Il sangue degli uomini della scorta di Moro scambiato con quello di un brigatista immaginario, l’incredibile boutade dello storico Davide Conti

Nel corso di cinque processi (ben 15 corti di giustizia) sono state condannate per il sequestro Moro trentuno persone, cinquanta furono quelle inquisite durante le istruttorie, anche se i responsabili effettivi della vicenda furono solo sedici. Eppure dopo quarantasette anni c’è chi scambia ancora il sangue degli uomini della scorta di Moro con quello di un brigatista immaginario. La coscienza di questo Paese è davvero malata se pur di non interrogarsi su quel che avvenne in quel decennio, soprattutto a sinistra, si rincorrono fantasmi, si intossica la memoria, si inquina la storia.

Marco Clementi e Paolo Persichetti

Davvero la mattina del 16 marzo 1978 a dare l’assalto alla scorta che trasportava il presidente del consiglio nazionale della Democrazia cristiana Aldo Moro c’era un undicesimo brigatista dall’identità tuttora ignota, rimasto ferito nello scontro a fuoco, e non i dieci accertati storicamente (le ricostruzioni giudiziarie si fermano a nove)? 
A sostenerlo, sulle pagine del quotidiano Domani del 23 e 24 agosto scorso, in un lungo articolo in due puntate dal titolo «Non fu geometrica potenza, il brigatista ferito in via Fani», è lo storico Davide Conti, per anni ricercatore presso la fondazione Basso, autore di lavori sulla Resistenza, soprattutto romana, e di varie pubblicazioni sul fascismo e neo fascismo, nonché consulente delle procura di Brescia e Bologna nelle indagini sulle stragi, e dell’Archivio storico del Senato della Repubblica.

Se c’è sangue allora c’era un brigatista ferito e mai identificato
La tesi di Conti, che va ad aggiungersi – ultima in data – all’interminabile saga dietrologica sui misteri del rapimento Moro, prende spunto dal fatto che all’interno delle tre vetture utilizzate dal comando brigatista per allontanarsi dal luogo dell’agguato e portare via Aldo Moro, abbandonate pochi minuti dopo a circa 2 km di distanza, in via Licinio Calvo, furono trovate delle tracce di sangue la cui origine, secondo Conti, non sarebbe mai stata identificata a causa di una grave negligenza nelle indagini. Almeno una di queste tracce, se non anche altre, sostiene sempre Conti, sarebbe riconducibile al brigatista ferito. Circostanza che smentirebbe le affermazioni di Adriana Faranda, contenute nel «Memoriale Morucci-Faranda» del 1984, e di Anna Laura Braghetti presenti nel suo libro scritto con Paola Tavella, Il prigioniero, Mondadori 1998, le quali affermano che tutti i militanti delle Brigate rosse che presero parte all’azione rimasero illesi.

Aggiungi un posto in macchina…
Che si tratti di un brigatista ignoto, Conti lo desume dal fatto che una di queste tracce fu rinvenuta sul montante, il battente e la parte esterna della portiera destra della Fiat 128 bianca che fece da barriera, il «cancelletto superiore», bloccando il traffico in modo da isolare la zona dell’assalto. Su questo mezzo avevano preso posto Alessio Casimirri, come autista, e Alvaro Loiacono con funzioni di copertura verso la parte alta di via Fani. Al momento della fuga su questo mezzo, che aveva il compito di chiudere il convoglio, salì accanto al guidatore anche Prospero Gallinari, uno dei quattro assalitori travestiti con abiti dell’aviazione civile che attaccarono direttamente la sconta di Moro.

Secondo Conti, sulla Fiat 128 prese posto anche un undicesimo brigatista, quello rimasto ferito e sue sarebbero le tracce di sangue rinvenute sulla portiera. Il ragionamento di Conti è semplice: se Gallinari rimase illeso – come sostenuto da Braghetti – allora il sangue presente non poteva che essere di un undicesimo componente del commando. Conti sposta arbitrariamente Gallinari nei sedili posteriori per lasciare posto al brigatista immaginario, nonostante sia noto che dietro aveva preso posto Loiacono, che dal lunotto posteriore proteggeva le spalle al convoglio. Ne abbiamo già scritto nel volume Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera, apparso per Deriveapprodi nel 2017 e recentemente ristampato dall’editore con una nuova copertina.

L’uomo in più del commando, un mantra della dietrologia
L’uomo in più è uno dei leit motiv preferiti della narrazione dietrologica, anche se a mutare ogni volta è la sua posizione e identità geopolitica: c’è chi – da Sergio Flamigni in poi – lo colloca a destra nei panni del superkiller professionista; chi lo piazza (vedi Guido Salvini nella relazione stesa per la commissione antimafia) in alto sul lato sinistro, quinto sparatore in abiti civili che poi fugge salendo via Fani verso via Trionfale; chi ritiene fosse un tiratore scelto che ha sparato con un fucile di precisione da uno dei palazzi prospicienti; chi lo colloca, invece, come supervisore dell’azione su uno dei marciapiedi di via Stresa (variante Flamigni). Poi non manca chi raddoppia, come i fan dei due motociclisti sulla moto Honda e infine chi sottrae, come i sostenitori della tesi che Moro non fosse presente in via Fani e la sparatoria sia stata solo una messa in scena per coprire un rapimento avvenuto altrove; la nota giornalista Rita di Giovacchino ha sostenuto addirittura che fosse stato portato via in elicottero.
La sublime menzogna della narrazione dietrologica poggia su un semplice meccanismo di addizione, che rende l’angusto incrocio tra via Fani e via Stresa uno dei luoghi più affollati di Roma. Ogni nuova tesi, che secondo logica dovrebbe necessariamente escludere la precedente (se c’era lo sparatore da destra non poteva essercene uno in più a sinistra o il tiratore scelto, eccetera), in realtà si aggiunge senza che l’autore senta la necessità di smentire la versione rivale, sfidando senza remore ogni illogicità e incongruenza. Le innumerevoli tesi dietrologiche, concorrenziali e contrapposte (basti pensare alla contraddizione che oppone chi accusa la Nato, il Mossad, Gelli e company a chi punta il dito contro la Stasi, il Kgb, i cecoslovacchi o i palestinesi), si ignorano reciprocamente con un unico reale obiettivo, ossia fare fronte comune per screditare il racconto di chi in via Fani c’era davvero: i brigatisti, o il lavoro, certo confuso, lacunoso e impreciso, della magistratura che pure alla fine, dopo cinque processi (una sesta istruttoria è arenata in un nulla di fatto mentre uno dei due filoni è in attesa di archiviazione) è pervenuta ad identificare la sola responsabilità delle Brigate rosse, o ancora il lavoro, anche questo con i suoi limiti ovviamente, di una storiografia a nostro giudizio più seria e rigorosa.

C’era del sangue ma era della scorta di Moro, l’errore macroscopico commesso da Davide Conti

Il rapporto della dottoressa Laura Tintisona, funzionaria di polizia distaccata presso la commissione Moro 2, depositato il 14 dicembre 2014 (Cf. CM2 0470_001).

Dopo la richiesta del pm Luciano Infelisi, che dispose il 22 marzo 1978 una perizia sulle tracce di sangue e le impronte raccolte dalla polizia scientifica sulle vetture utilizzate dai brigatisti per individuarne l’appartenenza, secondo Conti, che cita una risposta della Digos del 26 settembre 1978 a un quesito posto dall’ufficio istruzione il 28 agosto precedente, le indagini scientifiche si sarebbero arenate. In realtà la perizia, assegnata ai professori Franco Marraccino e Giorgio Gualdi, venne consegnata il 14 novembre successivo al consigliere istruttore Achille Gallucci. Le conclusioni furono eloquenti: le tracce ematiche appartenevano a quattro dei cinque uomini della scorta di Moro. Il sangue rinvenuto sulla tappezzeria del tetto e sul sedile posteriore della Fiat 128 blu, targata Roma L55850, alla cui guida era salito Valerio Morucci che si era introdotto dopo la sparatoria nella Fiat 130 di Moro per raccogliere alcune borse, risultò compatibile con quello dell’appuntato Domenico Ricci, autista del mezzo sulla quale viaggiava Moro. Altre tracce ematiche rilevate sulla portiera anteriore sinistra della Fiat 128 blu e in provette contenenti sostanze prelevate dalla Fiat 128 bianca, targata Roma M53955, nella quale era salito Prospero Gallinari, e dalla Fiat 132 GLS 1600, targata Roma P79650, guidata da Bruno Seghetti e dove salirono Aldo Moro, Mario Moretti e Raffaele Fiore, sono risultate del gruppo “A”, compatibile con tutti i militari uccisi a eccezione di Rivera. A chiarire definitivamente la vicenda è un rapporto della dottoressa Laura Tintisona, funzionaria di polizia distaccata presso la commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni, depositato il 14 dicembre 2014 (Cf. CM2 0470_001). La data è significativa poiché il consulente della Commissione Moro 2, Gianfranco Donadio, citato da Conti, divenne consulente solo nel febbraio successivo, tralasciando quanto prodotto in precedenza dalla Commissione stessa.


De relato del pentito o fonti scientifiche?
Sorprende che Davide Conti abbia elaborato la sua tesi ignorando la presenza di documenti essenziali come le perizie scientifiche, rincorrendo invece i de relato del pentito Patrizio Peci, esponente di una diversa colonna, quella torinese, totalmente ignaro della realtà romana e che sul sequestro Moro ha sempre fornito informazioni errate, come il coinvolgimento di Azzolini in via Fani. Dalle perizie balistiche, ultima quella realizzata dalla polizia scientifica per conto della Commissione Moro 2 con le più moderne tecniche forensi, avrebbe saputo – invece di rincorrere le ipotesi giornalistiche di Miriam Mafai – che i colpi sparati dall’agente Iozzino non andarono a segno. Non solo, nelle nuove indagini riaperte dalla procura di Torino sulla sparatoria alla cascina Spiotta del giugno 1975, è emersa una intercettazione che seppur illegale sul piano giudiziario dal punto di vista storico è rilevante, poiché Azzolini racconta i tormenti di Bonisoli dopo la sparatoria in via Fani nella quale rischiò di essere colpito da Iozzino e per reazione sparò numerosi colpi crivellandolo (Cf. L’Unità del 2 aprile 2025 e https://insorgenze.net/2025/03/28/via-fani-azzolini-parlava-di-morucci-non-di-moroni-e-secca-la-smentita-dellaltro-ex-br-intercettato-dalla-procura-di-torino/).

Il nuovo Protocollo dei savi di Sion scritto dal bugiardo di Stato, Sergio Flamigni

Una leggerezza che tuttavia non l’ha indotto a maggiore prudenza, ma al contrario l’ha spinto a ulteriori conclusioni: come l’aver sposato la leggenda della verità concordata tra brigatisti e potere, pari per falsità solo ai Protocolli dei savi di Sion. Accordo, narra la vulgata, che avrebbe trovato soluzione nel “Memoriale Morucci”: «Redatto in carcere – scrive ancora Conti – a partire dal luglio 1984 nel quadro di una fitta e costante interlocuzione con uomini dei servizi di sicurezza, figure politiche e religiose e direttori di giornali». In realtà il “memoriale” venne solo assemblato in quel periodo, poiché costituito fondamentalmente dai verbali degli interrogatori resi davanti la magistratura nelle fasi istruttorie e processuali precedenti e nei quali Morucci aggiunse i nomi ai i numeri con i quali in precedenza aveva indicato i componenti del commando che agirono in via Fani (circostanza che permise l’arresto e la condanna di Alvaro Loiacono), allegando al testo la ricostruzione fatta in sede processuale anche da altri protagonisti, come Franco Bonisoli, Alberto Franceschini (all’epoca ancora non dietrologo) e altri brigatisti dissociati.
Del lavorìo preparatorio che condusse al “Memoriale” erano al corrente Francesco Cossiga, futuro presidente della Repubblica e ministro dell’Interno al momento del rapimento Moro, e Ugo Pecchioli, esponente di rilievo del Pci. Lo si apprende dal promemoria fatto pervenire nel luglio del 1985 dallo stesso Cossiga, poco dopo essere stato eletto Presidente della Repubblica, a Ferdinando Imposimato, allora giudice istruttore dell’inchiesta sul sequestro Moro, e al ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro. (Acs, Migs busta 20 e Cf. La polizia della storia, Deriveapprodi 2022).
E’ noto che a partire dal 1993 con Mario Moretti, e poi a seguire tutti gli altri fino a Gallinari, ultimo nel 2008, i brigatisti che presero parte al rapimento Moro hanno avuto modo di raccontare in libri o testimonianze processuali il ruolo avuto nella vicenda. Cristallizzare la storia del sequestro Moro unicamente nel racconto fatto da Morucci e Faranda è dunque inesatto dal punto di vista del metodo e delle fonti storiche che, nella realtà, si mostrano molto più ricche.

