Carcere, solo posti in piedi

Carcere d’estate, solo posti in piedi. Il Dap, “ghiaccio per tutti”

Paolo Persichetti
Liberazione 9 luglio 2008

«Solo posti in piedi». Questo è il cartello che presto verrà affisso davanti alle entrate degli istituti di pena.
Si è sforata ormai anche la soglia dell’ipocrisia, quella che prevede un «capienza tollerabile» di 63.762 detenuti a fronte di una soglia regolamentare che invece ne accetta “solo” 43.201, cioè 20 mila in meno. Quest’ultima a sua volta gonfiata. Il numero di posti realmente fruibile carceri affollate rid3infatti è ancora più basso, non arriva ai 38 mila. Ieri eravamo a 63.789. Peggio di un carro bestiame. A Trieste la direzione del carcere aveva persino introdotto un registro dei materassi a terra per stabilire chi a turno doveva dormire sul pavimento. Un modo per regolamentare il disagio ed evitare tensioni. Dopo le brande supplementari, dopo i letti a castello che raggiungono il soffitto, dopo l’occupazione delle salette una volta adibite per la socialità, quelle dove in genere c’era il tavolo da ping-pong e alcune sedie e tavolini per giocare a carte oppure a scacchi ed ora vivono in permanenza 20-30 persone, dopo i pavimenti sono rimasti solo i posti in piedi. Restano i corridoi (come in certi ospedali), ma ancora per poco.
Ovviamente c’è fermento nelle carceri per questa situazione che rasenta l’indicibile, soprattutto quando il caldo torrido, come quello di questi giorni, rende impraticabili le più elementari condizioni di vita e d’igiene. Ma non è che in inverno sarà meglio. Ora infatti le direzioni possono ricorrere al prolungamento delle ore d’aria nei cortili, come indicato da una circolare del Dap. Ma quando arriverà il freddo e le ore di cella chiusa si prolungheranno la vita sarà ancora di più un inferno.
Da settimane si registrano proteste collettive dei reclusi. In almeno 30 istituti di pena sono in corso scioperi del vitto e “battiture” ad orari prestabiliti. Andate sotto le mura del carcere della vostra città e sentirete un assordante concerto di pentole e casseruole accompagnato da urla, canti, fischi, stracci alle finestre. Il popolo chiuso si fa sentire, suona la sua sinfonia d’estate. A Lanciano, Secondigliano, Reggio Emilia, Rebibbia reclusione, Marassi, Marino del Tronto, Como, Piacenza, Saluzzo, Catania, Palermo, Pisa, Verona, Venezia, i detenuti hanno inscenato proteste a turno.
Negli uffici del Dap se non è allarme rosso, poco ci manca. Anche se nessuno l’evoca e le preoccupazioni si dirigono soprattutto verso comportamenti individuali, come l’autolesionismo e i suicidi (è stato vietato l’uso di scatolame in metallo), lo spettro della rivolta aleggia nei retropensieri. Basta un niente, una scintilla in situazioni sature di tensione e malumore perché tutto precipiti. Per questo la protesta ha contagiato anche la polizia penitenziaria che deve convivere con il sovraffollamento. Le principali sigle sindacali hanno manifestato ieri a Bologna. Seconda tappa dopo Milano. Il calendario della protesta degli agenti di custodia prevede ulteriori tappe a Bari, Palermo, Cagliari per poi concludersi a Roma in settembre. I sindacati penitenziari denunciano il «disinteresse del Ministro Alfano» e una carenza d’organico cifrata a 5 mila agenti. Ricordano, inoltre, come il “piano carceri”, nel quale si prevedeva la costruzione di 24 nuovi istituti e l’ampliamento di quelli esistenti, non è mai decollato. Affermano anche che «la soluzione di tutti i problemi non può essere quella di affidarsi solo e soltanto all’edilizia penitenziaria». L’idea che la semplice estensione della superficie repressiva, la moltiplicazione senza precedenti dei contenitori penali, l’esplosione della popolazione detenuta fino alle 80-100 mila unità messe in conto dalle proiezioni del piano carceri non sia più la soluzione ma parte del problema, è un’acquisizione nuova in territori come quelli della penitenziaria. Si tratta evidentemente di quel semplice “buon senso” che nasce da chi opera a contatto diretto con la realtà carceraria fuori dalle strumentalizzazioni politiche, dalla demagogia populista e giustizialista. Si tratta di una consapevolezza sistemica che però non ha rappresentanza sociale e mediatica e non trova traduzione in un sistema politico che ormai funziona solo per lobby e gruppi di potere. Le proteste dei detenuti non riescono a farsi sentire, non trovano eco in periodo dove il conflitto è demonizzato, la protesta criminalizzata, soprattutto i movimenti deboli, isolati, confusi.
Pur ammettendo che la situazione è «altamente critica», il Dap può permettersi di rispondere ricorrendo a dei ridicoli palliativi. Il presidente, Franco Ionta, ha istituito un sistema di monitoraggio, un gruppo di lavoro con facoltà di verifica e proposta, costituito col bilancino per dare visibilità ai diversi interessi corporativi che compongono la realtà penitenziaria: due magistrati, un direttore penitenziario, un ufficiale giudiziario e due alti ufficiali della polizia penitenziaria. In una circolare di 16 pagine, inviata a tutti gli istituti di pena, indica l’individuazione di «spazi detentivi a gestione “aperta” – con limitate ricadute sul contingente da impiegare per il controllo e la sicurezza – dove assegnare detenuti di minore pericolosità». Una soluzione arrangiata per tenere i reclusi ammassati nelle celle solo in orari notturni. Ha disposto un incremento delle ore di passeggio e l’acquisto di maggiori quantità di ghiaccio e metadone. Il carcere, come avrebbe detto Gigi Proietti si è liqueso.

