2) Asilo d’infanzia

Bè vedi, compagno, “persone in carne ed ossa“ siamo tutti, tutte. Mammiferi bipedi, derivati per uno ‘scarto’ genetico minimo dai primati superiori, con pollice opposto, stazione eretta, epiglottide capace di emettere suoni articolati, diversificatisi in parallelo – iniziando un po’ dopo – di Cro Magnon, e fondamentalmente distintisi come specie di “esseri parlanti“, definiti “specializzati nella parola“ e perciostesso, essendosi sporti fuori dall’essere, inferito la mortalità, riguardatisi, realizzata l’alterità, concepitisi, conosciuti gli interrogativi su cause e fini, su prima e prima del prima, scoperto/inventato il tempo, angosciatisi sul senso, i dilemmi, gli aut-aut, le coppie come felice/infelice…, l’angoscia del finito, effimero, e la claustrofobia dell’eterno….
Perciostesso, dicevamo, specie “pericolosa“, non più governata dalla teleologia dell’istinto, innato, di autoconservazione della specie dunque suscettibili di autodistruggersi…

In carne ed ossa siamo tutti, “uomini ed altri animali”, e fuor di dilemmi su olismi o individualismo/universalismo, fuor di ideologie “umanistiche“, o altro… Che c’entra, però!
Tra l’altro, la furia, il disappunto, vengono dal pensare che ci sia – tra nojaltri – una alienazione della ribellione, della rivoltosità, a favore della caricatura di una denuncia del Tiranno senza nemmeno tirannicidio; un barattare “la primogenitura” dela critica radicale, dell’inimicizia, della sovversione sociale per il “piatto di lenticchie” del risentimento, della denuncia morale, della focalizzazione su una parte per il tutto, dell’illusione di una soluzione penale, del feticcio della “legalità“, del “controllo di legalità“, dell’azione penale e della sanzione giudiziaria e poi dell’esecuzione penitenziaria.

Nessuno qualifica te, o i “tipi come te” che hanno creduto di trovare un punto di forza, di leva, di traduzione del proprio bisogno di rivolta nell’ oltranzismo di un “antibelusconismo” ipnotizzato ed ipnotico, nell’alienazione giudiziaria, nel surrogato penale dell’ “azione collettiva“, nella sua surrogazione che si fa sostituzione, in un diversivo e sfogo contraddittorio con le ‘ragioni per cui’, con i principî enunciati, come borghesi moralisti forcajoli.

Resta, che ciò che fanno e predicano Feticcio della legalità, i Travaglio, i Di Pietro & simili, negli anni ‘70 lo faceva e diceva Il Candido del senatore missino ed ex-repubblichino Giorgio Pisanò.
Ti impenni per articolo, occhiello, titolo, sommario ( “Anni ‘70? Macchè, è guerra civile borghese (…) a contestare il leader del Pdl non c’erano i centri sociali ma giovani che sventolavano Il Fatto, quotidiano portavoce del giustizialismo populista più fazioso, «destra d’opposizione» qualunquista, reazionaria, ultralegittimista, borghese e forcaiola”), e con sarcasmo amaro osservi: “E cosa siamo: qualunquisti borghesi ?”.

Ma il giudizio è sulla natura, per cominciare, “natura di classe” del “manipulitismo”, del giustizierismo in forma giudiziaria, dell’emergenzialismo penale, del feticcio della Legalità (“potere dei senza potere”), del mito e del culto dell’azione penale come panacèa giustiziera e forma di una logica “giustizialista”. Critica del girotondismo, della cultura propinata da Repubblica e da una schiera di “satelliti, ateroidi, pianetini…”.

La critica può eventualmente essere sottoposta a tentativo di confutazione: ma è distorcerla e malintenderla se le si attribuisce sprezzo per quei compagni che – a nostro parere – alienando la loro voglia di rivolta finiscono (a nostro avviso argomentato e, beninteso, offerto a controversia) ad intrupparsi dietro bandiere certamente non loro. Anzi, apertamente nemiche, portatrici di inimicizia frontale implacbile contro “tutti noi” !

Per contro, se posso dirti, sei tu che usi un sarcasmo che rivela un malcelato pregiudizio che il risentimento fa affiorare alla superficie, quando scrivi: “Meno male che ci sei tu a spiegarcelo. Visto che avevi capito tutto a tempi della lotta armata giustamente sei ancora qui a illuminare le nostre deboli menti che tutto questo non capiscono”.

Devo dirti : lo stilema è frusto, estenuato, buono per battute da disputa di coppia in fotoromanzi e telenovela. Se ne evince, o una sorta di reazione da mania di persecuzione o complesso, oppure un giudizio sprezzante e liquidatorio, animoso, rancoroso verso la “lotta armata” e i suoi “tempi”. Non è così?

Oreste Scalzone 16/12/2009

Sullo stesso argomento
Populismo penale
Cronache carcerarie
Dipietrismo: malattia senile del comunismo?
La sinistra giudiziaria
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Populismo penale, una declinazione del neoliberismo
Populismo armato, alle radici della fraseologia dei Nuclei di azione territoriale
La violenza del profitto: ma quali anni di piombo, gli anni 70 sono stati anni d’amianto
La farsa della giustizia di classe
Processo breve: amnistia per soli ricchi
Ho paura dunque esisto
Giustizia o giustizialismo, dilemma nella sinistra
Il populismo penale una malattia democratica

Aggressione a Berlusconi: ma quali anni 70 ! È guerra civile borghese

L’aggressore è uno squilibrato e in piazza a contestare il leader del Pdl non c’erano i centri sociali ma giovani che sventolavano Il Fatto, quotidiano portavoce del giustizialismo populista più fazioso, «destra d’opposizione» qualunquista, reazionaria, ultralegittimista, borghese e forcaiola