Raffaele Fiore e la Fiat 132

Conti affronta anche il ritrovamento a distanza di tempo delle tre macchine impiegate nel sequestro, sottovalutando che le forze di polizia, andate in tilt nelle prime ore che seguirono l’assalto in via Fani, le rinvennero a distanza di tempo commettendo errori su errori. Si accorsero solo dopo molte ore che la Fiat 128 bianca ritrovata in via del Forte Braschi, zona Pineta Sacchetti (Ansa delle 19.03 del 16 marzo), non era quella dei brigatisti. Solo allora ripresero le ricerche tornando in via Licinio Calvo. Per confermare la sua interpretazione richiama un servizio del tg1 che avrebbe dimostrato l’assenza della Fiat 128 blu, in via Licinio Calvo, al momento del rinvenimento della Fiat 128 bianca. Tutto ciò per sostenere la tesi del garage limitrofo (via dei Massimi), dove sarebbero state provvisoriamente parcheggiate le auto (insieme a Moro, nascosto in una prigione momentanea) per essere posizionate successivamente, una alla volta, in via Licinio Calvo. Versione ribadita in una puntata di Report alla quale lo stesso Conti aveva partecipato.
L’autore sembra ignorare le conclusioni dell’indagine realizzata nel settembre del 2015 dal Servizio centrale antiterrorismo per conto della commissione Moro 2. L’accertamento ha definitivamente smentito questa narrazione tossica. Il punto di ripresa dell’operatore tv, che ha girato le immagini il 19 marzo ma diffuse dal servizio del tg1 il 20 marzo 1978, non aveva alcuna visibilità sul tratto di via dove le due Fiat 128, la bianca e la blu, erano state lasciate dai brigatisti il 16 marzo precedente. Quelle immagini non hanno mai provato nulla (Cf. Cm2 0329_009). Recentemente una inchiesta pubblicata dal sito Sedicidimarzo sulle foto riprese dalla polizia scientifica al momento del ritrovamento della Fiat 128 bianca (Cf. https://www.sedicidimarzo.org/2024/01/peccato-che-sia-cosi-buia-o-della.html) ha mostrato come sul posto fosse già presente la Fiat 128 blu, autovettura sulla quale erano poggiati distrattamente alcuni agenti di polizia.
Infine Conti contesta anche che sia stato Fiore a condurre la Fiat 132 in via Licinio Calvo, poiché questi non riferisce la circostanza nella testimonianza rilasciata ad Aldo Grandi, nel volume L’ultimo brigatista, Bur 2007. Un vuoto che porta Conti a concludere che alla guida ci sia stato l’ennesimo ulteriore brigatista (o chi per lui), rimasto ignoto (a rigor di logica sarebbe il dodicesimo). Ma non riferire non vuol dire negare. Non c’è spazio qui per affrontare una delle problematiche tipiche sollevate dalla storia orale quando raccoglie testimonianze a tre decenni dai fatti. Va però considerato che Fiore non era romano e scese nella Capitale solo per l’azione Moro. Appare comprensibile che la sua memoria abbia fatto dei salti, semplificando dei passaggi, soprattutto se l’intervistatore non l’ha incalzato correttamente con domande pertinenti, fermandolo, chiedendogli di precisare o ricordare. Noi abbiamo chiesto Fiore perché la Fiat 132 era stata parcheggiata in modo diverso dalle due Fiat 128. Pur avendo studiato a lungo la topografia della zona, volevamo da lui un ulteriore chiarimento perché un rapporto della Digos firmato dall’ispettore Mario Fabbri, riferiva il rinvenimento del mezzo, per altro in un orario, le 10,00, contraddetto da un altra fonte dei carabinieri, che indicava le 9,47, e dal brogliaccio della centrale operativa che anticipava la prima segnalazione, da parte di una autocivetta denominata Squalo 4, alle 9,23. Secondo il rapporto, il mezzo era parcheggiato sulla parte alta di via Licinio Calvo, a pochi metri dall’incrocio con via Lucilio con l’avantreno rivolto verso via Festo Avieno. Nel rapporto non ci sono immagini allegate. Ad oggi, nonostante le migliaia di documenti consultati, non siamo mai incappati nelle foto del ritrovamento della Fiat 132. Si tratta sicuramente di una anomalia che speriamo venga colmata nel tempo o comunque trovi una risposta soddisfacente.
In effetti il mezzo, come ci ha confermato Fiore, aveva realizzato un percorso diverso dalle Fiat 128. In Brigate rosse (op. cit.) avevamo già segnalato la cosa, sottolinenando come la Fiat 132, ritardata dal trasbordo di Moro nel furgoncino Fiat 850 in piazza Madonna del Cenacolo, fosse partita quando le due Fiat 128 erano già andate via. Fiore ci rispose che nella concitazione saltò la svolta in via Licinio Calvo e fu costretto a proseguire via Festo Avieno fino in fondo, per girare a destra verso piazza Ennio e ridiscendere via Lucilio. Da qui il parcheggio poco accurato all’inizio di via Licinio Calvo che facilitò l’immediato ritrovamento del mezzo, la cui targa era stata già segnalata poco dopo la sparatoria in via Fani da diversi testimoni.

La caccia ai fantasmi
Nel corso di cinque processi (ben 15 corti di giustizia) sono state condannate per il sequestro Moro trentuno persone, cinquanta furono quelle inquisite durante le istruttorie, anche se i responsabili effettivi della vicenda furono solo sedici. Eppure dopo quarantasette anni c’è chi scambia ancora il sangue degli uomini della scorta di Moro con quello di un brigatista immaginario. La coscienza di questo Paese è davvero malata se pur di non interrogarsi su quel che avvenne in quel decennio, soprattutto a sinistra, si rincorrono fantasmi, si intossica la memoria, si inquina la storia (Cf. https://insorgenze.net/2025/06/26/pino-narducci-rapimento-moro-le-sentenze-giudiziarie-al-vaglio-della-storia-parte-prima/) e (Cf. https://insorgenze.net/2025/06/26/pino-narducci-rapimento-moro-le-sentenze-giudiziarie-al-vaglio-della-storia-parte-seconda/).
Sarebbe auspicabile che in futuro gli studiosi cercassero con maggiore cura prove e riscontri alle proprie legittime ipotesi, confrontandosi anche con quanto già scritto ma, soprattutto, con la documentazione esistente, vasta, importante e imponente, da tempo disponibile per chiunque voglia approfondire quella vicenda. E che nel caso si vogliano correggere conclusioni ritenute infondate, lo si facesse senza rilanciare circostanze già da tempo dimostrate fallaci.

Via Fani, «Azzolini parlava di Morucci non di Moroni», è secca la smentita dell’altro ex Br intercettato dalla procura di Torino

Antonio Savino è un ex operaio Fiat e vecchio compagno di militanza di Lauro Azzolini all’interno della colonna Walter Alasia delle Brigate rosse, arrestato anch’egli nella operazione del 1 ottobre 1978 che decapitò la colonna milanese. Quarantacinque anni dopo, la mattina del 17 marzo 2023, era presente in casa di Azzolini quando questi veniva sottoposto a intercettazione da parte della procura di Torino, nell’ambito della nuova inchiesta sulla sparatoria alla cascina Spiotta del 5 giugno 1975 e che ha portato all’apertura di un nuovo processo davanti la corte d’assise di Alessandria. Savino smentisce categoricamente che nel corso della conversazione captata Azzolini si sia mai riferito a persona diversa da Valerio Morucci.

L’intercettazione del 17 marzo 2023
Una informativa del Ros di Torino del 21 marzo 2023 riporta stralci delle conversazioni tra i due, intercettate tramite captatore inoculato nel telefonino di Azzolini. L’attività investigativa e l’intercettazione ambientale realizzata quella mattina è stata dichiarata illegittima dalla corte d’assise nell’ultima udienza dell’11 marzo scorso. I giudici hanno riconosciuto che tutte le sue conversazioni captate dal 14 febbraio al 15 maggio 2023 erano illegali perché avvenute quando ancora il gip non si era pronunciato sulla riapertura delle nuove indagini. Un riconoscimento limitato e tardivo dell’abuso, ma pur sempre significativo poiché ha aperto scorci inquietanti sulle forzature realizzate nel corso dell’indagine. L’intercettazione aveva attirato l’attenzione dei carabinieri perché nel corso del dialogo con Savino, Azzolini lasciava intendere di aver preso parte allo scontro a fuoco del 5 giugno 1975. Ma la ragione per cui l’informativa è stata ripresa su alcuni giornali è un’altra: secondo i carabinieri Azzolini rivelava la presenza in via Fani di un nome nuovo mai implicato nelle indagini sul sequestro Moro.

La crisi di coscienza di Bonisoli
Come scrivono gli stessi estensori dell’informativa, l’audio è pessimo. Le voci sono disturbate dal volume della televisione e spesso giungono deformate oltre al fatto che in alcuni momenti Azzolini sussurra le sue frasi e il suo racconto è infarcito di anacoluti. I due stanno rievocando alcuni episodi della loro passata militanza nella lotta armata. In particolare Azzolini evoca alcune rapine di autofinanziamento condotte dalle Brigate rosse dopo i fatti della Spiotta, in una delle quali ci fu un ferito tra i brigatisti e un’altra dove venne catturata Paola Besuschio, a causa di una incertezza commessa – si racconta sempre nell’audio – da «Franco». Franco sarebbe Franco Bonisoli di cui Azzolini sta accennando le ragioni del tormento interiore che hanno poi suscitato una sua successiva «crisi» di coscienza. Bonisoli si sarebbe recato a casa di Azzolini per confidarsi, siamo al minuto 1,33 dell’audio. Stiamo parlando – come si evince dalla logica del temporale del racconto – di un periodo successivo all’arresto di Besuschio, avvenuto ad Altopascio, una località della Toscana, il 30 settembre 1975, e dell’azione di via Fani, a cui lo stesso Bonisoli aveva partecipato. A tormentare Bonisoli è la morte dell’agente di polizia Raffaele Iozzino, con cui aveva avuto uno scambio a fuoco. Iozzino è l’unico poliziotto della scorta di Moro che è riuscito a rispondere al tiro dei brigatisti prima di essere ucciso.

Morucci, Gallinari e Fiore in via Fani
L’inciso pronunciato immediatamente dopo la frase; «poi dopo viene a casa… eh!», ovvero: «Matteo era così», riferito a Morucci, più volte citato nell’audio, che aveva come nome di battaglia «Matteo», è un’anticipazione di quel che Azzolini dirà poco dopo sul ruolo centrale avuto da Valerio Morucci nell’azione di via Fani. Linguisticamente parlando si tratta di una catafora. Al minuto 1,44 riporta invece le parole di Bonisoli: «dice “ma dopo mi ha tirato ho fatto cosi …(inc.)… quello che la stava scappando ho preso ma quando…”». Frase che fotografa un momento cruciale di quel che avvenne in via Fani: la reazione di Iozzino che esplose dei colpi in direzione di Bonisoli e la replica di quest’ultimo. Circostanza che per altro si dimostra una ulteriore smentita intrinseca delle teorie dietrologiche sul tiratore da destra. Il passaggio che ci interessa avviene al minuto 1,47, quando Azzolini sta ancora parlando del comportamento di Morucci. Il sonoro restituisce un nome, «è stato Moroni… a dire a …(inc.)…», nome che appare per la prima e unica volta in tutta l’intercettazione. La logica del discorso appena avviato e quanto verrà detto poco più avanti fanno intuire che la persona indicata per errore col nome di Moroni era, in realtà, Morucci. Intuibile è il riferimento alla sua testimonianza: «Va bene i compagni…… Gallo… e Fiore a un certo punto si inceppano… si inceppano… non c’avevano le pistole …(parole inc.) le pistole Dio can. Morucci cazzo… che era uno che sapeva usarlo… quando ha visto i compagni a terra ha cominciato a spazzolare anche dalle altre parti». «Gallo» era Prospero Gallinari, «Fiore», Raffaelle Fiore, membro della colonna torinese sceso per sostenere, insieme a Franco Bonisoli, i componenti romani della brigata della «Contro» che organizzarono il sequestro e presero parte all’assalto di via Fani. Azzolini, non c’era quel 16 marzo 1978, questo spiega alcune inesattezze presenti nel suo racconto: tutti i membri del commando avevano la loro pistola personale, sia Gallinari che Bonisoli la utilizzarono come hanno provato le stesse perizie balistiche.

