Basta con la tirannia dei valori che ispira l’ideologia legalitaria. Bisogna tornare all’esercizio radicale della critica

Geneaologia del normativismo legalitario. Se non si torna ad interrogare i concetti, pensare le parole, ricostruire pensiero e azione, sulla scena resteranno solo quelli che utilizzano il brand Saviano o i Grillo della situazione


Roberto Esposito in un’interessante recensione apparsa su Repubblica del 4 giugno, La prevalenza dell’etica. Perché i filosofi non possono fare solo la morale, pone l’attenzione sull’attuale tendenza della filosofia a concentrarsi sul tema dei valori.

Esposito nota come «dopo una fase in cui il compito del pensiero è apparso quello di decostruire i valori consolidati, ponendo un interrogativo critico sulla loro vigenza, oggi la filosofia torna a riproporli in prima persona, parlando direttamente il linguaggio della morale». Accade così che il dover essere del pensiero normativo ha scalzato ogni approccio critico ed analitico della realtà e della storia. Ovviamente ciò non vale solo per la filosofia che essendo un riflesso di quanto accade nella società non può non tradurre in teoria, in vera e propria ideologia, in questo caso in forma di filosofie normative, le trasformazioni che hanno investito il modo di agire umano, le sue pratiche sociali e politiche.

L’attenuarsi della capacità riflessiva, al di là delle genuine intenzioni mosse dalla voglia di riscatto, che hanno trovato espressione nella “ideologia dell’indignazione” verso i diffusi comportamenti «nutriti da un cinismo diffuso, da un minimalismo etico», fa del pensiero una sorta di filo spinato che circonda la realtà spingendo, realtà e pensiero, verso il baratro del conformismo e della omologazione. Se il pensiero è normativo, la politica diventa inevitabilmente disciplinare, un approdo che conduce alla tirannia dei valori, a forme di Stato etico, ad un legalitarismo claustrofobico.

Il valore non è mai oggettivo, bensì solo soggettivamente riferito alla realtà, spiegava Carl Schmitt (La tirannia dei valori, presentato in Italia da Adelphi con una prefazione di Franco Volpi, 2008). «Il valore non è, ma vale» e ciò che vale «aspira apertamente a essere posto in atto». I valori assumono per definizione una natura “agonistica”, ma la loro logica polemica protende ad un assoluto che non può riassumersi nel conflitto ma nella crociata, la vocazione dei valori è imperialistica e sopraffattrice: «Ogni riguardo nei confronti del nemico viene a cadere, anzi diventa un non-valore non appena la battaglia contro il nemico diventa una battaglia per i valori supremi. Il non-valore non gode di alcun diritto di fronte al valore, e quando si tratta di imporre il valore supremo nessun prezzo è troppo alto. Sulla scena perciò restano solo l’annientatore e l’annientato».

La filosofia contemporanea – obietta con passione Esposito – non può sottostare passivamente a questa tirannia e rinunciare alla propria anima analitica e critica. Obiezione che vale a maggior ragione per le pratiche politiche e sociali, tanto più se intenzionate a lavorare per la trasformazione dell’esistente. «I valori – suggerisce ancora Esposito – vanno messi in rapporto con i tre ambiti della storia, della vita e del conflitto».
[…]
«è necessario portare a coscienza il fatto che essi [i valori ndr] non soltanto non sono eterni, ma si intrecciano inestricabilmente con le pratiche umane in una forma che non consente di assolutizzarli. Come è noto, molte delle peggiori nefandezze politiche, vicine e lontane, sono state consumate in nome del bene, della verità, del coraggio.
Il problema è di sapere cosa, quale groviglio di egoismi e di risentimenti, si nascondeva dietro queste gloriose parole. Il significato della genealogia – come quella attivata da Nietzsche e, dopo di lui, da Foucault, sta nella consapevolezze che ciò che si presenta come primo, o come ultimo, ha dentro di sé i segni del tempo, le cicatrici delle lotte, le intermittenze della memoria. Nulla è più opaco, impuro, bastardo delle origini da cui proveniamo. Il genealogista buca la crosta dell’evidenza, scopre tracce nascoste, solleva i ponti gettati dagli uomini per coprire i buchi della falsa coscienza. Come ben argomenta Massimo Donà in Filosofia degli errori. Le forme dell’inciampo (Bompiani 2012), senza una pratica consapevole degli errori, una analitica degli ostacoli, non vi sarebbe filosofia.
[…]
Se la filosofia perde il nesso con la contraddizione che è parte di noi, smarrisce il senso più intenso dell’esperienza».

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Le due destre. Michele Serra: “Saviano è di destra, ma siccome in Italia non c’è una destra politica rispettabile allora lo ospitiamo a sinistra”

Nella consueta rubrica che tiene su Repubblica (potete leggere l’integrale qui sotto) Serra scrive: Saviano «È uno scrittore-soldato, che paga la sua guerra alla malavita conducendo una vita tremenda. Non è di sinistra, ha valori popolari molto simili a quelli di un meridionale tradizionalista non colluso e non servo. È un uomo libero e coraggioso. In un Paese munito di una destra decente (cioè legalitaria e repubblicana) sarebbe di destra. Dunque, non in questo Paese».
Ora che anche Michele Serra ci ha spiegato che il “civismo” propinato da Saviano non appartiene alla categoria dell’impegno, riassunto nella figura dell’écrivain engagé, ma a quella del volontario che si arruola nella legione militare della scrittura di guerra, che ne fa un author embedded, un warwriter, «scrittore-soldato» che agita l’etica armata, il moralismo in uniforme, l’epica della scorta militare come un’arma di devastazione di massa dell’intelligenza e della critica, tutto dovrebbe essere più chiaro.
E invece no. La parte più importante del ragionamento di Serra è un’altra (Saviano vi appare solo come rivelatore): siccome in Italia non c’è una destra degna del suo nome ma una destra “cafona, corrotta, mafiosa, pidduista, illegale, faccendiera, puttaniera, fascista, eccetera, eccetera”, la sinistra è costretta, per senso di responsabilità, a situarsi a destra, fare la destra del Paese.
Il risultato è che da diversi decenni in Italia ci sono solo due destre mentre la “sinistra” (che non vuol dire nulla se non un vago riferimento spaziale; ma passatemi per brevità l’uso di questo termine) è scomparsa.
Si cominciò con l’attenzione verso i cattolici, il compromesso storico, l’alleanza con i moderati, la politica dei sacrifici, l’austerità berlingueriana, la classe operaia che doveva farsi classe nazionale e stringere la cinghia per dare l’esempio (come sosteneva Giorgio Amendola riprendendo Togliatti), la moderazione salariale voluta da Luciano Lama. Poi, dopo l’avvento di Berlusconi, venne il gioco di sponda e l’abbraccio verso quei pezzi della vecchia destra ultramoderata, reazionaria, anch’essa come il berlusconismo ferocemente antioperaia e anticomunista, messa in soffitta dal mecenate della pubblicità: da Indro Montanelli, l’eterno frondista di tutti i regimi (monarchico, fascista, repubblicano) a Mario Segni, erede di quella destra repubblicano-gollista che negli anni 60, e ancora dopo, aveva flirtato con tutti i tentativi di stabilizzazione autoritaria dell’Italia. Poi sono arrivati i Marco Travaglio, che avevano fatto la gavetta al Borghese e poi da Montanelli divenuti facitori d’opinione sull’Unità, per approdare a Roberto Saviano.
L’esercizio migliore di questa sinistra (per intenderci il ceto politico che risiedeva a Botteghe oscure) era dare lezioni alla destra, spiegare loro cosa era e cosa si dovesse fare per essere veramente di quelle parti. Scegliersi l’avversario era il loro vezzo, stabilire chi aveva legittimità di esserlo. Quando venne di moda fare i liberali, Veltroni si trasformò all’improvviso nel dispensatore delle patenti di liberalismo altrui. Chi non aveva l’imprimatur di Botteghe oscure era ritenuto un contraffattore. Persino il vecchio Pli dovette inchinarsi alla fonte battesimale degli ex del Pci.
Ed eccoli oggi a spiegarci che siccome Saviano non ha casa politica (anche se passa le vacanze nei villoni di Corrado Passera) non c’è altra strada che accoglierlo… La realtà è che Saviano dentro questa sinistra ultraliberale e giustizialista, ci sta benissimo.

