Di Pietro alla ricerca della legittimazione democratica s’inventa dopo 12 anni un congresso largamente blindato in partenza. L’uomo dei vizi privati e delle pubbliche virtù cerca di sbancare ciò che resta a Sinistra.
E la Sinistra si inchina
Paolo Persichetti
Liberazione 6 febbraio 2010

Ormai ridottosi a partito fantasma, rimasuglio di lobby, potentati locali, combriccole, senza una strategia, il Pd è costretto a cercare l'abbraccio di Di Pietro per non perdere una base cresciuta a pane e giustizialismo. Il mito dell'azione penale, della funzione salvifica della magistratura, presentano alla fine il conto. La bancarotta culturale, l'asservimento all'ideologia giustizialista e al peronismo dipietrista. Prc, Pdci e Sinistra ecologia e Libertà che speravano nella nascita di un fronte peronista radicale restano a bocca asciutta. Amanti rifiutate, cornute e mazziate
Dodici anni sono passati da quando il 21 marzo 1998 Antonio Di Pietro fondò l’Italia dei valori. Da allora il movimento politico di cui è sempre stato il presidente-padrone dotato di poteri assoluti non ha mai affrontato un congresso. Più che un partito è stato una specie di Spa, una piccola matrioska che nascondeva al proprio interno il segreto di famiglia, il sodalizio tra l’uomo di Montenero di Bisaccia, sua moglie e Silvana Mura, l’inossidabile tesoriera. «Tutto gira in una sorta di associazione “clandestina” – ha ricordato in una intervista rilasciata pochi giorni fa Elio Veltri, stretto collaboratore dell’ex pm e suo ghostwriter fino al 2001 – fondata da tre persone, nella quale si può entrare solo con il placet di Di Pietro ma, appunto, davanti ad un notaio». In virtù di questo singolare statuto, Di Pietro è il titolare esclusivo della ripartizione dei finanziamenti, della supervisione sugli iscritti, della composizione delle liste elettorali. Nelle sue mani risiede la chiave che consente il cambiamento dello statuto. Insomma un castello fortificato non certo una comunità partecipata. Secondo gli idealtipi della sociologia weberiana si tratta di una classica formazione politica fondata sul potere carismatico del suo leader, improntata al più genuino populismo. In altri tempi, nel Novecento, sarebbe stato catalogato come un movimento politico “predemocratico”. Tuttavia c’è sempre una prima volta per tutti. E così, anche se con grave ritardo, questo movimento ha cominciato timidamente ad aprirsi in direzione della dialettica interna. Ieri si è tenuta presso il Marriot Park Hotel di Roma, vicino all’aeroporto di Fiumicino, la prima assise nazionale del partito. Slogan d’apertura: «L’alternativa per una nuova Italia». I lavori si concluderanno domenica. Tuttavia parlare dell’avvio di un percorso di trasparenza e normale vita partecipativa resta un grosso azzardo, anche se fornire la sensazione della «svolta» è l’obiettivo di questo primo congresso: liberarsi della vecchia immagine personalistica, offrire l’idea di una formazione finalmente democratica, partecipata, aperta alla società. In realtà le modifiche statutarie introdotte sono assolutamente minime, l’Italia dei valori resta proprietà privata di Di Pietro. Si tratta solo di un adeguamento dovuto alla “crisi di crescita” che il movimento ha riscontrato negli ultimi anni, soprattutto dopo la frantumazione della sinistra. In sala erano presenti 3.607 delegati, in rappresentanza di quasi 100 mila iscritti (secondo i dati forniti e che sarebbero raddoppiati nell’arco di un anno) e di 24 deputati, 12 senatori, 7 europarlamentari. Soprattutto il congresso si apre sull’onda di sondaggi molto favorevoli che consoliderebbero per le prossime elezioni regionali l’8% conquistato nelle elezioni europee di un anno fa. Dichiarazioni di voto che hanno spinto alcuni esponenti di punta dell’Idv, come il pm Luigi De Magistris, eletto come indipendente con un numero di voti superiore a quello dello stesso Di Pietro e ritenuto lo sfidante potenziale, ad avanzare l’obiettivo del 10% nell’ottica di un allargamento verso Rifondazione, SeL, noglobal e “popolo viola”. Non a caso all’apertura dei lavori hanno partecipato tutti gli attuali segretari di partito della