Paolo Persichetti
Liberazione 14 dicembre 2009

Facce d'Italia: Silvio Berlusconi

«Tutta colpa degli anni 70, madama la marchesa!». Gli stessi che oggi ripetono come un ritornello questa frase, negli anni 70 se la prendevano con gli scioperi e i sindacati. Domenica sera, Silvio Berlusconi era stato appena colpito mentre salutava la folla alla fine del suo comizio che subito sulle televisioni e nei commenti a caldo dei politici venivano evocati gli anni 70, anzi il loro spettro. Prim’ancora che fosse reso noto il nome dell’aggressore, si era già scatenata la caccia al suo possibile identikit politico-culturale. Sospettati numero uno: gli «antagonisti» (che poi con gli anni 70 non c’entrano nulla). Sembrava proprio che dovesse essere uno di loro, anzi non poteva che essere un «militante dei centri sociali». Gli speaker trasmettevano ai telespettatori l’ansia spasmodica per una conferma del genere. Il leader della lega, Umberto Bossi, non aveva dubbi: il lancio di un souvenir acquistato su una bancarella limitrofa al luogo del misfatto altro non era che un «atto di terrorismo».

Facce d'Italia: "Aldro", Federico Aldovrandi

Vedrete che fra un po’ ne vieteranno l’acquisto. Quando il nome del quarantaduenne Massimo Tartaglia è arrivato sulle agenzie, la giornalista di Canale 5, lasciando trapelare un certo rammarico, precisava che l’individuo era sconosciuto alla digos e non risultavano segnalazioni o precedenti penali a suo carico. Non era il tanto atteso «militante dei centri sociali» e nemmeno uno che aveva frequentato le galere per motivi politici. Niente di tutto questo. Si trattava soltanto di un anonimo cittadino senza militanza politica alle spalle, certo fomentato dall’antiberlusconismo dell’ultimo periodo ma con una decennale storia clinica legata ad uno squilibro mentale  emerso, a quanto sembra, quando era diciottenne, tanto che la psicologa che lo aveva in cura è stata convocata in questura per assistere all’interrogatorio. L’uomo, infatti, è subito apparso agli inquirenti in stato confusionale, incapace di tenere discorsi coerenti. Se così stanno le cose, che c’entra allora il clima da anni 70 chiamato in causa anche il giorno successivo sui giornali? La domanda è più che mai opportuna perché rinvia alla giusta comprensione di quel che sta accadendo in Italia negli ultimi tempi. In piazza a contestare il comizio del presidente del consiglio non c’erano i centri sociali e nessun altra componente della galassia antagonista, ma alcune centinaia di giovani che sventolavano Il Fatto, quotidiano portavoce del giustizialismo populista più fazioso e la cui ferocità è speculare solo ai discorsi dei leghisti e di alcuni esponenti del Pdl.

Facce d'Italia: il g-8 di Genova

Un pezzo delle molteplici anime che compongono il popolo viola, sicuramente il peggiore, certamente un settore che, nella caotica e instabile geografia dalle fragili identità culturali attuali, può essere classificato come una «destra d’opposizione»: qualunquista, reazionaria, ultralegittimista, forcaiola. Espressione dell’indignazione di ceti sociali medioborghesi che si abbeverano sui testi di Travaglio e Saviano, che guardano in tv Anno zero, ascoltano i discorsi di Di Pietro, leggono D’Avanzo e Bonini su Repubblica. Di nuovo la domanda: perché evocare gli anni 70? Un’epoca intrisa di marxismo dove gli attori in movimento erano altri e la società veniva letta utilizzando paradigmi meno semplificatori, legati ai conflitti e alle interazioni tra blocchi sociali e senza quella delirante contraddizione in termini presente oggi in chi assalta palchi in nome della legalità e della magistratura. Sorge il sospetto che alla fine gli anni 70 siano solo un comodo capro espiatorio verso il quale indirizzare la vendetta. In primis per quella guerra civile simulata, e tutta borghese, che Berlusconi in persona conduce con grande abilità. «Guerra civile legale» o «guerra civile fredda», sono solo alcune delle definizioni coniate dagli studiosi per descrivere situazioni di conflitto simili a quelle che si vivono in Italia oggi. Uno scontro molto duro divide verticalmente la borghesia italiana. L’ala condotta da Berlusconi fronteggia l’asse storico dei potentati economici italiani, capeggiati dal gruppo editoriale Repubblica-Espresso guidato da De Benedetti. Tanto più speculari sono le parti in conflitto, tanto più lacerante è il livello dell’inimicizia espressa.

Facce d'Italia: Stefano Cucchi ... e si potrebbe continuare con Bianzino, Lonzi e tanti tanti altri

Il ceto politico ricalca questa divisione, diversamente da quanto accadeva durante la prima repubblica quando dietro le quinte anche Berlinguer e Almirante arrivavano a parlarsi, sia pur mimando in pubblico una reciproca distanza ostile. Uno scontro agitato da metafore buone per una popolazione ridotta a spettatrice sugli spalti delle arene giudiziarie. Le metafore sono quelle dei «mafiosi» da una parte e dei «comunisti» dall’altra con cui le due opposte fazioni si etichettano. La personalizzazione della politica, tanto efficacemente interpretata da Berlusconi, figlia del presidenzialismo virtuale che la costituzione materiale ha di fatto imposto a quella legale, attira come una calamita sul corpo del premier consenso e dissenso, venerazione e odio delle folle. Negli Usa 4 presidenti e un candidato sono stati uccisi, altri 10 hanno subito attentati. Stessa sorte per i capi di Stato francesi, compresi i due colpi di carabina esplosi contro Jacques Chirac il 14 luglio 2002. Verrebbe da dire: è il presidenzialismo, bellezza!


