Il pene della Repubblica, il sequestro Dozier e altre storie 

Ancora un articolo di Pino Narducci (il precedente lo potete leggere qui), magistrato e ricercatore, sull’impiego della tortura nell’azione di contrasto ai gruppi armati dell’estrema sinistra nei primissimi anni 80, ospitato sulla rivista di Magistratura democratica. Ho già scritto molto anche se non a sufficienza su questo tema (su questo blog potrete trovare molto materiale). Aggiungo solo una cosa prima di lasciarvi alla lettura di questo articolo: Cesare Di Lenardo, una delle persone di cui si parla in questo testo, miltante delle Brigate rosse arrestato nel blitz che portò alla liberazione del generale americano James Lee Dozier, selvaggiamente torturato (la foto qui sotto è presa dalla perizia medica che venne svolta durante le indagini), è ancora in carcere nonostante i 43 anni trascorsi.

di Pino Narducci
presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia

«Dovevamo arrestarci l’un con l’altro», www.questionegiustizia.it, 29 gennaio 2024

Nell’appartamento veronese entrano in quattro, travestiti da idraulici. Tengono la donna sotto il tiro di una pistola, la immobilizzano ed escono con l’ostaggio nascosto in un baule, caricandolo su un pulmino che è rimasto in attesa in strada. Poi, via, di gran corsa, verso Padova dove è stata allestita la base in cui il prigioniero resterà per più di 40 giorni[1].

È il 17 dicembre 1981 e, con il sequestro di James Lee Dozier, generale statunitense NATO[2], le Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente realizzano l’azione più spettacolare di una storia iniziata appena pochi mesi prima, dopo la cattura di Mario Moretti[3].

Durante la fase del rapimento uno dei sequestratori parlava uno “slang” americano, così scrivono i giornali dell’epoca, e quindi, lo scenario è quello di una operazione in cui gli attori non possono essere soltanto i brigatisti italiani. Anzi, la foto del sequestrato diffusa dalle BR-PCC è un fotomontaggio e questo vuol dire che Dozier già si trova all’estero, forse dopo aver viaggiato su uno dei tanti TIR che vanno e vengono dall’Austria. I cronisti sono pronti a scommettere che il rapimento è opera di una centrale europea del terrorismo che comprende le BR, la RAF tedesca, l’ETA basca e l’IRA, organizzazioni che si sono incontrate in riunioni sul lago di Garda e in Svizzera. Insomma, un turbinio di improbabili ipotesi e di vere e proprie bufale.

È vero invece che, a Roma, arrivano alcuni agenti CIA e che il Ministero dell’Interno, guidato dal democristiano Virginio Rognoni, seleziona il nucleo di funzionari che dovrà coordinare le indagini nel Veneto: Umberto Improta, Oscar Fioriolli, Salvatore Genova e Luciano De Gregori. 

Nella Questura di Verona, Gaspare De Francisci, il capo dell’UCIGOS (Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali), convoca la squadra messa in piedi dal Viminale. L’Italia non può perdere la faccia e, quindi, secondo ordini che vengono dall’alto, per trovare Dozier si potrà usare qualsiasi mezzo, anche le maniere forti. Nessun timore, rassicura De Francisci, perché, se qualcuno resterà invischiato in una storia di violenza, godrà di una sicura copertura, politica ed istituzionale.

Finalmente può partire la caccia ai rapitori del generale e, questa volta, è consentito ogni metodo per estorcere informazioni.

Il giorno dopo arriva a Verona il funzionario dell’UCIGOS Nicola Ciocia (il professor De Tormentis secondo la definizione che gli è stata affibbiata da Improta), lo specialista, con la sua squadra dei “cinque dell’Ave Maria”, delle sevizie che servono a far parlare. Ha già torturato, nel maggio ’78, Enrico Triaca, il tipografo brigatista di via Pio Foà a Roma[4] e questa volta, finalmente, può agire senza adottare particolari precauzioni perché la sorte di coloro che saranno arrestati, veri o presunti brigatisti che siano, è stata decisa dall’alto: se non parlano subito, magari dopo schiaffi e pugni, saranno torturati.

Ciocia resta in Veneto solo qualche giorno. Poi corre a Roma dove sono stati arrestati, il 3 gennaio ’82, Stefano Petrella ed Ennio Di Rocco, membri delle BR-Partito Guerriglia, per fare loro quello che ha già fatto a Triaca.

Dozier è tenuto al sicuro in un appartamento, in via Ippolito Pindemonte, all’interno del quale è stata collocata una tenda in cui vive il prigioniero. 

Ma gli uomini del Viminale non hanno alcuna idea del luogo in cui possa trovarsi né della identità dei brigatisti. E le centinaia di telefoni messi sotto controllo non possono certo condurre alla prigione del generale. Non resta che prelevare le persone, interrogarle e, soprattutto, affidarsi, come già faceva l’inquisizione, alle sedute di tortura.

Alla fine di gennaio accade a Nazareno Mantovani che viene interrogato e picchiato per prepararlo alla vera e propria seduta di tortura che è affidata a Ciocia ed alla sua squadra. I poliziotti hanno un luogo appartato per infliggere tormenti. È un villino che è stato preso in affitto dalla questura veronese. Mantovani ci arriva bendato. Ciocia ed i suoi uomini “trattano” Mantovani con acqua e il sale, ma esagerano, tanto che De Francisci interrompe la seduta dopo lo svenimento del prigioniero. 

Paolo Galati mette i poliziotti sulle tracce di una militante. Oscar Fioriolli dirige la perquisizione a casa di Elisabetta Arcangeli senza sapere che dentro ci troverà anche Ruggero Volinia, nome di battaglia “Federico”. È lui che ha guidato il pulmino con dentro Dozier da Verona a Padova.

Separati da un muro, Volinia e Arcangeli si trovano all’ultimo piano della Questura veronese. Ciascuno può sentire l’altro mentre Fioriolli li interroga ed Improta segue la scena. La brigatista, nuda, è legata mentre i poliziotti le tirano i capezzoli con una pinza e le infilano un manganello nella vagina. Dall’altra parte del muro, percuotono Volinia. Lo caricano su una macchina, lo conducono in una chiesa sconsacrata e, sottoposto ad acqua e sale dal gruppo di Ciocia, rivela il luogo in cui si trova Dozier[5].

Il 28 gennaio 1982, verso le 11:00, sette uomini del NOCS (Nucleo Operativo Centrale Sicurezza), le “teste di cuoio” della Polizia italiana, irrompono nell’appartamento di via Pindemonte. Senza difficoltà, immobilizzano i carcerieri di Dozier: Antonio Savasta, Giovanni Ciucci, Cesare Di Lenardo, Emanuela Frascella ed Emilia Libéra. 

I brigatisti vengono messi pancia a terra sul pianerottolo mentre arrivano Genova ed Improta. Sono bendati ed hanno le mani legate dietro la schiena. Rifiutano di rivelare la propria identità ed i nomi di battaglia ed allora giù calci e botte. Qualche poliziotto ritiene sia ancor più efficace camminare sopra i loro corpi. 

Alle due militanti («Sei una mignotta?» urlano i polizotti, «No!», ed allora giù calci e pugni) va ancor peggio. Abbassano la gonna ed i collant di Libéra e Frascella, sferrano calci sul pube e sul sedere, alzano la maglietta delle due donne e tirano i capezzoli del seno.

Su quel pianerottolo gli arrestati restano una infinità di tempo (sicuramente, dietro le porte dei vari piani del grande edificio, tanti ascoltano quello che sta accadendo, ma nessuno ha il coraggio di mettere la testa fuori). Poi, gli agenti NOCS portano i brigatisti nella palazzina del II reparto celere di Padova.

Il senso di impunità è talmente smisurato che il comandante del reparto scrive un ordine di servizio e non esita a mettere nero su bianco le disposizioni che dovranno essere seguite per custodire i sequestratori di Dozier, un documento che prova, prima ancora di qualsiasi testimonianza, quali metodi illegali saranno usati contro gli arrestati.

I cinque detenuti dovranno «essere costantemente legati e bendati», dovranno essere usati tutti gli accorgimenti per «non far avere loro la percezione del luogo in cui si trovano», il personale «non dovrà assolutamente rivolgere loro parola o rispondere a loro domande, tantomeno pronunciare nomi, luoghi e gradi che possano dar luogo ad eventuali identificazioni», i detenuti potranno «essere accompagnati eccezionalmente» in bagno, «non dovrà essere esaudita nessun’altra richiesta se non previa superiore opportuna autorizzazione» e «si dovrà accertare da parte del personale preposto che i legacci e i bendaggi siano sempre ben messi». 

L’estensore del piccolo manuale di istruzioni per annichilire e spezzare il detenuto non dimentica di raccomandare che «il servizio ovviamente riveste natura di massima riservatezza»[6]

La giornata del 28 gennaio è frenetica e la tortura inizia a produrre i suoi risultati. 

«Quando sei entrata nelle BR? Chi ha partecipato al sequestro? Chi è Sara?». Frascella non risponde alle domande, così chi la interroga le alza la gonna, le cala le mutande e le strappa i peli del pube. La brigatista inizia a cedere e fornisce qualche informazione. 

Escono i “cattivi” e nella stanza entrano i “buoni”. «Dai collabora, ti conviene», continuano a ripeterle. Tornano i “cattivi” e riprendono a strapparle i peli del pube ed a stringergli i capezzoli. La fanno appoggiare a un tavolo e le dicono che le infileranno una gamba della sedia nella vagina. Frascella cede e parla di “Federico”. Bendata e legata su una sedia, la militante non può dormire perché appena si appisola qualcuno corre a svegliarla. È notte fonda quando tornano i “buoni” e Frascella, che ha sentito chiaramente le grida di Savasta e Di Lenardo, vuota il sacco. 

In un’altra stanza, Emilia Libéra è costretta a restare in ginocchio, sul pavimento, per alcune ore. Un “premuroso” poliziotto che la sorveglia le dice che i suoi colleghi, nella stanza accanto, stanno violentando la Frascella. Poi, bendata, viene messa su una sedia. Arriva il “cattivo” e le chiede dove possono trovare Sara, il nome di battaglia di Barbara Balzerani. 

Libéra non apre bocca e allora giù pugni e schiaffi, capezzoli schiacciati e calci sul pube. Le tolgono pantaloni e mutande e la fanno chinare su un tavolo. Il “cattivo” annuncia che le metterà un bastone nella vagina e, aggiunge, lei deve crederci perché lui ha già “trattato” Di Rocco e Petrella. Libéra sa che con i due brigatisti hanno usato l’acqua e il sale e teme che, da un momento all’altro, tocchi a lei la stessa sorte.

Anche Savasta, bendato e legato su una sedia, viene colpito su tutto il corpo ed i seviziatori si divertono a spegnergli sigarette sulle mani. Sente le grida di Libéra e Frascella, ma non la voce di Ciucci che, dicono i poliziotti, è già morto. Poi arrivano i «giustizieri» (così si presentano a Savasta) che puntano la pistola alla tempia del brigatista e minacciano di ucciderlo. Savasta cerca di fermarli: «Io sto già parlando». Ma a loro non interessa, sono giustizieri[7].

I “cattivi” vanno via ed i “buoni” lo portano in un’altra stanza e, dopo avergli chiesto se vuole nominare un avvocato, gli fanno firmare un verbale.

Savasta, Libéra, Frascella e Ciucci (lui è veramente malridotto perché non riesce a camminare e gira seduto su una sedia da ufficio) vengono messi insieme in una stanza. Discutono e decidono tutti insieme di saltare il fosso e collaborare.  

E così, già quella notte, forniscono le prime informazioni. Quelle di Savasta sono molto importanti perché lui conosce la base di via Verga, a Milano, dove più volte si è riunita la Direzione strategica. 

Di Lenardo non cede ed è l’unico che non si piega alla tortura. Non si può dire che con lui non siano stati chiari: «Nessuno sa del tuo arresto, sei solo un sequestrato e possiamo fare di te quello che vogliamo». Ma il brigatista si ostina a non parlare, si dichiara prigioniero politico ed allora occorre ricorrere a tormenti più sofisticati. 

I poliziotti si danno il cambio per colpirlo sulla pianta dei piedi, ma non disdegnano di sbattergli la testa contro il muro. Lo fanno distendere per terra, nudo, per ricevere scariche elettriche sul pene e sui testicoli, mentre altri gli danno calci ai fianchi e gli comprimono la testa. Poi pugni e schiaffi al volto, colpi sul naso, compressione delle pupille, schiacciamento della testa con i piedi, bruciatura delle mani, tagli al polpaccio. Con i calci, gli rompono il timpano dell’orecchio sinistro. 

A Di Lenardo non viene risparmiato nulla, ma, se i suoi compagni, nella notte tra il 31 gennaio e il 1° febbraio, già firmano i verbali di dichiarazioni spontanee, il brigatista è irremovibile. Ed allora bisogna fare in fretta perché tra qualche ora si presenterà in caserma il sostituto procuratore veronese per gli interrogatori. I poliziotti sono delusi. Nella base milanese di via Verga, quella indicata da Savasta, non hanno trovato nessuno. Forse, Di Lenardo può fornire altre notizie. Magari, può far arrestare la Balzerani. «Di Lenardo deve parlare». 

Gli tolgono le manette dai polsi e le mettono ai piedi, gli legano le mani con pezzi di stoffa, gli stringono la benda sugli occhi, chiudono la bocca con un’altra benda e lo mettono nel bagagliaio di un’auto si mette in movimento seguita da un altro veicolo. Dopo un giro di mezz’ora le auto si fermano e due poliziotti trascinano il brigatista tenendolo per le ascelle. Di Lenardo comprende che si trova su un prato, sicuramente in una una campagna nei dintorni di Padova. 

Lo fanno inginocchiare e lo pestano. Solito copione: il “cattivo” arrabbiato si alterna al “buono” che modera gli eccessi. Poi una voce, più forte delle altre: «Adesso ti spariamo». Parte un colpo di pistola. Non è morto!!! Nemmeno la finta esecuzione (el simulacro de fusilamiento, tanto in voga in America latina) fa crollare il detenuto[8]

Di nuovo botte. Lo riportano in caserma. Nudo, steso su un tavolo con la testa penzoloni, braccia e gambe legate. Gli riempiono la bocca di sale, gli tappano il naso e giù acqua in grande quantità. Una pausa e poi si riprende. Altra pausa e si riprende. Di Lenardo non respira, sta soffocando, il corpo trema, grida. Si fermano. Mentre viene torturato il brigatista sente qualcuno dire «Genova». Pensa a un poliziotto, ad uno di quelli che, nei giorni precedenti, gli hanno parlato delle operazioni anti BR che hanno fatto nel capoluogo ligure. Si sbaglia. Alcuni giorni dopo, un funzionario cerca di convincerlo a collaborare. Entra nella stanza un poliziotto e dice «dottor Genova, al telefono». Di Lenardo allora comprende: nella stanza, mentre veniva torturato, c’era il commissario Salvatore Genova[9].