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Sistema carcere, troppi morti

Da gennaio a maggio 2009 sono trentatré le persone che hanno perso la vita. C’è un rapporto diretto tra sovraffollamento e incremento dei suicidi

Paolo Persichetti
Liberazione 6 giugno 2009

Aziz aveva 34 anni. Di lui le cronache non hanno registrato il cognome. Era marocchino, quanto basta. Si è impiccato nel carcere di Spoleto all’inizio dell’anno. Il 26 gennaio, invece, si è tolto la vita allo stesso modo, in una cella del reparto di elevata vigilanza del carcere di Poggioreale, un croato di 37 anni. Di lui non si conosce nemmeno il nome. Leonardo Di Modugno aveva 25 anni, si è appeso con una corda di fortuna l’8 marzo alla Casermette, la casa circondariale di Foggia, dove era seguito da uno psichiatra. Giancarlo Monni, detenuto al Buoncammino di Cagliari, è morto per un attacco di broncopolmonite. Aveva 35 anni ed era sieropositivo. Antonio Saladino è deceduto al Mammagialla di Viterbo. Aveva 57 anni, anche lui con problemi psichici. Per togliersi la vita ha scelto un sistema diverso. Ha infilato la testa dentro una busta di plastica che poi ha riempito con il gas del fornellino da campeggio usato in cella per cucinare. Chissà, forse non voleva morire.  suicidi-confronto-2005-2009
Aspirare il gas è uno dei modi per sballarsi. Lo stordimento è una forma di evasione che aiuta i più fragili a tirare avanti. Ma ogni volta la «pippata»  (come si dice in gergo) si fa sempre più lunga fino a diventare letale. E poi c’è lei, Mabruka Mimuni, 42 anni, trovata esanime con una corda al collo la mattina del 7 maggio nel Cei di Ponte Galeria, a Roma. La sera prima le avevano comunicato l’espulsione. Non voleva tornare in nessun modo in Tunisia. Aveva scontato alcuni anni di carcere, poi era uscita in misura alternativa per lavorare con una cooperativa. Allo scadere della pena è stata rinchiusa nel centro di retenzione. Era finalmente riuscita a rifarsi una vita. L’espulsione spezzava di nuovo la sua vita. Ritornare indietro dopo tanta fatica sarebbe stata la sconfitta più umiliante. Non lo ha permesso.
Dai primi mesi dell’anno sono morti nelle carceri, o nei Cei italiani, 33 persone. Di queste ben 28 per suicidio; il numero più alto registrato nello stesso periodo da quando Ristretti Orizzonti ha dato vita ad un osservatorio specifico sulla questione. Gli altri decessi sono dovuti a cause non accertate oppure a patologie aggravate dalla condizione detentiva. Dei suicidati, 16 erano italiani e 12 stranieri. Si tolgono la vita soprattutto i più giovani, 10 avevano tra i 20 e i 29 anni, 9 tra i 30 e i 39. Nei primi mesi del 2005, i suicidi sono stati 25, 23 nel 2006. Solo 13 nel 2007, grazie all’indulto, già 18 l’hanno dopo. Ma diamo un po’ di luce a questi nomi, almeno quelli noti: Salvatore Mignone, Rocco Lo Presti, Francesco Lo Bianco, M.B., Gaetano Sorice, Vincenzo Sepe, Mohammed,  Giuliano D., senza nome, Jed Zarog, senza nome, Marcello Russo, Francesco Esposito, Carmelo Castro, Gianclaudio Arbola, senza nome, Andrei Zgonnikov, Daniele Topi, Ihssane Fakhreddine, Franco Fuschi, Graziano Iorio, Ion Vassiliu, L.P., senza nome, senza nome, Samir Mesbah, senza nome.
C’è un rapporto diretto tra sovraffollamento e incremento dei suicidi. Le carceri hanno ormai oltrepassato il tetto dei 63 mila detenuti, cioè 20 mila in più della capienza “regolamentare”. In realtà quella realmente fruibile è ancora più bassa, non arriva ai 38 mila posti. 5 mila in meno di quella indicata ufficialmente. Tra la capienza fruibile (quella che corrisponde ai posti letto reali), e la capienza “tollerabile”, criterio amministrativo introdotto dal ministero per estendere virtualmente la capacità di accoglienza delle prigioni, c’è un divario di 30 mila posti. L’affollamento carcerario è già strutturalmente insostenibile. Condizioni di vita bestiali e promiscuità forzata caratterizzano l’attuale «trattamento penitenziario». Le norme previste nell’ordinamento e nel regolamento del 2000 sono lettera morta.
Questa lista di scomparsi ricorda quella dei morti per lavoro. Strage silenziosa. In un’epoca in cui la figura della vittima è stata eletta a modello ideale, queste morti si consumano nell’indifferenza generale. Cosa manca loro per suscitare almeno un po’ d’empatia umana? Forse il fatto che lo statuto privilegiato della «vittima» è caratterizzato da un accesso fortemente limitato e diseguale, riconosciuto sulla base di ben selezionati requisiti di ordine politico, sociale, economico, culturale e etnico. Per i gruppi stigmatizzati in partenza, non vi è alcuna possibilità di accedere alla santità vittimaria. Più della vittima in se è la nozione di “vittima meritevole” che trova affermazione e legittimazione. Si è vittime solo dopo aver ottenuto il sigillo dei forti. Per le altre si preparano carceri galleggianti.