Link

Cronache carcerarie
Dipietrismo: malattia senile del comunismo?
La sinistra giudiziaria
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Populismo penale, una declinazione del neoliberismo
Populismo armato, alle radici della fraseologia dei Nuclei di azione territoriale
La violenza del profitto: ma quali anni di piombo, gli anni 70 sono stati anni d’amianto
La farsa della giustizia di classe
Processo breve: amnistia per soli ricchi
Ho paura dunque esisto
Giustizia o giustizialismo, dilemma nella sinistra
Il populismo penale una malattia democratica





Lodo Alfano e processo breve: la farsa della giustizia di classe

Il risvolto di una giustizia di classe che protegge i più forti è la persecuzione di classe verso i più deboli. Quella che fomenta i giustizialisti di destra, come la Lega, gli ex di An, Di Pietro, Travaglio e che lascia indifferenti i giustizialisti idealisti di sinistra, poi ci sono le amebe intellettuali come Saviano

Paolo Persichetti
Liberazione 26 novembre 2009

Nessuna revisione per il concorso esterno in associazione mafiosa sarebbe in vista. E’ quanto ha fatto sapere il governo per bocca del guardasigilli Angelino Alfano, interpellato da alcuni giornalisti al termine di un’audizione presso la commissione parlamentare d’inchiesta sugli illeciti connessi al ciclo dei rifiuti. Dunque, non sarebbero vere le voci, riprese ieri da alcuni quotidiani, che riferivano di uno studio in corso, da parte del governo, sulla «tipizzazione» del “concorso esterno”. Un reato giurisprudenziale. Vera e propria bestemmia, secondo la tradizione del diritto romano che sancisce l’impossibilità di crimini e pene senza legge certa e scritta. I decenni di eccezione giudiziaria hanno però introdotto la consuetudine anglosassone, facendo del giudice non più la «voce della legge» ma un legislatore. Diverse commissioni, presiedute da Grosso, Nordio e poi Pisapia, avevano proposto di sanare il vuoto legislativo tipicizzando in modo certo i comportamenti da sanzionare. Paradossalmente la destra, forcaiola per natura, non volle approvare una riforma che moderava in parte le pene. La sinistra, giustizialista per vocazione, non fu da meno. E così, davanti alla sacrosanta bocciatura del “lodo Alfano” da parte della Consulta, lo scettro della politica, in particolare della politica d’opposizione, è tornato nelle mani della magistratura. Un fatto quasi inevitabile in una situazione che vede il sistema politico ridotto ad una condizione sempre più evanescente di fronte ad un ipertrofico esecutivo e un peso esterno, che non è più del sociale ma delle lobbies. Di fronte al proliferare della decretazione d’urgenza, addirittura di decreti correttivi d’altri decreti, strumenti privi di qualsiasi fondamento costituzionale, di una produzione legislativa ispirata nella quasi totalità dagli uffici della presidenza del consiglio, con un’aula parlamentare che ha addirittura subito l’onta della sospensione a causa dell’assenza di copertura di bilancio per le leggi in discussione, con una opposizione ridotta alla consistenza di un ectoplasma, la politica la fanno i gruppi editoriali e finanziari che hanno mezzi per condizionare l’opinione, i poteri economici e gli apparati, tra cui eccelle per funzioni, la magistratura. Non tutta, perché in massima parte resta, per natura quasi antropologica, filogovernativa; ma una parte che agisce da efficace minoranza attiva. E così ci siamo ritrovati alla situazione di partenza, all’eterna supplenza giudiziaria che ha aperto la via del potere alle destre e ha gettato l’Italia nel pozzo nero del populismo penale e giustizialista. Sono ritornati in primo piano le inchieste e i processi contro Berlusconi, la creazione del suo impero economico e il suo sistema di potere. Le indagini sul funzionamento di Mediaset, i fondi neri, i giochi finanziari e di bilancio, la corruzione via l’avvocato Mills, e poi le inchieste siciliane e fiorentine, rilanciate dalle ultime dichiarazioni di alcuni pentiti di mafia che hanno consentito di riaprire filoni d’indagine arenati. Spatuzza e Grigoli, due collaboratori di giustizia, sono tornati a parlare del ruolo di Dell’Utri e dei rapporti con i Graviano, famiglia mafiosa trasferitasi al nord. In particolare è molto attesa la deposizione del prossimo 4 dicembre del pentito Spatuzza. Forse troppo attesa dagli spalti giustizialisti che, incapaci di arrivarci con la politica, sognano un Berlusconi finalmente infilzato dalle inchieste e messo definitivamente fuori gioco.
La vecchia scorciatoia giudiziaria torna dunque d’attualità e chi ne soffre di più è ovviamente un’idea di politica carica di progetti, partecipazione e idee. Tutto muore dietro la passione giudiziaria, si fa claque di tribunale, bava da tricoteuses. In un clima del genere non è possibile nemmeno la più timida delle strategie riformiste. Solo ordine, legalità, tribunali, toghe, processi, condanne, odio, risentimento, carceri che però si riempiono solo di poveri cristi. E su questo terreno cresce l’intolleranza, il razzismo, si allungano le radici di una svolta reazionaria delle mentalità che fa egemonia. Berlusconi reagisce tirando fuori dal cilindro, di volta in volta, una soluzione legislativa che pari il colpo (il processo breve è solo l’ultima trovata in ordine di tempo), stravolgendo qualsiasi idea progettuale di riforma del codice penale e di procedura, ridicolizzando il garantismo e rilanciando alla grande la sfacciata rivendicazione di una giustizia di classe, della legge come scudo dei potenti. Il risvolto di una giustizia di classe che protegge i più forti è la persecuzione di classe verso i più deboli. Quella che fomenta i giustizialisti di destra, come la Lega, gli ex di An e Di Pietro, e che lascia indifferenti i giustizialisti idealisti di sinistra.

