Leonardo Bertulazzi nell’atelier di liutaio dove lavorava prima di essere arrestato e sottoposto a procedura di estradizione
La mattina di lunedì 16 luglio è stato esaminato davanti la corte suprema federale di cassazione argentina il ricorso presentato dalla difesa di Bertulazzi contro il nuovo arresto eseguito dopo il parere favorevole alla estradizione concesso dalla corte suprema di giustizia. La corte si è riservata e la decisione finale verrà comunicata nei prossimi giorni. In precedenza sempre la corte di cassazione aveva annullato la sua incarcerazione, concedendo la misura dei domiciliari, perché il ricorso presentato contro la revoca dello status di rifugiato politico, riconosciutogli nel 2024, sospendeva l’effetto della decisione unilaterale intrapresa del governo fascista di Javier Milei. L’avvocato di Bertulazi, Rodolfo Yanzón, ha ribadito che nonostante il parere favorevole concesso alla estradizione: «Bertulazzi continua ad avere lo status di rifugiato presso le Nazioni Unite, poiché è pendente un causa presso il tribunale amministrativo su questa questione». E la corte suprema è stata molto chiara sul punto: l’estradizione non può essere materializzata finché non verrà chiarita in modo definitivo la questione del rifugio. Milei ha introdotto una nuova legge su misura che impedisce di concedere protezione alle persone implicate in reati di terrorismo (anche se il sequestro dell’armatore Costa per cui è stato condannato Bwrtulazzi non lo è perché realizzato prima dell’introduzioni delle aggravanti speciali antiterrorismo). Norma antiBertulazzi che tuttavia non ha valore retroattivo e non può incidere su una decisone presa ventuno anni prima.
Estradare Bertulazzi per riabilitare la dittatura Nei giorni scorsi, prima la ministra della sicurezza nazionale, Patricia Bullrich, e successivamente Maria Florencia Zicavo, capo gabinetto del ministero della Giustizia argentino e responsabile della Commissione nazionale per i rifugiati (Conare), oltre a rilanciare la menzogna sul ruolo «importante che Bertulazzi avrebbe avuto nell’operazione che portò al rapimento e al successivo omicidio di Aldo Moro», nonostante in quel momento si trovasse nelle carceri italiane da quasi un anno, fake agitato con forza nello spazio pubblico argentino per rafforzare il dossier fragile che sostiene le ragioni della estradizione, hanno proposto un ribaltamento del giudizio storico sul recente passato dittatoriale argentino. L’estradizione di Bertulazzi fa parte di una più generale riscrittura e cancellazione della storia e dei crimini della dittatura, all’interno della quale i soli colpevoli e responsabili diventano gli oppositori, coloro che hanno combattuto la dittatura e da questa sono stati perseguitati: ex prigionieri politici, i militanti assassinati, le migliaia di desaparecidos, i minori rapiti e adottati dalle famiglie dei militari del regime. L’operazione Bertulazzi serve ad aprire una prima breccia, ribaltando la responsabilità della violenza e dei crimini attribuendola a chi provò ad opporsi alla dittatura o nemmeno fece in tempo a farlo. Un po’ come se oggi in Italia il governo Meloni iniziasse a dare la caccia ai superstiti ancora in vita della resistenza antifascista.
Il gioco delle tre carte D fronte a questa operazione la sinistra italiana, il Pd, i «democratici», tacciono, fanno finta di non sentire o capire, per soddisfare la pretesa punitiva della giustizia dell’emergenza di cui sono stati i padrini. La procura genovese in mano a giudici di Md, si è portata garante davanti alla giustizia argentina sulla possibilità che una volta in Italia Bertulazzi possa essere riprocessato nuovamente, e giudicato stavolta correttamente, correggendo le pesanti e inique condanne ricevute all’epoca (leggere l’intervista di Mario Di Vito del manifesto). Una bella promessa che purtroppo non è una garanzia poiché la legge italiana dice altro, prevede solo 30 giorni per fare la richiesta di riapertura del processo, ma poi sarà la corte d’appello a decidere. E l’intera giurisprudenza passata ci dice che una cosa del genere non è mai avvenuta. Addirittura in alcuni casi analoghi i giudici hanno fatto partire il conteggio dei trenta giorni non dal momento della riconsegna all’Italia dell’estradato ma da quando questi avrebbe avuto notizia ufficiale delle condanne pendenti. Ovvero in questo caso oltre venti anni fa, quando la giustizia argentina decise di non estradarlo perché condannato in contumacia. Il sistema giudiziario italiano non ha mai voluto rimettere in discussione i processi di quegli anni. E così la nuova destra argentina oggi al potere potrà sbiancare la storia della dittatura sulla pelle dell’ex brigatista Leonardo Bertulazzi con la complicità delle anime bella della sinistra italiana.