La forzatura interpretativa
«Moroni» non corrisponde ad alcun nome presente nelle Brigate rosse. I carabinieri per risolvere l’enigma si sono abbandonati a una forzatura interpretativa decidendo di attribuirlo a Giorgio Moroni. Una scelta che ha una logica facilmente decifrabile e che nulla c’entra con via Fani. Con Giorgio Moroni i carabinieri di Dalla Chiesa, di cui i Ros sono l’attuale eredità info-investigativa, hanno avuto in passato un grosso contenzioso. Lo scrivono loro stessi in una nota a margine dell’informativa, dove spiegano che «Nel 1978, Moroni, allora militante di Autonomia Operaia, viene perquisito per il sequestro Moro e arrestato con l’accusa di partecipazione a banda armata poiché aveva in casa per la rivista che coordinava (“Nulla da perdere”) il comunicato di un gruppo armato che rivendicava un attentato dinamitardo alla Borsa valori […]». Assolto nel giugno del 1980, intraprende nel 1986 una controinchiesta che lo porta a rintracciare – prosegue la nota – la ragazza che aveva fatto i loro nomi e questa spiega di essere stata obbligata dai carabinieri ad accusarli. Moroni chiede «la revisione e la corte di appello di Genova la concede, il processo di revisione si svolge a Genova, tra il ’92 e il ’93. La revisione viene accolta e il 10 novembre 1994 Giorgio Moroni insieme agli altri viene risarcito per “errore giudiziario”».

Misnaming
L’errore commesso da Azzolini ha un nome preciso, gli studi di neuroscienze lo definiscono «misnaming». Ovvero confondere i nomi delle persone quando si parla. Si tratta di un fenomeno diffuso che non riguarda solo le persone anziane. Avviene soprattutto se c’è una similitudine fonetica o una medesima radice nelle parole, come «mor» nel caso di Morucci-Moroni. Le frasi troncate, a volte biascicate di Azzolini, necessitano di un particolare sforzo di comprensione logica e contestualizzazione storica che gli estensori dell’informativa hanno evitato. L’attore principale che agisce nel racconto è uno: Valerio Morucci. Giorgio Moroni, oltre a non essere mai stato un brigatista, è noto per aver sostenuto all’epoca tesi molto avverse alle Brigate rosse.

Le smentite
Abbiamo chiesto più volte ad Azzolini un chiarimento sulle sue parole. Allora, come oggi, preferisce non replicare pubblicamente e attenersi alla linea difensiva decisa dal suo avvocato, convinto che sia negativo commentare intercettazioni giudiziariamente illegali. Tuttavia se l’intercettazione non può essere utilizzata contro Azzolini nel processo, resta in piedi per i suoi interlocutori e le trascrizioni rimangono intatte nel fascicolo. Una finzione giuridica che non cambia la sostanza del problema e non impedisce di agire nella mente dei giudici. Situazione che vale ancor di più all’esterno dell’aula processuale: sui giornali e i social che l’hanno già ampiamente diffusa e commentata. E se una intercettazione oltre ad essere illegale possiede anche un contenuto infondato appare un crimine non confutarla. Forse è per questo che i gesti, la mimica e il tono della voce con cui Azzolini ci risponde, dicono lo stesso molte cose e si comprende chiaramente cosa pensi della strumentalizzazione che viene fatta delle sue parole. Ma se Azzolini è in qualche modo vincolato dalla sua posizione processuale, il suo interlocutore Antonio Savino smentisce categoricamente chi trova in quella intercettazione una rivelazione che non c’è. La conversazione su via Fani – spiega – è iniziata dopo aver commentato quanto era accaduto il giorno prima, quando: «un gruppo di giovani aveva organizzato eventi nelle campagne del Piemonte sul sequestro Moro, un centinaio di partecipanti che si erano divisi a metà tra guardie e ladri». Savino stigmatizza inoltre che «si voglia a tutti i costi tirare in ballo persone che (come hanno testimoniato anche i pentiti) nulla hanno a che fare con via Fani. Parlo di “Moroni” in guisa di “Morucci”. Purtroppo la scarsa professionalità, il protagonismo, rischiano di coinvolgere innocenti in procedimenti che come minimo risultano dispendiosi per il coinvolto ingiustamente».

Lo strascico giudiziario

La vicenda ha avuto anche un seguito giudiziario. Giorgio Moroni ha citato in giudizio l’autrice dell’articolo apparso sul Fatto quotidiano il 14 marzo del 2024, a giugno si aprirà il processo (qui gli sviluppi della vicenda). Chi si occupa di inchieste giudiziarie sa benissimo che le trascrizioni di intercettazioni vanno prese con molta cautela invece di limitarsi a ricalcare le veline ricevute da mano amica senza gli opportuni approfondimenti. Per altro se la stessa procura di Torino non ha inviato nulla a quella romana, qualche dubbio sulla fondatezza di quel nome deve esserci stato tra gli inquirenti. La presunta rivelazione è stata invece ripresa dall’avvocato Walter Biscotti che il 16 marzo scorso, in occasione del quarantasettesimo anniversario dal rapimento Moro, ha annunciato di voler chiedere alla procura di Roma di effettuare verifiche sul contenuto della intercettazione. L’avvocato Biscotti è stato estromesso dal nuovo processo di Alessandria perché l’associazione vittimaria da lui rappresentata non possedeva i titoli legali per potervi partecipare, poiché costituita solo dopo i fatti oggetto del giudizio. Messo fuori dalla porta principale sta cercando di rientrarvi cavalcando bufale mediatiche.

Sequestro Moro, dopo 47 anni continua ancora la caccia ai fantasmi

Pochi sanno che per il sequestro e l’esecuzione di Aldo Moro e dei cinque uomini della scorta sono state condannate 27 persone. La martellante propaganda complottista sulla permanenza di «misteri», «zone oscure», «verità negate», «patti di omertà», ha offuscato questo dato. Il sistema giudiziario ha concluso ben 5 inchieste e condotto a sentenza definitiva 4 processi. Oggi sappiamo, grazie alla critica storica, che solo 16 di queste 27 persone erano realmente coinvolte, a vario titolo, nel sequestro. Una fu assolta, perché all’epoca dei giudizi mancarono le conferme della sua partecipazione, ma venne comunque condannata all’ergastolo per altri fatti. Tutte le altre, ben 11 persone, non hanno partecipato né sapevano del sequestro. Due di loro addirittura non hanno mai messo piede a Roma. Il grosso delle condanne giunse nel primo processo Moro che riuniva le inchieste «Moro uno e bis». In Corte d’assise, il 24 gennaio 1983, il presidente Severino Santiapichi tra i 32 ergastoli pronunciati comminò 23 condanne per il coinvolgimento diretto nel rapimento Moro. Sanzioni confermate dalla Cassazione il 14 novembre 1985. Il 12 ottobre 1988 si concluse il secondo maxiprocesso alla colonna romana, denominato «Moro ter», con 153 condanne complessive, per un totale di 26 ergastoli, 1800 anni di reclusione e 20 assoluzioni. Il giudizio riguardava le azioni realizzate dal 1977 al 1982. Fu in questa circostanza che venne inflitta la ventiquattresima condanna per la partecipazione al sequestro, pronunciata contro Alessio Casimirri: sanzione confermata in via definitiva dalla Cassazione nel maggio del 1993. Le ultime tre condanne furono attribuite nel «Moro quater» (dicembre 1994, confermata dalla Cassazione nel 1997), dove vennero affrontate alcune vicende minori stralciate dal «Moro ter» e la partecipazione di Alvaro Loiacono all’azione di via Fani, e nel «Moro quinques», il cui iter si concluse nel 1999 con la condanna di Germano Maccari, che aveva gestito la prigione di Moro, e Raimondo Etro che aveva partecipato alle verifiche iniziali sulle abitudini del leader democristiano.Tra i 15 condannati che ebbero un ruolo nella vicenda – accertato anche storicamente – c’erano i 4 membri dell’Esecutivo nazionale che aveva gestito politicamente l’intera operazione: Mario Moretti, Franco Bonisoli, Lauro Azzolini e Rocco Micaletto; i primi due presenti in via Fani il 16 marzo. Furono poi condannati i membri dell’intero Esecutivo della colonna romana e la brigata che si occupava di colpire i settori della cosiddetta «controrivoluzione» (apparati dello Stato, obiettivi economici e politico-istituzionali): Prospero Gallinari, Barbara Balzerani, Bruno Seghetti, Valerio Morucci, tutti presenti in via Fani. Gallinari era anche nella base di via Montalcini. Adriana Faranda, che aveva preso parte alla fase organizzativa e il già citato Raimono Etro, che dopo un coinvolgimento iniziale venne estromesso. C’erano poi Raffaele Fiore, membro del Fronte logistico nazionale, sceso da Torino a dar man forte, Alessio Casimirri e Alvaro Loiacono, due irregolari (non clandestini) che parteciparono all’azione con un ruolo di copertura e Anna Laura Braghetti, prestanome dell’appartamento di via Montalcini. Era presente anche Rita Algranati, la ragazza col mazzo di fiori che si allontanò appena avvistato il convoglio di Moro e sfuggì alla condanna per il ruolo defilato avuto nell’azione.Tra gli 11 che non parteciparono al sequestro, ma furono comunque condannati, c’erano i membri della brigata universitaria: Antonio Savasta, Caterina Piunti, Emilia Libèra, Massimo Cianfanelli e Teodoro Spadaccini. I cinque avevano partecipato alla prima «inchiesta perlustrativa» condotta all’interno dell’università dove Moro insegnava. Appena i dirigenti della colonna si resero conto che non era pensabile agire all’interno dell’ateneo, i membri della brigata furono estromessi dal seguito della vicenda. La preparazione del sequestro subì ulteriori passaggi prima di prendere forma e divenire esecutiva. In altri processi la partecipazione all‘attività informativa su potenziali obiettivi, quando non era direttamente collegata alla fase esecutiva, veniva ritenuta un’attività che comprovava responsabilità organizzative all’interno del reato associativo, nel processo Moro venne invece ritenuta un forma di complicità morale nel sequestro. Furono condannati anche Enrico Triaca, Gabriella Mariani e Antonio Marini, membri della brigata che si occupava della propaganda e che gestiva la tipografia di via Pio Foà e la base di via Palombini, dove era stata battuta a macchina e stampata la risoluzione strategica del febbraio 1978. Tutti e tre all’oscuro del progetto di sequestro. Furono condannati anche due membri della brigata logistica della capitale, Francesco Piccioni e Giulio Cacciotti: il primo aveva preso parte, nel mese di aprile 1978, a un’azione dimostrativa contro la caserma Talamo da dove era fuggito insieme agli altri tre suoi compagni, con la Renault 4 rosso amaranto che il 9 maggio venne ritrovata in via Caetani con il cadavere di Moro nel bagagliaio. Gli ultimi due condannati furono Luca Nicolotti e Cristoforo Piancone, membri della colonna torinese mai scesi a Roma ma coinvolti – secondo le sentenze – perché avevano funzioni apicali in strutture nazionali delle Br, come il Fronte delle controrivoluzione.
Tra i 27 condannati, 25 furono ritenuti colpevoli anche del tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini, il testimone di via Fani che dichiarò di essere stato raggiunto da colpi di arma da fuoco sparati da due motociclisti a bordo di una Honda. Spari che avrebbero distrutto il parabrezza del suo motorino. Marini ha cambiato versione per 12 volte nel corso delle inchieste e dei processi. Studi storici hanno recentemente accertato che ha sempre dichiarato il falso. In un verbale del 1994 – da me ritrovato negli archivi – ammetteva che il parabrezza si era rotto a causa di una caduta del motorino nei giorni precedenti il 16 marzo. La polizia scientifica ha recentemente confermato che non sono mai stati esplosi colpi verso Marini. Queste nuove acquisizioni storiche non hanno tuttavia spinto la giustizia ad avviare le procedure per una correzione della sentenza. Al contrario in Procura sono attualmente aperti nuovi filoni d’indagine, ereditati dalle attività della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Fioroni, per identificare altre persone che avrebbero preso parte al sequestro: i due fantomatici motociclisti, un ipotetico passeggero seduto accanto a Moretti nella Fiat 128 giardinetta che bloccò il convoglio di Moro all’incrocio con via Stresa, eventuali prestanome affittuari di garage o appartamenti situati nella zona dove vennero abbandonate le tre macchine utilizzate dai brigatisti in via Fani. Si cercano ancora 4, forse 5, colpevoli cui attribuire altri ergastoli. Non contenta di aver condannato 11 persone estranee al sequestro, la giustizia prosegue la sua caccia ai fantasmi di un passato che non passa.