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Carcere: il governo della sofferenza

Come e perché tanti suicidi in carcere?

di Sandro Margara
Il manifesto, 23 aprile 2009

La metto così: il carcere è, e in sostanza è sempre stato, una questione totale: cioè, una questione in ogni suo aspetto, un continuum di criticità, che si tengono tutte fra loro. La questione dei suicidi in carcere, a mio avviso, va letta così. Nel contesto del carcere, per dire una cosa ovvia, tutto quello che dovrebbe rilevare sul nostro tema è la sua vivibilità o la sua invivibilità. Il discorso potrebbe allora svilupparsi nella ricostruzione di tutti i fattori e dinamiche di invivibilità, non pochi e non leggeri. Poi, bisognerebbe attuare una strategia dell’attenzione nei confronti di coloro che soffrono in modo speciale la invivibilità. Ma c’è, indubbiamente, a monte di questi aspetti, un primo punto che non può essere ignorato: ed è quella che potrebbe essere chiamato la “vivibilità dell’arresto”, che ha un proprio rilievo, provato dal dato statistico (ricavato dal libro di Baccaro e Morelli: Il carcere: del suicidio e di altre fughe, letto in bozza) che il 28% dei suicidi in carcere si verificano entro i primi dieci giorni e il 34% entro il primo mese. Sotto questo profilo del “tintinnio delle manette”, il carcere fa solo da cornice al precipitare di vicende individuali, rispetto alle quali un sistema di attenzione degli operatori non è facile, specie in presenza di certe strategie processuali. Naturalmente, c’è chi dirà: “Non vorrai mica che il carcere non faccia paura?”. Ma veniamo ai fattori di invivibilità del carcere, subìti e sofferti da tutti e da alcuni fino a rinunciare alla vita. Il primo è quello legato al sovraffollamento, che ha due aspetti a cominciare dal fatto di vivere a ridosso immediato di altre vite, il levarsi reciprocamente l’aria, il che non è affatto poco (gli esperimenti per le scimmie dicono che diventano nervose: e gli uomini?). Ma poi, in una struttura sovraffollata, inevitabilmente le disfunzioni sono infinite. Si lotta per sopravvivere a livelli minimi. Il Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio di Europa (Cpt), ha considerato la situazione di sovraffollamento in carcere, come “trattamento inumano e degradante”. Tanto maggiore sarà la invivibilità quanto più si accompagnerà alle lunghe permanenze in cella, a fare della cella il luogo di una vita invivibile. E la normalità, in situazioni del genere, è che dalla cella si esce solo per brevi periodi “d’aria”, ma non per lavorare o per altre attività né, per molti dei detenuti (stranieri, persone sbandate per le ragioni più varie, etc.), per avere colloqui con i familiari. È possibile costruire prospettive di uscita da queste situazioni? Lo impediscono: la povertà delle risorse organizzative del carcere su questo versante, le risposte sempre più difficili e spesso negative della magistratura, lo stesso ridursi delle possibilità o la mancanza di queste per la fascia sempre più numerosa degli stranieri, che attendono solo l’espulsione (nei grandi carceri metropolitani sono ormai ben oltre il 50%, ma anche la media nazionale si avvicina al 40%). C’era una volta un Ordinamento penitenziario che dava delle speranze di permessi di uscita, di misure alternative, ma anche questi spazi si sono sempre più ristretti – per leggi forcaiole e per magistrati condizionati dal clima sociale che le produce – e le speranze si sono trasformate in delusioni. D’altronde, il suicidio non è l’unico prodotto della invivibilità delle carceri: lo sono anche i tentati suicidi, come pure, spesso difficili da distinguere dai primi, i gesti autolesionistici. Tutto insieme, si arriva vicini all’inferno. C’è, comunque, una campagna della amministrazione penitenziaria per individuare e agire a sostegno dei soggetti più a rischio. Ma non si può sperare che questo serva quando gli sforzi necessari sono limitati da poche risorse, destinati a durare per poco tempo, come accaduto in passato, affidati ad un sistema di sorveglianza psicologica e psichiatrica mai costruito adeguatamente: il tutto sempre dentro quelle condizioni di invivibilità che si mantengono e si concorre anzi ad aggravare, come dimostra l’accelerazione delle dinamiche di sovraffollamento. Tento una conclusione. Sentire, tutti, la responsabilità di questi morti e del carcere che li produce è una scelta etica desueta.