Genova solidale contro l’estradizione di Leonardo Bertulazzi
di Leonardo Bertulazzi
Ci sono stati tempi in cui la prigione non è stata l’unico modo per epurare una condanna. L’esilio è stato per molti secoli il destino imposto ai trasgressori. Si considerava l’esilio, lo sradicamento come una pena, una pena senza ritorno, una rottura totale del corso della vita di una persona tra un prima nella propria terra, la terra della sua famiglia, e un dopo tutto da costruire, senza l’aiuto dei codici che la vita, relazioni e conoscenze di prima avevano sedimentato. Questa rottura, questa separazione dell’albero dalle sue radici vive nel senso degli esiliati come una pietra miliare cruciale che segna il profondo della loro coscienza in modo più o meno doloroso, ma sempre presente. L’esilio è sempre stato considerato una pena, una punizione. Nel 1951 con la convenzione di Ginevra i paesi del mondo hanno sottoscritto l’impegno di promuovere la protezione degli stranieri in cerca di un rifugio. Ciò che nella convenzione di Ginevra spicca come impegno inderogabile è il principio di “Non Refoulement”: una volta che un paese riconosce un espatriato come rifugiato, offrendogli la sua protezione, si impegna a non mancare alla parola data, a non riportarlo nel paese in cui è in pericolo. Dare asilo significa dire: “Qui sei al sicuro. Qui puoi rifarti la vita». La convenzione di Ginevra sancisce nel principio del “non refoulement” una prova che era già iscritta nella coscienza collettiva come espressione del valore della parola data, del dovere di uno stato di rispettare i suoi impegni e di non giocare con la vita delle persone e dei profughi, trasformandoli in moneta di scambio per gli affari tra paesi. Il paese che concede la sua protezione a uno straniero lo mette in condizione di vivere nel suo territorio e nella sua società, dove porterà il granello di sabbia del suo lavoro, attività e relazioni umane. Ecco perché il caso di Leonardo Bertulazzi fa così male. È arrivato 23 anni fa, ha lavorato, ha formato una casa, è invecchiato in pace. Oggi, a 73 anni, è in prigione e potrebbe essere estradato. Lo stesso paese che lo ha ospitato sembra disposto a cederlo, anche se il suo status di rifugiato è ancora in vigore. Per giustificare il colpo di scena, viene dipinto come un “assassino”. Falso: mai è stato accusato o condannato per crimini di sangue. La cosa inquietante è vedere uno Stato cedere alle pressioni esterne e dimenticare la sua parola, lasciando un rifugiato alla mercé di coloro che lo hanno perseguitato. Il “non-refoulement” o non-refoulement non è lettera piccola, è il muro che protegge le vite dalla diplomazia delle convenienze. Se lo abbattiamo, non tradiamo solo Leonardo: infrangiamo la fiducia in tutto il sistema di protezione internazionale. Il caso Bertulazzi non è un altro dossier. È la prova vivente che la nostra parola vale qualcosa o se finisce fradicia e rotta, come carta bagnata.
Oggi è un liutaio, per anni ha lavorato come grafico e traduttore, è stato un militante della colonna genovese delle Brigate rosse ai suoi esordi, nella pirma metà degli anni 70. Nel 1980 lascia l’Italia, quando viene processato vive già all’estero da tempo ma i giudici pensano sia un clandestino in attività così lo condannano ad una pena abnorme, 27 anni, nonostante fosse stato un irregolare, cioè mai clandestino, senza reati di sangue contestati. Dopo esser passato per la Grecia, approda in Salvador dove vive fino al 2002, quando entra in Argentina dove viene arrestato. La magistratura tuttavia nega l’estradizione perché condannato in contumacia. Poco dopo gli viene concesso l’asilo politico, procedura che interrompe il processo di estradizione annullando il rigetto già pronunciato. Nel 2013 la sua condanna va in prescrizione, la cassazione italiana conferma ma successivamente la procura di genova fa riaprire il procedimento ottenendo l’annullamento della decisione. Nell’estate 2024 la nuova giunta argentina del presidente Milei, un nostalgico delle dittature fasciste sud americane e del piano Condor, con una decisione arbitraria annulla la concessione dell’asilo politico. Il governo Meloni ne approfitta e rilancia l’estradizione avvalendosi della mancata conclusione della precedente procedura di estradizione, dove era stato espresso parere favorevole. I nuovi giudici, allineati col nuovo potere revanchista, concedono una estradizione col trucco accettando la promessa fatta dalla procura genovese che una volta in Italia Berrtulazzi sarà nuovamente processato: nonostante la legge e la giurisprudenza non lo prevedano.
Mario Di Vito, il manifesto 18 marzo 2025
Leonardo Bertulazzi, classe 1951, fino al 1980, anno in cui è cominciata la sua fuga, è stato un militante irregolare della colonna genovese delle Brigate rosse con il nome di battaglia di Stefano. Condannato in contumacia a 27 anni per il sequestro di Pietro Costa del 1977 e per banda armata, pur non avendo fatti di sangue a suo carico per l’Italia è uno dei maggiori ricercati internazionali: due settimane fa i giudici hanno detto sì alla sua estradizione dall’Argentina. Ad agosto gli era stato sospeso lo status di rifugiato politico ed è stato arrestato. Adesso è ai domiciliari con un bracciale elettronico e il suo destino è appeso all’ultimo grado di giudizio, quello della Corte suprema di Buenos Aires, città in cui vive dal 2002.
«Quello è stato un anno terribilmente speciale per l’Argentina – dice al manifesto -. Terribile perché la bancarotta finanziaria provocò un impoverimento repentino di una porzione importante della società e speciale perché sviluppò un’immediata risposta in termini di auto-organizzazione e lotta: que se vayan todos era lo slogan».
E lei arriva lì. Bettina, mia moglie, ed io arrivammo a Buenos Aires nel giugno del 2002 e iniziammo a conoscere i quartieri popolari e a frequentare le assemblee in cui i vicini discutevano l’organizzazione di mense e farmacie popolari, e altre forme di autogestione. Venivamo da molti anni vissuti in Salvador, dove avevamo lavorato in contesti simili. A novembre l’Interpol mi arrestò per una richiesta d’estradizione italiana. Le organizzazioni dei piqueteros e le assemblee di quartiere manifestarono una grande solidarietà nei miei confronti e ci fu una campagna in mio favore.