I brigatisti non vengono portati in carcere ed il sostituto procuratore veronese li interroga, il 1° e il 2 febbraio, negli uffici della celere. Savasta riempie pagine e pagine di verbale. Così fanno anche Libéra, Ciucci e Frascella. Buon ultimo, nel pomeriggio del 2 febbraio, Cesare Di Lenardo si siede davanti al magistrato. Lui non ha nulla da dire, vuole solo denunciare le sevizie che ha subito. Lo farà di nuovo, il 28 febbraio, con un dettagliato memoriale spedito alla Procura ed al Presidente del Tribunale di Verona.  

Il sistema generalizzato delle violenze sugli arrestati per fatti di terrorismo è cresciuto così a dismisura che, proprio nel febbraio-marzo ’82, diventa incontrollabile e non è più possibile tenerlo segreto.

Pier Vittorio Buffa, de “L’Espresso”, e Luca Villoresi, di “La Repubblica”, pubblicano due articoli grazie a notizie fornite da fonti interne alla Polizia che non vogliono assecondare la linea oltranzista dettata dal Viminale. Le pratiche della tortura sono diffuse e vanno oltre i confini delle province di Padova e Verona. A Mestre, nel II distretto di Polizia, hanno usato gli stessi mezzi. La stessa cosa è avvenuta anche a Roma e Viterbo. A Villoresi, un anonimo investigatore veneto sostanzialmente ammette che la tortura, in alcuni casi, è stata usata e rivendica il risultato di aver «ripulito il Veneto»[10].  

Si moltiplicano le denunce, ma Virginio Rognoni risponde seccamente: «…sulle pretese violenze cui sarebbero stati sottoposti i terroristi recentemente arrestati a Padova e nel Veneto posso dire che sono totalmente false».

Al Ministro dell’Interno risponde anche Magistratura Democratica, l’unico gruppo di giudici che affronta, senza reticenze, il tema dei metodi con i quali viene praticato il contrasto al terrorismo. MD giudica «non sufficienti e definitive le risposte date dal governo», vede distintamente «il pericolo di cedimenti e tolleranze per simili degenerazioni», chiede di «rispettare i termini di legge per presentare l’arrestato al magistrato» e sollecita i magistrati a «fare indagini ed accertamenti medico-legali sulle violenze denunciate». 

Intanto, il processo veronese al gruppo dirigente e ai militanti delle BR-PCC va avanti senza particolari sussulti. Sfilano davanti ai giudici tutti i brigatisti che hanno fatto la scelta di collaborare ed i funzionari di Polizia che li hanno arrestati. Quando arriva il suo turno, Umberto Improta racconta che Ruggero Volinia “Federico”, appena arrestato, subito ha detto di voler collaborare, ha condotto i poliziotti ad un covo a Mestre e poi ha fornito tutte le informazioni sul covo di via Pindemonte. E giunti qui, continua Improta, l’inarrestabile onda del pentitismo ha prodotto altri risultati. Pensate che, aggiunge il funzionario UCIGOS, terminata l’irruzione alle 11:20, Antonio Savasta, appena 15 minuti dopo, già esclamava: «Vi dirò tutto!».

Le uniche voci dissonanti sono quelle di Cesare Di Lenardo e di Alberta Biliato che, presentandosi come prigioniera politica, sostiene che le dichiarazioni che lei ha fatto al magistrato, dopo l’arresto a Treviso, sono solo il frutto delle torture che ha subito.  

Poi un colpo di scena, l’unico del processo. Savasta, Libéra, Frascella e Ciucci – che sino a quel momento hanno fatto ogni sorta di rivelazione, ma nulla hanno detto sulle violenze – consegnano un memoriale al Tribunale. Non fanno marcia indietro rispetto alla scelta del “pentimento”, ma assicurano di non aver avuto favori perché «il trattamento riservatoci dopo l’arresto è stato per noi tutti identico a quello che altri compagni hanno denunciato». E proseguono: «Quattro lunghissimi giorni che non ti fanno restare dentro neanche la dignità di disprezzare chi ti ha torturato, che hanno un fine ben più ambizioso delle informazioni immediatamente estorte, poiché perseguono l’annientamento della tua identità politica». Così, mentre il processo veronese si avvia alle batture finali, per la prima volta anche i brigatisti “pentiti” denunciano le torture[11].   

A Giovanni Palombarini, segretario di Magistratura democratica, che sostiene che la risposta di Rognoni «non è certo stata tranquillizzante ed esaustiva, non dissipa i sospetti, né quieta le voci»[12], ed ai tanti che denunciano la barbarie che si sta consumando sembra quasi indirettamente rispondere il sostituto procuratore che, al termine del processo veronese ai brigatisti, durante la requisitoria, rivolge «un grazie motivato alla polizia che ha lavorato nella più stretta legalità» perché «..mai ho ricevuto lamentele, non dico denunce, di comportamenti scorretti, non dico di abusi…» sino alla scoperta del covo padovano a cui si è arrivati nella “più piena legalità”, grazie esclusivamente alle «indagini sagaci della polizia giudiziaria».

Proprio mentre il magistrato pronuncia queste parole alla Camera dei deputati si svolge un dibattito dai contenuti molto meno rassicuranti. Il Ministro dell’Interno, per la seconda volta, risponde alle tante interrogazioni sul tema delle violenze. I parlamentari citano decine casi accaduti in tutta Italia, ma, soprattutto, le denunce delineano i profili di un sistema diffuso che ha travolto le regole dello stato di diritto ed ha generato una involuzione autoritaria e repressiva[13].  

E’ il sistema nel quale maturano le torture: diventa prassi comune mettere un cappuccio all’arrestato oppure bendarlo; gli interrogatori dei sospettati avvengono in luoghi diversi dagli uffici delle forze di polizia per creare un effetto di “disorientamento”; i familiari, per giorni, ignorano la sorte della persona fermata ed invano, al pari degli avvocati, la cercano nelle carceri; si esercitano pressioni indebite sulle famiglie affinché convincano gli arrestati a collaborare; ai detenuti si chiede, insistentemente, di rinunciare a nominare un difensore di fiducia e di affidarsi al difensore di ufficio; gli arrestati non vengono portati in carcere, ma sono trattenuti presso commissariati, questure, caserme; gli interrogatori del pubblico ministero avvengono molto oltre i termini stabiliti dalla legge, in alcuni casi anche 9/10 giorni dopo l’arresto; vengono denunciati anche casi di illegale “patteggiamento” nei quali si chiede all’interrogato di non denunciare le violenze subite in cambio di favori che riceverà.

Ma il governo non fa nessuna apertura e Virginio Rognoni, anzi, alza il tiro e sostiene che i terroristi, non riuscendo ad arginare il fenomeno dilagante del pentitismo, hanno messo in piedi una vera e propria campagna diffamatoria per colpire la credibilità delle forze di polizia.

I poliziotti democratici di Venezia organizzati nel SIULP (Sindacato Italiano Unitario Lavoratori della Polizia) intervengono a gamba tesa nella polemica politica e, con un comunicato diffuso il 10 marzo ’82, sostengono, sulle violenze, che «tali pratiche sono state tollerate o, addirittura, incoraggiate da direttive dall’alto e infine sostenute dal tacito consenso di una opinione pubblica condizionata dall’incalzare sanguinaria e folle di un terrorismo che ha avvelenato la vita politica e sociale del paese».  

Anche le Brigate Rosse fanno i conti con un fenomeno, inedito per dimensioni e radicalità, che sta sconvolgendo la vita della organizzazione. Il 18 marzo 1982 diffondono un lunghissimo comunicato nel quale lanciano la parola d’ordine della «ritirata strategica» sviluppando una articolata analisi della pratica della tortura («la tortura misura un nuovo livello di scontro») e degli effetti che sta producendo.  

Il gruppo di Magistratura Democratica nel Consiglio Superiore della Magistratura chiede che l’organo di autogoverno dei giudici metta all’ordine del giorno del plenum la discussione su quella che si sta profilando come una vera e propria emergenza democratica[14]

Il magistrato inquirente di Verona trasmette gli atti alla procura padovana, competente per le violenze accadute in via Pindemonte e nella caserma della celere. 

Vittorio Borraccetti, sostituto procuratore padovano, ascolta tutti i brigatisti, scova testimoni anche tra i poliziotti e, attraverso altri accertamenti medici, dimostra che le violenze non sono una invenzione.   

Nel giugno ’82, il giudice istruttore Mario Fabiani firma i mandati di cattura contro alcuni tra i responsabili di quei fatti, tra i quali Salvatore Genova, vicedirigente la Digos genovese. Le accuse sono di concorso in sequestro di persona, violenza privata e lesioni personali.

Scatta istantanea la solidarietà agli arrestati e monta la rabbia contro i magistrati.

Virginio Rognoni esprime «perplessità ed amarezza» per i provvedimenti, mentre il Questore di Genova telegrafa al Presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, manifestando fiducia nella condotta tenuta del commissario arrestato. Nei locali della Questura di Roma si tiene una assemblea permanente dei poliziotti che non escludono di organizzare altre clamorose iniziative. «Se volevano portarci all’esasperazione, ci sono riusciti…nemmeno ad alcuni accusati per banda armata è stato riservato lo stesso trattamento», tuona un anonimo dirigente UCIGOS al giornalista de “l’Unità” che lo avvicina.

Il 5 luglio ’83, in un clima apertamente ostile ai magistrati, si apre il processo padovano mentre un gruppo di poliziotti, solidali con i colleghi imputati, presidia l’ingresso del Tribunale. Salvatore Genova non può essere giudicato perché è stato appena eletto, nella fila del PSDI, nelle elezioni politiche generali del 26 giugno ed occorre attendere l’autorizzazione a procedere della Camera dei deputati che, tre anni più tardi, nel 1986, rifiuta di concederla. Nella udienza dell’8 giugno, il Capitano Lucio De Santis viene arrestato in aula per falsa testimonianza e condannato. Depongono tutti i brigatisti che descrivono le violenze patite, i medici che hanno osservato i segni lasciati dalle torture e i testimoni che confermano l’utilizzo di metodi illegali. 

Un quadro impressionante, alternativo a quello offerto dal testimone Umberto Improta che, in udienza, racconta una storia diversa, cioè di come nacque, nella palazzina della celere, un rapporto cameratesco tra poliziotti carcerieri e brigatisti carcerati: «…il rapporto tra personale UCIGOS, i NOCS e gli arrestati era un rapporto ottimo, di piena collaborazione, addirittura affettuoso…»[15].

Ma i giudici non credono ai poliziotti ed ai funzionari dell’UCIGOS e il 15 luglio 1983, il Presidente del collegio, Francesco Aliprandi, legge il dispositivo della sentenza con la quale gli imputati vengono condannati per il reato di abuso di autorità contro arrestati[16]

I brigatisti e i militanti di altre formazioni picchiati e torturati, durante e dopo il sequestro Dozier, furono moltissimi e, dissoltosi il fumo della retorica che accompagna il plauso ed i riconoscimenti ai liberatori del generale statunitense, emergono i fatti crudi di una operazione nella quale si consumarono violenze che servirono a carpire informazioni senza le quali, come ha francamente riconosciuto Salvatore Genova, quel risultato non sarebbe mai stato raggiunto. Anzi, molte di queste violenze, in realtà, non sortirono nemmeno questo effetto visto che tanti episodi avvennero quando Dozier era già libero e rappresentarono, così, una delle cause scatenanti la scelta di collaborazione assunta dai brigatisti mentre erano in balia dei torturatori. 

Quella padovana è l’unica sentenza degli anni ‘80 che riconosce la responsabilità di pubblici ufficiali per fatti di violenza commessi contro arrestati per vicende di terrorismo. Le decine di denunce fatte da altri inquisiti non producono altro che archiviazioni perché sono ignoti gli autori delle violenze[17].

Tra il 2007 e il 2012, il commissario Salvatore “Rino” Genova decide di raccontare ai giornalisti Matteo Indice e Pier Vittorio Buffa cosa è realmente accaduto durante la stagione di lotta al terrorismo. Descrive le torture, confessa il suo ruolo e quello dei suoi colleghi (De Francisci, Improta, Fioriolli, Ciocia) nell’uso dei metodi illegali e conferma che furono i vertici del Viminale ad impartire la linea della tortura[18]. A Buffa, laconicamente dice: «…Non ho fatto quello che sarebbe stato giusto fare. Arrestare i miei colleghi che le compivano. Dovevamo arrestarci l’un con l’altro. Questo dovevamo fare…»[19].

Le parole del commissario non scatenano la reazione veemente dei vertici istituzionali. Certo, quelli tirati direttamente in causa replicano che si tratta di fantasie, ma anche nel fronte di quelli che sostengono che mai ci furono violenze sui brigatisti si aprono alcune crepe, con ammissioni, a volte, sorprendenti. È il caso di Giordano Fainelli, ex ispettore capo della Digos veronese, che sostiene che, in realtà, Ruggero Volinia trattò la sua confessione in cambio della immunità per Elisabetta Arcangeli e di una sostanziosa somma di denaro, superiore a quella consegnata a Paolo Galati che parlò dopo aver ricevuto circa 40 milioni e la promessa di un trattamento favorevole per il fratello Michele, brigatista che già si trovava in carcere[20].

Ma Fainelli, che nega che Volinia sia stato torturato, ammette poi che la notte del 26 gennaio ’82, insieme ad Umberto Improta e altri colleghi, condusse Ruggero Volinia in un villino in un residence in cui c’era anche Nicola Ciocia. Non assistette a torture, ma non esclude che «l’euforia collettiva portò qualcuno ad andare oltre le righe»[21].      

A queste vicende fa riferimento Giuliano Amato intervenendo, a sorpresa, sul tema. E non usa un linguaggio paludato: la classe politica «aveva coperto il ricorso a metodi e strumenti ai margini della legalità…quando non extralegali…vi fu il ricorso a forme di pressione fisica e psicologica su alcune migliaia di arrestati e detenuti che, nel caso dei primi, sembra siano talvolta arrivate, malgrado le smentite, a toccare la tortura». La magistratura non è senza colpe perché «se pochissimi magistrati seppero del water boarding e pochi dei pestaggi degli arrestati, diverso è il caso dei trattamenti speciali dei detenuti e della possibilità di usare il carcere come strumento di pressione nei confronti di categorie di persone ritenute particolarmente indegne, che divennero pratiche abbastanza diffuse negli anni Ottanta»[22].  

Nemmeno le inusuali rivelazioni di Giuliano Amato sgretolano il muro del silenzio eretto 40 anni fa. Tace la classe politica della prima Repubblica, tacciono i vertici del Viminale e della Polizia di stato, resta silenziosa la magistratura non meno dei giornalisti che quelle inchieste seguirono, celebrando i fasti di uno Stato democratico che prevaleva sulle formazioni eversive sempre rispettando le regole del diritto.

Insomma, un’Italia reticente (reticente proprio nel senso strettamente giuridico «di chi tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti») che non ha ancora trovato il coraggio di discutere, senza infingimenti, dei metodi che vennero impiegati per sconfiggere le organizzazioni della lotta armata, anche di quelli usati durante le indagini in cui raffinati investigatori «cercavano Dozier dentro la vagina di una brigatista».     

[1] Il nucleo che, con vari ruoli, sequestrò e trasportò Dozier a Padova era composto da Antonio Savasta, Pietro Vanzi, Marcello Capuano, Cesare Di Lenardo, Emilia Libéra e Alberta Biliato. Una avvincente ricostruzione della vicenda Dozier e delle torture inflitte nella fase della investigazione è contenuta nella docu-serie Sky Original Il sequestro Dozier. Un’operazione perfetta, 2022. 