*    *    *

Michele Serra
dalla rubrica L’AMACA, la Repubblica del 5 giugno 2012

Sento in un talk-show l’impressionante Sallusti definire Roberto Saviano “un ricco scrittore”, espressione che al pubblico che fa riferimento a Sallusti deve sembrare l’acme della corruttela morale. Pare di capire che la destra bastonatrice (Giornale e Libero, per non far nomi) voglia indicare in Saviano il nuovo, odiato simbolo dei “radical chic”, il leader blandito “nei salotti che contano” dalle signore svenevoli e dagli orditori delle trame demo-pluto-massoniche. I toni e gli argomenti usati contro l’autore di Gomorra sono piuttosto spregevoli (anche se non raggiungono l’allucinata violenza toccata un mesetto fa da Giuliano Ferrara sul Foglio in uno degli articoli più ignobili della storia del giornalismo mondiale), ma la sostanza della campagna di stampa fa decisamente sorridere. Saviano può piacere o non piacere, ma con i radical chic c’entra come i cavoli a merenda. È uno scrittore-soldato, che paga la sua guerra alla malavita conducendo una vita tremenda. Non è di sinistra, ha valori popolari molto simili a quelli di un meridionale tradizionalista non colluso e non servo. È un uomo libero e coraggioso. In un Paese munito di una destra decente (cioè legalitaria e repubblicana) sarebbe di destra. Dunque, non in questo Paese.


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Arriva il partito della legalità

Ispirato da Eugenio Scalfari, organizzato e diretto da Carlo De Benedetti, probabile capolista un Roberto Saviano ancora recalcitrante ma disponibile a dare il suo imprimatur (non può certo sputare sul piatto dove mangia), scende in campo il partito della legalità

Un po’ come la fine di Craxi coincise con il trionfo postumo del craxismo, il tramonto di Berlusconi ci sta lasciando in eredità molte cose del berlusconismo e del suo modello speculare, l’antiberlusconismo. Prendiamo un esempio: il tracollo elettorale del Pdl nelle recenti amministrative non sta affatto provocando l’uscita di scena del partito-azienda. Al contrario assistiamo al moltiplicarsi di questo modello d’organizzazione diretta degli interessi più influenti della borghesia imprenditoriale e finanziaria nella politica.


Mentre i ceti popolari scompaiono dalla politica attiva, grande borghesia, finanza, Confindustria e salotti scendono direttamente in politica moltiplicando i loro partiti-azienda

Accanto all’ipotesi del Partito dei produttori di Montezemolo, ai blocchi di partenza ormai da molto tempo, costruito anch’esso attorno ad un cuore aziendale, si annuncia l’arrivo del Partito di Repubblica camuffato da cartello della società civile. Mentre la formazione di Montezemolo si candida a colmare il vuoto che il declino del berlusconismo rischia di lasciare dietro di sé, il Partito di Repubblica mira paradossalmente a tenere in vita l’esperienza dell’antiberlusconismo riproducendone il calco speculare: modello mediatico-carismatico, un propietario magnate, una strategia ispirata dal marketing politico, assenza di democrazia interna, gruppo dirigente e apparato cooptato.
Da diversi anni ormai il richiamo alla società civile è diventato lo schermo dietro il quale si cela, nella gran parte dei casi, la discesa in campo dei poteri forti, dei grandi salotti, dei miliardari, senza dover più ricorrere al tradizionale ruolo di mediazione e filtro dei professionisti della politica di cui parlava Weber (relegati nel migliore dei casi al ruolo di gregari o yesmen). Una concezione sempre più oligarchica della politica tanto più lontana da modelli partecipativi e di rappresentanza, sicuramente più presenti in alcune forme-partito classiche del Novencento, quanto più è forte l’appello alla società civile. Non a caso da mesi il governo è retto da un sedicente esecutivo di tecnici che sfugge a qualsiasi principio di rappresentanza elettorale (una sorta di golpe soft).


La repressione emancipatrice leit-motiv del partito promosso dal gruppo editorial-fianziario di Carlo De Benedetti

L’arrivo di una lista ispirata dal duo De Benedetti-Scalfari è data per certa. Ad anticipare questa mossa era stato lo stesso Eugenio Scalfari in un editoriale apparso su Repubblica del 13 maggio scorso. A dire il vero, in quella circostanza, l’ex fondatore di Repubblica aveva condizionato la formazione di «una lista civica apparentata con il Pd e rappresentativa del principio di legalità» alla permanenza del “porcellum”, il sistema elettorale attualmente in vigore. Per Scalfari la legalità, di cui vi sarebbe «urgente bisogno», deve essere il tema ideologico dirimente di questa nuova formazione  per combattere «la corruzione, le mafie, le oligarchie corporative nella pubblica amministrazione, l’evasione fiscale e la legalità costituzionale» (manca ovviamente qualsiasi riferimento alle illegalità della finanza internazionale motore scatenante della crisi economica attuale).
Niente di nuovo dal pulpito di Repubblica che da decenni ha fatto della “repressione emancipatrice” la religione civile che ha permesso di mettere una pietra tombale sulla questione sociale.


Saviano capolista?

Il nuovo Partito della legalità – sempre secondo le parole del suo ispiratore – dovrebbe chiamare a raccolta «persone competenti e civilmente impegnate nella difesa di questi valori». Profilo nel quale molti hanno subito visto l’inconfondibile silhouette di Roberto Saviano.
Chiamato in causa l’autore di Gomorra si è subito precipitato a smentire la circostanza senza rinunciare alla sua consueta dose di vittimismo. Nella celebre rubrica dell’Espresso, che fu un tempo di Giorgio Bocca, Saviano ha attaccato quelli che fanno «disinformazione» annunciando sistematicamente la sua entrata in politica ogni qualvolta gli accade di mietere trionfali ascolti televisivi, nonostante le sue mediocri prestazioni. Gli autori di queste voci, ha spiegato con toni stizziti ma sempre meno convincenti (stavolta a tirarlo in ballo è stato Scalfari mica i suoi avversari), sarebbero dei disonesti che attribuendogli l’intenzione di entrare in politica vorrebbero soltanto delegittimarlo, macchiandone l’illibatezza che gli verrebbe dal non essere «percepito come schierato».
Frase interessante solo per il participio inavvertitamente impiegato. L’uomo che sostiene di voler «ridare dignità alle parole della politica», perché le parole, differentemente da come cantava Mina, non sono chiacchiere ma «azione», strumenti capaci di «costruire prassi diverse», non può non sapere che l’essere percepito è altra cosa che dall’essere realmente.
E’ singolare questa teoria della dissimulazione che ricorda da vicino uno dei più classici precetti della politica descritti da Machiavelli, «Ognun vede quel che tu pari, pochi sentono quel che tu sei», in uno scrittore ­– da tempo sempre meno autore e sempre più interprete – che non cessa di rappresentarsi come sacerdote del vero, senza infingimenti, mediazioni e filtri. Per giunta, dopo la querela milionaria presentata contro il Corriere del Mezzogiorno e Marta Herling, per la polemica sulle fonti indirette e anonime citate nel racconto sul terremoto di Casamicciola, a molti non è sfuggito che Saviano stia dimostrando più interesse al valore monetario delle parole piuttosto che al loro significato.


Il prezzo delle parole

Sarà forse per questa concezione borsistica della lingua, che poca importanza attribuisce al senso delle parole tanto da arrivare a sostenere parole senza senso, che Saviano può scrivere cose come: la fedina penale pulita in politica sarebbe un handicap, un «elemento di sospetto e fragilità». Tesi che nell’orgia di demagogia populista attuale non appare di grande originalità: lo affermano ogni giorno Marco Travaglio e Beppe Grillo.
Chissà se sui banchi di scuola gli hanno mai spiegato che la Costituzione italiana è stata scritta da fior fior di pregiudicati, ex galeotti, ex latitanti ed ex sorvegliati speciali con tanto di confino. E che tra questi si contano ben due presidenti della Repubblica.
Se sei pregiudicato – prosegue ottusamente lo scrittore embedded (con Saviano il vecchio modello dell’impegno civile e politico si è trasformato nell’arruolamento, nell’intruppamento tra le file dei crociati dell’ordine, dei professionisti della punizione) – «vuol dire che hai già un protettore. A seconda del reato commesso, ci sarà la mafia, un partito o una cricca a garantire per te. Invece se sei incensurato non hai tutela, puoi essere aggredito da tutti senza che nessuno ne abbia danno».
Per Saviano le carceri italiane sarebbero sovraffollate di potenti ultratutelati, non di una umanità dolente, di disgraziati senza peso e senza futuro. Esperti e operatori del settore non esitano a definire il sistema carcerario una discarica sociale. E nelle discariche, fino a prova contraria, c’è a munnezza; tanto per citare la considerazione sociale attribuita al popolo delle prigioni.
Sembra di capire che per Saviano l’unico modello di società possibile sia una sorta di 41 bis diffuso, un regime di massima sicurezza sociale, un sistema di gabbie e recinti concentrici dove le parole anziché libere finirebbero confiscate sotto chiavistello. E lui ovviamente sarebbe il portachiave.


Scalfari insiste: «Saviano ci servi»
. Mica puoi sputare sul piatto dove mangi!