E poi? Dopo sette mesi di detenzione, il giudice decise che l’estradizione di un condannato in contumacia non era ammessa e mi liberarono. L’anno seguente, con la presidenza Kirchner, mi venne riconosciuto lo status di rifugiato politico, perché le leggi speciali e le pratiche d’emergenza, il pentitismo, la tortura, i processi collettivi, le pene esorbitanti, i carceri speciali, il 41 bis e le condanne in contumacia non garantivano un funzionamento affidabile della giustizia.
Cosa ha fatto in Argentina in questi 23 anni? Ho lavorato come disegnatore grafico e come traduttore fino al 2015, quando ho cominciato a frequentare una scuola municipale di liuteria. Si trattava di un grande magazzino in periferia dove, già in precedenza, operava una falegnameria con la sua attrezzatura. Abbiamo avviato un’impresa di produzione di strumenti musicali per le orchestre degli alunni delle scuole della periferia di Buenos Aires. Abbiamo chiamato quel grande magazzino Fabbricando Futuro, come le due effe sulla tavola armonica del violino, e questo è diventato il luogo d’incontro di alunni, studenti, genitori, professori, liutai e apprendisti liutai.
Da allora il paese è molto cambiato. Lo spirito della mobilitazione sociale che abbiamo conosciuto al nostro arrivo si è affievolito a causa di delusioni, stanchezza, rassegnazione e repressione che, poco a poco, hanno tagliato le ali della speranza. Il governo Milei ha espulso dal mondo del lavoro centinaia di migliaia di lavoratori e ha represso con violenza ogni tentativo di resistenza. Oggi nella società argentina si percepisce la paura e insieme un senso di rabbia repressa che aspetta solo che la tortilla se de vuelta.
In Italia, intanto, c’erano già delle condanne che la riguardavano. La legislazione speciale l’ha fatta da protagonista: la ricerca a tutti i costi della collaborazione del pentito, con la carota delle leggi premiali o, quando non bastava, con la tortura e poi le condanne a decine di anni che si basavano unicamente sulle dichiarazioni dei pentiti. Si tratta di un iter giudiziario che affonda le proprie radici nelle atrocità del fascismo e nella mancata epurazione della magistratura dopo la caduta del regime. Si tratta di una pesante eredità che è diventata un abito mentale, una mentalità radicata nel profondo. Non sorprende, quindi, che la legislazione speciale promulgata negli anni ’70, molto più forcaiola dello stesso Codice Rocco, non abbia provocato nessuna contraddizione in coloro che l’hanno applicata con tanta diligenza.
Veniamo ai suoi processi. Ho due condanne: 15 anni per il sequestro Costa e 19 per banda armata, poi unificate per una pena unica di 27 anni. I processi si sono svolti quando avevo già lasciato il paese da anni.
La procura di Genova scrive: «In conclusione, è ragionevole riconoscere che nessun elemento allo stato attuale può provare la conoscenza del processo in capo al condannato e delle accuse definitivamente formulate a suo carico e poi accertate in sua contumacia». Lo stesso giudice argentino, che nel 2003, Kirchner presidente, aveva respinto la richiesta di estradizione, oggi, con Milei, ha accolto la richiesta, sostenendo che non c’è ragione di dubitare della parola della procura genovese che assicura che avrò diritto a un nuovo processo.
Ancora la procura di Genova: «L’ipotesi che la mancata presenza del Bertulazzi ai suoi processi per esercitare i suoi diritti possa essere stata involontaria, anziché frutto di una libera scelta, è da scartare CATEGORICAMENTE (sic, ndr)». Speravano che la mia contumacia “volontaria” potesse giustificare l’estradizione. Ma non è andata così. Il giudice argentino ha respinto la richiesta di estradizione e sono stato riconosciuto come rifugiato politico. Ma ecco che nel 2024 cambiano i rapporti fra i governi, e Milei e Meloni si abbracciano. Mi viene revocato lo status di rifugiato e la procura di Genova presenta la stessa richiesta d’estradizione di 22 anni prima. Ma con quale giustificazione? Nessuna. Basta avere la faccia tosta di dire che non sapevo di essere sotto processo e che, una volta estradato in Italia, avrò diritto a un nuovo processo.
Sugli anni della lotta armata, in una delle risposte al questionario per ottenere lo status di rifugiato politico in Argentina, lei scriveva: «Nel 1968 è apparso un movimento sociale, sorprendente nelle sue dimensioni, che per più di 10 anni ha messo in discussione le relazioni sociali e politiche del Paese e ha determinato il destino di molte persone, me compreso. Il movimento stava conquistando sempre più spazio nella società, generava speranze di cambiamento e stava già producendo cambiamenti di mentalità. Per me e per molti della mia generazione era una festa, la festa della speranza, in cui si incontravano studenti e lavoratori di tutte le categorie, donne e uomini, vecchi combattenti antifascisti e nuovi». Il percorso ascendente della parabola ha resistito per anni, e poi? Poi c’è l’oggi, fatto di lavoro precario, disoccupazione, sanità che risponde al motto “più ricco, più sano”, un Mar Mediterraneo che accoglie i cadaveri degli emigranti, povera gente che muore perché cerca una vita degna di essere vissuta, mentre si incita al riarmo, si abitua la gente all’idea della guerra e dilaga il fascismo. Io ho lottato per un presente diverso. Nel giudicare il passato, non si può prescindere da questo presente, che è quello a cui hanno condotto coloro che ci hanno sconfitto. Non regalerò un mea culpa ai guerrafondai, a quelli che hanno provocato il rigurgito fascista.