[2] Dozier, al momento del sequestro, era sottocapo di stato maggiore addetto al Comando delle forze terrestri NATO nell’Europa meridionale.

[3] Alla fine del 1980, nella organizzazione BR matura la rottura definitiva con la colonna milanese “Walter Alasia” che viene espulsa nel dicembre di quell’anno. Mario Moretti viene arrestato a Milano il 4 aprile 1981. Nello stesso anno, il Fronte carceri e la colonna napoletana danno vita alle BR-Partito Guerriglia, organizzazione che fa capo a Giovanni Senzani. Infine, nell’autunno 1981, si costituiscono le BR-Partito Comunista Combattente, fortemente radicate nella colonna romana, in quella genovese ed in quella veneta (la colonna Annamaria Ludmann-Cecilia) che realizza il sequestro Dozier. 

[4] Enrico Triaca è il protagonista del documentario di Stefano Pasetto Il Tipografo, 2022, vincitore del premio quale miglior lungometraggio all’8° Festival internazionale del documentario Visioni dal Mondo. Sulla vicenda Triaca, vedi dell’autore I tormenti e la calunnia” pubblicato su www.questionegiustizia.it, 12 luglio 2023.

[5] La dettagliata descrizione delle torture inflitte a Nazareno Mantovani, Ruggero Volinia ed Elisabetta Arcangeli è contenuta nella testimonianza resa da Salvatore Genova al giornalista Pier Vittorio Buffa e ad altri organi di informazione. 

[6] L’ordine di servizio del comandante del II reparto celere disciplinava esso stesso una forma di tortura sui prigionieri o, quantomeno, una pratica di trattamento inumano e degradante: bendati, legati, tenuti costantemente al buio e senza avere la possibilità, per diversi giorni, di avere la percezione del luogo in cui si trovavano e della identità di coloro che li interrogavano, i brigatisti furono sottoposti alla “deprivazione sensoriale”. Inoltre, nel processo padovano, venne provato che i poliziotti usarono costantemente anche il metodo della privazione del sonno. A questi mezzi aveva fatto ampio ricorso l’esercito inglese in Irlanda, nei primi anni ’70, contro i detenuti appartenenti all’IRA (Irish Republican Army). Già bollato dalla Commissione europea dei diritti dell’uomo come pratica di tortura, in seguito la Corte europea dei diritti dell’uomo sostenne che il metodo della “deprivazione sensoriale” costituiva una pratica di trattamento inumano e degradante. 

[7] Quasi certamente si tratta dello stesso gruppo di poliziotti della celere padovana che, secondo le successive rivelazioni di Salvatore Genova, si autodefiniva “Guerrieri della notte”. 

[8] Intervistati per la docu-serie Il sequestro Dozier. Un’operazione perfetta, gli ex poliziotti Danilo Amore e Carmelo Di Janni hanno riconosciuto che il racconto di Cesare Di Lenardo sulla finta fucilazione era vero. 

[9] I racconti di Savasta, Di Lenardo, Frascella, Libéra sulle violenze subite sono riportati, integralmente, nella sentenza del Tribunale di Padova del 15 luglio 1983. 

[10] L’articolo di Pier Vittorio Buffa dal titolo Il rullo confessore venne pubblicato su L’Espresso del 28 febbraio 1982. Quello di Luca Villoresi intitolato Ma le torture ci sono state? comparve sull’edizione di La Repubblica del 18 marzo 1982. I due giornalisti vennero arrestati per ordine della magistratura veneziana perché rifiutarono di rivelare l’identità delle loro fonti. L’articolo di Buffa contiene anche una elencazione di altre vicende di violenza su arrestati per fatti di terrorismo: Massimiliano Corsi, Stefano Petrella, Ennio Di Rocco, Luciano Farina, Lino Vai e Gianfranco Fornoni. 

[11] I giudici veronesi, con la sentenza emessa il 25 marzo 1982, condannarono gli ideatori ed esecutori del sequestro Dozier: Francesco Lo Bianco, Barbara Balzerani, Umberto Catabiani, Vittorio Antonini, Luigi Novelli, Remo Pancelli, Marcello Capuano, Pietro Vanzi, Cesare Di Lenardo, Alberta Biliato, Ruggero Volinia, Antonio Savasta, Emilia Libéra, Giovanni Ciucci, Emanuela Frascella, Armando Lanza e Roberto Zanca. 

[12] Intervista di Giovanni Palombarini a Il Manifesto dell’11 marzo 1982. 

[13] Nella seduta del 22 marzo 1982 della Camera dei deputati, diversi parlamentari fecero riferimento ad una miriade di fatti di violenza praticati su arrestati e detenuti. I casi citati, oltre ovviamente quelli veneti, riguardavano gli arresti di Pietro Mutti, Anna Rita Marino, Giuseppe De Biase, Gianni Tonello, Giorgio Benfenati e Paola Maturi.

[14] La richiesta venne rivolta al Vicepresidente Giancarlo De Carolis da Salvatore Senese, Franco Ippolito ed Edmondo Bruti Liberati, rappresentanti di Magistratura Democratica nel CSM. 

[15] Sulle testimonianze di De Francisci e Improta, i giudici padovani scrissero: «con le loro risposte evasive e con il loro comportamento omissivo circa l’obbligo di indagare…hanno dimostrato il loro preciso intento di difendere gli imputati e il loro operato».

[16] La sentenza del Tribunale di Padova, Pres. Aliprandi, emessa il 15 luglio 1983, è pubblicata su Il Foro Italiano, maggio 1984, vol. 107, No. 5, con commento di Domenico Pulitanò. La condanna venne inflitta agli agenti NOCS Danilo Amore, Carmelo Di Janni, Fabio Laurenzi e al tenente del II reparto celere Giancarlo Aralla solo per l’episodio del trasporto illegale in campagna e della finta fucilazione del brigatista Di Lenardo. Inoltre, Amore venne riconosciuto responsabile anche di violenza privata contro Emilia Libéra. L’amnistia promulgata nel 1990 cancellò la condanna.

[17] Nel 2013, i giudici della Corte di Appello di Perugia, accogliendo la richiesta di revisione della sentenza irrevocabile di condanna per il reato di calunnia, hanno riconosciuto che, nel 1978, Enrico Triaca venne torturato. 

[18] Secondo il ricercatore Paolo Persichetti («8 gennaio 1982, quando il governo Spadolini autorizzò il ricorso alla tortura» in Insorgenze, 30 marzo 2012) il governo diede il via libera all’uso della tortura nel corso di una riservatissima seduta del Comitato Interministeriale per l’informazione e la sicurezza (CIIS) a cui parteciparono il Presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, ed i ministri Rognoni, Lagorio, Marchiora, La Malfa, Di Giesi e Altissimo. 

[19] L’articolo del giornalista Matteo Indice che contiene l’intervista a Salvatore Genova, dal titolo E la CIA si stupì dei nostri metodi venne pubblicato su Il Secolo XIX del 24 giugno 2007. Quello di Pier Vittorio Buffa, dal titolo Così torturavamo i brigatisti comparve su L’Espresso del 5 aprile 2012. 

[20] Michele Galati, componente della colonna veneta delle Brigate Rosse, venne arrestato nel dicembre 1980. Il 4 febbraio ’82, al PM di Venezia, fece le sue prime rivelazioni. Galati sostenne che, da un po’ di tempo, stava già collaborando segretamente con il generale Dalla Chiesa ed altri ufficiali dell’Arma dei Carabinieri con i quali parlava in occasione delle traduzioni dal carcere. Rivelò anche che, nell’ottobre ’81, aveva informato Dalla Chiesa che le BR intendevano rapire un alto ufficiale statunitense in forza alla NATO e di stanza a Verona o Vicenza.

[21] Intervista di Giordano Fainelli al quotidiano L’Adige del 12 febbraio 2012. Anche Salvatore Genova raccontò che ad alcuni brigatisti “pentiti” venne elargita una somma complessiva di 100 milioni di lire, denaro prelevato da un fondo riservato del Viminale. 

[22] Le considerazioni sono contenute nel libro di Giuliano Amato e Andrea Graziosi, Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia, il Mulino, 2013.    

I tormenti e la calunnia

di Pino Narducci
presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia
apparso su www.questionegiustizia.it 12 luglio 2023

«…Fui caricato, mi misero le manette dietro la schiena, mi bendarono steso a terra e il furgone partì. Nessuno parlava, si sentiva solo un leggero bisbiglio e un rumore di armi, caricatori che venivano inseriti, carrelli che mettevano il colpo in canna…Dopo una mezz’ora circa…il furgone si fermò. Mi fecero scendere, salimmo delle scale e mi introdussero in una stanza. Lì venni spogliato, mi caricarono su un tavolo e mi legarono alle quattro estremità con le spalle e la testa fuori dal tavolo, accesero la radio con il volume al massimo e cominciò il trattamento. Un maiale si sedette sulla pancia, un altro mi sollevò la testa tenendomi il naso otturato e un altro mi inserì il tubo dell’acqua in bocca…Nessuno parla tranne De Tormentis che dà ordini, decide quando smettere e quando ricominciare, fa le domande…poi ti viene somministrato qualcosa che si dice dovrebbe essere del sale, ma tu non senti più il sapore, dopo un po’ che tieni la testa penzoloni i muscoli cominciano a farti del male e a ogni movimento ti sembra che il primo tratto della spina dorsale ti venga strappato dalla carne, dai muscoli dai nervi…uno, due, tre spasmi e De Tormentis ordina di smettere…all’ennesimo stop un’altra voce che dice di smettere, che può bastare…De Tormentis invece insiste per continuare, ma l’altra voce ha paura e s’impone e così vengo slegato…vengo caricato nel furgone, si sente il rumore di una porta automatica e si parte. Tornati in Questura, nel cortile vengo sbendato e consegnato a due guardie che mi portano in cella di sicurezza…». 

Sono trascorsi nove giorni dalla uccisione di Aldo Moro, ma le prime informazioni sui militanti brigatisti del Tiburtino l’UCIGOS le ha raccolte alla fine di marzo (forse da un confidente, forse, ipotizzano altri, dai militanti della Sezione PCI del quartiere) ed i pedinamenti producono risultati inaspettati.  

La mattina del 17 maggio ’78, agenti UCIGOS e Digos perquisiscono la casa dove Enrico Triaca vive con la moglie ed altri familiari. Mentre alcuni poliziotti restano nell’appartamento, altri conducono il sospettato nel quartiere Monteverde, in via Pio Foà 31, perché, secondo l’ordine del sostituto procuratore generale di Roma, bisogna perquisire anche la tipografia di cui Triaca è titolare dai primi mesi del ’77.

La vicenda della perquisizione – quella che consegnerà Triaca alla storia italiana come “il tipografo delle BR” – è arcinota.

Nella tipografia sono stati stampati molti documenti delle Brigate Rosse ed i poliziotti trovano anche alcune banconote che provengono dal sequestro dell’armatore genovese Pietro Costa, rapimento dal quale le BR hanno ricavato un riscatto di un miliardo e mezzo. 

Molto meno noto è quello che accade nelle ore successive.   

Nel pomeriggio del 17 maggio, davanti a due funzionari Digos, Riccardo Infelisi e Adelchi Caggiano, Triaca racconta che un fantomatico Giulio delle BR lo ha convinto ad aprire la tipografia e gli ha procurato tutto il denaro servito per avviare l’attività e comprare i macchinari. Sottoscrive il verbale, ma precisa che non ha alcuna intenzione di riconoscere la persona che si è presentata a lui come Giulio. Dunque, è inutile che i poliziotti si presentino con le fotografie.

Alle 18:20, la moglie di Triaca, Anna Maria Gentili, viene dichiarata in stato di fermo, anche se, in verità, a suo carico non esiste alcun elemento che dimostri la sua appartenenza alle BR, ma solo il sospetto, che si rivelerà infondato, che sia stata lei a scrivere una risoluzione BR[1]

Alle 20:30, i poliziotti procedono al fermo di Triaca per partecipazione alla banda armata denominata Brigate Rosse, ma il tipografo di via Foà, quella sera, non arriva a Rebibbia né in altri penitenziari e, inghiottito nella notte romana, riemergerà solo due giorni dopo.

Il 18 maggio, salta fuori una dichiarazione che Triaca ha redatto personalmente, con la macchina da scrivere, negli uffici della Digos. 

Il brigatista vuole precisare quanto, in precedenza, ha già detto a voce ai poliziotti e soprattutto che, nella mattinata, ha segnalato alla Digos una abitazione nella quale vivono due brigatisti, Antonio Marini e una donna, Gabriella, che scrive i comunicati BR con una IBM proprio in quell’appartamento. 

Il Vice Questore Aggiunto Michele Finocchi aggiunge una sua annotazione sullo stesso foglio scritto da Triaca ed attesta che è stato l’arrestato a scrivere spontaneamente la dichiarazione che lui riceve alle 13:00 di quel 18 maggio.      

Esiste un’altra dichiarazione, più succinta, sempre scritta personalmente e firmata dal brigatista. 

Accusa Maurizio, cioè Mario Moretti, di aver dato a Gabriella denaro per comprare l’abitazione e conferma che in quella casa si preparano le bozze delle risoluzioni della direzione strategica.

A differenza del primo, su questo secondo foglio non compare alcuna attestazione del funzionario della Digos. 

Molte ore prima, alle 5:30 del 18 maggio, in via Palombini 19, i poliziotti hanno già perquisito l’appartamento di Antonio Marini e Gabriella Mariani, nella stessa giornata arrestati per appartenenza alle Brigate Rosse.

Il 18 e il 19 maggio, i Giudici istruttori interrogano Triaca che conferma le accuse già fatte il giorno 17 e ne aggiunge altre.

Il 9 giugno, nel carcere di Rebibbia, Triaca incontra di nuovo il Consigliere Istruttore Achille Gallucci. Il detenuto esordisce usando parole inusuali («Non mi resta che confermare quanto ho dichiarato ai magistrati nei miei interrogatori allorché mi fu contestato il reato di banda armata»), quasi a dare il senso di una sorta di “ineluttabilità” di quello che sta facendo (la confessione e, soprattutto, le accuse ad altre persone) e che, in realtà, nel suo intimo, il tipografo non avrebbe alcuna intenzione di compiere.

Poi, rispondendo ad una domanda del giudice, l’interrogato comincia a prendere le distanze, anche se in maniera non ancora risolutiva, dalle dichiarazioni spontanee del giorno 17 maggio. 

Il contenuto dei fogli corrisponde alle sue dichiarazioni, ma lui ricorda di aver scritto sotto dettatura di un poliziotto ed a seguito di domande che gli vengono fatte.

Il 19 giugno, a Rebibbia, Triaca incontra di nuovo il giudice Gallucci e ritratta le sue dichiarazioni perché, così esordisce, dopo essere stato prelevato dal Commissariato di Castro Pretorio e portato in un luogo sconosciuto, gli sono state estorte con la tortura dell’acqua e sale. Spiega di aver dattiloscritto lui, il giorno 18 maggio, nella Questura, le due dichiarazioni spontanee, la prima la mattina, la seconda il pomeriggio e comunica al giudice che non intende più rispondere alle domande. 