Per nulla convinto dell’atteggiamento prudente messo in mostra dall’esponente di punta della scuderia di Roberto Santachiara, in una intervista al Fatto quotidiano Scalfari ha ribadito che la presenza dello scrittore nella lista per la legalità «sarebbe un valore aggiunto che può decidere le elezioni». Saviano è considerato un brand vincente, non è più una persona ma un dispositivo, una macchina del consenso di cui non si può fare a meno. Scalfari-Mangiafuoco non può rinunciare alla sua marionetta per mettere in scena il teatrino della poltica. Quale che sia la decisione finale, lo scrittore ha confermato che in ogni caso non rinuncierà «alla possibilità di costruire un nuovo percorso».


Il nuovo mix: partito delle procure e partito delle scorte

Insomma i giochi sembrano fatti. Manca solo l’annuncio ufficiale che secondo alcune indiscrezioni è previsto per il prossimo 14 giugno, data di avvio della festa di tre giorni organizzata da Repubblica a Bologna. Un serbatoio pronto per stilare le liste esiste già: si tratterebbe di pescare tra gli aderenti all’associazione “Libertà e Giustizia”, fondata sempre da De Benedetti. La base di riferimento resta il “ceto medio riflessivo” che ha animato l’esperienza dei Girotondi e riempito gli spalti durante le adunate al Palascharp. C’è poi il partito delle procure a cui si affiancherà quello delle scorte spalleggiato da Saviano.


Legalità e iperliberismo: stessa spiaggia, stesso mare…

A questo punto resta da chiedersi cosa potrà portare di nuovo l’avvento di questo partito al di là delle considerazioni tattiche sull’ipoteca messa su un Pd fragile e senza prospettive, che rischierebbe di diventare addirittura un satellite eterodiretto (vecchio pallino della redazione repubblichina) dalla nuova formazione. L’estenuante richiamo al principio di legalità impone un bilancio ed una decostruzione del concetto.
Il richiamo alla legalità, da tangentopoli ad oggi, oltre a non aver impedito ma in qualche modo favorito venti anni di Berlusconismo è servito da legittimazione al passaggio brutale dallo stato sociale a quello penale. La legalità è stata in campo politico-giudiziario il corrispettivo dell’iperliberismo in materia economico-sociale. Un contesto dove i forti sono diventati più forti e i deboli più deboli. Se vogliamo cominciare a capovolgere questa situazione è arrivato il momento di mettere in campo un movimento antipenale.

© Not Published by arrangement with Roberto Santachiara literary agency

 

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Da Berlinguer passando per De Mita, Segni, Fini e Saviano: la vocazione dello scalfarismo all’eterodirezione dei gruppi dirigenti della politica

Categorie della politica – Lo scalfarismo

http://www.ilfoglio.it/soloqui/13678

di Maurizio Stefanini
Il Foglio 2 giugno 2012

Il giornale per la “classe dirigente” e la mania dell’eterodirezione: dal Pci di Berlinguer alla Dc di De Mita. Ma anche le liste in proprio, come la Lega Nazionale

«Poiché il quadro politico ed economico è questo, poiché la maggioranza attuale non è credibile e un’opposizione credibile non c’è, è venuto il tempo che la società civile rivendichi il suo ruolo di protagonista e prenda in mano direttamente la gestione della nazione… Imprenditori, cooperativisti, sindacalisti, capi-operai, intellettuali, uomini delle libere professioni, che dovrebbero costruire questo luogo di incontro, aperto alle forze di buona volontà ma solidamente picchettato da paletti morali e programmatici. Non sarebbe un nuovo partito né un’ennesima e dispersiva lista elettorale, ma una grande forza trasversale». Firmato, Eugenio Scalfari. No, non sono le parole con cui sta chiamando, in questi giorni, alla Lista civica nazionale, o Lista Saviano, o Lista Scalfari che dir si voglia. Oltre vent’anni fa, fu l’appello con cui il primo dicembre del 1991 il Fondatore chiamò alla costruzione di una “Lega Nazionale”, identificata con la «maggioranza sommersa» che pochi mesi prima aveva votato il referendum di Mario Segni «contro l’espresso parere di Craxi e Bossi che ci avevano invitato ad andare al mare invece che alle urne».

Nel 2011 Saviano, nel 1991 Segni. Ma non solo loro. Nel mezzo ci sono tanti altri tentativi di passare dal giornalismo politico alla politica in quanto tale. Scalfari, prima di arrivare ai quarant’anni, ha già diretto ben tre campagne elettorali: nel 1953 il Pli; nel 1958 la lista tra radicali e Pri; nel 1960 le liste tra radicali e Psi alle comunali. Esperienze del resto tutte disastrose, che lo inducono a lasciare la politica attiva per il giornalismo. Poi tra 1968 e 1972 Scalfari torna in politica, come deputato socialista. Ma si convince che un parlamentare conta meno di un direttore di giornale, e dopo essere stato trombato si dedica al progetto che il 14 gennaio 1976 si traduce nell’uscita di Repubblica. «Questo giornale è un poco diverso dagli altri: è un giornale d’informazione il quale, anziché ostentare una illusoria neutralità politica, dichiara esplicitamente d’aver fatto una scelta di campo. E’ fatto da uomini che appartengono al vasto arco della sinistra italiana, consapevoli d’esercitare un mestiere, quale appunto del giornalista, fondato al tempo stesso su un massimo d’impegno civile e su un massimo di professionalità e di indipendenza».
«Finora si sono fatti dei giornali omnibus, buoni cioè per tutti i lettori. Noi, invece, vogliamo ritagliare dalla massa del pubblico una fetta precisa: la classe dirigente, prendendo come riferimento non il reddito ma i ruoli esercitati nella società». Così nacque il giornale partito. Ma la vocazione è la vocazione, e il Fondatore non rinuncia a provare ad esercitare una funzione che sia  qualcosa in più della sola formazione della “classe dirigente”.

Così il primo partito su cui Scalfari intende riversare il suo know-how ideologico è proprio il Psi, ma dopo il 1976 punta decisamente sul Pci. Vocazione maggioritaria ante litteram. «La classe dirigente ha capito da un pezzo ciò che la piccola borghesia italiana stenta ancora a capire, e cioè che il Pci è un partito democratico come tutti gli altri», scrive  il 21 gennaio 1979. Ha grande successo con la base, sedotta da un giornale tanto più glamour della vecchia stampa di partito. Meno con i dirigenti.
«Il suo direttore pretende di modificare l’immagine che abbiamo di noi, orientare i nostri comportamenti e indirizzare il processo in corso nel Pci verso certi esiti piuttosto che verso altri», dirà Enrico Berlinguer. «In tutto questo c’è qualcosa di oscuro che non mi piace». Successivamente, cogliendo l’occasione della crisi del Corriere della Sera per lo scandalo P2, nel gennaio 1983 Scalfari spiega che «è arrivato il momento di insediare il giornale in aree politiche e culturali meno di sinistra». Il suo nuovo punto di riferimento è Ciriaco De Mita, «l’uomo della risposta democristiana all’intraprendenza socialista». Per telefono, nel luglio 1986 lo convince a bloccare un governo Andreotti, e per telefono lo convince a nominare Antonio Maccanico ministro delle Riforme istituzionali quando il 13 aprile 1988 diventa presidente del Consiglio. «Sei il nuovo De Gasperi e farai dell’Italia una Svizzera». Ma solo un anno dopo, il 15 settembre 1989 conclude: «Mai un uomo che ha avuto il massimo del potere per sette anni ne ha fatto un uso così inefficace».

Neanche l’evoluzione del Pci in Pds lo convince. «Farfalla che aveva paura di volare», perché Occhetto non ha accettato il suggerimento di guardare «più il new deal rooseveltiano che il riformismo di Bernstein e Kautsky».

E così lancia la Lega Nazionale, il cui nucleo costituente è da lui individuato nel 1992 in una serie di candidature comuni per il Senato della Calabria. «La Malfa e Occhetto hanno mancato entrambi quello che essi ritenevano il successo, ma rappresentano, in modi e dimensioni diverse, forze rispettabili e utilizzabili per indicare le nuove regole di comportamento politico. E così Verdi e Orlando». Poi torna a guardare a Segni, salvo passare il suo imprimatur a Ciampi.  «Come ai tempi di Einaudi» è il suo editoriale del 17 aprile 1993. Il 7 dicembre 1993 Occhetto ridiventa il leader di una «Grande alleanza… tra la società civile e la sinistra riformatrice». La «gioiosa macchina da guerra» verrà sconfitta, ma in capo a due anni si trasfigura nell’Ulivo vittorioso: «Un soggetto politico nuovo e destinato a durare». Missione compiuta al punto che decide di passare di mano la direzione del giornale. Salvo poi, il 13 aprile 1997 concludere: «Ma Prodi, chi è Prodi? Un vanitoso, un testardo, un furbo, un dilettante, un politico fine, un politico stolto? Risposta: Prodi è esattamente il frutto dei nostri tempi, il frutto di una Seconda Repubblica che si prefigura ma non è ancora nata». Il 16 gennaio del 2000 definirà i Ds «il partito della sinistra ora c’è», ma  dopo la sconfitta il 3 ottobre del 2002 riconosce: che «il collante principale che tiene unito, al di là di tante divisioni, il cosiddetto ‘popolo di sinistra’» è “l’antiberlusconismo”. Il 14 ottobre 2007 saluta la nascita del Partito democratico, cui proporrà addirittura un suo Lodo per decidere le primarie. Ma il Pd lo rifiuta, e d’altronde a Scalfari dirigere uno solo dei poli in campo non è mai bastato. «Meno male che c’è Fini», titola il 30 marzo 2010. Ma già il 28-29 marzo 2010, Repubblica lanciava attraverso Saviano un appello alla vigilanza Onu sul voto.