Lei non è il primo caso di ricercato per fatti di mezzo secolo fa. Ricordiamo, per ultimi, i dieci di Ombre rosse in Francia. Non crede che i fatti di quel periodo storico siano una ferita ancora aperta per l’Italia? Bisogna rileggere le parole dei giudici francesi: “I fatti sono molto vecchi. Senza trascurarne l’eccezionale gravità, in un contesto di estrema e ripetuta violenza che non può essere legittimata da esigenze politiche, si deve ritenere che il turbamento dell’ordine pubblico causato si sia esaurito”. Questa considerazione esprime lo spirito della prescrizione. Nella società italiana, il tempo della ferita aperta è scaduto. Ho letto di inchieste sugli “anni di piombo” che rivelano che tantissimi non sanno nemmeno di cosa si stia parlando.
Perché allora c’è ancora tanta attenzione su quei fatti? Penso che un perché vada ricercato in quell’eredità di cui parlavo. Nel 2016, un avvocato ha fatto richiesta di prescrizione delle mie condanne. Il 12 giugno 2017 la Corte d’Appello di Genova dichiara l’estinzione delle pene. Il 23 febbraio 2018 la sentenza va in Cassazione e diventa definitiva. Intanto, però,la Suprema Corte aveva assunto un nuovo orientamento secondo cui anche l’arresto a seguito della richiesta d’estradizione interrompe la prescrizione. La procura di Genova se n’è accorta in ritardo, quando la sentenza che riconosceva la prescrizione delle mie pene era diventata definitiva. Ma la procura chiede che si riapra il processo, adducendo come giustificazione un fatto nuovo che non era stato preso in considerazione.
Quale sarebbe il fatto nuovo? Il mio arresto del 3 novembre 2002 a Buenos Aires.
La Cassazione aveva annullato la prescrizione. Ironia della persecuzione: la mia richiesta di prescrizione delle pene, iniziata nel 2016 e conclusasi nel 2018 con il no alla prescrizione, è il pretesto usato da Milei per cessare il mio rifugio, perché avrei tentato di avvalermi volontariamente della protezione del paese di appartenenza. C’è poi tutto un dispositivo composto da politici e comunicatori che per rendere digeribile ai più la persecuzione attuata dallo Stato, si incaricano di descrivere il perseguitato come un diavolo. Quando nel 2017 mi è stata riconosciuta la prescrizione, si gridò allo scandalo. In realtà, stavano chiedendo di ribaltare la sentenza, cosa che è avvenuta poco dopo.
Lei è in fuga dal 1980. Ha rimpianti? Ci sono cose che importano e che però non ho potuto fare. Ricordo un articolo di qualche anno fa su un giornale. Parlava dei fuoriusciti degli anni ’70 che si erano rifugiati in America Latina, facendo un’allusione particolare ai genovesi. L’articolo ne descriveva la bella vita ai Caraibi, fra amache, palme e mojito. Mi chiedevo come fosse possibile che una persona potesse immaginare un esiliato in quel modo, come fosse possibile che un giornalista, senza nessuna conoscenza diretta delle persone di cui parlava, scrivesse un articolo del genere. Ma ho pensato anche che, nella sua ignoranza, ci aveva azzeccato: è vero che ho vissuto bene, ma di un bene che non ha niente a che vedere con la sua immaginazione. Ho conosciuto tante persone, molte delle quali in situazioni esistenziali complesse. Le loro storie e la loro memoria sono il libro più bello che abbia mai letto e costituiscono la mia ricchezza.
Si fonda su una bugia l’avviso favorevole concesso dalla magistratura argentina alla estradizione dell’ex brigatista Leonardo Bertulazzi, riparato negli anni 80 in America Latina, prima in Salvador e poi dal 2002 in Argentina, dove vent’anni fa gli era stato riconosciuto l’asilo politico, ritirato con una decisione arbitraria dopo l’arrivo al potere del governo fascio-revanchista Milei. La procura generale di Genova ha fatto sapere ai giudici di Buoneos Aires che una volta in Italia Bertulazzi avrà sicuramente diritto ad un nuovo processo, tanto è bastato per concede l’ammissibilità alla estradizione. Sono state pubblicate ieri, 7 marzo, le motivazioni giuridiche che hanno portato a questa decisione sancita nella udienza del 27 febbraio scorso. I giudici argentini sono tornati sui loro passi, smentendo l’avviso contrario espresso 21 anni fa, il 5 giugno del 2003, quando rifiutarono l’estradizione perché l’Italia non forniva sufficienti garanzie sullo svolgimento di un nuovo processo contro Leonardo Bertulazzi. Va detto che l’ordinamento penale argentino non prevede la contumacia. Purtroppo l’iter decisionale dei giudici argentini non venne completato perché nel frattempo giunse il riconoscimento dello status di rifugiato, che secondo la legislazione argentina, e la convenzione sui diritti dei rifugiati, impedisce la consegna e persino il processo di estradizione quando lo status di rifugiato è in vigore. Situazione che portò la corte suprema a revocare quella prima decisione e non dichiarare irricevibile la domanda di estradizione. Così al governo Milei è bastato ritirare con un pretesto lo status di rifugiato per riaprire la partita. Bertulazzi era stato condannato nel 1985 in due diversi processi – quando già da diverso tempo aveva lasciato l’Italia – a 15 anni di reclusione per complicità nel sequestro Costa del 1977 e 19 anni per il reato associativo, condanne che una volta cumulate, nel 1997, hanno portato a una pena definitiva di 27 anni. Una enormità considerando la breve militanza all’interno della colonna genovese, interrotta anche da un periodo di detenzione, e il fatto che fosse un «irregolare» a cui non sono stati mai contestati reati di sangue. Secondo i giudici, in questa nuova procedura sarebbe intervenuto un fatto nuovo che avrebbe cambiato le carte in tavola: ovvero le garanzie fornite dal procuratore generale della Repubblica di Genova, in una nota del 9 settembre 2024, in merito alla