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Detenuto morto a Mammagialla. È il sesto in un anno

Ancora un detenuto morto nel carcere viterbese di Mammagialla. È il sesto decesso nel giro poco più di un anno tra indifferenza, mutismo, opacità della direzione dell’istituto e custodia

Liberazione 22 aprile 2009

Casa circondariale Mammagialla

Casa circondariale Mammagialla

Ancora un decesso nel carcere di Mammagialla. Un detenuto italiano di mezza età è morto lunedì notte. Pare respirando gas da una bomboletta dopo aver infilato la testa in una busta.
L’episodio è stato comunicato dal Garante regionale dei diritti dei detenuti, Angiolo Marroni, che ieri era in visita nell’Istituto viterbese. Come al solito dalla casa circondariale filtrano pochissime informazioni. Una spessa coltre e un mutismo ostinato, una vera e propria omertà istituzionale (coltivata da Direzione e ufficio di sorveglianza) hanno immediatamente avvolto la prigione. Si è saputo solo che l’uomo traversava da qualche tempo grosse difficoltà psicologiche. Mammagialla è nota per essere una delle peggiori carceri del Lazio, afflitta da un sovraffollamento cronico, 433 posti per 614 reclusi, e un clima ambientale in cui regnano indifferenza, cinismo e accidia da parte di chi dirige l’istituto.
Nel 2008 ci sono stati cinque decessi. Tre suicidi ufficialmente accertati, mentre per gli altri due casi sono ancora in corso accertamenti. Il 15 ottobre è stata presentata un’interrogazione parlamentare dalla radicale Rita Bernardini, ancora senza risposta. A febbraio, nel corso di un convegno il direttore D’Andria aveva descritto le condizioni critiche dell’istituto, dove 299 soggetti sono in terapia ordinaria, 178 in terapia psichiatrica e 12 in terapia antiretrovirale. Più malati che criminali.

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Cronache carcerarie

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Terremoto, sfollato il carcere di L’Aquila

«In trappola come topi», era fondato l’allarme delle prime ore di agenti e detenuti del carcere di L’Aquila evacuato in piena notte.
Tensione anche a Sulmona: i reclusi dormono fuori dalla celle