Link
Processo breve: amnistia per soli ricchi
Cronache carcerarie
Populismo penale

Ho paura dunque esisto
Dipietrismo: malattia senile del comunismo?
Giustizia o giustizialismo, dilemma nella sinistra
Il populismo penale una malattia democratica

Il governo della paura
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Populismo penale, una declinazione del neoliberismo

Sprigionare la società
Desincarcerer la société
Carcere, gli spettri del 41 bis


Luigi Ferrajoli: “Populismo penale”… ovvero la strategia della paura

L’intervista – «Il populismo penale è la una carcerazione di massa della povertà, generata da una degenerazione classista della giustizia penale, totalmente scollegata dai mutamenti della fenomenologia criminale, alimentata da un’ideologia dell’esclusione che criminalizza i poveri, gli emarginati, i diversi come lo straniero, l’islamico, il clandestino, all’insegna di un’antropologia razzista della disuguaglianza»

Roberto Ciccarelli
Il manifesto
, 28 ottobre 2008


Il populismo penale che presiede le politiche della tolleranza zero in nome della sicurezza offusca la costruzione in atto di un sistema giuridico che risponde a una visione classista della giustizia. Anche se diminuiscono i crimini commessi, l’ostilità verso i migranti e la piccola criminalità viene alimentata dai media e dai partiti conservatori per costruire il consenso alle norme securitarie. Un populismo penale che promuove il diritto minimo per i ricchi e i potenti, e un diritto repressivo per i poveri, i marginali e i “devianti”, con l’aggravante delle leggi razziste che colpiscono migranti irregolari e rom. È severo e indignato il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli quando commenta le decisioni prese dal governo Berlusconi sulla sicurezza ispirati alla “tolleranza zero”. «Per la prima volta nella storia della Repubblica – afferma – la stigmatizzazione penale non colpisce solo singoli individui sulla base dei reati da essi compiuti, ma intere classi di persone sulla base della loro identità etnica».
Un giudizio che non sorprende, quello del massimo teorico del garantismo penale, che ha sempre legato agli studi di diritto, di logica e di metodologia della scienza giuridica, una tensione etica verso l’effettività del diritto sul piano storico e su quello politico. Già magistrato dal 1967 al 1975, anni in cui partecipò alla fondazione di “Magistratura Democratica”, Ferrajoli che oggi insegna Filosofia del Diritto alla Terza Università di Roma, ha intrapreso un’opera che ha conosciuto capolavori come Diritto e Ragione del 1989, per giungere al libro della vita, i tre volumi di Principia Iuris, pubblicati quest’anno.

L’omicidio di Giovanna Reggiani avvenuto un anno fa a Roma sembra avere impresso una “svolta punitiva” alla politica italiana. Prima il “pacchetto sicurezza” del Governo Prodi, poi le misure che sanzionano pesantemente la criminalità di strada, l’immigrazione irregolare e i rom del Governo Berlusconi, ricorrendo anche all’esercito. Il tutto in nome dell’insicurezza crescente. Ma quanto è reale questa paura?
Si tratta di una paura in gran parte costruita dal sistema politica e dai media. Secondo le analisi del Centro d’ascolto del Partito radicale, lo spazio dedicato dai telegiornali alle notizie di cronaca nera è passato dal 10,4% nel 2003 al 23,7% nel 2007, con un incremento del 233,4% nel biennio 2006-2007. Questi dati sono cresciuti in corrispondenza della campagna elettorale. La destra ha cavalcato senza ritegno la politica della paura che ritengo non abbia alcuna giustificazione. Se guardiamo le statistiche storiche, vediamo che in Italia il numero degli omicidi è sceso l’anno scorso a 601, rispetto ai 5 mila nella seconda metà dell’Ottocento. Le lesioni volontarie, le violenze sessuali, sono diminuite di circa due terzi. Lo stesso per i furti e le rapine.

Lei ha definito questo uso demagogico della paura nei termini di “populismo penale”. In cosa consiste?
Con questa espressione il giurista francese Denis Salas e quello domenicano Eduardo Jorge Prats definivano una strategia diretta ad ottenere demagogicamente il consenso popolare rispondendo alla paura generata nella popolazione dalla criminalità di strada. Si afferma così un uso congiunturale del diritto penale in senso repressivo ed antigarantista che è totalmente inefficace rispetto alle intenzioni di prevenire i crimini.

Per quale ragione?
Prenda, ad esempio, la proposta di introdurre il reato di immigrazione clandestina. Questo nuovo reato assegnerà a chiunque entra nel territorio nazionale, o vi si intrattiene illegalmente, la condizione di delinquente. Questo significa che in un colpo solo 700 mila immigrati clandestini residenti dovranno essere incarcerati. Senza contare che è impossibile incarcerare centinaia di migliaia di persone. Oppure il reato di prostituzione e adescamento in strada, come proposto dal ministro Mara Carfagna: decine di migliaia di prostitute dovrebbero essere arrestate e processate insieme ai loro clienti. Ovviamente è impensabile che queste norme possano essere seriamente applicate. Ma proprio questo ne conferma il carattere demagogico. Quello che è importante è la valenza simbolica di questi annunci, non la loro applicabilità.

Queste misure sono state giustificate in nome della “tolleranza zero”…
“Tolleranza zero” è un’espressione assurda che esprime un’utopia reazionaria. L’eliminazione dei delitti, cioè la loro riduzione a zero, è impossibile senza un’involuzione totalitaria del sistema politico. La “tolleranza zero” potrebbe essere forse raggiunta solo in una società panottica di tipo poliziesco, che sopprimesse preventivamente le libertà di tutti, mettendo un poliziotto alle spalle di ogni cittadino e i carri armati nelle strade. Il costo sarebbe insomma la trasformazione delle nostre società in regimi disciplinari e illiberali sottoposti alla vigilanza capillare e pervasiva della polizia.