Il capo dei giudici istruttori romani dispone che una copia del verbale sia trasmessa alla Procura, ma, al tempo stesso, decide immediatamente anche quale sarà il tema che l’istruttoria dovrà sviluppare perché avvisa Triaca che è indiziato del reato di calunnia in danno di imprecisati pubblici ufficiali.

L’indagine, quindi, non dovrà accertare dove il brigatista ha trascorso la notte tra il 17 e il 18 maggio né se ha subito violenze, ma dovrà solo ricercare elementi che possano ulteriormente dimostrare che Triaca ha inventato tutto ed ha accusato persone innocenti.

Per il brigatista, infatti, arrivano il mandato di cattura per il reato di calunnia ed il rinvio a giudizio.  Nell’autunno ’78 si celebra il processo di primo grado.

Davanti ai giudici della VIII Sezione del Tribunale di Roma sfilano i funzionari di Polizia (il dirigente della Digos, Domenico Spinella, e poi Michele Finocchi, Adelchi Caggiano e Riccardo Infelisi) che si sono occupati di Enrico Triaca il 17 e il 18 maggio ’78. 

Secondo la versione che essi forniscono ai giudici, dopo la perquisizione nella tipografia, Triaca viene condotto direttamente nella caserma della Polizia di Castro Pretorio, ma poi, tra le 16:00 e le 17:00, torna negli uffici Digos per l’interrogatorio. Resta nei locali della Digos durante la notte e la mattina del 18 maggio, dopo aver reso spontanee dichiarazioni ed aver indicato dove si trova l’abitazione di Gabriella Mariani, verso le 6:00 viene affidato agli uomini che gestiscono le camere di sicurezza della Questura di Roma. 

Sulle modalità attraverso le quali il tipografo ha redatto le dichiarazioni spontanee, i poliziotti sostengono che ha scritto, contestualmente, i due fogli con la macchina da scrivere e li ha poi consegnati al funzionario Michele Finocchi che, tuttavia, non si è avveduto del secondo foglio dattiloscritto e non vi ha apposto la sua attestazione. 

Fallisce ogni tentativo di identificare gli agenti della PS che hanno avuto in custodia il brigatista nelle camere di sicurezza perché, all’epoca, non esistono registri delle loro presenze.    

Il 7 novembre ’78, il Tribunale condanna Enrico Triaca alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione perché ha accusato falsamente i poliziotti di averlo torturato per estorcergli le dichiarazioni del 18 maggio ’78.

La condanna diventa irrevocabile nel 1985 e la vicenda scivola nell’oblio per molti anni.

Nella prima parte degli anni ’80, nei processi per fatti di terrorismo, si moltiplicano i casi di denuncia per tortura. Ma se la magistratura, a differenza di quanto è successo al tipografo di via Foà, quasi mai procede per il reato di calunnia, al tempo stesso, immancabilmente, le inchieste non conducono mai ad un accertamento della responsabilità di pubblici funzionari[2]

Poi, il 24 giugno 2007, il giornalista Matteo Indice, su Il secolo XIX di Genova, pubblica un’intervista ad un anonimo ex funzionario di Polizia. Il titolo del pezzo è emblematico: «Così ai tempi delle BR dirigevo i torturatori – Torture per il bene dell’Italia». 

Il funzionario è entrato in Polizia alla fine degli anni ’50, ha lavorato in Sicilia e a Napoli, poi al nucleo antiterrorismo di Emilio Santillo e all’UCIGOS. A Napoli intuisce che, per indagare con efficacia sulle organizzazioni terroristiche, la soluzione migliore è mettere insieme poliziotti che si occupano di criminalità comune e quelli che si occupano di “politica”. 

Ma non si tratta esattamente di un gruppo di raffinati investigatori! 

Racconta al giornalista di essere stato lui ad aver costituito la squadra dei «cinque dell’Ave Maria» che fa il suo esordio, a Napoli, contrastando i NAP-Nuclei Armati Proletari[3] e poi viene utilizzata per altre operazioni antiterrorismo, sino a quella che porta alla liberazione del generale americano James Lee Dozier, a Padova, nel gennaio 1982.   

Le parole dell’intervistato sono agghiaccianti : «…ammesso e assolutamente non concesso che ci si debba arrivare, la tortura – se così si può definire – è l’unico modo, soprattutto quando ricevi pressioni per risolvere il caso, costi quel che costi…quelli dell’Ave Maria esistevano, erano miei fedelissimi che sapevano usare tecniche “particolari” di interrogatorio, a dir poco vitali in certi momenti…poi quando l’intelligenza viene definitamente offesa, ci sono i modi forti e a quel punto il sospettato ha l’impressione d’essere in tuo completo dominio. Si vuole parlare di torture, ma io direi che si trattava soprattutto di una messinscena praticata per garantire la sopravvivenza a decine di persone…ero autorizzato e delegato ogni volta a muovermi in questo modo dai miei superiori che riferivano al Capo della Polizia e al Ministro dell’Interno[4]. Ci dicevano che era necessario andare fino in fondo e noi gli risolvevamo i problemi. L’impiego dei miei investigatori non era troppo ricorrente, ma coincideva sempre con i momenti cruciali delle indagini…».

Il poliziotto rivendica di aver interrogato, con i cinque dell’Ave Maria, il brigatista Ennio Di Rocco[5], di aver arrestato Giovanni Senzani proprio grazie alle informazioni fornite da Di Rocco e di essere stato chiamato in Veneto per le indagini sul sequestro Dozier[6]

Non manca un fugace riferimento alla vicenda del maggio ’78: «…il tipografo Enrico Triaca fornì una serie di rivelazioni impressionanti dopo che lo torchiammo…».

L’intervistato, di cui non si conosce ancora il nome, rivela fatti di inaudita gravità. 

Negli anni ’70, per combattere il terrorismo, la Polizia di Stato ha creato una struttura clandestina di torturatori (la squadra dell’Ave Maria) che interviene nel momento in cui è necessario estorcere informazioni alla persona arrestata. La squadra al comando del funzionario ha torturato i brigatisti Enrico Triaca ed Ennio Di Rocco ed ha operato in maniera illegale nella imminenza della liberazione del sequestrato Dozier.

L’articolo di Matteo Indice squarcia il velo sulle verità indicibili degli anni in cui lo stato italiano ha contrastato le organizzazioni eversive. 

La tortura e l’uso di altri metodi illegali e disumani non sono stati il frutto di iniziative personali ed estemporanee di singoli funzionari né il risultato di attività di settori “deviati” che hanno agito all’insaputa dei vertici.

La squadra dei torturatori ha attuato un piano politico-istituzionale in base al quale si è deciso di “legalizzare” la tortura pur di raggiungere l’obiettivo di disarticolare il nemico.

Salvatore Genova, ex funzionario di Polizia, decide di rivelare i fatti inconfessabili che ha nascosto anche quando è stato coinvolto, nel 1983, nella indagine che il sostituto procuratore di Padova, Vittorio Borraccetti, ha condotto sulle gravissime violenze esercitate dai poliziotti sul brigatista Cesare Di Lenardo[7].  

Racconta di essere stato mandato in Veneto, con altri funzionari, durante il sequestro Dozier, per incarico di Gaspare De Francisci, capo dell’UCIGOS. Le direttive ricevute sono quanto mai esplicite: bisogna usare le manieri forti per arrivare, a qualsiasi costo, alla liberazione del generale NATO ed ogni mezzo è consentito perché esiste la copertura dell’autorità politica. 

Genova ha visto all’opera De Tormentis e la sua squadra durante le sedute di tortura dei brigatisti Nazareno Mantovani, Elisabetta Arcangeli e Ruggero Volinia, il militante che, infine, indica il covo in cui è tenuto prigioniero il generale statunitense[8].        

È il giornalista Fulvio Bufi de Il Corriere della Sera[9] a rivelare, finalmente, il nome del professor De Tormentis. Si tratta del pugliese Nicola Ciocia, ex funzionario di Polizia, poi, dal 1984, avvocato del foro napoletano. A Bufi dice di essere «fascista mussoliniano» e così illustra i suoi metodi: «Bisogna avere stomaco per ottenere risultati con un interrogatorio. E bisogna far sentire l’interrogato sotto il tuo assoluto dominio…la lotta al terrorismo non si poteva fare con il codice penale in mano…però non è vero che quei sistemi, quelle pratiche sono sempre efficaci». Come nel caso di Triaca: «Lui non ha parlato, quindi quei metodi non sempre funzionano».

Il tipografo brigatista decide di rivolgersi alla magistratura per ottenere la revisione della sentenza di condanna per il reato di calunnia. 

Nel 2013, la Corte di Appello di Perugia accoglie la richiesta del condannato e cancella la sentenza[10]. Triaca non ha commesso alcuna calunnia perché è stato realmente torturato. 

I giudici scrivono parole inequivocabili: «…un funzionario all’epoca inquadrato nell’UCIGOS e rispondente al nome di Nicola Ciocia, dopo aver sperimentato pratiche di waterboarding nei confronti di criminalità comune, le utilizzò all’epoca del terrorismo nei confronti di alcuni soggetti arrestati, al fine di sottoporre costoro ad una pressione psicologica che avrebbe dovuto indebolirne la resistenza e indurli a parlare. In più occasioni tali pratiche furono utilizzate nelle fasi del sequestro Dozier e…propiziarono la liberazione del generale….Può dirsi acclarato che lo stesso funzionario, conosciuto con il nomignolo di professor De Tormentis (a quanto pare affibbiato dal Vice Questore Improta) fu chiamato a sottoporre alla pratica del waterboarding anche Enrico Triaca che, del resto, il 19 giugno aveva narrato di essere stato sottoposto ad un trattamento esattamente corrispondente a quel tipo di pratica speciale, a base di acqua e sale con naso tappato».

Nella seconda metà degli anni ‘70, i terroristi di stato argentini praticano la tortura in modo sistematico e generalizzato nei confronti degli oppositori. Nell’apprendimento dei metodi della «guerra controrivoluzionaria», sono gli allievi più brillanti dei militari francesi che hanno usate queste pratiche (la sinistra sequenza secuestro-tortura-desaparición) durante la guerra in Indocina e poi, soprattutto, in Algeria, nella lotta contro il Fronte di Liberazione Nazionale che lotta per l’indipendenza del paese africano[11]

La sociologa argentina Pilar Calveiro[12], nel fondamentale libro Poder y desaparición, analizza il rapporto che si instaura tra carnefice e vittima, quel meccanismo che il professor De Tormentis ha esaltato come il momento nel quale il prigioniero percepisce che si trova sotto il completo dominio del suo aguzzino: «…la tortura, strumento per “strappare” la confessione, strumento per eccellenza per produrre la verità che ci si aspetta dal prigioniero, criterio di verità per fare in modo che il soggetto si “spezzi”…la utilizzazione di tormenti aveva una funzione principale: ottenere informazioni operativamente utili…la nudità del prigioniero e il cappuccio che nascondeva il volto aumentavano il senso di impotenza però, al tempo stesso, esprimevano la volontà di rendere trasparente l’essere umano, violare la sua intimità – impadronirsi del suo segreto – vederlo senza che egli possa vedere…I torturatori non vedono il volto della vittima; tormentano corpi senza volto; castigano sovversivi, non essere umani. C’è qui una negazione della umanità della vittima che è duplice: di fronte a sé stessa e di fronte a coloro che la tormentano».

[1] Nel corso di una intervista realizzata da Enrico Porsia per il video-reportage J’accuse-Torture di Stato, Triaca racconta che, mentre viene torturato, per ottenere il suo completo annientamento, i poliziotti gli dicono che riserveranno lo stesso trattamento alla moglie. 

[2] Tra i tanti casi di quel periodo, emblematico è quello del militante delle BR-Partito Comunista Combattente, Alessandro Padula. Arrestato il 14 novembre ’82, circa dieci giorni dopo si presenta nell’aula ove si sta svolgendo il processo Moro 1 e denuncia di essere stato torturato da uomini della Digos che hanno anche impedito che potesse presenziare alle udienze precedenti poiché preoccupati di cancellare le tracce lasciate dalle sevizie sul suo corpo. 

[3] Il nappista Alberto Buonoconto, arrestato l’8 ottobre 1975, denuncia al Pubblico Ministero di essere stato lungamente seviziato nelle stanze della Questura di Napoli. Accusa, tra gli altri, un funzionario della Squadra Politica mentre, sul conto di Nicola Ciocia, dice di non essere certo della sua presenza durante la seduta di tortura. Buonoconto si suicida, nella sua casa napoletana, il 20 dicembre 1980.      

[4] Nel 1982, il Capo della Polizia è Giovanni Coronas e Virginio Rognoni è il Ministro dell’Interno

[5] Ennio Di Rocco, militante delle BR-Partito Guerriglia, viene arrestato a Roma il 4 gennaio 1982. Quando il PM Domenico Sica lo interroga, il brigatista si dichiara prigioniero politico e racconta che la sera dell’arresto è stato condotto nella caserma di Castro Pretorio e lungamente torturato per tre giorni da persone incappucciate, anche con il metodo dell’acqua e sale. Cede alle torture e rivela fatti che riguardano la propria organizzazione. Considerato un traditore, viene ucciso, a luglio di quello stesso anno, nel carcere di Trani.

[6] Il generale James Lee Dozier presta servizio, a Verona, presso il Comando NATO delle Forze Terresti del Sud Europa. Sequestrato il 17 dicembre 1981 da un nucleo delle BR-Partito Comunista Combattente, viene liberato il 28 gennaio 1982, a Padova, con una operazione dei NOCS della Polizia di Stato. 

[7] Nel 1983, non esiste nel nostro codice penale il reato di tortura che sarà introdotto solo nel 2017. I giudici del Tribunale di Padova, con la sentenza di primo grado del 15 luglio ’83, condannano i poliziotti dei NOCS (ma non Salvatore Genova che, nel frattempo, è diventato parlamentare del PSDI) per il reato di abuso di autorità contro arrestati o detenuti (art. 608 cod. penale), punito con una pena blanda.   

[8] La docu-serie Sky Original Il sequestro Dozier – Un’operazione perfetta offre la ricostruzione più documentata sulle vicende segrete che accadono durante le indagini e sull’uso della tortura. 

[9] L’articolo di Fulvio Bufi dal titolo “Sono io l’uomo della squadra speciale anti BR” è stato pubblicato su “Il Corriere della Sera” il 10 febbraio 2012

[10] La sentenza della Corte di Appello di Perugia, Pres. Ricciarelli, viene emessa il 15 ottobre 2013.

[11] La giornalista Marie-Monique Robin, nel documentario Squadroni della morte. La scuola francese, racconta che furono gli ufficiali francesi a insegnare ai militari argentini le tecniche più raffinate della tortura e che questi ultimi frequentarono specifici corsi nella prestigiosa Ecole militaire a Parigi.

[12] Militante montonera, Pilar Calveiro viene sequestrata, da un gruppo di militari dell’Aeronautica, il 7 maggio ‘77 e tenuta prigioniera in tre centri clandestini di detenzione per circa un anno e mezzo. In seguito, è stata in esilio, prima in Spagna, poi in Messico.