sinistra, da Pierluigi Bersani a Paolo Ferrero, da Nichi Vendola al segretario della Cgil, Guglielmo Epifani. Una delle decisioni finali del congresso dovrebbe essere quella di togliere il nome di Di Pietro dal simbolo per segnalare che la fase della personalizzazione del partito sarebbe finita. La sostanza della discussione dovrebbe portare, invece, sulle alleanze da costruire e sulla scelta dei territori politici sui quali estendere l’influenza dell’Idv: verso il Pd o più a sinistra? Uomo di destra, portatore di valori ultramoderati, Di Pietro ha sfoderato tutto il cinismo politico possibile invadendo i territori tradizionali della sinistra popolare e operaia, allargando i temi d’intervento politico, modificando il linguaggio, prestando attenzione non più solo ai temi della legalità ma anche alle questioni sociali sociali e ambientali, alla crisi economica, ai licenziamenti che stanno colpendo i posti di lavoro. Un uomo chiave di questo restyling “operaista” è stato Maurizio Zipponi, già segretario della Fiom di Brescia, uscito da Rifondazione, che gli ha aperto la via nelle roccaforti operaie del nord. De Magistris, che non sembra avere fretta, all’apertura dei lavori ha subito indicato che voterà la mozione del presidente facendo capire però che lui rappresenta il futuro. Scontato a questo punto l’esito finale del congresso. Nonostante tutto il deputato campano Francesco Barbato si è candidato alla segreteria con un documento che sostiene una «diversa visione del partito costruita su un movimento civico dal basso», senza «i signori delle tessere, la parentopoli dell’Idv, con incarichi a parenti in linea diretta, discendenti e ascendenti, intere famiglie per non dire clan che si sono accasati nell’Idv con doppi e tripli incarichi». Posizione che echeggia il durissimo attacco venuto dalle pagine di Micromega lo scorso settembre con un’inchiesta devastante che metteva in luce un partito di eletti costituito da lobby, cacicchi locali, capibastone. Un sottobosco che ricorda il ceto politico giolittiano del primo Novecento che Salvemini non aveva esitato a definire «malavitoso». Un partito fatto di notabili «a cui mai darei la mano», dice Barbato e segnalano documentatissime inchieste, ma ciò non scalfisce l’immagine di un Di Pietro immacolato difensore delle virtù pubbliche. E’ singolare che la sinistra radicale lo rincorra con l’unico risultato di lasciarsi assorbire, abbandonando alla destra il dovere della battaglia. Una destra un po’ ingrata che deve a Di Pietro e “Mani pulite” lo sdoganamento politico che le ha aperto l’autostrada del potere.
Link
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Populismo penale






riuscita nelle politiche dell’aprile scorso, quando l’Idv ha raggiunto il 4,4% su scala nazionale, con punte molto significative nel feudo storico dell’ex pm, il Molise, dove il logo di famiglia ha conquistato il 27%. Un risultato di gran lunga superiore a quello del Pd, fermo al 17%. In Abruzzo è arrivato al 7,1% nelle liste del senato mentre gli ultimi sondaggi delineano addirittura la possibilità di un raddoppio del bottino elettorale. Su scala nazionale tutti gli indicatori attuali segnalano una ulteriore progressione, che alcuni quantificano intorno a una forbice che oscilla tra il 6 e l’8%. La scomparsa della sinistra radicale, marxista e antagonista dalla rappresentanza parlamentare ha ulteriormente amplificato la portata politica di questo successo, garantendo a Di Pietro l’apertura imprevista di uno spazio politico enorme. La politica ha orrore del vuoto e così Di Pietro è subito corso a riempirlo. Mera logica del mercato politico, tanto più quando l’avventura dipietrista è ispirata da ragioni d’imprenditoria politica ovvero di chi costruisce la propria offerta sulla base della domanda che gli si pone davanti, dove idealità, valori, cultura, concezione del mondo, progetti globali di società non esistono o hanno un profilo molto basso e strumentale. E bene Di Pietro non si è lasciato sfuggire questa opportunità e così l’incubo del populismo giustizialista s’addensa sui territori un tempo occupati dai partiti del movimento operaio.