Ma è sulla base di questa parola d’ordine che è avvenuta negli ultimi vent’anni la crescita, non solo in Italia, della carcerazione penale. Se è dunque così inefficace, perché la “tolleranza zero” continua ad essere applicata?
Il fenomeno a cui lei accenna è di dimensioni gigantesche, in tutti i paesi occidentali si è prodotta una vera esplosione delle carceri. In Italia, la popolazione carceraria è raddoppiata, arrivando a 50 mila persone detenute; negli Stati Uniti è addirittura decuplicata, 2 milioni di persone, senza contare i 4 milioni sottoposti alle misure della probation o della parole. Bisogna anche ricordare che in questo paese il numero degli omicidi ha raggiunto quota 30 mila all’anno, dieci volte in più dell’Italia, nonostante le mafie e le camorre. Si tratta di una carcerazione di massa della povertà, generata da una degenerazione classista della giustizia penale, totalmente scollegata dai mutamenti della fenomenologia criminale, alimentata da un’ideologia dell’esclusione che criminalizza i poveri, gli emarginati, i diversi come lo straniero, l’islamico, il clandestino, all’insegna di un’antropologia razzista della disuguaglianza.

Esiste un rapporto tra questo uso della giustizia penale e il cosiddetto Lodo Alfano che tutela le alte cariche dello Stato?
È la duplicazione del diritto penale: un diritto mite per i ricchi e i potenti e un diritto massimo per i poveri e gli emarginati. In questa duplicazione, le misure draconiane contro la delinquenza di strada convivono con l’edificazione di un intero corpus iuris ad personam finalizzato a paralizzare i vari processi contro il presidente del Consiglio, con l’annessa campagna di denigrazione dei giudici accusati di fare politica, anche se interpretano il principio dell’uguaglianza davanti alla legge. È la prova che oggi la giustizia è sostanzialmente impotente nei confronti della delinquenza dei colletti bianchi, mentre è severissima nei confronti della delinquenza di strada. Si pensi agli aumenti massicci di pena per i recidivi previsti dalla legge Cirielli, sull’esempio degli Stati Uniti, simultaneamente alla riduzione dei termini di prescrizione per i delitti societari, destinati così alla prescrizione. E si pensi, invece, alle pene durissime introdotte dal decreto sulla sicurezza: espulsione dello straniero condannato a più di due anni, reclusione da 1 a 5 anni per avere dichiarato false generalità, aumento della pena fino a un terzo nel caso in cui lo straniero sia clandestino.

Sta dicendo che il diritto penale viene ormai usato come strumento di discriminazione?
Tutte queste misure violano una serie di principi di civiltà giuridica, ma soprattutto la sostanza del principio di legalità, cioè il divieto in materia penale di associare una pena ad una condizione, o ad un’identità personale, tanto più se è etnica. È il meccanismo della demagogia populista: si costruisce un potenziale nemico, l’immigrato, e lo si addita come possibile delinquente, o soggetto pericoloso, esponendolo alla violenza omicida come abbiamo visto nelle ultime settimane con l’assassinio di Abdoul Guiebré a Milano, con la strage dei sei lavoratori africani a Castel Volturno, con gli incendi dei campi Rom a Napoli e molti altri episodi purtroppo giornalieri. Ma l’aspetto più grave di queste leggi, più ancora della violazione dei principi garantisti, è il veleno razzista che iniettano nel senso comune. Queste leggi non si limitano ad assecondare il razzismo diffuso nella società, ma esse stesse sono leggi razziste, a distanza di settant’anni di quelle di Mussolini, delle quali i nostri governanti dovrebbero vergognarsi.

In che cosa consisterebbe, invece, l’uso garantista del diritto penale?
In una politica razionale, e non demagogica, che abbia a cuore la prevenzione dei delitti, insieme alla garanzia dei diritti fondamentali di tutti, e che consideri la giustizia penale come un’extrema ratio. La vera prevenzione della delinquenza è una prevenzione pre-penale, prima ancora che penale.

Non si può dire che la sinistra non abbia ceduto alle tentazioni dell’ideologia sicuritaria negli ultimi anni, penso alle misure contro i lavavetri e l’accattonaggio adottate da alcuni suoi sindaci. In che modo è possibile impostare una diversa politica della prevenzione?
Con lo sviluppo dell’istruzione di base, con la soddisfazione dei minimi vitali, in altre parole con la costruzione dell’intero sistema di garanzie dal quale dipende l’effettività della democrazia. Ma la prevenzione passa soprattutto dallo sviluppo del senso civico, della solidarietà sociale, della tolleranza per i diversi, insomma dalle virtù civili e politiche che sono esattamente opposte alla paura e al sospetto di tutti verso tutti, alimentati dalla legislazione emergenziale sulla sicurezza.

Sta dicendo che le politiche sociali dovrebbero limitare al massimo il ricorso alle politiche penali?
È proprio sul terreno delle politiche sociali che matura la convergenza tra garantismo liberale e garantismo sociale, tra garanzie penali e processuali e garanzie dei diritti sociali, tra sicurezza penale e sicurezza sociale. È l’assenza di garanzie per l’occupazione e per la sussistenza a creare ciò che chiamo “delinquenza di sussistenza”. Queste politiche sociali richiedono lo sviluppo effettivo di garanzie del lavoro, dell’istruzione, della previdenza, in generale politiche che assicurino a ciascuno, come ha detto Marx, lo spazio sociale per l’estrinsecazione della propria vita.

Link
Populismo penale
Ho paura dunque esisto
Dipietrismo: malattia senile del comunismo?
Giustizia o giustizialismo, dilemma nella sinistra
Il populismo penale una malattia democratica

Curare e punire
Il governo della paura
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Populismo penale, una declinazione del neoliberismo

Avanza il populismo di sinistra

Dipietrismo, malattia senile del comunismo?

