Categorie della politica – Lo scalfarismo
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di Maurizio Stefanini
Il Foglio 2 giugno 2012
Il giornale per la “classe dirigente” e la mania dell’eterodirezione: dal Pci di Berlinguer alla Dc di De Mita. Ma anche le liste in proprio, come la Lega Nazionale
«Poiché il quadro politico ed economico è questo, poiché la maggioranza attuale non è credibile e un’opposizione credibile non c’è, è venuto il tempo che la società civile rivendichi il suo ruolo di protagonista e prenda in mano direttamente la gestione della nazione… Imprenditori, cooperativisti, sindacalisti, capi-operai, intellettuali, uomini delle libere professioni, che dovrebbero costruire questo luogo di incontro, aperto alle forze di buona volontà ma solidamente picchettato da paletti morali e programmatici. Non sarebbe un nuovo partito né un’ennesima e dispersiva lista elettorale, ma una grande forza trasversale». Firmato, Eugenio Scalfari. No, non sono le parole con cui sta chiamando, in questi giorni, alla Lista civica nazionale, o Lista Saviano, o Lista Scalfari che dir si voglia. Oltre vent’anni fa, fu l’appello con cui il primo dicembre del 1991 il Fondatore chiamò alla costruzione di una “Lega Nazionale”, identificata con la «maggioranza sommersa» che pochi mesi prima aveva votato il referendum di Mario Segni «contro l’espresso parere di Craxi e Bossi che ci avevano invitato ad andare al mare invece che alle urne».
Nel 2011 Saviano, nel 1991 Segni. Ma non solo loro. Nel mezzo ci sono tanti altri tentativi di passare dal giornalismo politico alla politica in quanto tale. Scalfari, prima di arrivare ai quarant’anni, ha già diretto ben tre campagne elettorali: nel 1953 il Pli; nel 1958 la lista tra radicali e Pri; nel 1960 le liste tra radicali e Psi alle comunali. Esperienze del resto tutte disastrose, che lo inducono a lasciare la politica attiva per il giornalismo. Poi tra 1968 e 1972 Scalfari torna in politica, come deputato socialista. Ma si convince che un parlamentare conta meno di un direttore di giornale, e dopo essere stato trombato si dedica al progetto che il 14 gennaio 1976 si traduce nell’uscita di Repubblica. «Questo giornale è un poco diverso dagli altri: è un giornale d’informazione il quale, anziché ostentare una illusoria neutralità politica, dichiara esplicitamente d’aver fatto una scelta di campo. E’ fatto da uomini che appartengono al vasto arco della sinistra italiana, consapevoli d’esercitare un mestiere, quale appunto del giornalista, fondato al tempo stesso su un massimo d’impegno civile e su un massimo di professionalità e di indipendenza».
«Finora si sono fatti dei giornali omnibus, buoni cioè per tutti i lettori. Noi, invece, vogliamo ritagliare dalla massa del pubblico una fetta precisa: la classe dirigente, prendendo come riferimento non il reddito ma i ruoli esercitati nella società». Così nacque il giornale partito. Ma la vocazione è la vocazione, e il Fondatore non rinuncia a provare ad esercitare una funzione che sia qualcosa in più della sola formazione della “classe dirigente”.
Così il primo partito su cui Scalfari intende riversare il suo know-how ideologico è proprio il Psi, ma dopo il 1976 punta decisamente sul Pci. Vocazione maggioritaria ante litteram. «La classe dirigente ha capito da un pezzo ciò che la piccola borghesia italiana stenta ancora a capire, e cioè che il Pci è un partito democratico come tutti gli altri», scrive il 21 gennaio 1979. Ha grande successo con la base, sedotta da un giornale tanto più glamour della vecchia stampa di partito. Meno con i dirigenti.