possibilità per Bertulazzi di ottenere un nuovo processo una volta riconsegnato all’Italia. Le garanzie della procura genovese tuttavia contrastano con l’ordinamento italiano, art. 175 comma 2 cpp, che non prevede automatismi in caso di condanne in contumacia ma soltanto la possibilità per il condannato estradato, entro 30 giorni dalla consegna, di poter chiedere la riapertura del processo a certe condizioni. Dominus della decisione resta la corte di appello non la procura generale. Corte che non si è ancora pronunciata e non ha inviato alcuna rassicurazione ai giudici argentini. Sul punto poi esiste una costante giurisprudenza di cassazione che scoraggia le richieste di riapertura. Il principio di intangibilità della cosa giudicata resta fortemente radicato nel sistema giudiziario italiano e nella cultura giurisprundenziale, un muro invalicabile, un tabù intoccabile. A favore di Bertulazzi tuttavia postrebbero giocare altri passaggi presenti nell’ordinanza dei giudici argentini, lì dove si afferma esplicitamente che «per la Repubblica Argentina, dal punto di vista dell’estradizione, [Bertulazzi} è un accusato, tenendo conto che queste condanne devono essere riaperte nella Repubblica Italiana». Altro passaggio da sottolineare è quello dove i giudici ricordano che, «la persona condannata in contumacia deve essere considerata un imputato e godere di garanzie sufficienti per esercitare il suo diritto alla difesa una volta arrivata nel suo paese». Insomma per i giudici argentini Bertulazzi, poiché condannato in contumacia, non va considerato e non può essere estradato in qualità di condannato ma solo di persona imputata, ovvero in attesa di giudizio. Il concetto è molto chiaro, meno chiara è l’interpretazione che ne sarà data in Italia se la corte suprema federale dovesse confermare l’estradizione e il Conare rigettasse il ricorso contro l’abolizione del status di rifugiato politico. Cosa farà allora la magistratura italiana che sciopera in questi giorni contro il progetto di separazione delle carriere voluto con forza dal governo Meloni? Cosa diranno l’opposizione, l’avvocatura, i giuristi?
Per l’ex procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli, oggi in pensione, la decisione della corte di Cassazione francese, che ha confermato il rigetto delle domande di estradizione pronunciato in precedenza dalla corte di Appello di Parigi dei dieci rifugiati italiani, ex militanti delle formazioni della sinistra armata degli anni 70, sarebbe solo un gesto di «arrogante intolleranza», figlio della irresistibile tentazione francese di «insegnare a tutti gli altri (gli italiani in particolare modo) come si sta al mondo». I contenuti giuridici della decisione – sempre secondo l’ex pm – oscillerebbero tra «il paradossale e l’incredibile». In particolare Caselli non sembra digerire l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti umani, richiamato dai giudici parigini per tutelare i diritti acquisiti nel corso della pluridecennale permanenza sul suolo francese dei dieci esuli italiani, sulla scorta di decisioni giudiziarie, politiche e amministrative, pronunciate nel tempo dalla autorità del posto. Tutto ciò – a detta dell’ex procuratore – non avrebbe alcun valore. Per il diritto interno francese tutte le pene sono prescritte dopo un periodo massimo di venti anni, ciò vale anche per l’ergastolo, che nel nostro ordinamento è diventato invece imprescrittibile, al pari di un crimine contro l’umanità. Nell’ordinamento italiano, il periodo massimo oltre il quale scatta la prescrizione delle pene temporali è pari a trent’anni. Regola che l’autorità giudiziaria ha aggirato in tutti i modi mettendo in campo una serie di sotterfugi e artifici vergognosi pur di impedire che la prescrizione venisse riconosciuta a due dei dieci ex militanti richiesti. In un caso si è addirittura ricorsi ad una fraudolenta dichiarazione di pericolosità sociale, a quaranta anni dai fatti-reato, nei confronti di una persona ormai ultrasettantenne e che nel frattempo ha mantenuto una condotta penalmente irreprensibile sul suolo francese, pur di scongiurare l’applicazione della prescrizione. Nella dottrina classica del diritto, il decorso del tempo faceva venire meno l’interesse punitivo dello Stato nei confronti del reo. Questo assunto traeva il suo fondamento penalistico dalla convinzione che fuori dal contesto sociale che lo aveva generato, il reato attenuava se non perdeva la sua portata lesiva dell’ordine sociale e politico infranto, perdeva la carica di allarme sociale in esso contenuta e il reo vedeva inevitabilmente modificarsi la sua personalità a distanza di trenta anni dai fatti. A questa concezione Caselli antepone la «punizione infinita», per altro strettamente limitata ai reati di natura politica e di contestazione sociale, secondo una visione etica dello Stato molto vicina ai presupposti culturali dell’attuale maggioranza di governo, a cui senza dubbio può dare molte lezioni. Ai giudici francesi non è sfuggito questo atteggiamento generale della autorità politiche e giudiziarie italiane, nonché della grande stampa, tanto da aver ritenuto che il via libera alle estradizioni, a fronte dei ripetuti propositi meramente vendicativi enunciati e praticati da parte italiana, avrebbe comportato per gli estradandi un trattamento sproporzionato e iniquo, una violazione insanabile della vita familiare e privata acquista da molti decenni in Francia, infrangendo il percorso di recupero sociale realizzato. A rendere ancora più furibondo Caselli è stato poi il richiamo al giusto processo, sancito dall’articolo 6 della Cedu. Norma finalizzata a garantire che la persona a rischio di estradizione non sia esposta, nello Stato richiedente, a un flagrante diniego di