Paolo Persichetti
Liberazione-Queer
19 ottobre 2008

Nel 2001 l’Italia dei valori, la sigla politica di cui Antonio Di Pietro è proprietario, aveva mancato per pochi voti il quorum. Impresa che invece è  59-queer-dipietro11 riuscita nelle politiche dell’aprile scorso, quando l’Idv ha raggiunto il 4,4% su scala nazionale, con punte molto significative nel feudo storico dell’ex pm, il Molise, dove il logo di famiglia ha conquistato il 27%. Un risultato di gran lunga superiore a quello del Pd, fermo al 17%. In Abruzzo è arrivato al 7,1% nelle liste del senato mentre gli ultimi sondaggi delineano addirittura la possibilità di un raddoppio del bottino elettorale. Su scala nazionale tutti gli indicatori attuali segnalano una ulteriore progressione, che alcuni quantificano intorno a una forbice che oscilla tra il 6 e l’8%. La scomparsa della sinistra radicale, marxista e antagonista dalla rappresentanza parlamentare ha ulteriormente amplificato la portata politica di questo successo, garantendo a Di Pietro l’apertura imprevista di uno spazio politico enorme. La politica ha orrore del vuoto e così Di Pietro è subito corso a riempirlo. Mera logica del mercato politico, tanto più quando l’avventura dipietrista è ispirata da ragioni d’imprenditoria politica ovvero di chi costruisce la propria offerta sulla base della domanda che gli si pone davanti, dove idealità, valori, cultura, concezione del mondo, progetti globali di società non esistono o hanno un profilo molto basso e strumentale. E bene Di Pietro non si è lasciato sfuggire questa opportunità e così l’incubo del populismo giustizialista s’addensa sui territori un tempo occupati dai partiti del movimento operaio.
Questa preoccupante novità è il rivelatore di una mutazione più profonda che da oltre un quindicennio erode la base sociale e la conformazione ideologico-politica del «popolo di sinistra». A livello di massa si è operata una lenta trasmutazione della cultura politica, dell’universo valoriale e dei modelli d’azione tipici che appartenevano alla storia del movimento operaio. Le tradizionali dinamiche protestatarie e contestatarie, la coesistenza d’ipotesi riformiste per un verso o di spinte antisistema nell’altro, hanno via, via lasciato il passo a sentimenti antipolitici, lasciando emergere un qualunquismo di tipo nuovo, il qualunquismo di sinistra. Una conseguenza di questa deideologizzazione è stato il passaggio da forme di discorso più strutturate al prevalere di stati d’animo, di pulsioni volatili, incerte, confuse che possono variare dall’antipolitica tradizionale, alla critica verso il deficit di rappresentatività dei partiti d’opposizione, ai panegirici sulla società civile incontaminata, luogo del giusto e del vero, alla richiesta nei confronti della magistratura di sostituirsi alle forze politiche. Posizioni che trovano una sintesi in un antiberlusconismo che è etico prim’ancora d’essere politico. Una rivolta populista che ricorda alcuni tratti del «diciannovismo», quando a scendere in campo erano i ceti della piccola borghesia con parole che denunciavano la plutocrazia del capitale e il riformismo imbelle.
A ben vedere l’attuale qualunquismo di sinistra esprime una composizione sociale mutata. L’anima operaia e i ceti più bassi guardano al modello leghista: un populismo che rielabora accenti del poujadismo e del boulangismo, si incentra sul vittimismo fiscale, la polemica contro i costi dell’assistenzialismo statale e l’inefficienza dei servizi pubblici, l’ostilità razzista verso l’immigrazione, la preferenza etnica. Il fenomeno dei Girotondi e le piazze elettroniche grilline raccolgono quello che è stato definito «ceto medio riflessivo», secondo una formula coniata senza intenzioni umoristiche dallo storico Paul Ginsborg, che riprendeva un’espressione del guru della «terza via» Anthony Giddens. Anche qui l’innovazione delle forme di mobilitazione è mirata a marcare nettamente la propria differenza dai tradizionali cortei e dalle manifestazioni tipiche della sinistra politica, del movimento operaio, delle forze sindacali.
Di Pietro, il campione della «rivoluzione giudiziaria» mai riuscita, l’uomo di destra che ha spianato la strada del governo alle destre, si candida a coalizzare questa «sinistra moralista». Ripetute sono le voci che parlano della possibilità di una federazione elettorale che raccolga le liste civiche di Grillo, i Girotondi irriducibili di Pancho Pardi e Paolo Flores D’Arcais, la componente ulivista del Pd guidata da Parisi. Altre indiscrezioni raccontano della possibilità che venga fuori anche un giornale che dia voce a tutto ciò, realizzato mettendo insieme la “fabbrica Travaglio”, l’industria editoriale che ruota attorno al giornalista, all’editore di Chiarelettere Fazio e che dovrebbe avvalersi di alcune grandi firme transfughe dell’Unità . Probabilmente queste voci vengono diffuse ad arte per sondare il terreno, vedere se l’idea riscontri successo. Certo è che un’ipotesi del genere necessita ancora di alcune verifiche: le elezioni abruzzesi e poi la scadenza europea. Ma se l’avventura raccogliesse i necessari consensi elettorali probabilmente ogni prudenza verrebbe meno.