Paolo Persichetti
Liberazione 9 aprile 2009

«I reclusi erano in preda a tensioni comprensibili e si sentivano dei topi in trappola», con queste parole il presidente del consiglio Silvio Berlusconi ha spiegato le ragioni che hanno portato all’evacuazione del carcere di L’Aquila.
I toni rassicuranti apparsi nel primo comunicato diffuso dal ministero della Giustizia, dopo la scossa devastante che domenica notte ha squassato l’Aquila e i paesini circostanti, erano soltanto uno schermo. Che fosse un tentativo di prendere tempo per organizzare lo sfollamento del carcere, mantenendo la riservatezza per ovvie ragioni di sicurezza, dopo che il sisma aveva reso inagibile la caserma del corpo di custodia, distrutto le abitazioni di una trentina di agenti della polizia penitenziaria e danneggiato le celle dove erano ubicati i detenuti, anche se non in modo strutturale come più volte ribadito dall’amministrazione, si era capito subito. Diversi agenti erano stati inviati dalle carceri del nord per rimpiazzare i locali. Voci allarmate provenienti dallo stesso personale di custodia descrivevano una realtà molto diversa da quella dipinta nei comunicati ufficiali.
Insomma la gestione del carcere, una struttura ritenuta particolarmente “sensibile” nella mappatura degli istituti di pena italiani per la presenza di un importante reparto di massima sicurezza e di un’area riservata nella quale erano rinchiuse due donne, tra cui Nadia Lioce, era diventata problematica. L’ininterrotto sciame sismico (354 scosse registrate, 182 soltanto nella giornata di martedì, e una sessantina di magnitudo superiore al 3 della scala Richter) ha accresciuto col passar dei giorni le tensioni. Detenuti e personale di custodia non tolleravano più la loro presenza sul posto.
D’altronde se la popolazione della città era stata evacuata dalle zone a rischio, non v’era nessuna altra ragione che giustificasse la permanenza all’interno dell’Istituto penitenziario dei reclusi, obbligando gli stessi agenti di custodia a correre dei rischi notevoli. I sindacati di polizia penitenziaria hanno sicuramente fatto la voce grossa. Così dopo l’ultima violenta scossa di martedì sera è partito nella notte il piano di evacuazione. Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha avviato le procedure subito dopo la mezzanotte. I primi mezzi hanno lasciato il carcere delle Costarelle verso le due.
Ovviamente un piano del genere non s’improvvisa. Dal Dap con una nota ufficiale hanno fatto sapere che si è trattato della «più grande operazione di traduzione di detenuti che si ricordi», dopo quella – aggiungiamo noi – che diede avvio al “circuito dei camosci”, la rete di carceri speciali voluta dal generale Dalla Chiesa.
Nella notte tra il 16 e il 17 luglio 1977, in grande segretezza e con ampio spiegamento di forze e mezzi dell’Arma dei carabinieri, facendo anche uso di elicotteri birotore Chinook, alcune centinaia di detenuti politici furono trasferiti nelle prime carceri di massima sicurezza appena allestite, tra cui la famigerata sezione Fornelli nell’isola dell’Asinara.
Per il trasferimento dei detenuti ristretti nel carcere aquilano sono stati impiegati, secondo le cifre fornite dal ministero della Giustizia, 200 uomini, molti dei quali appartenenti al Gom (il reparto speciale della polizia penitenziaria impiegato per la custodia dei reparti di massima sicurezza e per le operazioni speciali, noto per il famigerato comportamento tenuto contro i manifestanti nella caserma di Bolzaneto, nel 2001) per un totale di 70 mezzi, di cui 40 furgoni blindati e 40 autovetture della polizia penitenziaria. Le due donne rinchiuse nell’area riservata sono state tradotte nel carcere femminile di Rebibbia a Roma; gli 81 ristretti nella sezione 41 bis sono finiti nel reparto di massima sicurezza della casa di reclusione di Spoleto, mentre i detenuti assegnati al circuito della media sicurezza sono stati inviati nella casa circondariale di Pescara. L’intera operazione, sottolinea ancora il comunicato del ministero, «è avvenuta senza incidenti».esterne071312460704131438_big
Tensione c’è anche nel carcere di Sulmona, dove i 464 detenuti presenti (292 nella reclusione e 172 internati nella casa lavoro) si sono rifiutati di dormire nelle celle e hanno trascorso la notte nei passeggi e nelle sezioni. Anche se l’istituto penitenziario non ha subito danni, tra i detenuti circola un comprensibile stato di ansia. Per questa ragione la direzione ha rafforzato i turni di sorveglianza esterna al carcere e sospeso i riposi degli agenti penitenziari in servizio.
Il terremoto ha fermato anche l’udienza del maxiprocesso alla mafia tirrenica. Un imputato, detenuto in regime di 41 bis nel carcere di Avezzano, durante il collegamento in videoconferenza ha avuto un attacco di panico a causa delle scosse d’assestamento.

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Abruzzo, la terra trema anche per i dimenticati in carcere

Abruzzo: La terra trema anche per i dimenticati in carcere

Evacuato il carcere minorile di L’Aquila. Timori per l’agibilità della casa di reclusione di massima sicurezza

Paolo Persichetti
Liberazione 8 aprile 2009

«Dopo aver effettuato un’approfondita verifica, possiamo affermare che le carceri delle zone interessate dal terremoto hanno complessivamente tenuto», è stato questo il messaggio rassicurante reso noto subito dopo il sisma dal ministro della Giustizia Alfano. Ma quella tipica precauzione semantica che si cela dietro l’avverbio complessivamente accende più di un dubbio. Infatti accanto alle case crollate col passar delle ore sono emerse anche le prime crepe nella versione ufficiale diffusa dal ministero di via Arenula.
Se è vero che la gran parte degli istituti penitenziari abruzzesi non hanno subito danni alle strutture, molto diverso invece è stato l’impatto delle scosse sulle carceri aquilane. L’istituto penale minorile è stato evacuato. I tredici ragazzi presenti sul posto sono stati trasferiti in altre sedi. Sei di loro nel carcere minorile romano di Casal del Marmo, gli altri sette nei minorili di Potenza, Bari e Firenze. È quanto reso noto dall’ufficio del Garante dei detenuti del Lazio.
Nonostante il tentativo di minimizzare la situazione, importanti sarebbero i danni inferti dal sisma alla casa di reclusione di L’Aquila. Un istituto penitenziario particolarmente sensibile perché ospita un’intera sezione di massima sicurezza, dove sono rinchiusi i detenuti sottoposti al regime del 41 bis (massime restrizioni e isolamento) e un’area riservata, cioè un regime detentivo ancora più aspro e nel quale l’isolamento, anche sensoriale, è praticamente assoluto. Non a caso poche ore dopo il sisma, il capo del Dap Franco Ionta ha inviato sul posto il direttore del Gruppo operativo mobile (il reparto speciale della polizia penitenziaria che gestisce i reparti di massima sicurezza), generale Alfonso Mattiello. Lo stesso Ionta è arrivato a L’Aquila nella serata di lunedì. In un comunicato ufficiale, emesso ieri, si dice che nella caserma del carcere sono state rilevate «solo lievi lesioni»; ma la versione che viene dall’interno dell’istituto aquilano è un po’ diversa. Secondo la testimonianza rilasciata a Irene Testa, segretaria dell’associazione “Il detenuto ignoto”, da un agente di servizio la notte del terremoto, l’edificio sarebbe inagibile, parte degli appartamenti della polizia penitenziaria sarebbero crollati mentre nel resto della struttura e nelle celle vi sarebbero danni «non rilevanti». Nel frattempo sei detenuti, di cui quattro in regime di 41 bis, più un ex collaboratore di giustizia e un “comune”, tutti bisognosi di cure cliniche, sono stati trasferiti, alcuni a Roma. Il crollo dell’ospedale aquilano non permetteva più di fornire loro l’assistenza medica adeguata. Altre tre traduzioni sarebbero in attesa.
Sembra invece che il protocollo d’emergenza previsto in questi casi abbia funzionato bene. Almeno è quanto rivelano fonti dell’amministrazione penitenziaria. Dopo la scossa anche i detenuti della massima sicurezza sarebbero stati raccolti per gruppi e portati nei cortili del passeggio, dove forniti di coperte hanno trascorso la notte. Anche a Sulmona è stato seguito un protocollo analogo. Solo un detenuto è stato colto da malore a causa di una crisi d’ansia. Nelle situazioni d’emergenza (terremoti, incendi, alluvioni) ogni carcere segue un suo specifico protocollo dettato dalle caratteristiche dell’istituto: tipologia architettonica e requisiti di sicurezza.
Ma intanto la terra continua a tremare per questo c’è chi chiede l’evacuazione completa dell’istituto di pena.