Sequestro Moro, nuovi testimoni per vecchie bugie – prima puntata

Foto Istituto Luce

C’è una figura che da diversi anni a questa parte riaccende l’attenzione pubblica sui cosiddetti «misteri irrisolti» o sulle presunte «nuove verità» che periodicamente riemergono sul sequestro e l’uccisione del leader della Democrazia cristiana Aldo Moro, avvenuto nel lontano 1978. Si tratta di un particolare tipo di fonte che agita da tempo il dibattito storiografico: il testimone. Non c’è qui lo spazio per introdurre la necessaria distinzione tra colui che è stato attore del fatto e il semplice spettatore, il più delle volte di un singolo momento, di una semplice frazione di quella vicenda. Ci interessa ora solo rilevare l’inevitabile carica suggestiva che la parola del testimone contiene, la forza emotiva che il suo racconto trasferisce sui fatti accaduti, poiché il testimone si presume sia colui che ha vissuto il fatto e raccontandolo lo fa rivivere. Gli storici, ma anche i poliziotti come i giudici, sanno bene quanto si debba trattare questo tipo di fonte con estrema cautela, con gli strumenti più sperimentati del mestiere, tanto più se il nuovo testimone appare, come in questo caso, a decenni di distanza dai fatti o se autori di vecchie testimonianze modificano o arricchiscono di improvvisi – e soprattutto sollecitati – ricordi le loro lontane dichiarazioni. Chi lavora con la memoria sa bene che la sincerità del ricordo non è garanzia di veridicità.

Nuovi testimoni e vecchie bugie
E’ questa una delle caratteristiche più recenti del «caso Moro». Durante i lavori della commissione parlamentare presieduta dal Giuseppe Fioroni si sono cercati in maniera spasmodica nuovi testimoni, in alcuni casi semplici replicanti di racconti fatti da persone nel frattempo scomparse. Un caso emblematico è rappresentato dalla vicenda delle palazzine di via dei Massimi 91, ritenute secondo alcune teorie complottiste un luogo dove fecero tappa i brigatisti con l’ostaggio (addirittura prima possibile prima prigione di Moro), avvalendosi di complicità di matrice atlantica che in quel condominio avrebbero trovato una loro postazione. In questo caso nuovi testimoni, i figli del portiere dell’immobile, Benedetto e Antonino Macerola, hanno riferito confidenze ricevute dal padre defunto che a sua volta le aveva riprese da un’altra persona, il generale del Genio Renato D’Ascia, condomino in una delle palazzine, anch’essa non più di questo mondo.
 Voci, tecnicamente dei de relato di secondo grado non verificabili, in quanto le fonti originarie sono scomparse, sufficienti secondo le relazioni della commissione Moro 2 e l’ex magistrato Guido Salvini, estensore di una relazione sul sequestro Moro per conto della commissione antimafia, sezione VII, nella scorsa legislatura, per sostenere che Moro non sarebbe stato condotto in via Montalcini e il commando brigatista non avrebbe raccontato la verità sui suoi reali movimenti dopo l’assalto di via Fani.

Altri neotestimoni, come l’attore Francesco Pannofino e i giornalisti Rai Diego Cimarra e Alessandro Bianchi, hanno provato a modificare la scena di via Fani, dove avvenne il rapimento del presidente della Dc e l’uccisione dei membri della sua scorta, sostenendo che il bar Olivetti, situato all’angolo della scena dell’agguato e dalla cui terrazza esterna partirono all’assalto i membri del commando brigatista, fosse aperto quella mattina. Per Pannofino era in attività ma chiuso quel giorno per riposo settimanale. Cimarra e Bianchi si sono abbandonati invece in dettagliatissime descrizioni dei baristi e clienti presenti all’interno del locale, tra cui uomini in divisa con l’immancabile accento tedesco nonostante l’esercizio commerciale fosse abbandonato da tempo perché fallito, avesse le serrande tirate giù, i dipendenti licenziati, i contratti della luce chiusi e i libri contabili depositati in tribunale di commercio, come hanno sempre dimostrato i rilievi documentali nonché le innumerevoli immagini riprese quella mattina.

Sostenere con tanta ostinazione che quel bar fosse aperto serviva a dimostrare che i brigatisti avevano per l’ennesima volta mentito, coperti da un patto di omertà con quelle autorità politiche e istituzionali anch’esse coinvolte nella eliminazione dello statista democristiano.

Altri ancora, come la signora Cristina Damiani e Luca Moschini, hanno arricchito le loro precedenti dichiarazioni aumentando il numero dei partecipanti all’agguato, aggiungendo nuovi sparatori e percorsi di fuga a piedi (cf. la relazione scritta dall’ex magistrato Guido Salvini per conto della commissione antimafia), che non trovano conferma nelle deposizioni dei numerosi altri testimoni presenti sulla scena.
«La persona informata sui fatti – ha scritto recentemente il giurista Glauco Giostra – non è una semplice res loquens». La rievocazione di un ricordo è inevitabilmente influenzato dal contesto in cui si produce. La memoria non è una sorta di reperto archeologico che giace, inerte, nello scantinato del passato e che il testimone deve soltanto ritrovare. «Il ricordo è materia viva, deteriorabile e plasmabile [..] Un falso ricordo – conclude Giostra – viene sovente indotto da certe ricostruzioni mediatiche».

La commissione d’inchiesta “privata” del giudice Salvini sul sequestro Moro

E’ stata diffusa ieri la relazione della commissione antimafia sul sequestro Moro. Consulente il giudice Guido Salvini. Un’orgia di dietrologia

E’ stata resa pubblica la relazione prodotta nella scorsa legislatura dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali, anche straniere, «sulla eventuale presenza di terze forze, riferibili ad organizzazioni criminali, nel compimento dell’eccidio di via Fani». A conclusione della legislatura la relazione non era ancora pronta, anche se alcune indiscrezioni erano filtrate verso giornalisti amici che ne avevano subito diffuso una velina il 6 maggio 2022 e le bozze preparatorie erano state sintetizzate nel settembre successivo (senza turbare minimamente la magistratura), sempre su The post internationale.

Una commissione omnibus
Presieduta dal 5stelle Nicola Morra, la commissione aveva suddiviso le sue attività d’inchiesta in 24 sezioni che si sono occupate degli argomenti più disparati, molti dei quali distanti anni luce dalle vicende mafiose o di criminalità organizzata: la morte del ciclista Marco Pantani, il massacro di due minori a Ponticelli nel 1983, l’omicidio di Simonetta Cesaroni in via Poma a Roma, i delitti del mostro di Firenze, la morte di Pasolini. Fatti di cronaca nera in parte rimasti irrisolti. Sulle attività mafiose invece si è lavorato sulla strage di via dei Georgofili, le infiltrazioni negli enti locali, massoneria, usura, strage di Alcamo marina, presenza e cultura mafiosa nelle università e nell’informazione. Infine, ciliegina sulla torta, non poteva mancare – come si è visto – via Fani e il rapimento Moro. Insomma una commissione omnibus, aperta a tutte le vicende giudiziarie e non, una sorta di supplemento politico dell’attività investigativa delle forze di polizia e della magistratura. Non solo, ma con ampio utilizzo discrezionale, quasi personale, dello strumento d’inchiesta, che sembra essere sfuggito al mandato e al controllo parlamentare.

Una indagine doppione
Nel caso della relazione sui fatti di via Fani appare evidente l’entrata a gamba tesa sulle inchieste in corso condotte della Procura della repubblica e dalla Procura generale di Roma che hanno ereditato dalla precedente Commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni, alcuni filoni d’indagine sulla vicenda Moro. Un doppione d’indagine che sembra quasi voler imporre la “giusta linea politica” all’inchiesta condotta dalla magistratura capitolina. Non solo, emergono ulteriori criticità sulla competenza territoriale: basti pensare al coinvolgimento come consulente del magistrato Guido Salvini, già collaboratore della precedente commissione Moro 2. Insoddisfatto del lavoro svolto nella precedente commissione – senza successo è bene sottolineare – Salvini si è ritrovato tra le mani una commissione tutta per sé, dando sfogo alla propria irrisolta libidine complottista che tormenta la sua esistenza. Questo magistrato, che svolge le proprie funzioni giudiziarie come Gip al settimo piano del tribunale di Milano, in questo modo è riuscito a dotarsi di una competenza sull’intero territorio nazionale per svolgere indagini, interrogatori e altro, senza possedere le dovute conoscenze e competenze sulla materia, e si vede dal risultato dei lavori. Un vero aggiramento politico delle norme e delle procedure giustificato da una sorta di stato d’eccezione complottista perseguito con fanatica voracità.

Il supermercato dei testimomi
A suscitare imbarazzo sono anche i metodi di indagine e le risorse impiegate: per esempio il tentativo di pilotare il ricordo di alcuni testimoni, trascelti perché ritenuti più comodi: tra questi Cristina Damiani che crede di vedere sei persone armate sulla scena, oltre all’agente Iozzino sceso dall’Alfetta di scorta, o ancora il ripescaggio dell’eterno ingegner Marini, uno che è riuscito a raccontare più bugie di Saviano, ricordatevi la storia del parabrezza del suo motorino. O ancora Luca Moschini che parla di una motocicletta vista prima dell’agguato cavalcata da uno dei quattro brigatisti in divisa da stewart dell’Alitalia, in contrasto con le dichiarazioni di tutti gli altri testimoni e con la moto descritta ad azione conclusa da altri due testi, Marini e Intrevado. Insomma la regola è quella del supermercato: mi scelgo i testi che meglio aggradano la mia teoria e ignoro quelli che la smentiscono e così diventa più facile far spuntare la presenza di un quinto sparatore in abiti civili, fuggito a piedi e in direzione opposta agli altri, nonostante sulla scena manchino i bossoli della sua arma, che poi sono l’unico dato obiettivo, e la sua fuga con un’arma lunga in mano (una canna di almeno 30 cm) non sia stata intercettata da nessun altro testimone che era sullo stesso lato del marciapiede nella parte alta di via Fani. E come si sarebbe allontanato dal luogo questo individuo, se non era salito in nessuna delle tre macchine del commando brigatista? Attendendo un mezzo pubblico ad una fermata dell’autobus di via Trionfale con un mitra in mano mentre vetture della polizia confluivano sul posto e l’intero quartiere si riversava in strada? Infine ci sono i soliti Pecorelli, De Vuono, Nirta, i calabresi, l’anello, persino lo stragista fascista Vinciguerra, uno dei cocchi adorati del giudice Salvini che non esita a metterlo dappertutto come il prezzemolo. Una specie di festival canoro di vecchie glorie del complottismo. Mentre chi c’era, i brigatisti, sono sempre dei bugiardi buoni a prendersi solo raffiche di ergastoli.

Il club dei dietrologi digitali
Ancora più problematico appare il ricorso ad alcune «consulenze esterne» del tutto prive di valenza scientifica: amichetti del quartierino complottista, dietrologi digitali, giornaliste da velina, amici della domenica che si dilettano del caso Moro come fosse un gioco di società. Insomma un circo Barnum, roba da avanspettacolo, un vero specchio del livello infimo della politica e delle istituzioni parlamentari attuali.