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Il paradigma del capro espiatorio e la nuova filosofia penale nell’ultimo libro di Vincenzo Guagliardo

Dalla Postfazione di Paolo Persichetti

Una delle originalità di questo libro sta nella capacità di cogliere i processi generali attraverso i cambiamenti intercorsi nel microcosmo carcerario. Ancora una volta gli anni ’70 appaiono un decisivo banco di prova. Se la logica della premialità e della differenziazione, introdotti con i dispositivi legislativi limitati inizialmente ai collaboratori di giustizia e ai dissociati, e successivamente estesi al resto della popolazione carceraria, hanno anticipato e sperimentato con successo l’ingresso della contrattazione individuale e della precarietà nel mercato del lavoro; allo stesso modo il rito del capro espiatorio è diventato il nuovo motore ideologico della società. L’analisi di Guagliardo, che fa del ricorso a questo paradigma l’aspetto centrale della sua riflessione critica, è frutto dell’esperienza diretta vissuta dentro il carcere speciale dove l’effetto combinato di fattori esterni e interni, come la crisi progettuale della lotta armata, le mutazioni sociali e produttive, le tecniche d’isolamento e repressione, sfaldano progressivamente la solidarietà «per dar luogo alla concorrenza tra individui».
È qui che Guagliardo scopre l’inarrestabile scatenamento del processo vittimario descritto in uno dei capitoli più forti (il Quinto). Il rito del capro espiatorio è introiettato dai prigionieri al punto da divenire una forma autofagica della propria esperienza.
Di volta in volta i militanti rinchiusi cominciano ad esportare verso l’organizzazione esterna le responsabilità per le difficoltà incontrate. È una sorta di piano inclinato inarrestabile che si trasforma in una voragine e poi nell’abisso della disfatta etica che ha prodotto le figure del pentito-delatore, dell’abiurante-dissociato e dell’inquisitore-killer, che spesso anticipa e presuppone le prime due. In questo dispositivo il carcere speciale appare un laboratorio all’interno nel quale covano fenomeni che poi si riprodurranno su larga scala all’esterno delle cinte murarie.
Non a caso la dissociazione anticipa un modello culturale che farà strame dentro la sinistra minandone la capacità critica e anticipando la stagione delle grandi ipocrisie pentitorie, dove la categoria del ravvedimento non è più quella che assume su di sé la critica o, se vogliamo restare sul piano del linguaggio teologico, la colpa e l’espiazione, ma al contrario esporta fuori di sé ogni colpa e punizione introducendo la moda dell’autocritica degli altri.
Gli strumenti giudiziari d’eccezione e la cultura inquirente congeniata per combattere la lotta armata tracimeranno al punto da travolgere anche il ceto politico della “Prima Repubblica”, quasi a ricordare l’osservazione di Marx sullo scontro tra classi che può concludersi anche con la rovina reciproca delle parti in lotta.
L’impegno profuso nel contrastare la sovversione sociale degli anni ’70, la lunga stagione delle leggi penali speciali e dei maxiprocessi che hanno traversato il decennio ’80, e lo tsunami giudiziario che ha preso il nome di “Tangentopoli” nella prima metà degli anni ’90, conferiscono alla magistratura, e in particolare ad alcune procure, il ruolo di vero e proprio soggetto politico portatore di un disegno generale della società, di una filosofia pubblica capace di sostituirsi a quelli che erano stati gli attori tradizionali della politica: partiti e movimenti.
Il modello del capro espiatorio svolgerà un ruolo centrale nella vicenda passata alle cronache come la rivoluzione di “Mani pulite”. Le conseguenze, per nulla percepite dagli attori dell’epoca, che spesso pensavano di interpretare una stagione di rinnovamento del Paese, saranno enormi. È da lì che prendono forma e si strutturano le ideologie del rancore e del vittimismo che fomentano le attuali correnti populiste, stravolgendo quell’idea di giustizia che per lungo tempo era stata sospinta da ragioni che disprezzavano gli strumenti della penalità e del carcere in favore della ricerca del bene comune. Se prima si trattava di raggiungere obiettivi universali in grado di ripercuotersi in un miglioramento delle condizioni di vita di ciascuno ora il traguardo più ambito diventa l’aula processuale, la conquista di un posto in prima fila nei tribunali, un ruolo sui banchi della pubblica accusa o delle parti civili.
Un drastico mutamento di prospettiva che è conseguenza anche della crisi delle grandi narrazioni che descrivevano cammini di liberazione. Di emergenza in emergenza, passando per il terrorismo, le mafie, la corruzione, i migranti, la sicurezza, ha preso corpo un populismo penale che ha pervaso trasversalmente la società sovrapponendosi alle vecchie barriere ideologiche fino a farle scomparire.
La sfera giudiziaria è diventata il perno attorno al quale ruotano i conflitti, si pensa e si parla solo attraverso le lenti dell’ideologia penale anche a causa di un processo d’autoinvestitura politica della magistratura, formulata sulla base di una vera e propria “teoria della supplenza” da parte del potere giudiziario, «in caso di assenza o di carenze del legislativo». Una sovrabbondanza che alla fine, è superfluo ricordarlo, non ha creato più giustizia. Come dicevano già i romani: summum ius, summa iniuria*.
Il mito della giustizia penale ha trasformato la politica nel cimitero della giustizia sociale e l’esaltazione della qualità salvifiche del potere giudiziario ha fatto tabula rasa di ogni critica dei poteri.

1/continua

L’articolo 18 di Emma Marcegaglia

L’articolo 18 dello statuto dei lavoratori pone dei limiti al licenziamento per ragioni disciplinari stabilendo che la rescissione del contratto di lavoro non può avere carattere discriminatorio diretto e indiretto, cioè in quest’ultimo caso ammantarsi di ragioni che celino nella realtà una volontà di censura dell’attività sindacale, delle opinioni politiche, religiose, culturali, di appartenenza etnica o linguistica o degli orientamenti sessuali del lavoratore, come sancito per altro dallo stesso articolo 3 della Costituzione. Per questo motivo quando il giudice del lavoro ne dovesse accertare la violazione, al datore di lavoro viene imposto il reintegro del dipendente licenziato per ingiusta causa e il risarcimento integrale delle mensilità perdute.
Per Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria, l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori serve invece a proteggere ladri e fannulloni. Lo ha detto ieri. Da molti anni il padronato non compie più l’errore, o sarebbe meglio dire che non ha avuto più la forza e la legittimità – grazie alle lotte sociali degli anni 60 e 70 ivi compresa la lorta armata – di liberarsi di un dipendente accusandolo apertamente di avere idee o condotte politiche poco gradite all’azienda.
Chi fa attività sindacale o politica verrà, per esempio, accusato di essere un violento (come è accaduto alla Fiat di Melfi non molto tempo fa e come accadde nel 1979 a Mirafiori con i 61 quadri di lotta licenziati in blocco perché accusati di connivenza con le organizzazioni comuniste armate), di avere infranto le regole aziendali; i rimproveri disciplinari saranno sempre fondati su contestazioni subdole come l’assenteismo, l’errore professionale, la poca diligenza, eccetera. Il fondamento di questo tipo di accuse viene vagliato nel merito dal giudice del lavoro, una volta che il lavoratore presenta ricorso. E’ questo margine interpretativo che padronato, governo e forze sindacali tradizionalmente filo governative, corporative e concertative, vogliono ridurre.
Per dirla in breve, il padronato rivendica mano libera, dominio totale sul posto di lavoro. Incrinando il principio delle tutele antidiscriminatorie potrà disporre come vuole della sua forza-lavoro, resa docile da una gestione terroristica del rapporto di lavoro. E’ questo il nodo della partita in corso: flessibilità totale in uscita, dopo aver reso totalmente flessibile, cioè totalmente precario, il mercato del lavoro in entrata.