Massimo Bordin e quel ricordo di un torturatore

massimo-bordin

Ho conosciuto Massimo Bordin nel 2011. Stavo terminando l’inchiesta sul capo della squadretta del ministero dell’Interno responsabile delle torture praticate nel maggio 1978 a Enrico Triaca, conosciuto come il tipografo delle Br, e poi durante tutto il 1982 contro altri militanti accusati di appartenere alle Brigate rosse. Matteo Indice, sul Secolo XIX e poi Nicola Rao in un libro avevano avvicinato questo personaggio. Lo avevano intervistato senza tuttavia mai svelarne il nome, si erano limitati ad indicarlo col soprannome di «professor De Tormentis», affibbiatogli dal suo capo Umberto Improta. Soprannome che si era guadagnato sul campo per la sua abilità nel condurre interrogatori sotto tortura, in modo particolare con la tecnica della «cassetta», l’acqua e sale, divenuta nota a livello mondiale dopo Guantanamo con l’etichetta di waterboarding.
Il «professor De Tormentis», raggiunto il grado di questore aveva lasciato la polizia per entrare nel mondo dell’avvocatura (sic!). Era molto orgoglioso del suo passato e disseminava tracce ovunque. Si era candidato in una tornata elettorale con Fiamma Tricolore e aveva scritto persino degli articoli. Insomma l’avevo beccato. Sapevo chi era, dove aveva sede il suo studio legale. Ormai ero certo. Si chiamava Nicola Ciocia. All’epoca lavoravo a Liberazione ma soprattutto ero in semilibertà. Il mio avvocato era molto preoccupato per l’articolo che stavo preparando, temeva ripercussioni immediate, una querela e la mia chiusura in cella. Risultato che qualche tempo dopo cercò di ottenere Roberto Saviano per un’altra vicenda che riguardava le sue bugie sulla madre di Peppino Impastato. Anche in redazione erano preoccupati, alla fine cedetti. Avrei scritto l’articolo riempiendolo con una tale quantità di informazioni circostanziate che bastava fare un clic sul web per conoscere la sua identità (lo potete trovare qui). Non mi arresi, ovviamente, e feci di tutto perché quel nome uscisse comunque, come avvenne qualche tempo dopo sul Corriere della sera. La vicenda poi finì anche in mano alla magistratura, che grazie alla forza di Enrico Triaca e alla competenza dell’avvocato Francesco Romeo riconobbe l’esistenza (leggi qui) delle torture praticate da Ciocia e dalla sua squadra.
Mentre completavo l’inchiesta avevo letto che l’avvocato Nicola Ciocia aveva partecipato al processo Cirillo, del quale era stato durante l’inchiesta, grazie alle innumerevoli sedute di tortura praticate contri gli imputati, uno dei principali inquirenti. Siccome avevo bisogno di ulteriori conferme e dettagli per blindare il pezzo, avevo cercato le registrazioni delle udienze su radio radicale. Massimo Bordin aveva seguito per la radio quel processo. Fu quella la ragione che mi spinse a chiamarlo e prendere un appuntamento. Dopo aver inviato il solito fax al commissariato per comunicare che mi sarei recato nella redazione di radio radicale per motivi di lavoro, raggiunsi via Principe Amedeo. Salii le scale ripide fino all’ultimo piano, dove si trova la sede. Si accedeva all’ufficio di Bordin attraverso un piccolo corridoio. La stanza era piccola con un grande tavolo sommerso di libri e giornali. Un caos perfettamente organizzato. Stava lì con il suo toscano e il suo sorriso. Gli avevo accennato qualcosa per telefono e una volta davanti a lui si accese quella enorme banca dati che era la sua memoria: precisa, circostanziata, visiva, ricca di infiniti aneddoti. Mi disse subito che si ricordava di Ciocia che nel processo teneva la difesa di un poliziotto, suo subordinato quando era ancora in servizio. «Come si può dimenticare quel personaggio!» Esclamo. Mi raccontò immediatamente un episodio che diceva tutto di come Massimo sapeva riassumere le situazioni: Ciocia aveva iniziato il controinterrogatorio di un imputato che lui stesso aveva interrogato durante le indagini. Potete immagina come.
Con fare aggressivo lo incalzava dicendogli: – ma come, non ti ricordi quando con le lacrime agli occhi mi dicevi queste cose?
E l’imputato: – Avvoca’ ma quelle non erano lacrime, erano i suoi sputi!
E Massimo sorrise!

Mi mancherai davvero, ciao!

Per saperne di più su Nicola Ciocia e le torture
Le torture della Repubblica

Il prof. De Tormentis e la pratica della tortura in Italia

Diritto penale contLa rivista Diritto penale contemporaneo dedica un’articolo di commento alla sentenza della corte d’appello di Perugia che il 15 ottobre scorso ha riconosciuto, durante il giudizio di revisione della condanna per calunnia inflitta a Enrico Triaca per aver denunciato le torture subite dopo l’arresto nel maggio 1978, l’esistenza sul finire degli anni 70 e i primissimi anni 80 di un apparato statale della tortura messo in piedi per combattere le formazioni politiche rivoluzionarie che praticavano la lotta armata.
«Più che alla ricerca di verità giudiziarie – si spiega nel testo – questa sentenza deve piuttosto condurre ad essere meno perentori nel sostenere la tesi, così diffusa nel dibattito pubblico e storiografico, secondo cui il nostro ordinamento, a differenza di altri, ha sconfitto il terrorismo con le armi della democrazia e del diritto, senza rinunciare al rispetto dei diritti fondamentali degli imputati e dei detenuti. In larga misura ciò è vero, ma è anche vero – e questa sentenza ce lo ricorda quasi brutalmente – che anche nel nostro Paese si è fatto non sporadicamente ricorso a strumenti indegni di un sistema democratico: è bene ricordarlo, per evitare giudizi troppo facilmente compiaciuti su un periodo così drammatico della nostra storia recente, e sentenze come quella di Perugia ci aiutano a non perdere la memoria».

Ipse dixit

Sandro Pertini, presidente della Repubblica ex partigiano (ma proprio ex) non eravamo il Cile di Pinochet:
«In Italia abbiamo sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi»

Carlo Alberto Dalla Chiesa, generale dei carabinieri, al Clarin, giornale argentino:
«
L’Italia è un Paese democratico che poteva permettersi il lusso di perdere Moro non di introdurre la tortura»

Domenico Sica, magistrato pm, in una intervista apparsa su Repubblica del 15 marzo 1982:
«Le denunce contro le violenze subite dagli arrestati fanno parte di una campagna orchestrata dai terroristi per denigrare le forze dell’ordine dopo i recenti clamorosi successi ottenuti»

Armando Spataro, magistrato pm, su Paese sera del 19 marzo 1982 in polemica con il capitano di Ps Ambrosini e l’appuntato Trifirò che avevano denunciato le torture praticate nella caserma di Padova:
«Un conto è la concitazione di un arresto, un conto è la tortura. In una operazione di polizia non si possono usare metodi da salotto. La tortura invece è un’altra»

Giancarlo Caselli e Armando Spataro, magistrati e pm, nel libro degli anni di piombo, Rizzoli 2010:
«Nel pieno rispetto delle regole, i magistrati italiani fronteggiarono la criminalità terroristica, ricercando elevata specializzazione professionale e ideando il lavoro di gruppo tra gli uffici (il coordinamento dei 36) […] La polizia doveva, anche allora, mettere a disposizione della magistratura gli arrestati nella flagranza del reato o i fermati entro 48 ore e non poteva interrogarli a differenza di quanto avviene in altri ordinamenti….»

 

www.penalecontemporaneo.it 4 Aprile 2014
Corte d’appello di Perugia, 15 ottobre 2013, Pres. Est. Ricciarelli [Luca Masera]

1.In un recente articolo di Andrea Pugiotto dedicato al tema della mancanza nel nostro ordinamento del reato di tortura (Repressione penale della tortura e Costituzione: anatomia di un reato che non c’è, in questa Rivista, 27 febbraio 2014), l’autore prende in esame gli argomenti utilizzati più di frequente da chi intenda negare rilevanza al problema, e nel paragrafo dedicato all’argomento per cui la questione “non ci riguarda”, elenca una serie di casi di tortura accertati in sede giudiziaria. La sentenza della Corte d’appello di Perugia qui disponibile in allegato aggiunge a questo terribile elenco un nuovo episodio, riconducibile peraltro al medesimo pubblico ufficiale già autore di un fatto di tortura citato nel lavoro di Pugiotto.2. In sintesi la vicenda oggetto della decisione.Nel maggio 1978 Enrico Triaca viene arrestato nell’ambito delle indagini per il sequestro e l’uccisione dell’on Moro, in quanto sospettato di essere un fiancheggiatore delle Brigate Rosse. Nel corso di un interrogatorio di polizia svoltosi il 17 maggio, il Triaca riferisce di aver aiutato un membro dell’organizzazione a trovare la sede per una tipografia clandestina, e di avere ricevuto dalla medesima persona la pistola, che era stata rinvenuta in sede di perquisizione; il giorno successivo, sempre interrogato dalla polizia, indica altresì il nominativo di alcuni appartenenti all’organizzazione. Le dichiarazioni rese all’autorità di polizia vengono poi confermate al Giudice istruttore durante un interrogatorio svoltosi alla presenza del difensore. Il 19 giugno, nel corso di un nuovo interrogatorio, il Triaca ritratta quanto affermato in precedenza, affermando “di essere stato torturato e precisando che verso le 23.30 del 17 maggio era stato fatto salire su un furgone in cui si trovavano due uomini con casco e giubbotto, era stato bendato e fatto scendere dopo avere percorso sul furgone un certo tratto, infine era stato denudato e legato su un tavolo: a questo punto mentre qualcuno gli tappava il naso qualcun altro gli aveva versato in bocca acqua in cui era stata gettata una polverina dal sapore indecifrabile; contestualmente era stato incitato a parlare”. In seguito a queste dichiarazioni, il Triaca viene rinviato a giudizio per il delitto di calunnia presso il Tribunale di Roma, che perviene alla condanna senza dare seguito ad alcuno degli approfondimenti istruttori indicati dalla difesa; la sentenza viene poi confermata in sede di appello e di legittimità.La Corte d’appello di Perugia viene investita della vicenda in seguito all’istanza di revisione depositata dal Triaca nel dicembre 2012. La Corte afferma in primo luogo che “il giudizio di colpevolezza si fondò su argomenti logici, in assenza di qualsivoglia preciso elemento probatorio tale da far apparire impossibile che l’episodio si fosse realmente verificato. Tale premessa è necessaria per comprendere il significato del presente giudizio di revisione, volto ad introdurre per contro testimonianze, aventi la funzione di accreditare specificamente l’episodio della sottoposizione del Triaca allo speciale trattamento denominato waterboarding”. Nel giudizio di revisione vengono dunque assunte le testimonianze di un ex Commissario di Polizia (Salvatore Genova) e di due giornalisti (Matteo Indice e Nicola Rao) che avevano svolto inchieste su alcuni episodi di violenze su detenuti avvenute dalla fine degli anni Settanta ai primi anni Ottanta (la vicenda più nota è quella relativa alle violenze commesse nell’ambito dell’indagine sul sequestro del generale Dozier nel gennaio 1982: è l’episodio cui viene fatto cenno nel lavoro del prof. Pugiotto, citato sopra) ad opera di un gruppo di poliziotti noto tra le forze dell’ordine come “i cinque dell’Ave Maria”, agli ordini del dirigente dell’Ucigos Nicola Ciocia, soprannominato “prof. De Tormentis”. Il Genova (che aveva personalmente assistito agli episodi relativi al caso Dozier) aveva organizzato, in due distinte occasioni, un incontro tra i suddetti giornalisti ed il Ciocia, il quale ad entrambi aveva riferito delle violenze commesse dal gruppo da lui diretto sul Triaca, che era stato il primo indagato per reati di terrorismo ad essere sottoposto alla pratica del waterboarding, in precedenza “sperimentata” su criminali comuni. Sulla base di queste convergenti testimonianze, e ritenendo che “la mancata escussione della fonte diretta non comporta inutilizzabilità di quella indiretta, peraltro costituente fonte diretta del fatto di per sé rilevante della personale rilevazione da parte del Ciocia”, la Corte conclude che “la pluralità delle fonti consente di ritenere provato che un soggetto, rispondente al nome di Nicola Ciocia, confermò di avere, quale funzionario dell’Ucigos al tempo del terrorismo, utilizzato più volte la pratica del waterboarding (…) la stessa pluralità delle fonti, sia pur – sotto tale profilo – indirette, consente inoltre di ritenere suffragato l’assunto fondamentale che a tale pratica fu sottoposto anche Enrico Triaca”. La sentenza di condanna per calunnia a carico del Triaca viene quindi revocata, e viene disposta la trasmissione degli atti alla Procura di Roma per quanto di eventuale competenza a carico del Ciocia (la Corte ovviamente è consapevole del lunghissimo tempo trascorso dei fatti, ma reputa che “la prescrizione va comunque dichiarata e ad essa il Ciocia potrebbe anche rinunciare”).

3. La sentenza in allegato rappresenta solo l’ultima conferma di quanto la tortura sia stata una pratica tutt’altro che sconosciuta alle nostre forze di polizia durante il periodo del terrorismo. La squadra di agenti comandata dal Ciocia ed “esperta” in waterboarding non agiva nell’ombra o all’insaputa dei superiori: a quanto riferito dal Genova, della cui attendibilità la Corte non mostra di aver motivo di dubitare, i metodi dei “cinque dell’Ave Maria” erano ben noti a quanti, nelle forze dell’ordine, si occupavano di terrorismo, ed addirittura la sentenza riferisce come, in un’intervista rilasciata dallo stesso Ciocia, egli riferisca che l’epiteto di “prof. De Tormentis” gli fosse stato attribuito dal vice Questore dell’epoca, Umberto Improta. Quando poi una delle vittime, come il Triaca, trovava il coraggio per denunciare quanto subito, le conseguenze sono quelle riportate nella sentenza allegata: condanna per calunnia, senza che Il Tribunale svolga alcuna indagine per accertare la falsità di quanto riferito.

Il quadro che emerge dalla sentenza è insomma a tinte assai fosche. Negli anni Settanta-Ottanta, operava in Italia un gruppo di funzionari di polizia dedito a pratiche di tortura; e l’esistenza di questo gruppo era ben nota e tollerata all’interno delle forze dell’ordine, anche ai livelli più alti. La magistratura in alcuni casi ha saputo reagire a queste intollerabili forme di illegalità (esemplare è il processo, anch’esso citato nel lavoro di Pugiotto, celebrato presso il Tribunale di Padova nel 1983 in relazione proprio ai fatti relativi al caso Dozier), in altre occasioni, come quella oggetto della sentenza qui in esame, ha preferito voltarsi dall’altra parte, colpevolizzando le vittime della violenza per il fatto di avere voluto chiedere giustizia .

La sentenza non riferisce fatti nuovi: le fonti su cui si basa la decisione sono le testimonianze di due giornalisti, che avevano pubblicato in libri ed articoli le vicende e le confessioni poste a fondamento della revisione. Fa comunque impressione vedere scritto in un provvedimento giudiziario, e non in un reportage giornalistico, che nelle nostre Questure si praticava la tortura; e fa ancora più impressione se si pensa che la metodica utilizzata, il famigerato waterboarding, è la medesima che in anni più recenti è stata utilizzata dai servizi segreti americani per “interrogare” i sospetti terroristi di matrice islamista: passano gli anni, ma la tortura e le sue tecniche non passano di moda.