Se non sei complottista sei ancora un brigatista
Scorrendo le pagine della relazione ho scoperto persino di esser citato, il che devo dire mi suscita solo vergogna. A pagina 37 si richiama il mio ultimo libro, La polizia della storia, La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro (Deriveaprodi 2021). Nel testo mi si attribuisce l’appartenenza alle Brigate rosse che rapirono Moro, di cui parlerei come un conoscitore interno, «facendo mostra di un’adesione ancora attuale al pensiero brigatista». Il 16 marzo 1978 non avevo ancora compiuto 16 anni, ero un ginnasiale e mi trovavo nel mio liceo “sgarrupato” di via Bonaventura Cerretti, quartiere Aurelio di Roma. Era un magazzino di un palazzo sotto il livello stradale, buio, alcune aule piene di scritte del ’77 e dei bagni da dove uscivano i topi. Non c’era altro. Mancavano laboratori, aula magna, palestra. Non era una scuola ma un cesso di periferia. L’avevamo occupato e facevamo autogestione. Eravamo a due passi da Valle Aurelia e il convoglio che portava Moro verso la prigione di via Montalcini al Portuense transitò a due passi da lì, in via Baldo degli Ubaldi. Per parlare della mia esperienza in una delle ultime branche che si separarono da quel che restava delle Brigate rosse, a loro volta figlie della scissione in tre tronconi dei primi anni 80, bisogna attendere ancora otto anni. Altri tempi, altre storie.

Il secondo furgone e le parole ignorate di Moretti
Gli estensori mi citano per la presenza il giorno del sequestro di un secondo furgone, un Fiat 238 di colore chiaro, tenuto di riserva e parcheggiato lungo la via di fuga nella zona di Valle Aurelia. Mezzo da impiegare per un eventuale secondo trasbordo dell’ostaggio ma poi inutilizzato e spostato da uno dei brigatisti che parteciparono all’azione di via Fani. Di questa circostanza parlammo già nel libro uscito nel 2017, Brigate rosse, dalle fabbriche alla campagna di primavera (Deriveapprodi). Ne La Polizia della storia ho solo aggiunto il nome di chi realizzò quello spostamento. Aggiungono gli autori della relazione che «la circostanza della suo mancato utilizzo proviene solo, e anche in forma impersonale, dal racconto dei brigatisti in contatto con Persichetti», ciò – proseguono ancora gli esponenti della commissione – «E’ esempio, come in altri casi, di una logica di verità a rate».
A questo punto sarebbe il caso di sottolineare che a rate c’è solo il cervello a fette dei dietrologi, perché del secondo mezzo aveva parlato Mario Moretti nel libro con Rossanda e Mosca nel lontano 1994, «Oltrepassiamo senza fermarci il luogo dove avevamo messo una macchina per un cambio di emergenza qualora non fosse riuscita la prima operazione di trasbordo: è pericolosissima l’eventualità che sia stato notato il furgone col quale ci avviciniamo alla base, perché una segnalazione anche a distanza di giorni consentirebbe di circoscrivere la zona in cui ci troviamo. Ma non è necessario cambiare macchina», (Mario Moretti, Brigate rosse, una storia italiana, Anabasi 1994, p. 131).
Punto.

Il rapimento Moro e l’uso pubblico della storia

Una recensione a La polizia della storia di Anna Di Gianantonio apparsa su http://www.pulplibri.it – L’uso politico della memoria serve dunque a dimostrare che nessuna strategia, nessuna organizzazione, nessuna motivazione politica che nasce dal basso può esprimersi senza essere manipolata e resa inefficace dalla presenza dei poteri dello Stato. In questo modo gli anni Settanta sono diventati anni di piombo da cui siamo usciti grazie all’azione determinata della politica della fermezza e della difesa della legalità (Paolo Persichetti, La polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, Derive Approdi, pp. 240)

Anna Di Gianantonio 15 luglio 2022
https://www.pulplibri.it/paolo-persichetti-la-dietrologia-sul-caso-moro-e-le-domande-a-cui-non-ce-risposta/

Il libro di Paolo Persichetti spiega il disagio di chi, appassionato alle vicende degli anni Sessanta e Settanta, legge i numerosi lavori usciti recentemente – grazie alla desecretazione delle carte decisa dal governo Renzi – sulla cosiddetta “strategia della tensione” e osserva che molte pubblicazioni, invece di chiarire, talvolta complicano il contesto. Per quanto riguarda le stragi di Ordine Nuovo si conoscono i nomi degli esecutori, ma su quelli dei mandanti vi sono molte e diverse ipotesi. Con il passare del tempo e con la produzione di inchieste televisive, film e nuove ricerche, il lettore ha la sensazione di trovarsi alle prese non tanto con pubblicazioni che, utilizzando fonti inedite, si avvicinano alla verità, ma utilizzando generi letterari simili alle spy-story o ai noir.

Per le Brigate Rosse il quadro è ancora più complesso: in un intreccio di fake news, luoghi comuni e veri e propri falsi storici. Il libro di Persichetti è un accurato e complesso smontaggio delle false notizie sul delitto Moro, che si basa sul suo lungo lavoro di ricerca e su quello di una nuova generazione di storici – tra cui Marco Clementi e Elena Santalena con cui ha scritto il primo volume sulla storia delle BR – che intende analizzare gli anni Settanta con gli strumenti della storia, senza sensazionalismi e false piste. Nel testo l’autore fa nomi e cognomi di famosi autori che sulla vicenda del sequestro e della morte di Moro hanno creato una vera e propria fortuna editoriale, alimentando false ipotesi e complottismi.

Di tutte le complesse questioni della vicenda Moro è impossibile fare una sintesi: è necessario leggere le carte e le prove che porta l’autore. Persichetti rovescia innanzitutto l’immagine di Moro traghettatore illuminato che voleva portare i comunisti al governo, illustrando i colloqui che lo statista ebbe con l’ambasciatore americano Richard Gardner. In quelle occasioni fu proprio Moro, spaventato dal consenso del PCI e convinto che le Brigate Rosse destabilizzassero il paese favorendo i comunisti, a chiedere  all’ambasciatore una maggiore attenzione e un attivismo statunitense in Italia. Per rassicurare il diplomatico, Moro garantì che nel nuovo governo Andreotti non ci sarebbe stato alcun ministro di sinistra, smentendo clamorosamente le assicurazioni che erano state fatte al PCI e che riguardavano la presenza di almeno tecnici di area nel nuovo esecutivo.

La scelta di Moro di depennarli dagli incarichi fu contestata dallo stesso futuro presidente del consiglio Andreotti e dal segretario nazionale Zaccagnini che si dimise dalla carica. Il PCI, furioso per la decisione, votò la fiducia solo dopo la notizia del rapimento dello statista. Dunque Moro non fu affatto l’uomo del compromesso storico o delle larghe intese, come fu rappresentato post mortem, quando lo si descrisse come lungimirante antesignano di politiche inclusive mentre durante la prigionia venne considerato incapace di formulare pensieri autonomi.

Altro luogo comune diffuso ancor oggi è la “leggenda nera” su Mario Moretti, considerato una personalità ambigua e legata in qualche modo ai servizi. Moretti sta scontando il quarantaduesimo anno di esecuzione di pena e dunque difficilmente può essere considerato un uomo al servizio dello Stato. I sospetti su di lui vennero diffusi da Alberto Franceschini e Giorgio Semeria, smentiti da indagini interne che rivelarono l’inattendibilità delle accuse, ugualmente utilizzate da ricercatori come Sergio Flamigni che sulla figura di Moretti e sui suoi presunti legami con i poteri forti ha costruito la sua fortuna politica ed editoriale.

La dietrologia sul caso Moro si è esercitata sulla presenza in via Fani di altri soggetti, in particolare su due motociclisti in sella a una Honda, visti sulla scena del rapimento dal testimone Alessandro Marini. I motociclisti scatenarono mille ipotesi sulla loro presunta identità di uomini dei servizi, killer professionisti o agenti di servizi esteri, dando luogo a nuove pubblicazioni. Fu il lungo e minuzioso lavoro storico di Gianremo Armeni nel saggio Questi fantasmi. Il primo mistero del caso Moro che mise in luce in luce l’inattendibilità della testimonianza. In via Fani c’erano solamente le dieci persone indicate nei processi come responsabili del sequestro e dell’uccisione della scorta, tutte appartenenti alle Brigate Rosse.

Con una nutrita serie di documenti e di analisi Persichetti denuncia anche le incongruenze della seconda commissione Moro, istituita nel maggio del 2014 con la presidenza di Giuseppe Fioroni. Pur utilizzando tecniche di indagine nuove, come l’analisi del DNA e le ricostruzioni laser della scena del delitto, non si è giunti a nuove conclusioni.

Persichetti sostiene dunque che:

Cinque anni di processi, decine e decine di ergastoli erogati insieme a centinaia di anni di carcere, due commissioni parlamentari, le testimonianze dei protagonisti, alcuni importanti lavori storici, non hanno scalfito l’ossessione cospirativa e il pregiudizio storiografico che da oltre tre decenni alligna sul sequestro Moro e l’intera storia della lotta armata per il comunismo...

Qual’è il pregiudizio storiografico cui l’autore fa riferimento? Molto semplicemente l’idea che un gruppo armato abbia potuto, senza aiuti esterni, compiere un’azione di quel tipo mentre la lettura “politica” di quegli anni vuole dimostrare che dietro le lotte di massa degli anni Sessanta e Settanta c’erano strategie di potere orchestrate da forze occulte legate allo Stato, ai servizi segreti, a dinamiche internazionali.

L’uso politico della memoria serve dunque a dimostrare che nessuna strategia, nessuna organizzazione, nessuna motivazione politica che nasce dal basso può esprimersi senza essere manipolata e resa inefficace dalla presenza dei poteri dello Stato. In questo modo gli anni Settanta sono diventati anni di piombo da cui siamo usciti grazie all’azione determinata della politica della fermezza e della difesa della legalità.

Secondo Persichetti quali domande sarebbe lecito invece porsi sul caso Moro? Innanzitutto andrebbe fatta un riflessione sull’uso della tortura sui detenuti e sulle detenute delle BR ad opera del funzionario dell’UCIGOS Nicola Ciocia, chiamato professor De Tormentis, che applicò sui prigionieri, soprattutto sulle donne, azioni violente ed umilianti per costringerli a parlare, pur in presenza di una legislazione speciale che consentiva abbondanti sconti di pena a pentiti, collaboratori di giustizia, dissociati. Inoltre: perché la linea della fermezza fu mantenuta sino all’esito tragico della morte di Aldo Moro? Perché i due partiti di massa, DC e PCI, non intervennero per la sua salvezza, nonostante le BR si accontentassero di un riconoscimento della natura politica della loro azione? Perché Fanfani, che doveva pronunciare un discorso di minima apertura e riconoscimento, non parlò, tradendo l’impegno preso con il PSI che si adoperava per una trattativa?

Due ultime considerazioni. L’archivio di Paolo Persichetti, sequestrato l’8 giugno 2021 da agenti della Digos con accuse pretestuose deve essere  restituito al legittimo proprietario. Persichetti ha scontato la sua pena ed è l’unico a poter raccogliere testimonianze dei protagonisti di quegli anni avendo gli strumenti per ragionarci sopra. Non può esistere in Italia un organismo di “polizia di prevenzione” che intervenga sulla ricerca storica per orientarla in direzioni prestabilite. Scandaloso è il fatto che pochi intellettuali si siano mossi a difesa della libertà della ricerca storica, minacciata non solo per quanto riguarda gli anni Settanta. Si pensi alla criminalizzazione degli studiosi delle foibe, passibili del reato di negazionismo.

Infine un’osservazione. È doverosa la ricostruzione storica ma è necessaria anche una riflessione politica su quegli anni. Leggendo il volume, alcune figure di brigatisti come Franceschini emergono per la loro inadeguatezza politica e umana. A mio avviso il terreno autobiografico e psicologico non è un elemento secondario nel fare un bilancio di una fase storica. Inoltre vi sono stati degli errori: innanzitutto, come afferma l’autore, l’aver pensato che il rapimento avrebbe causato contraddizioni forti tra base e dirigenti del PCI riguardo al compromesso storico, contraddizioni che  vennero ridimensionate anche a causa del rapimento. L’uccisione di Guido Rossa nel 1979 non fece che rafforzare la condanna contro le azioni armate e prosciugare quella zona grigia che non si schierava con lo Stato. Sulla questione delle ragioni del consenso e sul tema della violenza sarebbe necessaria una discussione molto articolata.