C’è un’altro aspetto delle dichiarazioni della signora Marcegaglia contro l’articolo 18 sul quale vale la pena soffermarsi: l’attuale presidente uscente della Confindustria ha parlato a proposito dell’articolo 18 di tutela dei ladri…
Forse è il caso di ricordare alcune vicissitudini non proprio in regola con la legge che hanno visto come protagonista il gruppo Marcegaglia.

Scandalo Enipower
Nel 2007 Mario Perego, un dirigente della società N.E.-C.C.T. (“joint venture” tra gli americani di Nooters Eriksen e la C.C.T. del gruppo Marcegaglia), fu accusato di aver pagato nel 2003 una tangente a un dirigente di Enipower, Lorenzino Marzocchi. Anche Antonio Marcegaglia, fratello di Emma, amministratore delegato della capogruppo e presidente di N.E.-C.C.T., venne indagato per corruzione. Si difese sostenendo di aver autorizzato il pagamento di quella che gli era stata prospettata dal suo manager («in larga autonomia») come una consulenza richiesta da Marzocchi per dar spessore al desiderio della società di essere ammessa nella lista dei fornitori di Enipower. Per l’accusa, invece, quella consulenza sarebbe stata solo la «maschera» legale di una tangente da 1,1 milioni di euro. Alla fine Antonio Marcegaglia preferì uscirne patteggiando una condanna: undici mesi di reclusione (subito sospesa) per lui; 500mila euro di pena pecuniaria e 250 mila di confisca per Marcegaglia spa; 500 mila euro di pena pecuniaria e cinque milioni di confisca per la N.E.-C.C.T.
Come ha scritto Luca Piana sull’Espresso, le indagini milanesi hanno rivelato l’esistenza di numerosi conti “off shore” intestati alla famiglia, sui quali sono transitate negli anni cifre importanti. In pratica, il gruppo non sempre acquistava i materiali necessari per l’attività industriale, ma li comprava da società di trading che riversavano i guadagni su appositi conti cifrati. Rispondendo ai magistrati, Antonio Marcegaglia ha spiegato che il sistema serviva a creare «risorse riservate che, peraltro, abbiamo sempre utilizzato nell’interesse del gruppo, per le sue esigenze non documentabili». Antonio Marcegaglia ha raccontato che nell’agosto 2004 si decise di chiudere il sistema di triangolazioni che ha alimentato i fondi neri. Una parte dei fondi, circa 22 milioni di euro, venne tuttavia trasferita a Singapore.
«La decisione», ha detto Antonio Marcegaglia, «era stata presa da tempo anche per motivi commerciali. Tuttavia non nego che l’inchiesta Enipower abbia impresso un’accelerazione nel timore di un sequestro giudiziario.» Secondo Piana dell'”Espresso”, «nelle motivazioni di diversi trasferimenti di denaro, non mancano pagamenti in nero a collaboratori, professionisti, fornitori italiani».  Emma Marcegaglia accolse favorevolmente lo scudo fiscale voluto da Giulio Tremonti sui patrimoni detenuti all’estero.*

L’appalto berlusconiano del G8 alla Maddalena
Mita Resort è una società attiva soprattutto in Sardegna (nel 2008 ha fatturato 66 milioni di euro, producendone 3,2 di utile) controllata al 50% dalla Gaia Turismo della famiglia Marcegaglia e al 50% dalla Olii Resorts, una spa che appartiene al 72% alla Life & Resorts di Massimo Caputi. Mita, si occupa di costruzione e gestione di immobili turistici la cui proprietà resta di soggetti terzi.
All’inizio del 2009 il Governo Berlusconi affida a Mita Resort l’appalto per la costruzione e la gestione di una nuova area turistica in Sardegna, di fronte all’Arsenale dell’isola di La Maddalena, proprio davanti a Caprera e a Santo Stefano. Lo scopo iniziale è di riqualificare l’area in preparazione del G8, che doveva tenersi in loco. Gli investimenti dello Stato in questa operazione immobiliare sono stati pari a circa 210 milioni di euro. Come scrive Fabrizio Gatti sull’Espresso, fra il primo maggio e il 20 giugno 2009 la Mita Resort avrebbe dovuto completare e arredare le 95 stanze dell’albergo destinato a Barack Obama e alla sua delegazione, assumere e formare il personale, gestire l’hotel secondo uno standard di cinque stelle lusso, attrezzare il porto turistico. Inoltre, la Mita Resort avrebbe dovuto versare 41 milioni di euro una tantum allo Stato, e un affitto di 600 mila euro all’anno alla regione Sardegna. In cambio, la società avrebbe ottenuto la concessione per costruire e gestire un’area di 155 mila metri quadrati nella parte più ricca della Sardegna, edificando un hotel di lusso, un centro delegati da 10 mila metri quadrati progettato per esser poi trasformato in sala conferenze o centro commerciale, ulteriori aree coperte per 16 mila metri quadrati di estensione, 30 mila metri quadrati di verde, un porto turistico.All’ultimo momento si decide di trasferire il G8 in Abruzzo per catalizzare l’attenzione mondiale sulla tragedia del terremoto.
In questo modo, si determina una sorta di «perdita» per Mita Resort, che non può utilizzare l’evento per promuovere l’area turistica. Come «risarcimento» Mita ottiene la conferma delle medesime condizioni, e il prolungamento della concessione da 30 a 40 anni. «Così Mita Resort incasserà due volte», scrive Gatti, «dal prolungamento del periodo di gestione e dal risparmio per la cancellazione del vertice.» In pratica, a fronte di un esborso pubblico pari a 210 milioni di euro, Mita Resort investe 65 milioni di euro (41 milioni di una tantum + 600 mila euro per 40 anni) per avere in affitto l’area per 40 anni. A conti fatti, si tratta di un canone di locazione annuale di 10 euro al metro quadrato per una delle aree migliori della Costa Smeralda. Un ottimo affare per Mita Resort, «uno schiaffo ai contribuenti» secondo Gatti.
L’ottimo affare della presidente di Confindustria viene sottolineato da Silvio Berlusconi stesso, quando, nel giugno 2009, interviene al convegno dei giovani imprenditori di Santa Margherita Ligure: «Abbiamo ultimato i lavori di rilancio della Maddalena, lavori affidati al gruppo Marcegaglia», dice il presidente del Consiglio di fronte alla platea confindustriale e a tutte le televisioni, sottolineando una seconda volta: «lavori affidati al gruppo Marcegaglia». Chi doveva capire ha capito.*


* Fonte: Filippo Astone, Il Partito dei padroni. Come Confindustria e la casta economica comandano in Italia, Longanesi, Milano 2010

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Tangentopoli, «la finta rivoluzione compie vent’anni»

L’intervista – Sono passati vent’anni dall’arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, che diede il via a Mani Pulite. Tangentopoli «fu una falsa rivoluzione. Quella vera la può fare solo la politica, i processi penali non trasformano la società. E ad alimentare questo falso mito contribuì la stampa», secondo il cronista giudiziario Frank Cimini, uno dei giornalisti che più da vicino ha vissuto gli anni di Mani Pulite

Manuela D’Alessandro
17 febbraio 2012
Fonte: http://www.linkiesta.it/mani-pulite-tangentopoli

 

Non lo dice adesso che sono passati vent’anni e una revisione critica di quei fatti appare fisiologica, prima che doverosa. Lo scriveva, unico, già allora, quando i giornalisti erano i “cantori” del pool di toghe milanesi guidato da Antonio Di Pietro. «Tangentopoli è una falsa rivoluzione e i magistrati finti eroi che volevano accrescere il potere della loro casta». Sotto la barba ispida e nera e lo sguardo acuto di Frank Cimini sono passati trent’anni di cronaca giudiziaria milanese. Tra i capitoli più turbolenti, “Mani Pulite”.
Cimini fu il primo a prendersi una querela dai magistrati che indagavano sulla corruzione. «Il pool mi chiese 400 milioni per un articolo pubblicato nel 1993 sul Il Mattino intitolato “Latitante, ripassi domani” in cui spiegavo che i pubblici ministeri non volevano interrogare un manager della Fiat perché temevano raccontasse le tangenti all’ombra dell’azienda torinese, verso la quale la Procura mantenne sempre un trattamento di favore. Persi in primo grado, ma vinsi in appello». Per Cimini ci sarebbe un “epitaffio” efficace in grado di commemorare Tangentopoli. «L’unico modo serio e paradossale di celebrare quest’anniversario sarebbe apporre una targa con incise le parole intercettate dal Gico della Guardia di Finanza al banchiere Francesco Pacini Battaglia: “A me Di Pietro e Lucibello mi hanno sbancato, si pagò per uscire da Mani Pulite”».

Perché proprio quelle parole per ricordare un fenomeno complesso come Tangentopoli?
Mani Pulite è caratterizzata da una serie di imputati, tra i quali lo stesso Pacini Battaglia, Prada, Redaelli, che erano difesi dall’avvocato Giuseppe Lucibello, intimo amico di Di Pietro. Nell’ intercettazione si faceva riferimento all’unica disastrosa operazione finanziaria compiuta da Pacini Battaglia a vantaggio del costruttore Antonio D’Adamo, che a Di Pietro aveva regalato un cellulare e una macchina.