Descritto negli studi sull’argomento (molto pochi) come «espressione di un populismo allo stato puro», di fronte alla prospettiva di una definitiva consacrazione Di Pietro ha cominciato ad adattare il suo discorso politico per renderlo meno monotematico, introducendo timidi accenni alle questioni sociali. Nel pieno della vertenza Alitalia, il giorno in cui la trattativa dei sindacati con la Cai è precipitata, ha arringato nelle vesti di un consumato agit-prop, piloti e personale di terra promettendo giustizia, non sociale ma penale. «Li processeremo tutti» è stato il suo messaggio, per poi approvare l’accordo. Silenzio sui licenziamenti, il mancato rinnovo dei contratti per i precari, il taglio drastico degli stipendi. Il rimborso simbolico di una galera per i manager che mai verrà è il pane con cui sfamare chi lavora. Nutritevi di risentimento e vivrete meglio. Un banchetto per la raccolta delle firme in favore del referendum contro il lodo Alfano era presente sul tragitto del corteo nazionale dei Cobas, Rdb e Cub, tenutosi durante lo sciopero generale di venerdì scorso. L’importante è diventare compatibile, farsi accettare, lui, l’uomo dell’opposizione alla politica professionale, il «nemico dei riciclati e degli inquisiti», quello del «legame indissolubile tra etica e politica», fonte battesimale della legalità che può separare gli «onesti dai disonesti» e un tempo censurava la «propensione a delinquere degli albanesi».
Di Pietro è il presidente-padrone di un partito che non c’è. Non un partito-azienda come quello berlusconiano, ma un partito formato famiglia, un partito da camera da letto, suo e di sua moglie. In perfetto stile Seconda repubblica, ultraleggero, ma costruito come una specie di Spa quotata in borsa, una piccola matrioska che cela al proprio interno il segreto. Recita l’articolo 2 dello statuto: «L’associazione Italia dei Valori – composta da Antonio Di Pietro, la moglie e la tesoriera Silvana Mura – promuove la realizzazione di un partito nazionale». L’articolo 10 precisa: «La presidenza nazionale del partito spetta al presidente dell’associazione», ovvero Antonio Di Pietro. L’uomo anticasta, quello della «democrazia riconsegnata ai cittadini» ha messo in piedi il partito personale, lo scrigno riservato. La politica per Di Pietro non è il luogo di una comunità partecipata. Si celebrano i congressi regionali, si eleggono persino dei delegati ma non si decide nulla perché, come accade per Forza italia, non si tengono congressi nazionali. Ogni decisione è in mano al sovrano-proprietario-presidente che si avvale tuttalpiù di qualche suo fidato consigliori di fiducia. Uno di questi, Elio Veltri, suo gostwriter fin dalle origini della sua entrata in politica, estensore di manifesti, discorsi, articoli, vero ideologo del dipietrismo, se n’è andato disgustato accusandolo di razzolare molto male, di essere lo specchio di quella casta della politica che ha perseguito come pm e dileggia come politico, fino a non disdegnare le tradizionali pratiche della politica clientelare. Insomma la vecchia storia dei vizi privati e delle pubbliche virtù.
Nonostante ciò Di Pietro ha successo, sfonda a sinistra, il suo sgangherato italiano sembra un irresistibile canto delle sirene per gli elettori delusi e indignati. Suscita simpatie anche nei militanti, persino in alcuni quadri dirigenti. Siamo allora destinati a morire tutti dipietristi oppure riusciremo a trovare la strada per venire fuori da questa sciagura che sta travolgendo ciò che resta della sinistra?
Ma dove sta la soluzione? Nel tatticismo senza respiro di chi propone di mutuarne linguaggi, atteggiamenti, trovate referendarie, pensando che possa essere una salvezza rivaleggiare sullo stesso terreno della demagogia e del risentimento? Nella subalternità culturale e ideologica di chi non vede che dietro il mito della giustizia penale c’è il cimitero della giustizia sociale? Di chi lascia irresponsabilmente credere che l’illegalismo sistemico delle élite possa essere contrastato dalla magistratura senza pervenire a delle modifiche strutturali? Di chi attribuisce qualità salvifiche al potere giudiziario rinunciando alla critica dei poteri? Di chi addirittura dissotterra l’eticismo berlingueriano per trovare una coerenza ideologica che ricolleghi idealmente il dipietrismo con la nefasta e fallimentare stagione valoriale del compromesso storico, quella dell’austerità seguita poi dalla questione morale? Ma non fu Di Pietro, con la sua inchiesta sulle tangenti distribuite per i lavori nella metropolitana milanese, che distrusse il mito della diversità dell’amministratore comunista forgiato da Berlinguer? Il (simpatico) compagno Greganti docet?
Trasformare le piazze in enormi banchi delle parte civili, dove le lotte sociali, sindacali e politiche si troverebbero declinate con gli ultimi ismi in circolazione, non più quello del comunismo ma del populismo e del vittimismo, darebbe il colpo di grazia finale a quel po’ di speranze nella trasformazione sociale che restano.