Ormai sono trascorsi decenni dalle condotte del prof. De Tormentis e della sua squadra, ed al di là del dato formale – posto in luce dalla Corte perugina – che la prescrizione è rinunciabile, davvero non ci pare abbia molto senso immaginare la riapertura di inchieste penali volte a concludersi invariabilmente con una dichiarazione di estinzione del reato, per prescrizione o per morte del reo, considerato il lunghissimo tempo trascorso dai fatti. Più che alla ricerca di verità giudiziarie, la sentenza qui allegata deve piuttosto condurre ad essere meno perentori nel sostenere la tesi, così diffusa nel dibattito pubblico e storiografico, secondo cui il nostro ordinamento, a differenza di altri, ha sconfitto il terrorismo con le armi della democrazia e del diritto, senza rinunciare al rispetto dei diritti fondamentali degli imputati e dei detenuti. In larga misura ciò è vero, ma è anche vero – e questa sentenza ce lo ricorda quasi brutalmente – che anche nel nostro Paese si è fatto non sporadicamente ricorso a strumenti indegni di un sistema democratico: è bene ricordarlo, per evitare giudizi troppo facilmente compiaciuti su un periodo così drammatico della nostra storia recente, e sentenze come quella di Perugia ci aiutano a non perdere la memoria.

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Le torture contro i militanti della lotta armata
Gli anni spezzati dalla tortura di Stato

Il generale Dozier partecipa alla cerimonia in ricordo di Umberto Improta, il vicequestore che diede il soprannome “De Tormentis” a Nicola Ciocia, torturatore esperto di waterboarding

Forse non lo sapevate ma esiste anche un premio intitolato alla memoria del prefetto Umberto Improta. Chi era Improta?
Molti di voi, almeno quelli che hanno letto i ripetuti post sulla storia delle torture e le gesta del professor De Tormentis, pseudonimo coniato proprio da Improta dietro il quale si cela l’identità del funzionario dell’Ucigos oggi in pensione, Nicola Ciocia, già lo sanno.
Per chi ancora non lo dovesse sapere, Improta è stato una delle figure centrali della polizia politica, responsabile dell’ufficio politico della questura di Napoli nei primi anni 70, poi all’Ucigos, poi questore a Roma e infine a coronare una carriera da sbirro all’acqua e sale (Lo Sbirro. Umberto Improta, vita e indagini, Laurus Robuffo, 2004, è il titolo di un libro carico di omissis e sibilline allusioni che gli ha dedicato Piero Corsini), l’incarico a prefetto di Napoli, sua città natale, e – dulcis in fundo – di commissario straordinario ai rifiuti in Campania.
A dire il vero la sua carriera si chiuse malamente nel 1995, quando decise di lasciare l’incarico tra le lacrime in una drammatica conferenza stampa. Aveva ricevuto un avviso di garanzia per presunte irregolarità nella concessione di licenze ad istituti di vigilanza nel Napoletano. Vicenda che più tardi si concluse comunque con un’assoluzione. La morte lo colse nel 2002.
Nel libro sopra citato si dice, come se niente fosse, che quando c’era bisogno di “scuotere” un’arrestato, insomma di interrogarlo con le maniere forti, veniva chiamato Improta. Tutti sanno, in polizia e fuori, nel mondo dell’avvocatura, del giornalismo giudiziario, delle procure, di chi si è occupato un po’ delle vicende e delle indagini sulla lotta armata, che il nome di Improta è legato al cono d’ombra delle torture. Sulla sua scia infatti seguiva sempre il “professor De Tormentis”, suo inseparabile collega. Il suo nome è legato ad episodi rimasti irrisolti, come l’uccisione di Giorgio Vale, militante dei Nar ucciso con un colpo in testa sparato a bruciapelo al momento del suo arresto.
L’ex commissario Salvatore Genova ha più volte fatto il nome di Improta, nel libro di Nicola Rao e durante la trasmissione Chi l’ha visto, su Rai tre. Nome bippato ma comprensibile. Nel libro di Rao, Genova indica il trio al completo dell’Ucigos comandata da Gaspare De Fracisci: Improta, Fioriolli e De Gregorio, funzionari sempre presenti, dunque pienamente al corrente, attivamente partecipi, corrivi e omissivi, durante le varie fasi degli interrogatori sotto tortura da cui attendevano solerti i risultati, ovvero che il seviziato sputasse fuori nomi e indirizzi oppure l’anima se non sapeva nulla. E se questi primi “approcci” non davano i risultati sperati passavano alla fase successiva, al grado superiore: sollecitando l’intervento del “professor De Tormentis” che girava su è giù per le questure e le caserme d’Italia sempre pronto a mettere in pratica il suo trattamento a base di acqua e sale fatta ingurgitare con la forza.

A parlare di Improta fu anche la magistratura: il sostituto procuratore di Padova Vittorio Borraccetti e il giudice Roberto Aliprandi, presidente della Corte d’Assise che giudicò alcuni agenti incriminati per le torture sui Br al momento del blits che portò alla liberazione del generale Dozier. Nella requisitoria e nella sentenza di primo grado si riconosceva che non soltanto i poliziotti imputati compirono le torture, «e comunque non di propria iniziativa ma su ordine di persone più alte in grado». Nell’atto giudiziario venivano citati esplicitamente, quali «autori di un comportamento omissivo», l’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci e Umberto Improta, ai tempi funzionario della stessa divisione e in seguito prefetto di Napoli. «Con loro – ha rivelato il professor De Tormentis, l’autore degli interrogatori a base di acqua e sale, la cui identità è ormai divenuta di dominio pubblico (Nicola Ciocia) – avevo rapporti costanti, erano informati passo passo di tutte le procedure adottate per risolvere l’emergenza».

Alla memoria di Improta è stato istituito un «prestigioso riconoscimento» che sorprendentemente non consiste nella scelta della migliore bottiglia di acqua salata o nella migliore produzione di sale iodato, o ancora nella scelta di un campione di apnea, ma nella premiazione del personale della polizia di Stato distintosi per aver dato dimostrazione nel corso dell’anno di «non comune determinazione operativa», «elevata professionalità» e «sprezzo del pericolo».

«La cerimonia – come recitano le note d’agenzia – è iniziata stamani alle 11 presso la Scuola superiore di Polizia di Roma, sita in via Guido Reni nel quartiere Flaminio. Il premio è giunto alla nona edizione e vuole riconoscere il merito degli appartenenti alla Polizia di Stato che si sono distinti particolarmente per la loro professionalità operativa».
Quest’anno c’è stata una presenza d’eccezione oltre a quelle rituali dei vertici di polizia rappresentati per l’occasione dal Vice Capo, prefetto Francesco Cirillo, dal questore di Roma, Francesco Tagliente, dal neo direttore della Scuola, Roberto Sgalla, dai vertici del Dipartimento della Pubblica Sicurezza coadiuvati dal fondatore del premio, l’avvocato Amedeo Tarsia in Curia, dal giornalista Rai Franco di Mare e dai familiari di Improta.
A celebrare il prefetto scomparso c’era anche il generale James Lee Dozier che – recita sempre la nota d’agenzia ­– «insieme ai diplomatici statunitensi ha voluto ricordare, a 30 anni dal sequestro, come la sua liberazione sia avvenuta grazie alle indagini coordinate Improta, allora in servizio all’Ucigos».
Metodi delle indagini che dopo le rivelazioni di Salvatore Genova e le ammissioni a denti stretti di Nicola Ciocia sono note a tutti.
A chiudere il siparietto hanno assistito anche degli ignari alunni della scuola elementare di Roma, Principessa Mafalda.

«Tutti – conclude il dispaccio d’agenzia – hanno voluto ricordare la figura non solo professionale ma anche personale del Prefetto Improta, esempio per tutti gli operatori di Polizia. Il prefetto Cirillo e Sgalla, si sono rivolti ai frequentatori del corso di formazione presso la Scuola, evidenziando come anche nei momenti difficili del suo percorso professionale, Improta non abbia mai abbandonando il profondo senso dello Stato».

In Italia succede anche questo. Soprattutto questo.

Link
Torture contro i militanti della lotta armata
Torture della Repubblica: il movimento argentino degli escraches, un esempio di pratica sociale della verità
Rai tre Chi l’ha visto? Le torture di Stato
Nicola Ciocia, Alias De Tormentis risponde al Corriere del Mezzogiorno 1
Torture, anche il Corriere della sera fa il nome di De Tormentis si tratta di Nicola Ciocia
Nicola Ciocia, alias De Tormentis, è venuto il momento di farti avanti
Torture contro i militanti della lotta armata
Mauro Palma: l’Italia tortura
Nicola Ciocia-De-Tormentis: Francesca Pilla del manifesto da che parte stai?
PierVittorio Buffa: “La tortura c’era”
Adriano Sofri, l’uso della tortura negli anni di piombo
«Che delusione professore!». Una lettera di Enrico Triaca a Nicola Ciocia-professor De Tormentis

1985, Salvatore Marino muore di torture negli uffici della questura di Palermo

Salvatore Marino era stato arrestato nel corso delle indagini seguite alla morte del commissario Beppe Montana, ucciso dalla mafia il 28 luglio 1985. Giocatore di calcio, due mesi prima aveva fatto vincere alla sua squadra la promozione in serie D, fu ritrovato cadavere su una spiaggia palermitana dove gli uomini della squadra mobile palermitana l’avevano abbandonato dopo un’intera notte di bestiali torture

UNA PARTITA GIOCATA ALLA MORTE
Gabriella Greison e Matteo Lunardini
il manifesto, 6 Ottobre 2004, pag. 18