Di Pietro venne però assolto per quella vicenda dopo essere stato indagato dalla Procura di Brescia per concussione.
Fu prosciolto perché l’Anm, per la prima e unica volta nella sua storia, si schierò con un indagato, ed era Di Pietro, che non si poteva toccare. Al di là dell’esito giudiziario, ci sono dei fatti storici che lo stesso pubblico ministero non ha mai smentito: il prestito di 100 milioni di lire ricevuto da Giancarlo Gorrini e poi restituito dal magistrato in una scatola delle scarpe, il figlio del magistrato che lavorava per lo stesso Gorrini, i vestiti che Di Pietro comprava in una boutique di Porta Venezia e il costruttore D’Adamo pagava. Questo era l’uomo simbolo di Mani Pulite.

Da dove arriva quella che lei inquadra come l’onnipotenza di Di Pietro e dei magistrati che lo affiancavano? Come nasce Mani Pulite?

Mani Pulite è potuta scoppiare per un’anomalia tutta italiana. I partiti si erano molto indeboliti perché avevano delegato completamente alla magistratura la soluzione della vera emergenza di quegli anni, il terrorismo. La magistratura acquistò un enorme credito verso i politici che, in quegli anni, si erano dimostrati incapaci di dare una risposta agli “anni di piombo” ed erano impegnati a ingrassare alle spalle degli imprenditori.

Ma prima del 1992 la politica non era corrotta? E perché la magistratura non perseguiva i politici corrotti?
Prima del 1992 le notizie di reato c’erano, eccome, ma si faceva finta di niente per due ragioni. La prima era di politica internazionale. Fino al 1989, anno della caduta del muro di Berlino, le forze politiche italiane costituivano un blocco molto unito, impossibile da scalfire. La seconda era quella a cui accennavo prima: la politica era un potere forte che s’indebolì in seguito all’incapacità di trovare una soluzione politica per la madre di tutte le emergenze, il terrorismo. Certamente è innegabile che la politica “facilitò” il lavoro della magistratura perché era largamente corrotta.

Nella sua azione contro la corruzione, la magistratura usò metodi oggi riconosciuti da molti come non rispettosi della Costituzione. È d’accordo?

È vero. Il pool fece violenza sulla Costituzione. Mi ricordo quei magistrati andare in televisione e parlare senza contraddittorio, da eroi intoccabili. Si verificò, inoltre, un uso spropositato della custodia cautelare, e si registrarono tanti episodi di arroganza e mancanza di umanità. Uno su tutti: quando Borrelli negò all’indagato Pillitteri di andare ai funerali del cognato Bettino Craxi nel 2000.

Il comportamento dei magistrati è colpevole anche nella rilettura di alcuni suicidi di detenuti eccellenti?
Raul Gardini, che si tolse la vita, fu trattato come un delinquente. Chiese di poter essere interrogato, ma non gli venne concesso. A differenza di quanto accadde per Romiti e De Benedetti che ebbero questa opportunità. Cusani, che non aveva incarichi in Montedison, fu condannato al doppio della pena rispetto a Carlo Sama, dotato di poteri a lui ben superiori, perché non collaborò. Nacque in quegli anni l’idea di premiare chi collaborava coi magistrati. Alcuni indagati che non collaborarono arrivarono a togliersi la vita.

Perché la magistratura esercitò quelli che definisce abusi di potere?

Perché, a parte Di Pietro, che agiva per sua vanità e tornaconto personale, gli altri volevano accrescere il potere della casta, arrivare a governare il paese. Tanto che Borrelli, a un certo punto, disse: “Se il Presidente della Repubblica ci chiama per governare, noi dobbiamo andare”. Nella sua opera fu aiutata anche dagli avvocati che, pur di ottenere le parcelle milionarie, si vendevano alla Procura i loro assistiti. Tanti di questi legali poi sono diventati garantisti, ma allora funzionava così, quello era il clima.

Prima ha detto che alcuni imprenditori furono salvati. Chi erano e perché gli si risparmiò l’umiliazione del carcere?
Cominciamo dalla Fiat, che era intoccabile. Andò così. Agnelli, che allora non aveva poteri formali all’interno dell’azienda, disse: “Dobbiamo uscirne”. Allora Romiti si presentò a Di Pietro e, in un memoriale, elencò le tangenti che la Fiat aveva pagato, ma, come poi emergerà da altre indagini, quello rappresentò l’inquinamento probatorio più clamoroso di Mani Pulite perché erano più le tangenti nascoste da Romiti che quelle rivelate. Nei giorni seguenti, si svolse una riunione negli uffici di Borrelli, a cui partecipò anche l’avvocato Giandomenico Pisapia, il papà di Giuliano, legale dell’azienda, e dal quel momento le indagini si fermarono. La stessa cosa accadde per De Benedetti, che presentò un memoriale in cui ometteva molte cose, ma si salvò.

Parte della vulgata su Tangentopoli, alimentata anche da una lettura degli eventi di Berlusconi, racconta che le “toghe rosse” risparmiarono il Pci-Pds. Come andò?
Questa delle “toghe rosse” è una becera leggenda berlusconiana. La verità è che i magistrati e in particolare Borrelli, uomo molto intelligente, sapeva che se si fosse indagato su tutte le forze politiche il Parlamento si sarebbe compattato contro la magistratura, avrebbe votato l’amnistia e i pm sarebbero andati a casa. L’unica che provò a indagare fu Tiziana Parenti ma tutto il pool la bloccò e chiese al gip l’archiviazione per Marcello Stefanini, il tesoriere diessino. Il gip si oppose all’archiviazione e invitò i pm a indagare sui rapporti tra Greganti e i vertici del partito, ma loro non fecero nulla.

Siamo a un bilancio. Quali sono stati gli esiti di Tangentopoli?
Fu una falsa rivoluzione. Quella vera la può fare solo la politica, i processi penali non trasformano la società. Ad alimentare questo falso mito contribuì la stampa perché gli editori erano sotto schiaffo del pool. In Italia nessuno ha dei bilanci puliti e venne sancito un patto tra editori e magistrati. Noi vi sosteniamo mediaticamente, voi ci salvate. Fino all’avviso di garanzia a Berlusconi, che cambiò le cose perché i suoi giornali si rivoltarono contro il pool, ero la sola voce critica in Procura. Litigavo spesso con D’Ambrosio, che pure stimavo.

Oggi Gherardo Colombo va nelle scuole e predica che va cambiata la società civile attraverso un’assimilazione delle regole. Ma anche allora la società civile sembrava pervasa da un moralismo anti – corruzione. 

La società civile non esiste ora e non esisteva allora. Il popolo si entusiasmò per il regicidio , ma poi ogni italiano, quando può, se ne frega e non paga le tasse. In Italia non c’è cultura delle regole. A Colombo, che ha scritto un libro intitolato “Farla Franca: la legge è uguale per tutti?”, io dico: l’hanno fatta franca gli imprenditori perché la magistratura li ha salvati; l’ha fatta franca Di Pietro perché per molto meno altri sono andati in galera. I magistrati facciano i magistrati, non hanno credibilità per dare lezioni di morale a nessuno.

Link
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“L’idiota in politica”, il libro che fa paura ai leghisti

Il sindaco di Sesto Calende (paesino del varesotto), un leghista di fede maroniana, ha escogitato uno statagemma per far sparire dalla biblioteca comunale il libro dell’antopologa Lynda De Matteo, L’idiota in politica, Feltrinelli, che analizza il discorso politico tenuto dal Carroccio dalle origini ad oggi. Lo fa prendere in prestito a turno dai militanti per toglierlo dalla circolazione. Lo rivela il Corriere della sera in un articolo apparso oggi. «Il borgomastro Marco Colombo, 37 anni, – scrive il quotidiano di via Solferino – quando ha saputo che la biblioteca lo aveva acquistato si è arrabbiato, e ha sgridato la funzionaria: “È vero, le ho urlato dietro – conferma il primo cittadino – esiste una commissione che sceglie i libri e non mi risulta che la scelta sia stata condivisa. E poi, diciamolo, la bibliotecaria è di sinistra”. Insomma, la sua sarebbe stata una scelta politica. Il sindaco è scatenato: «I soldi dei cittadini del mio Comune si devono spendere meglio – sentenzia -. E se qualcuno proprio vuole leggere quel libro, lo può cercare nel sistema interbibliotecario provinciale, dove ce ne sono già due copie». Per nulla soddisfatto spiega al cronista del Corriere:  «lo faremo prendere in prestito da un militante leghista ogni mese, a turno, così manifesteremo il nostro dissenso verso quell’acquisto».
Mai titolo di un libro è stato più azzeccato.
Di seguito un’intervista con l’autrice del libro, Lynda De Matteo.