giustizia che può derivare, in particolare, dall’impossibilità di ottenere una nuova pronuncia giudiziaria sul merito dell’accusa nonostante la condanna sia stata pronunciata in sua assenza. Diverse richieste di estradizione riguardavano, infatti, persone processate e condannate in contumacia. Chi ha seguito tutte le udienze davanti alla corte di appello di Parigi sa bene che i giudici hanno ripetutamente chiesto chiarimenti e garanzie alla parte italiana affinché una volta riconsegnate, le persone condannate in contumacia potessero avere garantito il diritto a un nuovo processo. Per tutta risposta le autorità italiane hanno balbettato, tergiversato a lungo perché incapaci di fornire delle garanzie inesistenti nel nostro ordinamento processuale. Atteggiamento che ha definitivamente convinto la corte francese a rifiutare le domande di estradizione. Per Caselli tutto ciò sarebbe solo una prova della supponenza d’Oltralpe e non una manifesta deficienza italiana, una incapacità a comprendere che la cultura della eccezione giudiziaria che ha dominato la fase repressiva della lotta armata non è sovrapponibile alle altre culture giuridiche europee a cui sfugge questa eterna riproposizione di logiche d’eccezione originate da contesti non più attuali, conclusi da oltre trent’anni. Alla ricerca disperata di argomenti per puntellare le proprie tesi, Caselli ricorre ad un esempio surreale, il processo di Torino al nucleo storico delle Brigate rosse, definito un modello del rispetto dei diritti degli imputati. Oggi sappiamo che fu la federazione del Pci torinese a reclutare i giudici popolari di quel processo, come ha raccontato Giuliano Ferrara che quella operazione gestì in prima persona. Sono noti anche i rapporti stretti che Caselli teneva con la federazione torinese del partito comunista, in nome di quella concezione schierata e combattente del ruolo della magistratura che contrasta con la pretesa di dare lezioni morali al mondo, soprattutto se poi è la sua ex procura, in linea con le autorità di governo francesi (cosa c’entra la magistratura di Parigi che per altro nel dossier estradizioni non si è piegata ai diktat dell’Eliseo), a perseguire con uno zelo facinoroso quegli attivisti che sostengono i migranti alla frontiera tra i due paesi.
Le uniche volte che il nostro paese è riuscito a prendere alcuni militanti della lotta armata riparati all’estero è stato possibile solo grazie alla frode, ad accordi sottobanco, a manovre che hanno aggirato leggi e trattati internazionali. Nel 1987-88 tre militanti accusati di partecipazione a banda armata arrivarono dopo una poco chiara triangolazione con Spagna e Francia, dove in quel momento Mitterrand affrontava la sua prima coabitazione e ministro dell’Interno, coautore dell’intera operazione insieme a quello italiano, era Charles Pasqua. Personaggio noto per gli intrighi e i metodi spicci affidati ad operazioni coperte dei servizi. Allora la Francia espulse in Spagna i tre italiani, richiesti dalla nostra magistratura per una processo in corso nell’aula bunker di Rebibbia. Nel Frattempo la Spagna aveva negoziato lo scambio dei tre con quello di un militante basco accusato di appartenere all’Eta e da mesi detenuto Rebibbia. In questo modo non solo venne aggirata la dottrina Mitterrand ma lo stesso trattato che regolava la materia delle estradizioni tra paesi europei. Ai tre, per fortuna, andò bene perché nel corso dei processi le loro posizioni si alleggerirono. Alla fine scontarono “solo” alcuni anni di detenzione preventiva. Non è stato così per la prima “estradizione” diretta dalla Francia, quella di Paolo Persichetti nell’agosto 2002. Un polverone mediatico accompagnò l’episodio, volgarmente festeggiato con un brindisi a villa Certosa da Berlusconi e i suoi sodali durante una cena in cui era presente anche mamma Rosa. All’annuncio, dato via telefono dall’allora capo della polizia De Gennaro al ministro degli Interni Beppe Pisanu presente alla festa, si levò un coro di applausi e qualcuno invitò a levare i bicchieri in aria per brindare alla caccia riuscita. Non si trattava di un’estradizione realizzata secondo i crismi dei trattati europei ma di una consegna speciale. Erano gli anni in cui a livello internazionale era entrata in voga la prassi delle extraordinary rendition e da noi Cia e Sismi rapivano Abu Omar, l’Iman di via Quaranta a Milano mentre funzionava a pieno regime l’agenzia di disinformazione di Pio Pompa. Il vecchio decreto d’estradizione che pesava sulla testa di Persichetti, firmato nel 1994 dal primo ministro francese Balladur nel corso della seconda coabitazione (destra al governo e il socialista Mitterrand all’Eliseo), non era più valido perché due delle tre condanne inflitte erano prescritte. Per riaverlo l’Italia imbastì un’enorme montatura giudiziaria esportando a Parigi la pista investigativa che avrebbe dovuto condurre a scoprire gli autori dell’attentato mortale contro Marco Biagi, avvenuto pochi mesi prima. Gli investigatori bolognesi crearono di sana pianta la «pista francese», una pesante campagna stampa venne orientata contro gli esuli ritenuti gli animatori del «santuario parigino della lotta armata». Non c’era nulla di vero. Semmai a Parigi c’era la centrale politica dell’amnistia, una spina nel fianco da sempre mal sopportata dalle autorità e dalla magistratura italiana. Arrestato in serata, nel corso della notte Perichetti venne trasferito e consegnato all’alba sotto il tunnel del Monte Bianco. Viste le accuse indicate nelle rogatorie internazionali e l’inchiesta sull’attentato Biagi che l’aspettava in Italia, Persichetti avrebbe avuto il diritto di dimostrare la propria estraneità nel corso di una nuova e regolare procedura di estradizione, che mai ci fu.