Sequestro Moro, dopo 44 anni continua ancora la caccia ai fantasmi

Pochi sanno che per il sequestro e l’esecuzione di Aldo Moro e dei cinque uomini della scorta sono state condannate 27 persone. La martellante propaganda complottista sulla permanenza di «misteri», «zone oscure», «verità negate», «patti di omertà», ha offuscato questo dato. Il sistema giudiziario ha concluso ben 5 inchieste e condotto a sentenza definitiva 4 processi. Oggi sappiamo, grazie alla critica storica, che solo 16 di queste 27 persone erano realmente coinvolte, a vario titolo, nel sequestro. Una fu assolta, perché all’epoca dei giudizi mancarono le conferme della sua partecipazione, ma venne comunque condannata all’ergastolo per altri fatti. Tutte le altre, ben 11 persone, non hanno partecipato né sapevano del sequestro. Due di loro addirittura non hanno mai messo piede a Roma. Il grosso delle condanne giunse nel primo processo Moro che riuniva le inchieste «Moro uno e bis». In Corte d’assise, il 24 gennaio 1983, il presidente Severino Santiapichi tra i 32 ergastoli pronunciati comminò 23 condanne per il coinvolgimento diretto nel rapimento Moro. Sanzioni confermate dalla Cassazione il 14 novembre 1985. Il 12 ottobre 1988 si concluse il secondo maxiprocesso alla colonna romana, denominato «Moro ter», con 153 condanne complessive, per un totale di 26 ergastoli, 1800 anni di reclusione e 20 assoluzioni. Il giudizio riguardava le azioni realizzate dal 1977 al 1982. Fu in questa circostanza che venne inflitta la ventiquattresima condanna per la partecipazione al sequestro, pronunciata contro Alessio Casimirri: sanzione confermata in via definitiva dalla Cassazione nel maggio del 1993. Le ultime tre condanne furono attribuite nel «Moro quater» (dicembre 1994, confermata dalla Cassazione nel 1997), dove vennero affrontate alcune vicende minori stralciate dal «Moro ter» e la partecipazione di Alvaro Loiacono all’azione di via Fani, e nel «Moro quinques», il cui iter si concluse nel 1999 con la condanna di Germano Maccari, che aveva gestito la prigione di Moro, e Raimondo Etro che aveva partecipato alle verifiche iniziali sulle abitudini del leader democristiano.Tra i 15 condannati che ebbero un ruolo nella vicenda – accertato anche storicamente – c’erano i 4 membri dell’Esecutivo nazionale che aveva gestito politicamente l’intera operazione: Mario Moretti, Franco Bonisoli, Lauro Azzolini e Rocco Micaletto; i primi due presenti in via Fani il 16 marzo. Furono poi condannati i membri dell’intero Esecutivo della colonna romana e la brigata che si occupava di colpire i settori della cosiddetta «controrivoluzione» (apparati dello Stato, obiettivi economici e politico-istituzionali): Prospero Gallinari, Barbara Balzerani, Bruno Seghetti, Valerio Morucci, tutti presenti in via Fani. Gallinari era anche nella base di via Montalcini. Adriana Faranda, che aveva preso parte alla fase organizzativa e il già citato Raimono Etro, che dopo un coinvolgimento iniziale venne estromesso. C’erano poi Raffaele Fiore, membro del Fronte logistico nazionale, sceso da Torino a dar man forte, Alessio Casimirri e Alvaro Loiacono, due irregolari (non clandestini) che parteciparono all’azione con un ruolo di copertura e Anna Laura Braghetti, prestanome dell’appartamento di via Montalcini. Era presente anche Rita Algranati, la ragazza col mazzo di fiori che si allontanò appena avvistato il convoglio di Moro e sfuggì alla condanna per il ruolo defilato avuto nell’azione.Tra gli 11 che non parteciparono al sequestro, ma furono comunque condannati, c’erano i membri della brigata universitaria: Antonio Savasta, Caterina Piunti, Emilia Libèra, Massimo Cianfanelli e Teodoro Spadaccini. I cinque avevano partecipato alla prima «inchiesta perlustrativa» condotta all’interno dell’università dove Moro insegnava. Appena i dirigenti della colonna si resero conto che non era pensabile agire all’interno dell’ateneo, i membri della brigata furono estromessi dal seguito della vicenda. La preparazione del sequestro subì ulteriori passaggi prima di prendere forma e divenire esecutiva. In altri processi la partecipazione all‘attività informativa su potenziali obiettivi, quando non era direttamente collegata alla fase esecutiva, veniva ritenuta un’attività che comprovava responsabilità organizzative all’interno del reato associativo, nel processo Moro venne invece ritenuta un forma di complicità morale nel sequestro. Furono condannati anche Enrico Triaca, Gabriella Mariani e Antonio Marini, membri della brigata che si occupava della propaganda e che gestiva la tipografia di via Pio Foà e la base di via Palombini, dove era stata battuta a macchina e stampata la risoluzione strategica del febbraio 1978. Tutti e tre all’oscuro del progetto di sequestro. Furono condannati anche due membri della brigata logistica della capitale, Francesco Piccioni e Giulio Cacciotti: il primo aveva preso parte, nel mese di aprile 1978, a un’azione dimostrativa contro la caserma Talamo da dove era fuggito insieme agli altri tre suoi compagni, con la Renault 4 rosso amaranto che il 9 maggio venne ritrovata in via Caetani con il cadavere di Moro nel bagagliaio. Gli ultimi due condannati furono Luca Nicolotti e Cristoforo Piancone, membri della colonna torinese mai scesi a Roma ma coinvolti – secondo le sentenze – perché avevano funzioni apicali in strutture nazionali delle Br, come il Fronte delle controrivoluzione.
Tra i 27 condannati, 25 furono ritenuti colpevoli anche del tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini, il testimone di via Fani che dichiarò di essere stato raggiunto da colpi di arma da fuoco sparati da due motociclisti a bordo di una Honda. Spari che avrebbero distrutto il parabrezza del suo motorino. Marini ha cambiato versione per 12 volte nel corso delle inchieste e dei processi. Studi storici hanno recentemente accertato che ha sempre dichiarato il falso. In un verbale del 1994 – da me ritrovato negli archivi – ammetteva che il parabrezza si era rotto a causa di una caduta del motorino nei giorni precedenti il 16 marzo. La polizia scientifica ha recentemente confermato che non sono mai stati esplosi colpi verso Marini. Queste nuove acquisizioni storiche non hanno tuttavia spinto la giustizia ad avviare le procedure per una correzione della sentenza. Al contrario in Procura sono attualmente aperti nuovi filoni d’indagine, ereditati dalle attività della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Fioroni, per identificare altre persone che avrebbero preso parte al sequestro: i due fantomatici motociclisti, un ipotetico passeggero seduto accanto a Moretti nella Fiat 128 giardinetta che bloccò il convoglio di Moro all’incrocio con via Stresa, eventuali prestanome affittuari di garage o appartamenti situati nella zona dove vennero abbandonate le tre macchine utilizzate dai brigatisti in via Fani. Si cercano ancora 4, forse 5, colpevoli cui attribuire altri ergastoli. Non contenta di aver condannato 11 persone estranee al sequestro, la giustizia prosegue la sua caccia ai fantasmi di un passato che non passa.

Quando la storia finisce all’asta. Non è il comunicato originale del sequestro Moro quello messo in vendita in questi giorni

Paolo Persichetti

Il volantino di rivendicazione del sequestro Moro messo all’incanto con base d’asta 600 euro e offerte che al momento sono già arrivate a quota 5 mila (11 mila ultimo aggiornamento), non è uno dei nove comunicati originali stampati con la famosa Ibm a testina rotante in light italic fatti ritrovare a Roma il 18 marzo 1978 dalle Brigate rosse.
Come è noto, Bruno Seghetti, Adriana Faranda e Valerio Morucci, che si occuparono della diffusione dei primi comunicati e delle lettere scritte dal prigioniero, il giorno dopo il rapimento lasciarono in un plico nascosto dietro una macchinetta per le fototessere collocata nel sottopassaggio di piazza Argentina (oggi non più esistente) le prime 5 copie originali della rivendicazione del sequestro e la foto polaroid di Moro. Tuttavia il giornalista del Messaggero che era stato contattato per il recupero non riuscì a trovalro. Per questa ragione il primo comunicato brigatista arrivò con 48 ore di ritardo. Ricontattato nuovamente con istruzioni più dettagliate lo stesso cronista prese finalmente il plico il sabato successivo, 18 marzo. A quel punto i brigatisti diffusero altri 4 originali in piazzale Tiburtino non lontano dalla redazione di radio Onda Rossa situata in via dei Volsci e che venne allertata con una telefonata, in via Parigi sotto la sede del quotidiano Vita sera che aveva l’abitudine di pubblicare il testo integrale dei comunicati, in via Teulada dove si trovava la sede della Rai e in via Ripetta, nei pressi della sede dell’agenzia d’informanzione Adnkronos. A partire dal lunedì 20 marzo la colonna romana si mobilitò per una diffusione più larga del comunicato nel frattempo ritrascritto con un’altra macchina e ciclostilato: 96 copie vennero rinvenute in via Casilina. Il 21 marzo fu la volta delle periferie e delle scuole: 66 copie furono ritrovate nella zona di villa Gordiani (via Albona, via Pisino, via Rovigno d’Istria), 15 in via s. Igino Papa a Primavalle, 7 davanti al liceo Lucrezio Caro, 1 all’Armellini (dove evidentemente erano andate a ruba), 9 ancora a Primavalle, in via Boromeo davanti l’istituto professionale commerciale, e poi ancora centinaia di copie furono diffuse nei giorni e settimane a venire per tutta la città come si può leggere nel rapporto redatto dalla questura il 29 aprile 1978, quando la diffusione del primo comunicato lasciò il posto agli altri.

Netta è la differenza tra il testo originale scritto da Mario Moretti nella cucina di via Moltalcini, poco dopo l’arrivo con l’ostaggio nascosto in una cassa e il suo trasferimento nello stanzino prigione ricavato da una intercapedine costruita su una parete dell’appartamento. Intanto il carattere del testo in light italic, il passo differente, il numero delle righe, 81 nell’originale, anziché le 80 del testo ciclostilato diffuso nei giorni successivi dalla colonna romana e di cui una copia è ora all’asta. Altri dettagli mostrano la notevole differenza presente tra le due versioni, la presenza di una “I” maiuscola al posto del numero 1 per indicare la data del 16 marzo, mentre nell’originale in light italic, il numero è scritto correttamente.

Di seguito una copia della rivendicazione originale diffusa il 18 marzo 1978, Acs, Migs busta 2

La copia messa all’asta

Copia identica a quella messa in vendita presente in Acs, Migs busta 1

Quanto basta anche per trarre alcune considerazioni:

Non è la prima volta che della case d’asta mettono all’incanto dei volantini o materiale scritto dalle Brigate rosse. Già nel 2012 la Bolaffi ricavò 17 mila euro per 17 volantini acquistati da Marcello Dell’Utri per la sua biblioteca privata di via Senato a Milano. Si trattava di volantini noti, presenti in molteplici copie nella certe processuali e negli archivi di Stato. In Acs presso il fondo Russomanno si trova una intera collezione della pubblicistica brigatista che arriva fino al 1981. Molto più interessante era l’origine di quel piccolo archivio, i volantini infatti presentavano dei fori da catalogatore che lasciavano pensare ad una raccolta messa su da qualche apparato di monitoraggio dell’attività brigatista, forse di origine sindacale e di qualche forza politica che una volta dismessa la propria attività se ne era liberata.

La copia messa in vendita dalla Bertolani Fine Art non ha grande rilevanza storica, esistono negli archivi centinaia di copie del medesimo volantino. Si tratta di una classica operazione commerciale di materiali e oggetti divenuti cimeli del passato. Fortemente segnata da ipocrisia appare invece la polemica sollevata da questa vendita, non risulta che suscitino analogo scandalo i cimeli fascisti, i busti di Mussolini, la pubblicistica del ventennio in vendita nei mercati dell’antiquariato. Siamo nella società della merce, perché dovrebbe stupire se oggetti che datano quasi cinquant’anni si trasformano in materiale d’antiquariato per cultori e feticisti? Sorprende invece l’insipienza storica di quegli specialisti che hanno chiesto l’intervento del ministero della Cultura per l’acquisizione di copie di volantini che esistono già in grande quantità negli archivi statali.