Paolo Persichetti
Liberazione 16 aprile 2010

Sondare la profondità storica dei discorsi politici può riservare notevoli sorprese proprio perché i comportamenti politici non sono determinati soltanto dagli eventi più recenti, ma si iscrivono in una storicità che in parte sfugge al loro controllo. E’ quanto dimostra Lynda Dematteo, giovane antropologa della politica di scuola francese, (le sue origini sono piemontesi), in un libro per ora pubblicato solo in Francia, L’Idiotie en politique. Subversion et néo-populisme en Italie, Cnrs éditions-Editions de la maison des sciences de l’homme, Paris 2007 (Ndr: Tradotto e in uscita presso l’editore Feltrinelli con il titolo, L’idiota in politica. Antropologia della Lega nord, giugno 2011).
Dedicato alle modalità del discorso politico tenuto dalla Lega nord, il volume raccoglie un lungo studio sul campo condotto nella zona di Bergamo. Il risultato della ricerca relativizza molto la presunta “rivoluzione leghista” mostrando come nella realtà il discorso padano mobiliti tematiche ancestrali mettendole a profitto con le paure contemporanee. Più che una rivoluzione, l’onda leghista evoca una sorta di Termidoro, quella che potremmo definire una reazione sociale di massa.

Come nasce il discorso leghista?
Esiste una relazione carsica tra l’opposizione cattolica allo stato unitario nei primi decenni di vita nazionale e il leghismo. Vi è una quasi totale sovrapposizione geografica tra ex province bianche e aree leghiste. L’autonomismo nordista ha le sue radici nei movimenti autonomisti che sopravvivono ai margini della Dc negli anni 50. Diffuso in alcune province periferiche, era conosciuto e ripreso da alcuni amministratori ed esponenti politici locali democristiani. L’attuale discorso della Lega nord è stato composto in quel periodo, quando nacquero esperienze come il Movimento autonomista bergamasco di Guido Calderoli che si presenta alle elezioni amministrative del ‘56, il Movimento autonomie regionali padane che partecipa alle elezioni politiche del ‘58 e del ‘67, l’Unione autonomisti padani di Ugo Gavazzeni che approva il suo statuto a Pontida, sempre nel ‘67, federando gruppi autonomisti lombardi, trentini, friulani e piemontesi. Anche se non si tratta di un’elaborazione ideologica vera e propria ma di un diffuso senso comune. Dopo essere sopravvissuto per decenni tra le pieghe profonde del territorio, tenuto a bada nei suoi accenti più reazionari dal partito cattolico, si rigenera e riemerge brutalmente in superficie quando la Dc crolla sotto i colpi delle inchieste giudiziarie.

Nella tua ricerca sostieni che la sua matrice politico-culturale risale ancora più indietro?
Rimonta alla tradizione cattolica antiliberale, al riflesso antigiacobino del clero legittimista, al retroterra guelfo e papalino che fa proprio il discorso del governo locale e delle autonomie e che si lega alle insorgenze popolari delle valli che vissero in modo ostile la campagna bonapartista, il triennio giacobino con le sue riforme che mettevano in discussione i vecchi diritti consuetudinari concessi dalla Serenissima, il Risorgimento delle élites urbane massoniche e rimasero indifferenti alla Resistenza egemonizzata dai comunisti.

Come si concilia tutto ciò col paganesimo delle ampolle e i matrimoni celtici?
Alcuni di questi riti sono inventati, come nel caso dell’ampolla, altri sono ripresi e dirottati, come accade per il giuramento di Pontida. La Lega se ne appropria e li deforma reinventando un proprio mito delle origini. Mentre il rito dell’Ampolla rinvia piuttosto al paganesimo classico dell’estrema destra, il giuramento di Pontida risale alla tradizione neoguelfa, al momento della riconciliazione tra i cattolici rimasti fuori dalla vita politica nazionale e lo Stato italiano. I leghisti ne capovolgono il simbolismo originario per trasformarlo in un patto contro Roma. L’esatto contrario del significato attribuito dalla tradizione neoguelfa che vedeva in Roma la sede del papato.

Non credi che la doppiezza sia uno degli strumenti che hanno favorito il successo alla Lega? Buona parte della sua retorica politica ricorre agli attacchi contro la casta dei politici, i giri di valzer, quando loro stessi sono una delle espressioni più compiute di questo trasformismo. In 20 anni sono passati dall’ultraliberismo delle origini al colbertismo tremontiano, dal paganesimo all’asse col Vaticano, dalla mistica celtica al clericalismo bigotto, la difesa del crocifisso e di Gerusalemme liberata. Dipinta come l’unico e l’ultimo partito ideologico, sembra piuttosto il partito delle giravolte…. La stessa cosa non sembra praticabile a sinistra, dove l’elettorato non perdona il doppio linguaggio e sanziona la doppiezza. Gli elettori della Lega al contrario la premiano.
Non credo che sia proprio così, i militanti vivono male queste giravolte, almeno i più coerenti, c’è un turn over importante nel partito. Gli elettori invece si soffermano solo sulle principali parole d’ordine mai cambiate, quelle contro “Roma ladrona”, “Prima la nostra gente” ecc. Credo che la Lega rappresenti bene le contraddizioni della gente delle provincie bianche. Per esempio il libertinaggio di fatto e il bigottismo di facciata. Questa incoerenza lampante tra i discorsi moralistici e i comportamenti sociali è qualcosa di assai sorprendente per una francese. Anche in economia, più che di colbertismo parlerei di mercantilismo. Sono liberisti quando gli conviene e protezionisti quando si sentono in difficoltà. Hanno una concezione aggressiva delle relazioni commerciali. Non credo che il governo italiano assecondi le imprese come fa il governo francese, soprattutto quelle piccole e medie del Nord-Est che la Lega rappresenta.

Eppure la Lega sfonda in territori nuovi, oltrepassa i confini delle antiche provincie neoguelfe.
La Lega riesce ad avere successo perché non incarna la critica della politica ma la sua parodia. Scimmiottando il potere in qualche modo contribuisce alla dissoluzione del sistema stesso, non al suo rilancio. Nella strategia comunicativa dei suoi leader vi è un uso cosciente del registro buffonesco, del carnevalesco, della maschera. Umberto Bossi e Roberto Maroni hanno studiato a fondo la cultura dialettale. Ai suoi inizi radio Padania era paradossalmente una emittente di sinistra che difendeva la cultura locale, il dialetto, i temi della cultura popolare. Bossi tiene le sue prime conferenze sul dialetto all’inizio degli anni 80. La riattivazione degli stereotipi locali è servita a creare un sentimento d’appartenenza identitaria. In ogni singolo territorio la Lega ha riattivato degli stereotipi che creano legame sociale, un po’ come delle bandiere. La sinistra forse lo ha dimenticato ma i comunisti davano importanza alle maschere, negli anni 50 organizzavano il carnevale per consolidare il legame con le classi popolari.

Nel libro evochi il gozzuto Gioppino, folkloristico valligiano bergamasco la cui idiozia era valorizzata come “un dono di natura”, per sostenere che anche i dirigenti leghisti camuffano la loro astuzia avvolgendola nella grossolanità.
E’ quello che chiamo uso della maschera. Ad un certo punto anche il raffinato professor Tremonti è arrivato a dichiarare: «Noi siamo gente semplice, poche volte ci capita di leggere un libro… ». Recitare la parte dei finti sciocchi serve per sentirsi autorizzati a pronunciare qualsiasi cosa. Presentare il discorso razzista facendo uso del registro comico è una delle strategie tipiche dell’estrema destra. Basti guardare a come Céline camuffa nei suoi testi il razzismo attraverso la derisione e la comicità. Si tratta di una tecnica per far passare l’indicibile, renderlo udibile infrangendo il muro dell’intollerabile fino a sedimentare un senso comune che a forza di minimizzare accetta tutto. Spesso i militanti e i partecipanti ai comizi prendono le distanze e deridono gli eccessi verbali dei dirigenti della Lega. Un modo per esorcizzare e mettersi la coscienza a posto.

A me sembra un gioco molto serio questo osare e imporre il punto di vista di quella porzione di società che rappresentano.
In realtà provocano per ristabilire l’ordine legittimo. Un passo avanti per poterne fare due indietro. Osano, giocano la provocazione carnevalesca per suscitare un riflesso d’ordine. Non mirano alla rottura ma alla restaurazione.