Consegna straordinaria di Rita Algranati
Nel 2004 fu il turno di Rita Algranati e Maurizio Falessi, riparati da anni in Algeria. Vennero consegnati via il Cairo alla Digos dopo un accordo con i servizi algerini. Nessuna procedura d’estradizione, nessun giudice ha mai valutato se le pretese italiane fossero fondate, le accuse di natura politica o meno, i processi coretti. Nessun timbro o decreto ha mai sancito e reso legale quell’episodio. Fu un atto di pirateria internazionale, un’azione di contrabbando di vite umane. Presi e caricati a forza su un volo diretto in un paese terzo, ad attenderli trovarono le autorità italiane che preventivamente avevano concordato il tutto. Per giunta dopo un anno di carcere le condanne di Falessi risultarono prescritte. È arrivata poi la vicenda Battisti. Prima in Francia, dove il grosso della battaglia giudiziaria ruotò attorno alla contumacia. La tesi italiana era che questa non inficiava minimamente il diritto alla difesa, soprattutto perché a detta degli italiani Battisti aveva comunque nominato dalla latitanza un legale di fiducia. In realtà uno dei primi avvocati di Battisti venne arrestato per un certo periodo, mentre la nomina del secondo, si è poi accertato, era frutto di un falso. Tuttavia ancora non bastava. Bisognava convincere i giudici di una chambre d’accusation che seppur ben disposti erano comunque vincolati da leggi e giurisprudenza. Alla fine l’Italia strappò l’avviso favorevole sulla base di una promessa, il varo di una legge che avrebbe consentito alle persone condannate in contumacia di chiedere la riapertura del processo. Non si era mai visto che qualcuno venisse estradato in virtù di una legge che ancora non c’era. Era l’inizio del diritto virtuale all’italiana, la giustizia creativa che seguiva il solco delle evoluzioni della finanza. In effetti, una modifica derisoria dell’articolo 175 del codice di procedura venne poi introdotta, ma questa non ha mai previsto automatismi. È rimasto sempre un collegio di giudici a vagliarne la pertinenza. Così la Francia concesse l’estradizione sulla base dell’ennesimo raggiro: la promessa della riapertura di un processo che non sarebbe mai venuto, prova ne è il fatto che di fronte al Supremo tribunale brasiliano si discute d’ergastolo. Il Brasile ne chiede la commutazione, l’Italia risponde che non ce n’è bisogno perché si tratterebbe di una «pena virtuale». Ma il Brasile si farà fregare come la Francia?
Alcune precisazioni su questa intervista apparsa su “la Repubblica”. Purtroppo le poche righe messe a disposizione hanno dato origine ad alcune inesattezze e qualche ambiguità. Fino ad oggi ho passato (tra prigioni italiane e francesi) più di 12 anni della mia vita in carcere, non 6 come alcuni quotidiani di destra hanno immediatamente scritto (in particolare Paolo Granzotto sul “Giornale” del 3 gennaio). 12 anni di pena effettiva corrispondono, per effetto del calcolo della “liberazione anticipata” (per i profani del sistema carcerario vuole dire una sorta di sconto per buona condotta) a 15 anni di pena maturata.
Da 2 anni e mezzo esco ogni mattino dal carcere per andare a lavorare e vi rientro la sera. Questo regime detentivo prende il nome di semilibertà, o se volete anche “semicarcerazione” (come la storia del bicchiere mezzopieno e mezzovuoto). Questa mezza libertà che inizia con le luci del giorno non è una libertà vera ovviamente. Il semilibero si porta il carcere addosso lungo tutta la giornata. Non può andare dove vuole ma solo dove i giudici hanno stabilito. Ha degli orari ben precisi che deve rispettare, è consegnato sul posto di lavoro come in una sorta di arresti lavorativi, a meno che l’attività lavorativa svolta non imponga degli spostamenti, tutti preventivamente segnalati e monitoriati. Terminato il lavoro deve rispettare una fascia di reperibilità che non gli consente alcun altro spostamento. Gli unici spostamenti ammessi sono dal carcere al lavoro, dal lavoro a casa, da casa al ritorno in carcere. Ogni altro eventuale spostamento al di fuori degli orari preventivamente ammessi non è consentito.