L’unico aspetto interessante che – a nostro avviso – mette in luce questa vicenda è l’attualità che ancora riveste la storia degli anni 70, quella delle Brigate rosse e del sequestro Moro in particolare. Un’attenzione ancora tormentata: sembra che il mezzo secolo che ci separa da quelle vicende non sia mai trascorso. Siamo in presenza di una presentificazione permanente che annulla ogni tentativo di prospettiva storica. Emerge sistematicamente da parte delle istituzioni una postura di disapprovazione etica, la tabuizzazione di un’epoca condannata all’anatema perenne. Un tentativo di esorcismo che non riesce a cancellare l’interesse, la curiosità, la voglia di conoscere che non trovando però una corretta sintassi storiografica, sfocia nel feticismo.

La lettera del giudice Guido Salvini a Insorgenze, «non credo al complotto nel rapimento Moro, ma non tutto è chiaro»

Video

Il dottor Guido Salvini, attualmente Gip presso il tribunale di Milano mi ha inviato questa lettera. Autore quando era giudice istruttore della nuova inchiesta sulla strage di Piazza Fontana (Milano 1969), che ha finalmente individuato gli autori dell’attentato, e un’altra indagine sulla strage di piazza della Loggia (Brescia 1974). Esperto di quel complesso mondo di relazioni e intrecci tra destra, ordinovista e avanguardista, e apparati dello Stato, ha condotto inchieste anche sul fronte opposto: l’omicidio del militante di estrema destra Sergio Ramelli, 1975, da parte del servizio d’ordine di Avanguardia operaia e sui fatti di via De Amicis a Milano nel 1977, che portarono all’uccisone dell’agente Antonio Custra.  Il dottor Salvini contesta il giudizio negativo da noi espresso nel corso di una intervista (leggi qui) sulla sua attività di consulente della seconda commissione Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni. Pubblico il suo testo accompagnato da una mia replica ringraziando il giudice Salvini per l’attenzione mostrata

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Vi scrive Guido Salvini giudice del Tribunale di Milano. Ho letto la vostra intervista a Matteo Antonio Albanese autore del libro Tondini di ferro e bossoli di piombo. Ho trovato interessanti le riflessioni sui rapporti tormentati che vi furono tra il Pci e il mondo delle Brigate rosse ai suoi inizi e sull’intuizione da parte di queste ultime del fenomeno della globalizzazione. In una domanda posta dall’intervistatore mi sono però attribuite, anche in modo inutilmente sgarbato, opinioni sul sequestro Moro che non ho mai avuto e che non ho mai espresso e che al più possono essere proprie di qualche parlamentare componente della seconda Commissione Moro per la quale ho lavorato in completa autonomia come consulente. Infatti non ho mai pensato né scritto, come è facile verificare, che il sequestro Moro sia stato ispirato o diretto dalle stesse forze, i Servizi segreti, la C.I.A. la Nato o che altro che sono stati presenti nella strategia della tensione e nelle stragi degli anni ’60- ‘70 sulle quali ho condotto istruttorie. Né penso che ad esso abbiano partecipato la ‘ndrangheta o altre entità misteriose. Queste sono opinioni di altri che l’articolo non cita

Credo tuttavia che soprattutto negli ultimi giorni del sequestro vi siano state in entrambe le parti, lo Stato e le Brigate Rosse, incertezze e imbarazzi su come affrontare la possibile liberazione dell’ostaggio da un lato e come portare a termine l’operazione dall’altro e che questa situazione, in cui i due attori dovevano necessariamente compiere scelte di interesse e forse auspicate anche da realtà esterne al sequestro, abbia in entrambi provocato in alcuni passaggi un’amputazione della narrazione di quanto avvenuto. Mi riferisco, ad esempio, per quanto riguarda lo Stato, all’incertezza se fare di tutto perché Moro fosse recuperato vivo e alla contemporanea assillante ricerca dei memoriali dello statista giudicati pericolosi per gli equilibri dell’epoca. Per quanto concerne le Brigate Rosse mi riferisco alle non convincenti versioni in merito al luogo o ai luoghi ove l’ostaggio fu tenuto prigioniero e alle modalità con le quali, mentre erano ancora in corso contatti ed iniziative, ha trascorso le ultime ore e con le quali è stato ucciso. Su questi passaggi vi sono probabilmente ancora alcune verità e forse il ruolo di alcune persone da proteggere. Spero di essermi spiegato in queste poche righe e forse la lettura del libro potrà spingermi a tornare in modo più ampio sull’argomento sul mio sito guido.salvini.it

Vi ringrazio per l’attenzione.
cordialità
Guido Salvini

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Dott. Salvini,
Registro con favore il giudizio anticomplottista da lei espresso sul sequestro Moro, cito le sue parole: «il sequestro Moro non sia stato ispirato o diretto dalle stesse forze, i Servizi segreti, la C.I.A. la Nato o che altro che sono stati presenti nella strategia della tensione e nelle stragi degli anni ’60-‘70 sulle quali ho condotto istruttorie. Né penso che ad esso abbiano partecipato la ‘ndrangheta o altre entità misteriose».

La mia valutazione negativa del suo lavoro di consulente nella commissione Moro 2 era tuttavia fondata sull’analisi delle sue attività: escussioni di testimoni, indagini perlustrative, proposte di piste da indagare che manifestavano un consolidato pregiudizio dietrologico. Mi riferisco all’endorsement del libro di un personaggio imbarazzante come Paolo Cucchiarelli (20 giugno 2016, n. prot. 2060 e 682/1), nel quale si individuavano almeno 4 spunti di indagine da seguire, tra cui le dichiarazioni di un pentito della ‘ndrangheta Fonti, anche lui replicante di fake news, come la presenza di Moro nell’angusto monolocale di via Gradoli in una fase del sequestro (circostanza smentita dalle evidenze genetiche delle analisi sulla tracce di Dna, condotta dalla stessa commissione), oppure su un presunto ruolo di Giustino De Vuono in via Fani e nella esecuzione del presidente del consiglio nazionale della Dc. O ancora l’articolo fiction dello scrittore Pietro De Donato apparso nel novembre 1978 su Penthause, rivista glamour notoriamente specializzata sul tema. E ancora la richiesta di sentire, protocollo 519/1, il collaboratore di giustizia, sempre della ‘ndrangheta, Stefano Carmine Serpa che nulla mai aveva detto sulle Brigate rosse e il rapimento Moro, ma in una deposizione del 2010 aveva riferito dei rapporti tra il generale dei Cc Delfino e Antonio Nirta, altro affiliato alle cosche ‘ndranghestite. L’ulteriore sostegno ai testi (28 dic 2018, prot. 2497 – e 844/1) di Mario Josè Cerenghino, autore di libri in coppia con Giovanni Fasanella, la cui ossessione complottista non ha bisogno di presentazioni, o ancora di Rocco Turi, autore di una storia segreta del Pci, dai partigiani al caso Moro, sostenitore di una tesi dietrologica diametralmente opposta alla precedente, che intravede nelle Repubblica popolare cecoslovacca una funzione promotrice dell’attività delle Brigate rosse, fino fantasticare l’addestramento in campi dell’Europa orientale dei militanti Br. Potrei continuare, ma non serve.

Nella seconda parte della lettera, contradicendo quanto affermato all’inizio, solleva nuovi dubbi sugli ultimi momenti del sequestro. Convengo con lei che da parte dello Stato, ed in modo particolare delle due maggiori forze politiche protagoniste della linea della fermezza, Democrazia cristiana e Partito comunista, vi siano ancora moltissime cose da scoprire sulla decisione ostinata e sui comportamenti messi in campo per evitare, fino a sabotare, qualsiasi iniziativa di mediazione e negoziato in favore della liberazione dell’ostaggio. Mi riferisco, per esempio, all’impegno preso e non mantenuto dal senatore Fanfani di intervenire il 7 maggio 1978, con un messaggio di apertura all’interno di una dichiarazione pubblica. 
Ritengo che da parte brigatista i dubbi da lei espressi non trovino fondamento. Cosa c’è di poco chiaro e non trasparente nella telefonata del 30 aprile realizzata da Mario Moretti alla famiglia Moro? Consapevole della necessità di uscire dal vicolo cieco in cui si era infilata la vicenda, il responsabile dell’esecutivo brigatista tentò una mediazione finale che ridimensionava le precedenti rivendicazioni, la liberazione di uno o più prigionieri politici, e chiedeva un semplice segnale di apertura, che nella trattativa che sarebbe seguita dopo la sospensione della sentenza poteva vertere nel miglioramento delle condizioni di vita nelle carceri. Perché questo aspetto continua ad essere evitato, sottovalutato e poco studiato, avvalorando contorte ipotesi di trattative parallele, somme di denaro o altro, rifiutate in principio dalle Br? Forse perché la responsabilità di chi si è sottratto a tutto ciò non è ancora politicamente sostenibile?
Ed ancora, sull’ipotesi dello spostamento dell’ostaggio, la invito a studiare tutti i sequestri, politici o a scopo di finanziamento, realizzati dalle Brigate rosse. Mi dica se c’è un solo caso dove l’ostaggio viene traslocato durante la prigionia? Approntare una base-prigione è cosa molto complessa e se non si comprende qual era il modo di approntare la logistica nelle Br si può cadere in facili giochi di fantasia.
Infine, tra i temi che la commissione ha rifiutato di affrontare c’è quello della tortura, verità indicibile di questo Paese. Un commissario aveva presentato un’articolata richiesta di approfondimento della vicenda di Enrico Triaca, il tipografo di via Pio Foà arrestato e torturato il 17 maggio 1978, una settimana dopo il ritrovamento del corpo di Moro, con una lista di testimoni da ascoltare, tra cui Nicola Ciocia, il funzionario dell’Ucigos soprannominato “dottor De Tormentis”, esperto in waterboarding. Sorprende che lei non se ne sia interessato sollecitando spunti d’inchiesta, audizioni o proponendo materiali e sentenze della magistratura presenti sulla questione? Dottor Salvini, ha perso davvero una grande occasione.
Cordialmente, Paolo Persichetti

Scalzone, «Il futuro non esiste, il futuro è la narrazione dei dominanti»

Due date raccolte in un arco di 10 anni: 16 marzo 1968, 16 marzo 1978. In mezzo c’è tutto. Scalzone ritorna sui luoghi e racconta la mattinata di scontri sulla scalinata della facoltà di architettura a Roma, un topos del ’68. I fascisti che fallirono il tentativo di infiltrare il movimento, Almirante che rischiò il linciaggio, Pasolini che non aveva capito nulla di quella rivolta, Mussolini e la vera essenza del fascismo italiano, «la guerra alle organizzazioni operaie, dalle più riformiste alle più soversive, non alla classe operaia in quanto tale che può essere cooptata dalle corporazioni», il razzismo attuale. Dieci anni più tardi l’assemblea convocata sul piazzale della Minerva, alla Sapienza, subito dopo la notizia del sequestro di Aldo Moro: «Quel del giorno – spiega – vissi una lacerazione, mi sentivo estraneo alla “condanna” espressa dagli Autonomi e pensai di interferire con le Br prima che fossero sospinte all’epilogo atteso e come prescritto in una sentenza». Poi venne il complottismo, divenuto la grande tragedia culturale della sinistra. Resta la conoscenza, destino che ci distingue dalle altre specie e quel futuro che non esiste, divenuto «narrazione dei dominanti» al quale si deve contrapporre il presente, vissuto fino in fondo


Daniele Zaccaria, Il Dubbio 23 marzo 2018

Conversare con Oreste Scalzone è un’esperienza proustiana e futurista allo stesso tempo. Il flusso della memoria scorre come un torrente, ma non è sempre un corso tranquillo, dalle acque affiorano improvvisi i vortici, e il gorgo dei ricordi procede agitato da un demone errante, con lo sguardo che punta fisso l’orizzonte in una specie di eterno presente. «Sono un ipermnesiaco ( lo sviluppo eccessivo della memoria n. d. r.), anche se ogni tanto, come diceva Freud e come accadeva nel Rashomon di Kurosawa, posso vivere qualche illusione di memoria».
Cinquant’anni fa, quando la società occidentale venne travolta dalla rivoluzione
del ‘ 68, Scalzone era un giovane leader del movimento studentesco. In questi giorni di celebrazioni museali che fanno di quell’annata formidabile una specie di Risorgimento scamiciato, Scalzone accetta di tornare sul “luogo del delitto” per abbozzare quella che lui chiama con modestia una “anti- celebrazione”, una “anti- cerimonia”. Ma prima di tornare a quei giorni di marzo ‘ 68 vuole togliersi togliersi un sassolino dalla scarpa: «Questa vicenda dei fascisti che avrebbero avuto contatti con il movimento studentesco per organizzare gli scontri di Valle Giulia è una totale fake- memory che si basa unicamente sulle dichiarazioni di Delle Chiaie Stefano, detto “caccola”. Delle Chiaie era odiato in primis dai fascisti per così dire “puri”, che lo vedevano come un uomo dei servizi segreti. Il movimento non aveva alcuna contezza di quelle dinamiche, è probabile che ci furono tentativi di infiltrazione che però non riuscirono. I fascisti erano arroccati nella facoltà di giurisprudenza e il comitato di agitazione dell’Ateneo aveva deciso semplicemente di ignorarli, come fossero un tumore morto, non li vedevamo e intorno a loro c’era una specie di cordone sanitario. Le cose cambiarono la notte tra 15 e il 16 marzo, quando delle squadre di picchiatori del Msi entrarono alla Sapienza attaccarono i loro extraparlamentari sgomberandoli manu militari i e attaccarono il picchetto del movimento a Lettere ferendo alcuni compagni».