Giustizia o giustizialismo? Dilemma nella Sinistra

Il giustizialismo è ormai diventato un potere come gli altri, con un suo preciso ordine del discorso teso ad aizzare le masse contro un sovrano per creare consenso verso un altro sovrano

Anna Simone
L
iberazione Queer 19 ottobre 2008


Tra gli effetti perversi di ciò che alcuni denominano come crisi dello stato di diritto e altri come fine del medesimo vi sono almeno due fenomeni degni di una seria riflessione: da una parte il rafforzamento dei poteri esecutivi e 59-queer-dipietro2 amministrativi tesi a criminalizzare la cosiddetta “marginalità sociale” a colpi di decreti e ordinanze amministrative (contro accattoni, lavavetri, prostitute, trans etc.); dall’altra un processo di trasformazione delle cosiddette teorie della giustizia in giustizialismo. Ovverosia in quell’ideologia politica post-garantista che tende a vedere nel legalismo e nel contenimento del rafforzamento del potere esecutivo l’unica forma di politica possibile. Ci riferiamo, evidentemente, al successo del dipietrismo-travaglismo e al buon esito di consenso mediatico e non che essi riescono ad avere. L’ossessione giustizialista, però, spesso declinata come anti-berlusconismo, non sempre, per non dire mai, riesce ad attraversare anche gli ambiti del garantismo “per tutti” e quindi si traduce in un potere che non distingue i soggetti coinvolti nella dinamica. Non distingue cioè l’ingiustizia sociale, trasformatasi ormai in politica penale contro gli ultimi, dallo scontro ormai titanico tra potere esecutivo e potere giudiziario. Di conseguenza passano quasi inosservati i “pentitismi” sull’indulto, i no secchi all’amnistia, il totale silenzio sulla persecuzione nei confronti di migranti, prostitute e quant’altro, l’avallo incondizionato dato nei confronti di qualsiasi processo di criminalizzazione preventiva. In poche parole è ovvio e ragionevole che qualsiasi tentativo di rafforzamento, di potenziamento dell’esecutivo debba preoccupare tutti, ma non è altrettanto ovvio che ciò avvenga attraverso l’innalzamento virile del vessillo giustizialista. La cosiddetta teoria del bilanciamento dei poteri, sancita anche dalla costituzione, che a giusto titolo prevede oltre alla funzione legislativa ed esecutiva anche quella giudiziaria, appare in realtà sempre più sbilanciata verso un giustizialismo sommario, sino ad essere divenuta il “grande tema” della politica contemporanea di cui discutere nei vari salotti televisivi, a dispetto di chi ne paga le conseguenze reali sulla propria pelle (precari senza possibilità di accedere ad uno straccio di diritto, tossicodipendenti a cui vengono negate le misure alternative, trans rinchiusi nei cpt etc.). Prima della nascita dello stato moderno non si ha memoria di sistemi politici che differenziavano i poteri per poter giustiziare gli stessi diritti e lo stesso potere esecutivo, qualora fossero colti in flagranza di abuso, dal momento che la pubblica messa a gogna del capro espiatorio di turno riusciva a soddisfare il sadico piacere della vendetta di massa. I molti si sfogavano sull’uno ma non sul sistema accentratore e assolutistico che produceva il capro espiatorio. Poi ci sono state le rivoluzioni, a seguire è nata la democrazia nonché il potere giudiziario il quale fu posto, seppure tra mille contraddizioni e conflitti, a svolgere il ruolo terzo di controllo sul potere esecutivo e legislativo in modo tale da poter garantire una forma di giustizia attraverso l’assoggettamento alla legge financo dell’autorità politica di turno. Nacque, cioè, lo stato di diritto. Ma se da una parte la giustiziabilità del potere esecutivo avrebbe dovuto garantire il famoso principio della “legge uguale per tutti”, dall’altra i sistemi di welfare avrebbero dovuto consentire lo sviluppo di una giustizia parallela, quella sociale. Oggi, venuta a mancare quest’ultima, ci ritroviamo dinanzi ad un potere giudiziario tradotto troppo spesso in giustizialismo e in un reale abuso del potere esecutivo, ma entrambi i poteri distorti si muovono sullo stesso crinale pur essendo contrapposti: la legge non è uguale per tutti sia per gli uni che per gli altri. Perché Di Pietro è ossessionato dal lodo Alfano ma non spende parola alcuna sulle migliaia di migranti che popolano i centri di detenzione costruiti ad hoc per contenere la miseria e la disperazione del mondo? Perché i cosiddetti giustizialisti, tra cui senz’altro mettiamo anche Travaglio non aprono bocca dinanzi al decreto sulla sicurezza voluto da Maroni e poi convertito in legge che consente la carcerizzazione di massa e l’espulsione facile di migliaia di persone? Perché nessuno apre bocca sull’ipocrisia perbenista e falsamente morale del ddl Carfagna sulla prostituzione? Perché tutti oggi negano l’efficacia dell’indulto sui maggiori quotidiani italiani nonostante vi siano saggi scientifici che dimostrano il contrario (si veda a tal proposito il lavoro fatto da Antigone)? Eppure questi ultimi fenomeni ci pongono dinanzi alla crisi dello stato di diritto nel medesimo modo del lodo Alfano. Qualsiasi persona ragionevole, infatti, vedrebbe il fenomeno nel suo duplice volto se avesse un minimo di coscienza di quanto possa essere fuorviante trasformare la dea della giustizia, la bellissima Minerva, in un giustiziere monomaniaco che trasforma l’idea democratica del bilanciamento dei pubblici poteri in un meccanismo che fa di due pesi, due misure. Il giustizialismo, infatti, e non la giustizia è ormai diventato un potere come gli altri, con un suo preciso ordine del discorso teso ad aizzare le masse contro un sovrano per creare consenso verso un altro sovrano, per costruire nuove ed inedite forme di populismo difficilmente collocabili sia a destra che a sinistra. D’altronde non è un’operazione politica così difficile dati i tempi che corrono, ma non è neppure un’operazione sana perché in fin dei conti spara nel mucchio, nella mucillaggine in cui tutti siamo immersi, senza distinguere più tra i sommersi e i salvati. Nel famoso film di Nanni Moretti, Il Caimano, il sipario si chiudeva con l’immagine di un Tribunale che avrebbe salvato l’Italia. Il dipietrismo, con il supporto della lingua biforcuta e scaltra di Travaglio, cerca di trasformare questa immagine in una forma della politica contemporanea, ma sia anche chiaro a tutti che il rovescio di questo fenomeno non risiede nel ripristino di un diritto per tutti. Tutt’altro. Risiede nella tendenza contemporanea dei poteri di trasformare tutto ciò che toccano in politica penale, come se tutti ormai stessimo in una nuova e gigantesca gogna mediatica. Sarà per questo che Di Pietro “tira”, come si dice in gergo?

Link
Ho paura dunque esisto
Dipietrismo: malattia senile del comunismo?
Il populismo penale una malattia democratica
Badiou, Sarkozy il primo sceriffo di Francia in sella grazie alla doppia paura
Curare e punire
Il governo della paura
Genesi del populismo penale e nuova ideologia vittimaria
Populismo penale, una declinazione del neoliberismo