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https://insorgenze.wordpress.com/2009/04/08/come-topi-in-gabbia/

Prigioni: i nuovi piani di privatizzazione del sistema carcerario

Anche in Italia rischia di prendere forma un complesso carcerario-industriale?
Diliberto, Fassino, Castelli, Alfano: nell’ultimo decennio sinistra carceraria e destra hanno tentato in tutti i modi di favorire l’ingresso del capitale privato nella costruzione e gestione delle carceri

Paolo Persichetti
Liberazione
14 marzo 2009 (versione integrale non censurata)

«Complesso carcerario-industriale» è la definizione introdotta dalla sociologia critica e dagli attivisti abolizionisti americani per definire il carcere-fabbrica postfordista. Il termine è stato introdotto per la prima volta da Mike Davis, davis-m_slum1 attento studioso di sociologia urbana, per descrivere il sistema penale californiano (Città di quarzo, manifestolibri 1991; Geografie della paura, Feltrinelli 1999; Il pianeta degli Slum, Feltrinelli 2006, sono solo alcune delle sue opere tradotte). Lo ricorda Angela Davis in una sua raccolta di saggi, Aboliamo le prigioni?, da poco pubblicata dalla Minimum fax.
Negli Stati uniti l’impresa privata utilizza la manodopera carceraria. Il vantaggio è notevole: «Niente scioperi né sindacati. Niente indennità di malattia, sussidi di disoccupazione o compensi da pagare ai lavoratori. Le nuove prigioni sono fabbriche cinte da mura. I detenuti immettono dati per la Chevron, ricevono prenotazioni telefoniche per la Twa, costruiscono circuiti stampati, il tutto per un costo molto inferiore a quello della manodopera libera». Qualcosa del genere rischia di accadere anche da noi? Da un buon decennio a questa parte ha fatto breccia nella cultura politica l’idea di un coverimagecoinvolgimento dell’impresa privata all’interno del sistema penitenziario. In parte ciò accade già. Alcuni servizi sono stati esternalizzati per ridurre costi e rendere maggiormente efficienti le prestazioni. Per esempio, in alcuni istituti penitenziari le cucine sono state date in gestione a cooperative sociali di ex detenuti. Nella casa circondariale di Velletri si produce addirittura del vino, il fuggiasco, ricavato da vitigni lavorati con cura da una cooperativa di detenuti. A Rebibbia e san Vittore sono attivi dei call center della Telecom. Niente a che vedere, ancora, con lo sfruttamento che le grandi privates corporation americane fanno della manodopera reclusa. L’idea è quella di favorire l’autoimprenditorialità sociale come uno dei percorsi di recupero e integrazione previsti dalla legge Gozzini, dove il lavoro è ritenuto un passaggio verso l’uscita graduale dal carcere, grazie alle misure alternative (lavoro esterno, semilibertà, affidamento in prova). Anche le condizioni contrattuali rispettano i parametri sindacali minimi previsti all’esterno: contributi, ferie, malattia. Ma la difficoltà di stare sul mercato va lentamente snaturando queste esperienze, risucchiate da logiche molto lontane dai loro presupposti iniziali. La pratica dei subappalti e il controllo del mercato da parte d’imprese più grandi condannano nel tempo queste esperienze locali. Il capitalismo ha le sue leggi.
Tuttavia la costituzione e la legislazione italiana restano, per ora, un ostacolo insuperato per chi vorrebbe privatizzare il sistema penitenziario nel suo complesso. Prima che ciò accada veramente occorre che si realizzi un passaggio concettuale importante: separare la punizione dal suo legame con il reato. In sostanza che il castigo non sia più legato al delitto ma diventi una forma di controllo sociale e sfruttamento delle fasce più basse della popolazione. Per certi versi già avviene in alcune circostanze. Basti pensare a come, nell’accidentato percorso terapeutico della tossicodipendenza, la ricaduta nell’uso di sostanze stupefacenti è assimilata alla recidiva penale e non alla fisiologia clinica.
Un altro requisito è l’esplosione dei tassi di carcerazione, la scelta strutturale di fare della penalità, del sistema giudiziario-penitenziario, un asse essenziale delle politiche di governo sociale. I numeri che vedono ormai superata la soglia limite dei 60 mila detenuti, a fronte di una capienza legale di 43 mila, la retorica dilagante sulla certezza della pena, il populismo penale e l’ideologia vittimaria, sono lì a dimostrarlo: siamo già all’interno di questo processo. Tra il 1995-2005 la popolazione carceraria è cresciuta del 22% rispetto alla media europea, mentre la capacità di accoglienza è rimasta pressoché stabile (+5,5%). prison-industry