Al momento della mia estradizione dalla Francia 3 delle 4 condanne che mi erano state inflitte erano prescritte. In sostanza il decreto di estradizione firmato dal primo ministro francese nel 1995 non era più valido (il testo riportava in calce come condizione che le pene indicate non fossero prescritte). Di norma una nuova procedura avrebbe dovuto essere riaperta per aggiornare la validità della estradizione. In realtà sono stato consegnato alle autorità italiane perché la procura di Bologna cercava in tutti i modi di spostare le indagini sull’attentato Biagi verso quello che chiamava il “santuario francese”, rivelatasi poi un vero e proprio depistaggio. Una richiesta di “individuazione” e una rogatoria internazionale erano state avviate contro di me. Anche qui il trattato che disciplina le estradizioni tra Paesi europei prevedeva l’attivazione di una nuova procedura di estradizione per i nuovi fatti che mi venivano addebitati. Tutto ciò non avvenne mai. Fui consegnato all’alba del 25 agosto 2002 sotto il tunnel del Monte Bianco senza nuova estradizione, senza possibilità di difendermi, anzi senza nemmeno sapere dell’accusa che m’attendeva in Italia. Per oltre due anni e mezzo sono rimasto indagato nell’inchiesta Biagi, all’inizio in modo occulto, poi formalizzato, per essere alla fine prosciolto. Nei 3 anni successivi mi sonso stati sistematicamente negati i permessi a causa degli articoli e di un libro che avevo scritto nel frattempo. Non è affatto vero, come invece ha scritto Giuseppe Cruciani in una specie di lista di proscrizione dal titolo “Gli amici del terrorista. Chi protegge Cesare Battisti”, Sperling & Kupfer 2010, che i detenuti condannati per reati politici possono usufruire dell’indulto di 3 anni concesso dal parlamento nel 2006. I reati aggravati dall’articolo 1 delle legge Cossiga, che sanziona le “finalità di terrorismo e sovversione dell’ordinamento costituzionale”, nonché alcuni dei reati canonici previsti nel capitolo dei delitti contro la personalità interna dello Stato del codice Rocco (banda armata, associazione sovversiva, attentato contro lo Stato) sono stati esclusi dall’applicazione di questo indulto.
Concetto Cecchio
Repubblica 2 gennaio 2011
PERSICHETTI, come valuta la mancata estradizione di Cesare Battisti?
«Mancata estradizione? Giusto rifiuto. Me ne rallegro. Il Brasile si aggiunge alla lunga lista di Paesi che non hanno accolto le richieste dell’Italia: Grecia, Svizzera, Francia, Gran Bretagna, Canada, Argentina, Nicaragua, e non cito il Giappone perché mi ripugna, visto che ha dato la cittadinanza al neofascista Delfo Zorzi».
L’irriducibile Paolo Persichetti, romano, 48 anni, condannato a 19 anni di carcere per la sua partecipazione alle Brigate Rosse della seconda metà degli anni Ottanta- le Br Udcc – è l’unico terrorista che è stato estradato dalla Francia nel 2002. Aveva trascorso undici anni a Parigi, gli ultimi come ricercatore all’Università. Era sospettato, senza saperlo, dell’omicidio Biagi, accusa che poi cadde. Ma qua è rimasto: detenuto per sei anni. Da due anni è semilibero, a Rebibbia. Collabora con il quotidiano Liberazione.
La motivazione di Lula è che tornando in Italia l’incolumità di Battisti sarebbe a rischio. Lei conosce bene le nostre carceri. Non è una motivazione ridicola?
«Guardi che nelle motivazioni si fa soprattutto riferimento all’aggravamento della posizione di Battisti, che finirebbe in un carcere duro nonostante non commetta reati da 30 anni. Nel giudizio dei brasiliani incide poi anche il fatto che nel loro ordinamento non è prevista la pena dell’ergastolo. Soprattutto guardano a quelle vicende con gli occhi della storia, come da tempo dovrebbe fare anche l’Italia. In questo Paese al contrario si vogliono regolare ancora dei conti in termini giudiziari invece che affrontare gli anni di piombo con un atto di chiusura politica».
Ma Battisti non ha scontato un solo giorno di carcere per i quattro omicidi. Le sembra eticamente sostenibile in uno Stato di diritto?
«Ma tra Italia, Francia e Brasile, ha scontato cinque, forse sei anni. Certo, è una piccola parte rispetto all’ergastolo ma di poco inferiore a quella subita dal suo maggiore accusatore, reo confesso di diversi omicidi e premiato con i lauti sconti di pena previsti dalla legislazione speciale antiterrorismo».
C’è di più: Battisti si è sottratto ai processi, fuggendo prima in Messico e poi in Francia.
«Era un suo diritto. Il diritto ammette la possibilità di sottrarsi altrimenti non esisterebbero i trattati internazionali e bilaterali che regolano la disciplina delle estradizioni tra Stati, prevedendo anche la possibilità di offrire protezione. E poi l’Italia ha un presidente del consiglio che si sottrae da anni ai processi partecipando ai summit internazionali senza che ciò crei scandalo. Perché dovrebbe crearlo Battisti».
Le pare che questa è giustizia?
«Cosa vuol dire giustizia? Battisti è sfuggito alle leggi emergenziali di quel decennio. Le faccio notare che quando, nel 2004, le autorità francesi decisero di estradarlo in Italia lo fecero perché il governo italiano promise loro che gli avrebbe rifatto i processi, visto che le condanne erano state comminate in contumacia. Era chiaramente una promessa di marinaio…»
Infatti Battisti preferì scappare di nuovo, in Brasile. E le vittime aspettano da 30 anni: provi a mettersi nei loro panni.
«Lo faccio spesso. Ho incontrato Sabina Rossa per un’intervista ed è stata un incontro doloroso, difficilissimo, avevo paura di sbagliare un solo aggettivo. Dopodiché non credo che la presenza in carcere di Battisti risarcisca i parenti dal loro dolore. Insisto: questo Paese non sa rielaborare il proprio passato, lo strumentalizza continuamente. Risultato: la piaga rimane sempre aperta».
Che ricordo ha di Battisti?
«L’ho incrociato spesso in Francia, anche se avevamo giri diversi. Un personaggio simpatico, guascone, che viene da una famiglia proletaria. Ho conosciuto anche i suoi famigliari, persone oneste che si sono sempre ammazzate di fatica. Cesare era un ragazzo ribelle, che poi ha politicizzato la sua ribellione, come tanti di quella generazione. In ogni caso una estradizione non si decide sulla base della simpatia o antipatia (reale o costruita dai media). Per questo l’Italia perde sempre».