Link
Racisme dans la ville de Brescia: des gants pour les passagers qui utilsent le bus des immigres
Lynda Dematteo: Brescia, le gant cache misère
Razzismo a Brescia: distribuiti guanti ai passeggeri che salgono sul bus dei migranti
Il prefetto di Venezia rimosso per non aver avvertito le ronde padane
Lega, “banda armata istituzionale” – I paradossi dell’inchiesta di Verona contro la Guardia nazionale padana
Camicie verdi di ieri, ronde di oggi
Le ronde non fanno primavera
Ronde: piccole bande armate crescono

Il consociativismo non è mai finito

La recensione – «Il consociativismo infinito» di Mauro Fotia, Dedalo editore 2011

di Bruno Amoroso
il manifesto
17 gennaio 2012


Nello sforzo di comprendere le dinamiche della situazione economica e politica italiana della seconda metà del Novecento si è sovente fatto ricorso alla metafora del calabrone, cioè di un animale che riesce a tenersi in volo a discapito delle leggi di gravità. A sorpresa di tutti, infatti, la continua instabilità del sistema politico italiano ha sempre ritrovato momenti di ricomposizione, smentendo tutte le tesi ricorrenti della crisi e del collasso.
Questa situazione, applicata alla politica, è continuata nel nuovo secolo fino ai nostri giorni. Nella ricerca delle cause di tutto ciò – a parte i pochi arditi che hanno perseverato nel tentativo di ricercarne le cause nel quadro dei cambiamenti strutturali e sociologici della società – ha sempre prevalso l’approccio giuridico-istituzionale. Una forma tipicamente italiana, che pensa di risolvere i problemi della frammentazione del tessuto politico mediante le leggi elettorali, le norme di funzionamento delle Camere e le regole varie di registrazione del consenso, tra le quali si possono annoverare i referendum e anche l’ultima diavoleria delle primarie. A fasi alterne si sostiene la bontà del pluralismo dei partiti, espressione della ricchezza politica e culturale delle posizioni in campo, oppure del bipolarismo assunto a simbolo della maturità politica degli italiani capaci di accantonare localismi territoriali e mentali per concentrarsi sulle grandi scelte.
Ovviamente le ragioni dell’una e dell’altra posizione sono sostenute da esempi di altri Paesi, presi a sproposito e confondendo i livelli di consenso reale, politico e culturale esistenti nella società con l`ombra delle istituzioni. Nei fatti il pluralismo degenera in un frammentarismo fonte di una miriade di microformazioni partitiche estremamente perniciose per la fisiologia democratica. Il bipolarismo si incarna in coalizioni sì eterogenee da rendere impossibile che quella vincente governi veramente; si risolve, in pratica, in una mera apparenza, anzi, in una mistificazione. Mette in scena false contrapposizioni, fittizie alternanze o ricambi di ceti politici al potere, ingannevoli alternative di indirizzi e di programmi di governo, mentre nella realtà opera come una vera e propria consociazione tra maggioranza e minoranza, con i conseguenti fenomeni spartitori, corruttivi e clientelari.
Insomma, è la tesi sottesa da questa mia lettura, la frammentazione della politica italiana è una sceneggiata ben diretta che serve a mascherare – dietro l’affermata rigidità e continuità delle posizioni in campo e degli interessi che rappresentano – una sostanziale disponibilità al compromesso. L’aspetto “italiano” di questa vicenda che la Seconda Repubblica ha aggravato e reso cronico è che il compromesso non viene raggiunto prima sui grandi temi della politica, per poi trasmettersi ai vantaggi partitici delle spartizioni del potere e delle lottizzazioni, ma sono i secondi a motivare e canalizzare il consenso verso i primi. Da qui la sostanziale immutabilità delle scelte di politica economica e di politica estera – le variabili indipendenti del sistema Italia- e il continuo vociare dei e nei partiti e coalizioni che somiglia molto alle “grida” del mercato del pesce di Palermo.
Per un approfondimento critico di queste tesi sono preziose le ricerche di Mauro Fotia sulle forme di rappresentanza del potere in Italia e il sistema dei partiti, tra le quali meritano menzione, Le lobby in Italia (Dedalo, 2002), e il suo recente lavoro, Il consociativismo infinito (Dedalo, 2011). Quest’ultimo è una secca e dura critica del trasformismo dei partiti della sinistra condotta in modo analitico e rigoroso nelle diverse fasi storiche: il centrismo degasperiano (1947-1962), l’esperienza di centrosinistra (1962-1972), i governi di solidarietà nazionale (1976-1979), le coalizioni di pentapartito (1983-1992) fino alle vicende più note della Seconda Repubblica e al berlusconismo. Il fallimento dei tentativi fatti di arginare il berlusconismo, con l’Ulivo fino al Partito democratico, è da attribuire, secondo l’autore, al rafforzarsi e generalizzarsi dello spirito consociativo e trasformista che ha ucciso l’idea stessa dell’alternativa e che ha poi spinto la sinistra nelle braccia di un “governo tecnico” appoggiato da Bersani e Berlusconi con l’applauso dei “centristi”. L’analisi di Fotia sul formarsi della cultura dell’Ulivo e del Partito Democratico è pregnante è impietosa. Nasce da una rielaborazione dell’idea della sinistra sull’eguaglianza, piegata all’interpretazione blairiana dell’«uguaglianza delle opportunità», dall’accettazione del concetto di «società di individui» i cui rapporti sono regolabili non dai principi di solidarietà e dai loro legami sociali ma da «relazioni contrattuali soggettive», dall’abbandono della «centralità del lavoro», e infine dal forte affievolimento dei diritti di cittadinanza. Passaggi che rendono estremamente incerte e confuse le nuove concezioni della sinistra sul nesso che lega la cittadinanza civile alla cittadinanza sociale e mettono in forse la dignità del lavoro come valore costituente della democrazia. A conferma, sottolinea Fotia, del fatto che il consociativismo politico s’accompagna sempre col consociativismo socio-economico. L’immagine della socialdemocrazia, presentata come la nuova frontiera della sinistra italiana, si dissolve rapidamente in quella della liberal-democrazia, che fa riesplodere le mai sopite contraddizioni tra la componente laica e quella cattolica del Pd. La presenza di Berlusconi sulla scena politica, a ritmi alterni corteggiato e condannato, favorisce l’occultamento dietro il polverone della questione morale sulla sua persona, del procedere di un rapporto di adesione sostanziale alla politica estera ed economica dell’Italia. Berlusconi traghetta di fatto la sinistra verso il programma del governo tecnico di Monti, intorno al quale si realizza, in una fase storica molto difficile per l’Italia e l’Europa, un blocco consociativista sinistro-conservatore fin qui inimmaginabile.

Link
L’inutile eredità del Pci tra consociativismo e compromesso storico
Caso Penati: l’ipocrisia degli ex Pci-Pds, oggi Pd difronte ai costi della politica/

Odradek fuori luogo

Odradek fuori luogo

Dal blog primadellapioggia di Marco Clementi
1 dicembre 2011

“Odradek” continua a perdere il senso della realtà. Dopo averci fatto leggere sul suo blog per ben 8 volte che il tappo avrebbe retto, e poi non ha tenuto, mette le mani avanti accusando la piccola borghesia di volere indietro Berlusconi (prima che lo abbia fatto!). Accadrà, afferma. Tirando per le mani ricordi quasi ottocenteschi (e si trattava dei borboni, che nulla c’entrano con l’Italia di oggi), Odradek passa a una diversa analogia. Le scritte “aridatece er puzzone”, frase che titola questa nuova serie di commenti, comparvero nella Roma del ’44 mentre la gente quasi moriva di fame, in un periodo di epurazioni. Il colonnello Poletti, appena divenuto governatore della città, aveva istituito una commissione di ufficiali alleati, più 12 esponenti del Comitato di liberazione, per esaminare la posizione dei fascisti. Ma Roma aveva fame e accanto a “ridatece er puzzone” comparvero scritte come “Poletti, meno chiacchere e più spaghetti”.

Si combatteva ancora, anche sul suolo italiano, dove imperversava il mercato nero. Ma, cosa che Odradek dimentica, dopo la breve pausa di Badoglio, dalla politica (il fascismo) si era tornati alla politica (il governo Bonomi).
Oggi, invece, in Italia, è in atto un tentativo di dare forma a un sogno antico: quello di potersi sbarazzare della politica. Che siano stati prima i giudici e ora un governo dei tecnici, poco importa. La diagnosi è che i problemi politici nascono come conseguenza di errori politici, dunque occorrono dei sapienti, o dei saggi. C’è poi chi da sempre invoca il “partito degli onesti”, come se un potere “taumaturgico” possa ridare lucentezza a un sogno rinnovato. Quella che si intravede, però, è una trama strutturalmente illiberale, che cerca guardiani e un esito fondamentalista della politica, mentre i partiti che siedono in parlamento si sono nascosti (vai avanti tu, no tu, no tu…). Il puzzone faceva politica. Ora vi beccate la Trilateral al governo. Come avevano predetto i nostri saggi, che Odradek sta velocemente dimenticando, avvolta com’è da tempo nel mantello tarocco e nauseabondo di una meschina dietrologia.