E’ una storia dimenticata, quella che si svolse tra la primavera e l’estate del 1985. E’ la storia di un poliziotto, di un mediano, e della sua ultima partita. Non una sfida da coppa Campioni, non una partita da storia del calcio. Eppure l’evento clou della stagione siciliana fu lo stesso capace di trasformare il «Nino Novara» di Agrigento in un Maracanà. Una trepidazione che si sentiva fin nella Valle dei Templi, a Porto Empedocle e a Sciacca, feudi del tifo del Ribera. E si sentiva a Bagheria, Casteldaccia, e Palermo, da dove 15 pullman partirono per sostenere il Pro; la squadra che aveva condotto una stagione da protagonista e che guidava la classifica con un punto di vantaggio sul Ribera.
Era il 26 maggio 1985. Sull’imbattuto campo del Ribera al Pro bastava un pareggio e l’allenatore Russotto lo sapeva. Lui era un mago, un mister moderno, uno che amava il gioco d’attacco; il suo pupillo, Salvatore Marino, era un mediano di grande corsa e con il fiuto del gol. Contro l’Olimpia Abitare, in svantaggio di una rete, Marino era salito dalle retrovie e centrato la porta con due eurogol, due fucilate che avevano portato vittoria e primato in classifica ai nerazzurri del Pro. Era stata la svolta della stagione.
«Ma oggi niente scherzi», gli ripeteva il mister. «Oggi non ti muovi da davanti la difesa. A noi basta il pareggio». Marino guardava serio mister Russotto. Aveva 25 anni e la testa ben salda sulle spalle. Quel che gli dicevano, lui lo faceva. Fu così che venne il giorno del la gara. Bastarono pochi minuti dal fischio d’inizio, con il Ribera catapultato in avanti, per capire che la Maginot organizzata da mister Russotto – con Marino posizionato davanti alla difesa a mo’ di frangiflutti – era insormontabile. Bastò una mezz’ora per capire che la foga del Ribera si sarebbe ben presto trasformata in frustrazione. Il Nino Novara, avvolto nella canicola, fu raggelato in contropiede una volta al ’41 e un’altra al ’57. A nulla servì il gol del Ribera all’89’. Il Pro, dopo 40 anni di purgatorio, era di nuovo in serie D. A Bagheria fu organizzata una festa che si protrasse per giorni. Poi tutti andarono in vacanza. E Salvatore Marino poté dedicarsi alla sua passione: le immersioni nel mare.
Serpico, su una moto
Ma c’era un’altra persona che in quel periodo amava fare immersioni. Era un siciliano anche lui, aveva un fisico atletico anche lui, si chiamava Beppe Montana. Dal 1982 era funzionario della squadra mobile di Palermo. I suoi modi poco ortodossi gli avevano procurato il soprannome Serpico. Come Serpico, Montana amava dirigere le investigazioni in modo informale, girando sopra una moto tra le vie di Palermo. Era convinto che i mafiosi latitanti non vivessero in sud America, ma conducessero una vita tranquilla nelle cittadelle della mafia. Bastava fare un giro per accorgersene. E così aveva cominciato a fare.
Nell’83, mentre infuriava la guerra tra mafie, i suoi uomini individuarono l’arsenale di San Ciro Maredolce. Saltarono fuori mitra, fucili, pistole, munizioni. Armi delle famiglie Greco e Marchese in lotta con i corleonesi per la supremazia nella cupola. Poi, nella primavera ’84 si presentarono a casa di Masino Spadaro, dove il boss stava trascorrendo indisturbato la sua latitanza. E lo arrestarono. Infine, il 24 luglio 1985, fecero irruzione in una villa a Bonfornello. Otto gli arrestati, tra cui alcuni luogotenenti dei Greco e un riciclatore di narcodollari appartenenti a Luciano Liggio.
Il 28 luglio era una bellissima domenica e Montana, a pochi giorni dall’inizio delle ferie, si rilassava sul suo motoscafo. L’aveva comprato per compiacere le sue passioni: quella dello sci nautico e quella della lotta alla mafia. Dal largo della costa era infatti facile individuare gli insediamenti delle famiglie, le grotte sotterranee e i cunicoli segreti. Con alcuni amici e la fidanzata, Montana attraccò il motoscafo a Porticello. Parlò con Antonio Orlando, il titolare del cantiere di rimessaggio. Gli chiese di un ristorantino dove mangiare del buon pesce. Non riuscì nemmeno a sentire la risposta. Due killer a viso scoperto gli spararono in faccia. Si accasciò sull’asfalto, mentre le urla della fidanzata e degli amici fendevano la folla sul lungomare. Morì all’istante.
La squadra mobile di Palermo, coordinata dal commissario capo Ninni Cassarà, si mise immediatamente sulle tracce dei killer. Tra Palermo e Casteldaccia duecento persone furono ascoltate. Qualcuno fece una soffiata: dopo essere scappati in moto, gli emissari delle cosche avevano preso un’auto d’appoggio. Una Peugeot 205 rossa che qualcuno aveva avvistato domenica sera a Porticello. Non era rubata, apparteneva a una famiglia di pescatori. Si chiamavano Marino e vivevano nella borgata di Sant’Erasmo. Uno di loro faceva il calciatore. Era fortemente sospettato di essere un fiancheggiatore del commando.
La famiglia Marino, padre madre e sette fratelli, fu chiamata in questura. Salvatore Marino era però irrintracciabile. Alcuni poliziotti gli perquisirono la casa, un umile alloggio a pochi passi dal mare di Romagnolo e, arrotolati in un giornale del 30 luglio, due giorni dopo l’assassinio Montana, trovarono dieci milioni. Altri ventiquattro furono rinvenuti in un armadio. Salvatore Marino si presentò alla questura il giorno dopo accompagnato dal suo avvocato. Fu immediatamente interrogato. Gli chiesero dove si trovasse la sera di domenica 28 luglio. Rispose: «In piazza a Porticello, con la fidanzata, a mangiare un gelato». Ma là, in mezzo al via vai della passeggiata domenicale, Beppe Montana aveva trovato la morte. Gli chiesero da dove provenissero i soldi trovati in casa. Rispose: «Dalla mia squadra». Ma i dirigenti della società lo smentirono: mai dati soldi in nero. Gli chiesero chi fosse la sua fidanzata. Rispose: «La figlia di Antonio Orlando». Ma questo era l’ultimo uomo ad aver parlato con il superpoliziotto. Il fermo del calciatore fu confermato fino al mattino seguente.
Durante la notte però successe qualcosa. Gli uomini di Beppe Montana ci vollero vedere più chiaro. Andarono a prelevare Marino nel carcere. «Ora te lo facciamo vedere noi chi comanda!» e gli mostrarono i soldi e il giornale in cui erano avvolti. «Sono i guadagni della tua attività di calciatore?» e lo fecero sedere per terra. «Non vuoi dirci chi ha sparato?» e cominciarono a percuoterlo. «Ti piace fare il sub?» e gli spararono in bocca acqua di mare. Per tutta la notte Salvatore Marino fu torturato. Acqua salata e botte. Alle luci dell’alba era ridotto un cadavere. Nessuno sarebbe più riuscito a rianimarlo. Il mediano dal gol facile era morto.
I poliziotti si fecero prendere dal panico. Consegnarono il corpo esanime di Marino a una «volante» della polizia, e questa, ignara dell’accaduto, lo trasportò in ospedale. Dissero di averlo ritrovato sull’arenile di Sant’Erasmo e per dodici ore il calciatore fu scambiato per un immigrato. La fine di Salvatore Marino fu chiara solo il 2 agosto. I giornali di tutto il mondo pubblicarono la foto del suo cadavere all’obitorio, la faccia orrendamente tumefatta e il corpo straziato. Sul braccio c’erano segni di denti umani. Scoppiò lo scandalo.
«Se lo stato spara…»
La lotta alla mafia era stata difficile da sempre. Tuttavia negli ultimi anni qualcosa era cambiato. Le famiglie avevano conosciuto qualche sconfitta, alla quale avevano risposto alzando il tiro. Se lo Stato spara, la mafia mitraglia. Erano così caduti poliziotti e magistrati. Boris Giuliano, Calogero Zucchetto e Mario D’Aleo. Carlo Alberto Dalla Chiesa, Rocco Chinnici e Giacomo Ciaccio Montalto. Le loro morti avevano messo il problema della mafia al centro delle priorità degli italiani. Ora, il barbaro assassinio di Salvatore Marino inficiava l’aura da eroi che l’antimafia si era pian piano costruita.
In questo clima si celebrarono i funerali. A Palermo, per il saluto estremo a Beppe Montana, partecipò poca gente. Si rese irreperibile anche il cardinale Pappalardo. I pochi colleghi del poliziotto rimasti in Sicilia ascoltarono disgustati l’omelia essenziale del vescovo. Ninni Cassarà non esitò ad attaccare la latitanza dello stato, sempre disponibile quando si trattava di intervenire ai funerali, ma latitante in fatto di azioni concrete.
Al funerale di Salvatore Marino, invece, c’era una folla sterminata. C’erano i compagni di squadra, le bandiere nerazzurre e gli amici. Cinquanta corone di fiori circondarono l’appartamento dello Sperone. Su una piccola ghirlanda di palme e gladioli bianchi comparve la maglia da calcio numero 4. Sotto una pioggia di applausi, i «picciotti» trasportarono il feretro bianco – usato di solito per la morte di un fanciullo – fino nel cuore del «rione dei contrabbandieri», il feudo di Masino Spadaro. Poi giunsero in piazza Kalsa, quartiere d’origine dei Marino, dove i sigarettai, i fruttivendoli, i venditori di musso, i pescatori di riccio, si fermarono un istante urlando di commozione. La gente affacciata alle finestre chiamò il nome di Salvatore, scandendo incitamenti come se il ragazzo fosse lanciato a rete in un campo da calcio. Qualcuno gridò «poliziotti assassini». Al santuario di Santa Teresa alla Kalsa, il carmelitano scalzo Mario Frittitta lesse il brano del «mistero di un giovane che muore». Se Gesù Cristo avesse camminato per le strade di Palermo, tutto ciò non sarebbe accaduto. Mister Russotto ci tenne a intervenire: «Lo chiamavano Big Jim perché era tutto muscoli. Si tuffava da venti metri senza bombole. Giocava anche quattro partite di seguito. Era buono, generoso, sorridente, compagnone. Questa è una storia troppo strana per essere vera».
La sera del 5 agosto il ministro Scalfaro e il presidente del consiglio Craxi esercitarono il potere di cui disponevano. Rimuovendo il capo della Squadra mobile, il capitano dei carabinieri e il dirigente della sezione antirapine. I tre sarebbero stati prima condannati e poi assolti per omicidio preterintenzionale. Il 6 di agosto la mafia esercitò il potere di cui disponeva. Uccidendo il commissario Ninni Cassarà e l’agente Nino Antiochia, massacrati sotto casa con un commando di 15 persone. Finiva così una delle più calde estati di Sicilia. A settembre tutto sarebbe ripartito da capo, campionato di serie D incluso. Ma nessuna squadra avrebbe avuto in rosa Salvatore Marino. Salvatore Marino aveva giocato la sua ultima partita il 26 di maggio. E l’aveva vinta. Poi si era limitato ad ubbidire.

Link
Caso Gullotta, le torture furono praticate da un nucleo antiterrorismo dei carabinieri

Enrico Triaca, «Dopo la tortura, l’inferno del carcere» /seconda parte

Prosegue la testimonianza di Enrico Triaca dopo il racconto delle torture subite nel maggio 1978 da parte di una squadra speciale della polizia diretta da un funzionario dell’Ucigos conosciuto con l’eteronimo “De Tormentis”. «Lo avevamo fatto anche prima… con Triaca», aveva ammesso lo stesso “De Tormentis” nella testimonianza concessa a Nicola Rao, apparsa in, Colpo al cuore: dai pentiti ai “metodi speciali”, come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata, Sperling&Kupfer 2011

Di Enrico Triaca

“De Tormentis” è in questa immagine

«Sono ancora vivo bastardi»
Steve McQueen nel film Papillon

Le manovre per fare di me un pentito
Continuai a restare in isolamento a Rebibbia per altri due, forse tre mesi, dopodiché sono stato messo in socialità con i miei coimputati ma tempo qualche settimana fui nuovamente trasferito a Volterra, sempre in socialità.
Il 27 dicembre del 1979 su La Nazione di Firenze esce un articolo con tanto di foto che, facendo riferimento a «indiscrezioni non smentite provenienti dal palazzo di giustizia», mi attribuisce confessioni fatte ad Achille Gallucci, con tutta una serie di fatti e circostanze che avevano portato la polizia ad arrestare molti militanti delle Brigate Rosse. Il tutto, secondo il giornale, sarebbe avvenuto nel carcere di Fossombrone nel quale, in realtà, non ero mai stato.
Dopo questo articolo venni impacchettato e trasferito. Appena fuori da Volterra il blindato si fermò. Salì un carabiniere in borghese che fece scendere i due militi di scorta e mi tolse gli schiavettoni. Cominciò una tiritera per convincermi a collaborare con i metodi classici dell’intimidazione: «abbiamo saputo che a Volterra volevano ucciderti», mi disse. Gli risposi che non avevo nessuna intenzione di collaborare e che se mi riportavano a Volterra mi facevano un favore. Replicò che mi avrebbero portato in un carcere tranquillo dove non c’erano altri prigionieri politici, così potevo pensare con calma alla proposta che m aveva fatto. Il segnale sarebbe stato la revoca del mandato ai miei avvocati. Lui avrebbe capito e sarebbe venuto subito. Me lo dovetti cibare per tutto il viaggio. Come provavo a tirare fuori le sigarette, lui pronto mi infilava in bocca una delle sue malboro e l’accendeva…….. non ho mai avuto un compagno di viaggio così premuroso. Finalmente arrivammo a Sulmona, dove prima di entrare nel carcere mi salutò facendo risalire sul furgone i due carabinieri della scorta. Finii nuovamente in isolamento. Dopo due, forse tre mesi e varie proteste mie e degli avvocati, fui trasferito in una sezione dove era possibile la socialità, non prima di subire i soliti avvertimenti: «guarda che qui ti ammazzano. Non è uno Speciale, qui la sorveglianza è scarsa, qui non girano coltelli ma spade», e via dicendo. Tempo un mese, mi trasferirono nel carcere speciale di Trani. Pensai che finalmente si erano decisi a mollarmi, ma mi spagliavo di grosso. Dopo due-tre settimane mi trasferirono di nuovo.

Termini Imerese
A Termini Imerese mi ritrovai di nuovo in isolamento. C’erano pochissimi detenuti, il carcere era in ristrutturazione dopo che era stato semidistrutto da una rivolta. Ai miei avvocati dissero che dovevo stare isolato perché ero pericoloso. Secondo loro a Volterra stavo preparando la fuga. In seguito dissero che era per il mio bene perché volevano uccidermi. Capii che qui sarebbe stata lunga, infatti rimasi fino al processo: 2 anni. Volevano farmi arrivare in aula distrutto fisicamente e psicologicamente. Smisi di fumare e cominciai a fare yoga. Dovevo resistere, non dovevo farmi distruggere. Cominciai a pensare che comunque andasse avevo sempre un’ultima arma per sottrarmi all’abuso, alla sopraffazione: il suicidio, ma solo come ultima ratio.
I primi tempi compravo il giornale e lo leggevo tutto, compresi gli annunci mortuari, i numeri di pagina. Poi lentamente non ci riuscivo più, leggevo la prima riga e quando passavo alla seconda non ricordavo più cosa c’era scritto nella prima. Così mi limitavo a leggere i titoli finché alla fine non lo comprai più. Ho cominciato a dormire di giorno e vegliare la notte; l’unico svago era litigare e provocare i secondini. Una volta diedi dello stronzo a un secondino (che si era comportato male) e per dispetto mi lasciavano la luce accesa anche la notte. Tutte le notti mi arrampicavo sugli stipetti e allungando la scopa appiccicavo un pezzo di carta che spalmavo con il dentifricio sulla plafoniera. Il soffitto era alto 5 metri. Le guardie tutte le mattine passavano con la scala e lo toglievano, ed io la notte successiva lo rimettevo…… una goduria.
Dopo un annetto mi chiamò a colloquio un assistente sociale: decisi di andarci per sgranchirmi le gambe e fare un po’ di ginnastica con la lingua. Cominciammo a parlare del più e del meno, poi mi chiese se volevo stare ancora in isolamento. Gli spiegai che non volevo assolutamente starci. Le avevano detto che l’isolamento era una mia scelta, allora le chiesi come mai mi avesse chiamato a colloquio, visto che normalmente non succedeva mai. All’inizio mi diede delle risposte vaghe, poi si sfogò dicendomi che non poteva in così poco tempo capire le persone. Mi confessò quindi che l’avevano mandata per testare la mia diponibilità a parlare con i giudici; gli dissi di riferire che se volevano togliermi dall’isolamento andava bene, altrimenti in quel posto potevo anche morirci e non avevo intenzione di parlare con nessuno di loro, poi tornai in cella.
Per passare il tempo feci una stella a cinque punte sul muro e delle scritte, il giorno dopo ci fu una sfilata di secondini tutti ad ammirare i miei graffiti: guardavano e confabulavano nonostante io abbia una pessima calligrafia. Mi cambiarono di cella e si trattennero dal libretto i soldi per la riverniciatura delle pareti. Nella nuova cella feci la stessa cosa. Questa volta mi chiamò il maresciallo che mi rimprovero dicendo che non si facevano quelle cose perché «le stanze erano tutte pulite e così dovevano restare per gli altri». «Quali stanze?» – risposi, facendogli notare che stavamo in un carcere e non in albergo e che quelle si chiamavano celle. Il maresciallo iniziò a sfogarsi dicendomi che aveva sempre fatto servizio in carceri minorili, che era stato spedito a Termini Imerese per punizione e che non sapeva nulla di queste cose. Pensai che fare da psicologo a un maresciallo frustrato era troppo; inforcai la porta e tentai di andarmene ma davanti c’era un appuntato che cerco di bloccarmi. Mi voltai a guardare il maresciallo che gli disse di riportarmi in cella. Intanto il tempo passava, finalmente fui trasferito di nuovo a Rebibbia per il processo, ma sempre rigorosamente in isolamento.

L’aula bunker
Il primo giorno di udienza mi ritrovo nella gabbia dei pentiti, ma ben distante dagli altri e tenuto per la catena dai carabinieri. Quando entrò la corte cominciai a protestare chiedendo di essere messo con i compagni. Il giudice acconsentì e un carabiniere mi disse: «quelli ti tagliano la testa». Gli risposi di preoccuparsi della sua di testa.
Restava il nodo dell’isolamento, così continuai a protestare con la corte. Dopo un po’ di tempo i giudici accolsero la mia richiesta, visto che oramai il tentativo era fallito. Dal terzo piano del G12, dove ero rinchiuso, scesi al secondo dove c’erano quelli del 7 aprile e alcuni autonomi. Qui la scena fu divertente: quando arrivai davanti al cancello della sezione scoprii che questi detenuti erano tutti liberi nel corridoio, con le celle aperte (condizione di privilegio), ma quando entrai si rintanarono tutti. Fui portato nella cella di Giuliano Naria. Ci salutammo e mi sedetti sul letto, lui mi disse di disfare la zampogna. Gli risposi che era meglio aspettare, infatti dopo 5 minuti arrivò Emilio Vesce a chiamarlo. Dopo un quarto d’ora si presentarono i secondini a dirmi che si erano sbagliati e che dovevo tornare sù. Al terzo piano, dopo un’altro po’ d’isolamento mi misero in cella con altri due compagnucci freschi d’arresto.
Sospeso il processo per il periodo estivo, mi rispedirono a Termini Imerese (sempre rigorosamente in isolamento). Chiamai il direttore e gliene chiesi il motivo e quello mi rispose di stare tranquillo perché aveva già scritto al ministero che in quel carcere non ero gradito. L’isolamento continuò fino alla ripresa del processo, dove protestai di nuovo con la corte. Finalmente mi declassificarono portandomi al secondo piano del G12, dove non c’erano più i signorini del 7 aprile che già facevano gli omogeneizzati nell’apposita area [il riferimento è alla creazione di apposite sezioni carcerarie declassificate, denominate “aree omogenee per la dissociazione dal/del terrorismo” Ndr]. Venni poi a sapere che erano stati loro a pretendere il mio allontanamento dalla sezione perché c’era il rischio che li ammazzassi – sostenevano – in quanto «irriducibile».