«Il suo direttore pretende di modificare l’immagine che abbiamo di noi, orientare i nostri comportamenti e indirizzare il processo in corso nel Pci verso certi esiti piuttosto che verso altri», dirà Enrico Berlinguer. «In tutto questo c’è qualcosa di oscuro che non mi piace». Successivamente, cogliendo l’occasione della crisi del Corriere della Sera per lo scandalo P2, nel gennaio 1983 Scalfari spiega che «è arrivato il momento di insediare il giornale in aree politiche e culturali meno di sinistra». Il suo nuovo punto di riferimento è Ciriaco De Mita, «l’uomo della risposta democristiana all’intraprendenza socialista». Per telefono, nel luglio 1986 lo convince a bloccare un governo Andreotti, e per telefono lo convince a nominare Antonio Maccanico ministro delle Riforme istituzionali quando il 13 aprile 1988 diventa presidente del Consiglio. «Sei il nuovo De Gasperi e farai dell’Italia una Svizzera». Ma solo un anno dopo, il 15 settembre 1989 conclude: «Mai un uomo che ha avuto il massimo del potere per sette anni ne ha fatto un uso così inefficace».
Neanche l’evoluzione del Pci in Pds lo convince. «Farfalla che aveva paura di volare», perché Occhetto non ha accettato il suggerimento di guardare «più il new deal rooseveltiano che il riformismo di Bernstein e Kautsky».
E così lancia la Lega Nazionale, il cui nucleo costituente è da lui individuato nel 1992 in una serie di candidature comuni per il Senato della Calabria. «La Malfa e Occhetto hanno mancato entrambi quello che essi ritenevano il successo, ma rappresentano, in modi e dimensioni diverse, forze rispettabili e utilizzabili per indicare le nuove regole di comportamento politico. E così Verdi e Orlando». Poi torna a guardare a Segni, salvo passare il suo imprimatur a Ciampi. «Come ai tempi di Einaudi» è il suo editoriale del 17 aprile 1993. Il 7 dicembre 1993 Occhetto ridiventa il leader di una «Grande alleanza… tra la società civile e la sinistra riformatrice». La «gioiosa macchina da guerra» verrà sconfitta, ma in capo a due anni si trasfigura nell’Ulivo vittorioso: «Un soggetto politico nuovo e destinato a durare». Missione compiuta al punto che decide di passare di mano la direzione del giornale. Salvo poi, il 13 aprile 1997 concludere: «Ma Prodi, chi è Prodi? Un vanitoso, un testardo, un furbo, un dilettante, un politico fine, un politico stolto? Risposta: Prodi è esattamente il frutto dei nostri tempi, il frutto di una Seconda Repubblica che si prefigura ma non è ancora nata». Il 16 gennaio del 2000 definirà i Ds «il partito della sinistra ora c’è», ma dopo la sconfitta il 3 ottobre del 2002 riconosce: che «il collante principale che tiene unito, al di là di tante divisioni, il cosiddetto ‘popolo di sinistra’» è “l’antiberlusconismo”. Il 14 ottobre 2007 saluta la nascita del Partito democratico, cui proporrà addirittura un suo Lodo per decidere le primarie. Ma il Pd lo rifiuta, e d’altronde a Scalfari dirigere uno solo dei poli in campo non è mai bastato. «Meno male che c’è Fini», titola il 30 marzo 2010. Ma già il 28-29 marzo 2010, Repubblica lanciava attraverso Saviano un appello alla vigilanza Onu sul voto.
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un circo Barnum e, come in un mattinale della questura, s’inventa pure un fantomatico dibattito tra ‘uscisti’ ed ‘entristi’ della lotta armata. Soprattutto prende di petto Oreste Scalzone, che dopo trent’anni ha avuto reati e condanna prescritti. Il suo è un minestrone di parole che ammucchiano colore, gossip, dicerie, fandonie, pregiudizi. Ce l’ha persino col loro modo di parlare. L’argot inevitabile d’ogni migrante che ha dovuto apprendere la nuova lingua per necessità. Ma poi aggiunge che alcuni tra loro pubblicano libri, fanno ricerca universitaria, aprono librerie e negozietti, senza rendersi conto della contraddizione. Ha da ridire anche sul fatto che non vestono Prada e si meraviglia di come si possa campare ventisei anni di espedienti, cioè di precariato. Domanda interessante, questa, che dovrebbe rivolgere ai cantori nostrani della deregolamentazione del mercato del lavoro.