Il sovraffollamento, l’eccedenza d’esseri umani rinchiusi, è il cavallo di Troia utilizzato per far passare nel nostro paese l’idea che il ricorso ai privati sia una necessità. Fino alla svolta degli anni 80, i flussi penitenziari venivano governati attraverso il ricorso periodico ad amnistie e indulti. Una politica che non suscitava allarmi sociali e non ha mai pregiudicato la sicurezza e l’ordine pubblico. La paura non era ancora uno dei temi essenziali del marketing politico e diffusa era la consapevolezza che la devianza non aveva radici etiche, non era frutto di un male teologico, ma aveva cause socio-economiche che andavano aggredite. Al di là della ovvia repressione, soltanto politiche strutturali potevano ridurne la dimensione. Insomma l’obiettivo non era solo quello di «sbattere dentro», ma d’intervenire sulle radici sociali del crimine. Poi è arrivata la rivoluzione conservatrice di Reagan, una nuova filosofia della correzione ha avuto il sopravvento anche in Italia e la società è tornata a rinchiudere, incarcerare pezzi di popolazione sempre più ampi. Dietro al sovraffollamento carcerario non c’è un semplice incremento della «devianza sociale», suscitato da quel movimento tellurico che è lo spostamento migratorio di popolazioni verso le zone più ricche del pianeta e dalla precarizzazione strutturale della nuova economia, ma la scelta di fare del carcere uno strumento di governo di questi nuovi flussi. Un fenomeno che ricorda quanto avvenne agli albori del protocapitalismo con le enclosures, le recensioni delle terre coltivabili che spinsero la popolazione delle campagne a cercare fortuna nelle città. Un’improvvisa eccedenza di popolazione che l’immaturità della nuova economia capitalistica non riusciva ad assorbire suscitarono l’immensa piaga del vagabondaggio, represso con leggi durissime e l’internamento nelle case-lavoro antesignane della prigione moderna. privatiedprisons

Come sempre accade nella storia d’Italia, le svolte a destra maturano quando al governo c’è la sinistra. Era il 30 gennaio 2001 quando il ministro della Giustizia Piero Fassino, uno dei peggiori assieme a Oliviero Diliberto, dispose la dismissione di 21 carceri e l’individuazione di nuove aree per la costruzione di un modello inedito di prigione, di media sicurezza e trattamento penitenziario qualificato. Progetto che prevedeva l’ingresso dei privati nella costruzione e gestione dei nuovi istituti. Roberto Castelli, il successivo guardasigilli leghista con laurea in ingegneria, non fece altro che raccogliere l’idea. Era il periodo delle cartolarizzazioni e della finanza creativa di Giulio Tremonti. Venne creata la Patrimonio spa, società del governo che doveva raccogliere gli introiti delle dismissioni di Regina Coeli a Roma e San Vittore a Milano, liberando aree urbane centrali che facevano gola alla grande speculazione edilizia. La Dike Aedifica, controllata al 95% dalla Patrimonio, amministrata da Vico Valassi, un amico del ministro, doveva invece coinvolgere i privati. L’operazione però non decollò e della vicenda s’interessò soltanto la magistratura. Con la nomina di Franco Ionta, capo del Dap, a commissario straordinario all’edilizia penitenziaria con poteri speciali, il guardasigilli Angelino Alfano è tornato alla carica. L’obiettivo ora sarebbe quello di costruire carceri di nuova generazione a impianto radiale, edifici concepiti per essere ampliati successivamente. Carceri «leggere» per detenuti in attesa di giudizio. Nuovi edifici modulari costruiti su terreni demaniali con criteri ecocompatibili.
I fondi verranno presi dalla Cassa delle ammende (utilizzata fino ad ora per il reinserimento dei detenuti. Una bella beffa!) e poi si tenterà nuovamente di coinvolgere i privati attraverso il «project financing». Chi costruisce avrà in cambio la gestione dei servizi (mensa, lavanderia, manutenzione) che non sono di competenza esclusiva dello Stato (sicurezza e sanità). Ma poiché tali servizi non sono sufficientemente remunerativi dei capitali investiti, per invogliare il capitale privato il governo ha previsto a titolo di compenso una permuta con i penitenziari situati nei centri storici di alcune città, come Roma, Milano, Palermo, oppure con quelli situati in posti di indubbio valore naturalistico (ma facilmente convertibile in valore turistico) come Pianosa, Procida o Nisida, oltre all’ipotesi di leasing ventennali o trentennali. La banda del mattone s’appresta a fare soldi a palate.