Ancora vivo nonostante tutto
Qui finiscono le torture e inizia il tempo della elaborazione degli avvenimenti, lungo il quale finalmente ripercorro gesti e azioni, fino a rendermi conto di aver oltrepassato la linea della pazzia, di aver fatto cose che razionalmente non si farebbero mai per chiedermi come fossi arrivato ad uscirne. Non ho una risposta, l’unica cosa che posso pensare è la forte convizione di ciò che ero e mi consideravo: un militante comunista prigioniero di uno Stato bugiardo e vigliacco che ha ancora paura di affrontare i propri fantasmi, che tenta di giustificarsi parlando di «mele marce».
La consapevolezza che i miei compagni mi credevano e non hanno avuto dubbi.
Ma io so delle torture degli anni 70 e 80,
io so della mattanza di Bolzaneto,
io so dei morti ammazzati nelle caserme e durante l’arresto.
Io so di poliziotti che passeggiano sulla testa di ragazzini alle manifestazioni.
Di tutto ciò, ci sono le prove.
Allora ti volti indietro e ti accorgi che non si tratta di “mele marce” ma che è l’intero frutteto ad essere marcio.
Per questo ancora oggi mi dichiaro prigioniero politico, non più di un potere giudiziario, carcerario, ma di una verità nascosta, insabbiata, di uno Stato che senza merito si fregia del titolo di democratico, di uno Stato reticente, connivente.

2/fine

Per saperne di più
Triaca: “De Tormentis mi ha torturato così
Torture contro i militanti della lotta armata
1982 la magistratura arresta i giornalisti che fanno parlare i testimoni delle torture
Novembre 1982: Sandro Padula torturato con lo stesso modus operandi della squadretta diretta da “de tormentis”
Anche il professor De Tormentis era tra i torturatori di Alberto Buonoconto
Caro professor De Tormentis, Enrico Triaca che hai torturato nel 1978 ti manda a dire
Le torture ai militanti Br arrivano in parlamento
“De Tormentis” è venuto il momento di farsi avanti
Torture: Ennio Di Rocco, processo verbale 11 gennaio 1982. Interrogatorio davanti al pm Domenico Sica
Le torture della Repubblica/2,  2 gennaio 1982: il metodo de tormentis atto secondo
Le torture della Repubblica/1, maggio 1978: il metodo de tormentis atto primo

Torture contro le Brigate rosse: il metodo “de tormentis”
Acca Larentia: le Br non c’entrano. Il pentito Savasta parla senza sapere
Torture contro le Brigate rosse: chi è De Tormentis? Chi diede il via libera alle torture?
Parla il capo dei cinque dell’ave maria: “Torture contro i Br per il bene dell’Italia”
Quella squadra speciale contro i brigatisti: waterboarding all’italiana

Novembre 1982, Sandro Padula viene torturato con lo stesso modus operandi della squadretta diretta da “De Tormentis”

Sandro Padula viene arrestato il 14 novembre 1982 a Castel Madama, in provincia di Roma. L’appartamento che faceva da base-rifugio per alcuni militanti latitanti delle Brigate rosse – partito comunista combattente era stato individuato da alcuni giorni dalla Digos che vi aveva fatto irruzione arrestando i presenti. Alcuni dei quali, Romeo Gatti in particolare, furono sottoposti a tortura. La polizia si istalla nella base e attende l’arrivo di Padula che appena entrato viene bloccato e bendato in attesa dell’arrivo di «un gruppo di poliziotti particolari», così gli dicono gli uomini che l’hanno immobilizzato. La squadra speciale arriva e Padula è avvolto in un tappeto per essere trasportato via all’insaputa dei vicini che in questo modo non si accorgono dell’arresto. Caricato all’interno di un furgone civile da finti facchini viene condotto con gli occhi bendati in un luogo imprecisato, forse una caserma della zona. Lì inizia il “trattamento”: denudato viene legato per le braccia a delle corde appese ad una parete e sottoposto ad una infinità di colpi su tutto il corpo e sulla testa fino al punto da non sentire più nulla. «Ad un certo punto – racconta quelle poche volte che riesco a strappargli qualche ricordo dalla bocca – il dolore si anestetizza». I colpi distribuiti con i pugni o altri oggetti si alternano a bruciatore di sigarette nelle parti meno visibili e scariche elettriche. I seviziatori non hanno alcun ritegno. Il pestaggio condito dal solito florilegio di minacce non sortisce alcun effetto.
A quel punto gli aguzzini passano alla fase due: quella raccontata decine e decine di volte dagli altri torturati sottoposti all’acqua e sale, testimoniata da Salvatore Genova nelle interviste del 1997 a Matteo Indice e nel libro recente scritto da Nicola Rao, tutti materiali che potete trovare in questo blog. Torture ammesse dallo stesso “professor De Tormentis”, il grande maestro dell’acqua e sale, sempre in una intervista a Matteo Indice e nel libro di Rao.
Sandro viene disteso su un tavolo posto accanto ad un lavandino con una parte del corpo, dalla vita in sù, sospesa all’esterno. Prima di introdurgli in bocca un tubo la cavità orale viene riempita di sale. Uno degli aguzzini gli tiene il naso chiuso. Sandro che non è un campione di apnea (non sa nemmeno nuotare) tuttavia resiste. «Conta che ti passa», gli aveva detto un compagno pochi mesi prima, Umberto Catabiani, membro dell’esecutivo dell’organizzazione ucciso il 24 maggio precedente dopo un lungo inseguimento, mentre ferito aveva guadato un fiume per tentare di fuggire all’arresto. L’acqua e sale nonostante la sua bestialità non sortisce risultati. Un medico, presente, monitorava il cuore. Alla fine i seviziatori di Stato desistono. Uno di loro dirà con disappunto: «Ma questo conta. Ci sta fregando. E’ esperto di apnea».
Arrivati a quel punto il problema era quello di rendere presentabile Padula, che imputato nel processo Moro in corso avrebbe dovuto comparire immediatamente in aula. Sandro viene “preso in cura” da uno strano personaggio che si qualifica come «massaggiatore di una squadra di calcio» che allevia gli ematomi e le contusioni di cui è pieno il suo corpo con massaggi a base di vegetallumina.
Per tre volte le udienze del processo vengono rinviate tra le proteste degli imputati che denunciano le torture in corso e ricordano al presidente di essere complice di quel che stava accadendo. In aperta violazione della legge Sandro Padula resta nelle mani della polizia anche durante l’interrogatorio realizzato qualche giorno prima del 19 novembre, quando Domenico Sica lo va ad ascoltare in questura. Arriverà in aula solo il 22 novembre. Le cronche deformate delle udienze, raccotate con grande disonestà carica di livore in particolare dall’Unità, le potete trovare qui sotto.
Sandro Padula è ancora in carcere, sottoposto a regime di semilibertà. Dal suo arresto e dalle torture sono passati 29 anni e due mesi.

 

Assente l’imputato Padula, rinviato il processo Moro

L’Unità  venerdì 19 novembre 1982

ROMA — È durata tre minuti l’udienza di Ieri del processo Moro. La Corte è entrata e il presidente Santiapichi ha annunciato che nessuno poteva prendere la parola mancando un imputato che invece aveva diritto ad assistere al processo: il br in questione è Alessandro Padula, arrestato nei giorni scorsi vicino Roma e accusato di almeno 7 tra I più efferati delitti delle Brigate rosse. La procedura prevede infatti che se un Imputato appena arrestato non fa pervenire l’esplicita rinuncia ad essere presente, il processo non può andare avanti. E infatti il dibattimento è stato aggiornato a lunedì prossimo. La comunicazione del presidente ha dato il via a una serie di proteste e di pesanti minacce dei brigatisti in gabbia. «Lo stanno torturando – hanno gridato i br – avete chiesto perché Padula non è venuto?». Poi una minaccia diretta al presidente della Corte da parte di Pancelli: «Lei si sta rendendo complice delle torture», ma il giudice Santiapichi ha replicato seccamente. «Non sono complice di nessuno, la legge prevede che non si può fare udienza mancando un imputato». Poi sono arrivate anche le minacce ai giornalisti. Lunedì si dovrebbe quindi riprendere con le audizioni dei collaboratori di Moro Rana e Freato, rinviati da alcune udienze per la discussione sulle richieste (tutte respinte) dì alcune parti civili per l’approfondimento in aula di alcuni scottanti retroscena del caso Moro. L’interrogatorio di Nicola Rana era già iniziato e il teste era stato sentito su alcune registrazioni telefoniche. Con queste deposizioni, a seguito della decisione della Corte di rimandare ogni altro approfondimento a una nuova inchiesta della Procura, il processo entra nella fase finale.

Il Br Padula si rifiuta di rispondere al giudice. Lunedì sarà presente al processo per via Fani

La Stampa  Anno 116  Numero 251 – Pagina 6 – Sabato 20 Novembre 1982

DALLA REDAZIONE ROMANA ROMA – Sandro Padula, il brigatista rosso arrestato nel corso dell’ultima operazione della Digos, si è rifiutato di rispondere alle domande del sostituto procuratore della Repubblica Domenico Sica, dichiarandosi «militante comunista». Al magistrato, che lo ha interrogato in questura, Padula ha denunciato di essere stato maltrattato dagli agenti che l’avevano arrestato. Il suo difensore, avvocato Giuseppe Mattina, ha fatto mettere a verbale le accuse formulate dall’imputato, preannunciando una denuncia, che verrà presentata probabilmente oggi alla procura della Repubblica. Il magistrato, prima di chiedergli se volesse rispondere alle domande, ha contestato a Padula le accuse di partecipazione a banda armata e di violazione della legge sulle armi. Al momento dell’arresto gli è stata infatti, sequestrata una pistola. A conclusione dell’interrogatorio, Padula avrebbe mostrato al magistrato, a sostegno della sua denuncia, diversi ematomi sul corpo e sugli arti. Ha inoltre sostenuto di essere stato portato in un luogo di cui non sa indicare l’ubicazione e, una volta bendato, di essere stato steso supino su di un tavolo, legato, e costretto a bere acqua e sale. Padula sostiene anche di aver ricevuto pugni sulla testa e sulle orecchie, e di essere stato trattenuto nella casa in cui venne arrestato per un’intera giornata, ammanettato e bendato. Padula ha poi dichiarato al magistrato che, dopo le percosse, ha ricevuto qualche cura dagli agenti che l’avevano in consegna prima di essere trasferito, nelle celle di sicurezza della questura. L’imputato ha quindi sostenuto che, in cambio di un’ampia confessione e dei nomi di suoi compagni di clandestinità, gli è stato anche offerto un passaporto per espatriare e somme di danaro.
Lunedì, Padula sarà nell’aula del Foro Italico dove si celebra il processo per l’uccisione di Aldo Moro.

Processo Moro: Padula dice di essere stato «torturato». I brigatisti lanciano accuse alla DIGOS e lasciano l’aula

L’Unità, lunedì 23 novembre 1982

ROMA — Quasi tutta a porte chiuse la sessantacinquesi-ma udienza del processo Moro. Fuori il pubblico, i giornalisti, i fotografi, i cineoperatori, tutti, insomma, tranne gli «addetti ai lavori» muniti di toga: la corte, il pubblico ministero e gli avvocati. Non perché si dovesse parlare di chissà quali segreti (un processo serve proprio per verificare ogni cosa alla luce del sole) ma semplicemente per poter ascoltare in aula le registrazioni delle telefonate intercettate durante Il rapimento, senza violare la «privacy» di nessuno. L’ascolto di queste intercettazioni ha fatto da base per le domande rivolte a Nicola Rana e a Sereno Freato, che furono – assieme a Corrado Guerzoni – I più stretti collaboratori del presidente democristiano. Freato, ascoltato In serata« ha tra l’altro ricostruito la storia di un incontro tra il sottosegretario agli interni Lettieri e l’avvocato svizzero Payot, il quale aveva promesso, facendosi pagare cinque milioni, un Interessamento risolutore, mediante i suoi supposti agganci con I terroristi tedeschi della RAF. Ma la cosa si sarebbe rivelata un volgare «bidone».
Alle deposizioni dei due testimoni non erano presenti neppure gli imputati, che pure ne avrebbero avuto facoltà: nella tarda mattinata hanno abbandonato le gabbie in segno di protesta, dopo che era scoppiato In aula un nuovo «caso», legato al nome di Alessandro Padula, il brigatista accusato di otto omicidi arrestato dalla polizia nove giorni fa a Roma e comparso ieri per la prima volta al processo. Padula ha dichiarato di essere stato «torturato» dagli agenti della DIGOS ed ha inoltre accusato la polizia di avergli impedito di partecipare alle tre udienze della scorsa settimana (com’era suo diritto) attraverso un «falso». La corte ha passato la denuncia di Padula al pubblico ministero, affinché la procura romana possa vagliare le accuse alla DIGOS con una regolare inchiesta.
Il «caso Padula» non è stato aperto dall’interessato ma dal brigatista Prospero Gallinari, imputato di essere stato il boia di Aldo Moro. Appena la corte si é seduta, in apertura d’udienza. Gallinari si è fatto passare il microfono ed ha affermato che Padula é stato tenuto lontano dall’aula del processo per otto giorni ed è stato lasciato nelle mani dei «torturatori di Stato». Il portavoce dell’ala «militarista» delle Br è stato interrotto dal presidente Santiapichi, ma a questo punto ha incalzato lo stesso Padula, ribadendo le stesse accuse alla polizia e aggiungendo una sequela di slogan brigatisti. L’imputato ha mostrato al giornalisti un livido al polso destro ed ha sostenuto di essere stato appeso per le braccia e di aver ricevuto «il trattamento acqua e sale».
Il legale di Padula, l’avvocato Attillo Baccioli, del foro di Grosseto, ha eccepito la nullità delle ultime tre udienze del processo celebrate in assenza dell’imputato e dopo il suo arresto. Tutti gli altri legali si sono opposti, il Pm pure, e la corte – dopo mezz’ora di camera di consiglio – ha respinto l’eccezione di nullità passando, come si è detto, il verbale dell’udienza al rappresentante dell’accusa, per l’apertura di un’inchiesta da parte della procura. il presidente Santiapichi ha inoltre spiegato l’assenza dell’imputato la settimana scorsa, dichiarando che la DIGOS aveva comunicato di aver Identificato il brigatista per Alessandro Padula soltanto il 17 novembre (aveva in tasca documenti falsi). L’interessato ha smentito, accusando di «falso» la polizia, e anche su questo indagherà la procura.

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Torture contro i militanti della lotta armata
Anche il professor De Tormentis era tra i torturatori di Alberto Buonoconto
Caro professor De Tormentis, Enrico Triaca che hai torturato nel 1978 ti manda a dire
Le torture ai militanti Br arrivano in parlamento
“De Tormentis” è venuto il momento di farsi avanti
Torture: Ennio Di Rocco, processo verbale 11 gennaio 1982. Interrogatorio davanti al pm Domenico Sica
Le torture della Repubblica /2,  2 gennaio 1982: il metodo de tormentis atto secondo
Le torture della Repubblica 1/, maggio 1978: il metodo de tormentis atto primo

Torture contro le Brigate rosse: il metodo “de tormentis”
Torture contro le Brigate rosse: chi è De Tormentis? Chi diede il via libera alle torture?
Parla il capo dei cinque dell’ave maria: “Torture contro i Br per il bene dell’Italia”
Quella squadra speciale contro i brigatisti: waterboarding all’italiana