Cosa ricordi di quella mattina?
Arrivai all’università di buon ora, quelli del Msi si erano già asserragliati dentro giurisprudenza con gli onorevoli Almirante e Caradonna. A quel punto noi lanciammo un attacco improvvido, generoso ma improvvido, tanto che avanzando po- tevamo contare i feriti, dall’alto ci lanciavano di tutto, biglie di ferro, vetri, oggetti di ogni tipo, poi sento uno schianto, la panca lanciata dall’alto colpisce di sbiego una sedia con cui malamente mi coprivo…, il contraccolpo mi schiaccerà due vertebre, vengo trascinato via, mi portano in ospedale, intanto la battaglia continua. Alcuni compagni scovano una porta secondaria e riescono a entrare, sono una dozzina e si trovano soli davanti Almirante, avrebbero potuto linciarlo, ma comprensibilmente esitarono, e l’attimo passò, fortunatamente non si aveva la stoffa di linciatori… A quel punto entrò in forze la polizia. Ora, per chi sostiene che ci fosse ambiguità tra il movimento e l’estrema destra, cito il dottor Paolo Mieli e il professor Agostino Giovagnoli, cosa avremmo dovuto fare? Linciare Almirante per dimostrare il contrario? Peraltro su quei giorni continuano a essere scritte e dette enormi sciocchezze. Molte ispirate da un misero “pasolinismo” di ritorno.

Cosa intendi?
Parlo di questa divisione artificiosa tra i poliziotti figli del proletariato mandati nelle città a prendersi le botte dagli studenti figli della borghesia. Di sicuro Paolo Mieli era un figlio della borghesia, io ero un semplice pendolare di Terni, ma di cosa parliamo? Alla Sapienza c’erano più di 70mila iscritti, l’università era già un luogo di massa e nel movimento c’era di tutto, compresi i figli dei “cafoni” del sud, i figli degli operai mandati a studiare nella grande città per diventare ingegneri. Certo, la maggioranza dei leader proveniva da famiglie istruite ma solo perché, come diceva Don Milani, possedevano le parole sufficienti per diventare i capi, nelle facoltà e nelle piazze però il protagonista era altro, no?

Pasolini si sbagliava dunque?
Di sicuro si sbagliava sulla composizione sociale del movimento studentesco, e dire che sarebbe bastato aver ascoltato un mezzo discorso di Franco Piperno, non dico di aver letto Marx. Si sbagliava anche nella sua mitologia poetica della classe operaia che per lui era incarnata solamente dagli operai con la tuta e le mani callose e “professionali” quando già allora la figura centrale erano gli operai di catena, in gran parte immigrati dal Sud, quelli che si raccontano in Vogliamo tutto! di Balestrini; inoltre già allora avanzava il precariato tra le giovani generazioni. Si è sbagliato anche sulla natura del Pci, in questo sono d’accordo con lo storico Giovanni De Luna, Pasolini dice ai giovani di andare verso il Pci, pensare che quel movimento potesse andare verso il Partito comunista era una sciocchezza. Neanche il segretario Luigi Longo aveva il coraggio di affermare una cosa simile. Infine si sbagliava sui poliziotti, per lui erano «dei bruti innocenti» in quanto li riteneva delle bestioline irresponsabili, «li hanno ridotti così». Anche in questo caso è una lettura semplicistica, basterebbe un po’ di piscoanalisi, penso a Willelm Reich: esiste un margine di responsabilità in chi commette atti brutali e sadici, è la psicopatologia dell’ultimo dei crociati che s’intruppa dietro Pietro l’Eremita a fare la “teppa eterna” mentre a Gerusalemme, scrivono gli storici, «il sangue arrivava alle ginocchia». La stessa teppa descritta da Varlam Salamov nei Racconti di Kolyma che in quel caso erano i cechisti, ma potremmo parlare anche delle Guardie rosse, di chi andava a evangelizzare di chi andava islamizzare, di chi andava a colonizzare.

Un rapporto mortale e mimetico quello della sinistra rivoluzionaria e libertaria con il potere e la violenza costituita
Prendendo spunto dal Foucault di Microfisica del potere, quando si costituisce un tribunale del popolo o del proletariato, una giustizia istituita, la mutazione è già avvenuta, la rivoluzione è già diventata controrivoluzione. Il passaggio da «potere costituente» a «costituito», come dice Agamben, è stato la tragedia di tutte le «Rivoluzioni» che hanno «preso il potere». Questo, microfisicamente, è sempre in agguato anche per noi. Nei giorni del rapimento Moro, ero convinto che il movimento dovesse “interferire” con le Brigate Rosse per scongiurare il rischio che si lasciassero sospingere ad un epilogo annunciato, atteso e come prescritto della sentenza di morte.

Più volte hai criticato la sinistra e il suo antifascismo razziale, cosa intendi?
Mi vengono in mente ( oltre a Sergio Ramelli) i fatti di Acca Larentia: se un commando di estrema sinistra apre il fuoco su un gruppetto di ragazzotti fascisti uccidendone due e poi quelli escono con il sangue agli occhi e le forze dell’ordine ne uccidono un altro, io mi sento molto a disagio come dissi all’epoca a Giorgio Bocca che mi intervistò per Repubblica. Non si possono trattare i fascisti come fossero dei “diversi”, questo è un approccio etnico, razziale al conflitto politico e l’antifascismo rischia di diventare un ulteriore strumento di regime. All’epoca fui molto criticato per questa mia posizione, in questo caso come che Guevara, che per inciso è stato anche un uomo feroce: «Dobbiamo essere implacabii nel combattimento e misericordiosi nella vittoria».

Il “fascismo” viene continuamente evocato come fosse il sinonimo, l’equivalente generale, del male assoluto
Potrei rispondere che le parole sono importanti, e che l’equivalenza fascismo- male assoluto è contraddittoria perché due totalità non possono convivere. Partirei invece dal fascismo storico, il cui demiurgo è stato Benito Mussolini, una figura di un’ambiguità degna del post- moderno. Mussolini aveva certamente letto il Manifesto del partito comunista, ma ignorava il primo libro del Capitale. Di padre anarchico e di madre maestrina dalla penna rossa, diventa già da molto giovane la figura di punta della sinistra massimalista italiana come scrisse lo stesso Lenin. Un personaggio social-confuso, ma pure questa non è necessariamente una colpa, anche il mio amico Pannella poteva sembrare un Cagliostro liberal-liberista che mischiava tutto. Soreliano, socialista, prima pacifista che gridava «guerra alla guerra», poi il transito per l’interventismo democratico di Salvemini un’area in cui peraltro passarono anche Gramsci e Togliatti. Poi si riconverte ancora, approda all’irredentismo, da avventuriero sfrutta il reducismo dei “terroni di trincea” messi in conflitto con gli operai delle fabbriche del nord, visti come un’aristocrazia operaia dei Consigli che partecipava alla produzione di guerra. Da talentuoso avventuriero Mussolini riesce a mischiare tanti elementi, ruba il nome dei Fasci siciliani, si prende il nero della camicia degli anarchici, si porta dietro sindacalisti rivoluzionari come De Ambris e Corridoni, si prende il futurismo suprematista italiano ma anche russo e crea uno strano melange, quasi un kitsch post- moderno.

L’antisemitismo era connaturato al regime?
No, Mussolini non era un antisemita. Nel ‘32, rispondendo a una domanda sulla questione ebraica che gli pose il biografo tedesco Emil Ludwig afferma secco: «Quella è roba vostra. Cose da biondi, da tedeschi». Le svolte successive del regime vennero prese per opportunismo e non per convinzione ideologica. Però in tutto questo kitsch infinito rimane un elemento essenziale e coerente che può definire il fascismo: la guerra alle organizzazioni operaie, non alla classe operaia in quanto tale che può essere cooptata dalle corporazioni, ma alle sue organizzazioni, dalle più riformiste alle più sovversive. Quello è il nemico, la sua ossessione persistente, come l’antisemitismo fu l’ossessione psicotica dei nazisti. Qui c’è un filo conduttore che porta dritto al complottismo, un paradigma sinistro, che può guidare anche quelli che sventolano le bandiere rosse e di qualsiasi colore. Detto tutto questo vorrei però chiarire un punto.

Prego
I termini contano anche in quanto autodefinizioni, “terrore” nasce come autodefinizione di Saint Just e Roberspierre, “totalitarismo” non è una parola inventata da Hannah Arendt ma da Mussolini Benito proprio per definire il suo regime.

Oggi in Europa esiste un rischio concreto che movimenti o regimi di estrema destra, razzisti e autoritari prendano il sopravvento?
Prendiamo il caso Traini, lo pisicopatico neonazista e ultras leghista di Macerata che voleva compiere una strage di migranti, su questo punto la penso come Felix Guattari: Traini è senz’altro uno psicopatico ma se dieci piscopatici si mettono una divisa delle Sa non possono essere liquidati come dei malati di mente, diventano dei ne- mi- ci. E qui nasce un grandissimo problema. In questo sono d’accordo con l’analisi Bifo che parla di “inconscio disturbato della nazione”.

Qual è il più grande nemico della sinistra?
È un nemico interno e si chiama complottismo, una vera e propria tragedia culturale, un pensiero demoniaco e cospirazionista che diventa responsabile di quella mutazione di cui parlavo, il passaggio dal potere costituente al potere costituito, mi piace citare Agamben e la sua riuscita formula ( di risonanza spinoziana) “potenza destituente”. Per il complottismo qualsiasi gesto di rivolta, dal Camus dell’- Homme revolté al suicidio di Jan Palach è sempre un gesto manipolato, eterodiretto, ma il complottismo vive di falsità, di contro- revisionismi e generalizzazioni, non tocca mai un dente a quelli che chiama manipolatori, è inoffensivo per il potere ma letale per chi combatte il potere.

Il destino degli esseri umani è la ribellione?
Non esercitare l’inferenza per la specie umana la pone al di sotto delle altre specie, la nostra specie si sporge fuori dall’essere per inseguire la conoscenza, l’arte, la politica. A differenza dei girini e dei puledri noi nasciamo prematuri, iniziamo a camminare a un anno e mezzo mentre il puledro cammina già poche ore dopo la nascita. Il leone è un predatore e caccia la gazzella che in quanto preda tenta di fuggire, nessuno di loro è felice o infelice. Noi invece, per realizzarci, abbiamo bisogno della protesi della conoscenza. L’albero del peccato in tal senso è proprio una bellissima metafora del nostro destino.

E il futuro?
Il futuro non esiste, il futuro è la narrazione dei dominanti.