Aboliamo le prigioni?

“Aboliamo le prigioni?” sarà presentato domenica a Roma al Volturno occupato, via Volturno 37 alle ore 19 nell’ambito di una “giornata sulla prigionia femminile” organizzata da Scarceranda e Ora d’aria
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Vincenzo Guagliardo, Liberazione 6 Marzo 2009

Che fine ha fatto la famosa compagna afroamericana Angela Davis, per la cui liberazione ci si mobilitò in tanti, e con successo, sia in America che in Europa nei primissimi anni Settanta? E’ rimasta al suo posto: sempre idealmente vicina ai suoi vecchi “maestri”, il filosofo Marcuse e il detenuto ammazzato in carcere George Jackson, da studiosa e militante ha continuato ad approfondire certi temi, e, mutando e migliorando sempre il suo approccio, propone ora come approdo la lotta per l’abolizione delle prigioni. Così come si è fatto prima per la schiavitù e, ormai in molti paesi, per la pena di morte. (Angela Davis, Aboliamo le prigioni? , Minimum fax, 270 pagine, euro 14,50). Le prigioni sono un cancro nel cuore della democrazia che, così, non è più tale. Il carcere infatti non è solo la prigione, è una vasta intricata e ignorata rete di interessi e conseguenze, è un «complesso carcerario-industriale». «Le strategie di abolizione del carcere riflettono una comprensione dei nessi tra istituzioni che di solito concepiamo come diverse e slegate (…) La povertà persistente nel cuore del capitalismo globale porta a un aumento della popolazione carceraria, che a sua volta rafforza le condizioni che perpetuano la povertà». I carcerati sono gli eredi degli schiavi, persone senza diritti (e gli ergastolani gli eredi dei condannati a morte). La vecchia pena visibile si occulta dietro i muri, e grazie all’invisibilità viene accettata come cosa normale. Ma da questo laboratorio-memoria ogni tanto le sue tecniche devono fuoriuscire. Mica sono lì per niente. Quando ciò avviene, a Guantanamo o ad Abu Ghraib in Iraq, magari sotto forma di tortura filmata, il progressista scende in campo in difesa della “democrazia”, cui tali aspetti sarebbero estranei: in realtà continua a ignorare la fonte, “il cancro” della cosiddetta democrazia, la sua realtà quotidiana. Ma ora in America ci sono più di due milioni di reclusi. Come nascondersi con tali numeri che il carcere è ormai un ghetto dove buttar via una buona parte della gente ormai considerata superflua, demonizzandola, sottoponendola a un trattamento che terrorizzi gli altri superflui e cementi la morale della gente perbene? free_angela_buttonE come ignorare che l’esportazione della “democrazia” americana esporta anche questo cancro, che esso ne fa parte… “di brutto”? Ecco: un discorso semplice, lineare. Siamo arrivati a un momento chiave, possiamo ripercorrere a ritroso il cammino del cancro, giungere alla logica conclusione del discorso (la «democrazia dell’abolizione»). Ma immagino che l’intellettuale italiano medio qualificherà questa analisi come rozza: slogan pietrificati, detriti sociologici… E se fosse evangelica chiarezza? Il futuro che già vediamo in atto anche qui? Beh, se non lo riconosceremo, sarà allora difficile capire il successo ottenuto nel 1998 dagli studenti americani con sit-in e manifestazioni in cinquanta campus. Avevano visto in un filmato che «Le guardie del Brazoria County Detention Center usavano pungoli elettrici per il bestiame e altre forme d’intimidazione per ottenere il rispetto e costringere i prigionieri a dire: Amo il Texas». A guadagnare in quel carcere privatizzato era la Sodexho (con sede a Parigi!): tra le università che hanno rinunciato ai servizi della Sodexho figurano la Suny di Albany, il Goucher College e la James Madison University. La Sodexho ha ceduto, ha mollato il Brazoria… Se non lo riconosceremo, faremo girotondi.
In appendice al libro della Davis, Guido Caldiron e Paolo Persichetti provano generosamente a dimostrare l’attualità delle tesi abolizioniste dell’autrice riferite alla situazione italiana ed europea. Un’attualità tutt’ora virtuale, s’intende…