amministrativi tesi a criminalizzare la cosiddetta “marginalità sociale” a colpi di decreti e ordinanze amministrative (contro accattoni, lavavetri, prostitute, trans etc.); dall’altra un processo di trasformazione delle cosiddette teorie della giustizia in giustizialismo. Ovverosia in quell’ideologia politica post-garantista che tende a vedere nel legalismo e nel contenimento del rafforzamento del potere esecutivo l’unica forma di politica possibile. Ci riferiamo, evidentemente, al successo del dipietrismo-travaglismo e al buon esito di consenso mediatico e non che essi riescono ad avere. L’ossessione giustizialista, però, spesso declinata come anti-berlusconismo, non sempre, per non dire mai, riesce ad attraversare anche gli ambiti del garantismo “per tutti” e quindi si traduce in un potere che non distingue i soggetti coinvolti nella dinamica. Non distingue cioè l’ingiustizia sociale, trasformatasi ormai in politica penale contro gli ultimi, dallo scontro ormai titanico tra potere esecutivo e potere giudiziario. Di conseguenza passano quasi inosservati i “pentitismi” sull’indulto, i no secchi all’amnistia, il totale silenzio sulla persecuzione nei confronti di migranti, prostitute e quant’altro, l’avallo incondizionato dato nei confronti di qualsiasi processo di criminalizzazione preventiva. In poche parole è ovvio e ragionevole che qualsiasi tentativo di rafforzamento, di potenziamento dell’esecutivo debba preoccupare tutti, ma non è altrettanto ovvio che ciò avvenga attraverso l’innalzamento virile del vessillo giustizialista. La cosiddetta teoria del bilanciamento dei poteri, sancita anche dalla costituzione, che a giusto titolo prevede oltre alla funzione legislativa ed esecutiva anche quella giudiziaria, appare in realtà sempre più sbilanciata verso un giustizialismo sommario, sino ad essere divenuta il “grande tema” della politica contemporanea di cui discutere nei vari salotti televisivi, a dispetto di chi ne paga le conseguenze reali sulla propria pelle (precari senza possibilità di accedere ad uno straccio di diritto, tossicodipendenti a cui vengono negate le misure alternative, trans rinchiusi nei cpt etc.). Prima della nascita dello stato moderno non si ha memoria di sistemi politici che differenziavano i poteri per poter giustiziare gli stessi diritti e lo stesso potere esecutivo, qualora fossero colti in flagranza di abuso, dal momento che la pubblica messa a gogna del capro espiatorio di turno riusciva a soddisfare il sadico piacere della vendetta di massa. I molti si sfogavano sull’uno ma non sul sistema accentratore e assolutistico che produceva il capro espiatorio. Poi ci sono state le rivoluzioni, a seguire è nata la democrazia nonché il potere giudiziario il quale fu posto, seppure tra mille contraddizioni e conflitti, a svolgere il ruolo terzo di controllo sul potere esecutivo e legislativo in modo tale da poter garantire una forma di giustizia attraverso l’assoggettamento alla legge financo dell’autorità politica di turno. Nacque, cioè, lo stato di diritto. Ma se da una parte la giustiziabilità del potere esecutivo avrebbe dovuto garantire il famoso principio della “legge uguale per tutti”, dall’altra i sistemi di welfare avrebbero dovuto consentire lo sviluppo di una giustizia parallela, quella sociale. Oggi, venuta a mancare quest’ultima, ci ritroviamo dinanzi ad un potere giudiziario tradotto troppo spesso in giustizialismo e in un reale abuso del potere esecutivo, ma entrambi i poteri distorti si muovono sullo stesso crinale pur essendo contrapposti: la legge non è uguale per tutti sia per gli uni che per gli altri. Perché Di Pietro è ossessionato dal lodo Alfano ma non spende parola alcuna sulle migliaia di migranti che popolano i centri di detenzione costruiti ad hoc per contenere la miseria e la disperazione del mondo? Perché i cosiddetti giustizialisti, tra cui senz’altro mettiamo anche Travaglio non aprono bocca dinanzi al decreto sulla sicurezza voluto da Maroni e poi convertito in legge che consente la carcerizzazione di massa e l’espulsione facile di migliaia di persone? Perché nessuno apre bocca sull’ipocrisia perbenista e falsamente morale del ddl Carfagna sulla prostituzione? Perché tutti oggi negano l’efficacia dell’indulto sui maggiori quotidiani italiani nonostante vi siano saggi scientifici che dimostrano il contrario (si veda a tal proposito il lavoro fatto da Antigone)? Eppure questi ultimi fenomeni ci pongono dinanzi alla crisi dello stato di diritto nel medesimo modo del lodo Alfano. Qualsiasi persona ragionevole, infatti, vedrebbe il fenomeno nel suo duplice volto se avesse un minimo di coscienza di quanto possa essere fuorviante trasformare la dea della giustizia, la bellissima Minerva, in un giustiziere monomaniaco che trasforma l’idea democratica del bilanciamento dei pubblici poteri in un meccanismo che fa di due pesi, due misure. Il giustizialismo, infatti, e non la giustizia è ormai diventato un potere come gli altri, con un suo preciso ordine del discorso teso ad aizzare le masse contro un sovrano per creare consenso verso un altro sovrano, per costruire nuove ed inedite forme di populismo difficilmente collocabili sia a destra che a sinistra. D’altronde non è un’operazione politica così difficile dati i tempi che corrono, ma non è neppure un’operazione sana perché in fin dei conti spara nel mucchio, nella mucillaggine in cui tutti siamo immersi, senza distinguere più tra i sommersi e i salvati. Nel famoso film di Nanni Moretti, Il Caimano, il sipario si chiudeva con l’immagine di un Tribunale che avrebbe salvato l’Italia. Il dipietrismo, con il supporto della lingua biforcuta e scaltra di Travaglio, cerca di trasformare questa immagine in una forma della politica contemporanea, ma sia anche chiaro a tutti che il rovescio di questo fenomeno non risiede nel ripristino di un diritto per tutti. Tutt’altro. Risiede nella tendenza contemporanea dei poteri di trasformare tutto ciò che toccano in politica penale, come se tutti ormai stessimo in una nuova e gigantesca gogna mediatica. Sarà per questo che Di Pietro “tira”, come si dice in gergo?