Chi vede Parigi dagli appartamenti dei grandi boulevards, e guadagna con un solo articolo il corrispettivo di quattro stipendi da operaio e otto da precario nei call center, è preso d’angoscia di fronte ad una simile prospettiva e percepisce i marciapiedi delle città, il caldo maleodorante del suo reticolo sotterraneo di vie ferrate, come un’insidia dura e ingenerosa. Dante parlava dell’esilio con parole molto amare: «tu lascerai ogni cosa diletta/ […] Tu proverai sì come sa di sale/ lo pane altrui, e come è duro calle/ lo scendere e ’l salir per l’altrui scale». Sarà che ognuno fa le sue esperienze, saranno le diavolerie della tecnologia, ma a Parigi ci sono tanti ascensori e infinite scale mobili e poi ad esser salato è il burro, non il pane. Insomma, se la città la vivi dai sottotetti dei quartieri popolari e multietnici, quella durezza diventa generosità, solidarietà, complicità naturale, intreccio di vite che arrivano da mille angoli del pianeta, ognuna con la sua valigia di storie. Scalzone, e altri come lui, tutto questo l’hanno vissuto sempre al presente, senza nostalgie, senza rimpianti e con le radici che ormai crescevano all’insù.
Immorale è il viaggio quando si rimane stranieri, ha scritto tempo fa Claudio Magris. E stranieri i fuoriusciti non lo sono mai stati. La nostalgia è stata quella degli altri, come racconta Milan Kundera, anche lui un tempo esiliato. Nóstos e Àlgos sono parole greche che indicano «ritorno» e «sofferenza». Nostalgia è dunque la tristezza che provoca l’impossibilità di tornare. Ma in altre lingue l’etimologia è diversa e trae origine dal latino ignorare. In questo caso, la nostalgia si esprime come «sofferenza per l’ignoranza» di non sapere quel che accade lontano da noi. Ma Scalzone, in tutti questi anni, non ha avuto il tempo di rimpiangere e ignorare proprio nulla, come Ulisse nell’alcova di Calipso. Coinvolto tra mille incontri e scoperte in tutte le battaglie della nuova modernità liquida, come la chiama Zygmunt Bauman: migranti, senza tetto, giovani delle banlieues, precari, altermondialisti, scioperi come quello generale del ’95, mentre a casa sua facevano tappa musicisti, poeti, teatranti e giramondo, scappati e scampati da magistrature, eserciti e polizie di mezzo mondo, compreso qualche fascista gravemente ammalato e un democristiano ricercato. Per farsi aprire bastava esibire come passaporto un mandato di cattura.
I nostalgici sono rimasti in Italia, alcuni perché hanno fatto degli anni ’70 l’oggetto del loro incarognito risentimento, come Sergio Segio. Uno che si racconta avvinto da un ineluttabile destino. «Non c’è salvezza possibile per chi ha sognato di cambiare il mondo», scrive in un libro dove inanella una serie impressionante di goffe citazioni scapigliate, iscrivendosi nel «novero dei destinati alla sconfitta che non scelgono l’esilio ma di andare fino in fondo, pagando quel che bisogna pagare al sogno a lungo coltivato». Convinzione che lo porta a rivendicare una sorta di primazìa etica: l’aver prima commesso l’errore giusto ed in seguito aver ripudiato nel modo più giusto la giustezza dell’errore passato. Prova d’eccellenza assoluta, che giustificherebbe il suo irrefrenabile desiderio d’accedere allo status di persona non comune che un tempo si diceva persino comunista.
rappresenta da oltre vent’anni un’anticipazione del possibile, ciò che avrebbe potuto essere il futuro italiano se fosse stata varata una soluzione politica per gli anni ’70. Una smentita cocente per gli imprenditori dell’emergenza, un esempio da cancellare con ferocia e motivo d’incontenibile livore per chi tra dissociazioni e pentimenti, in cambio di laute ricompense premiali, non perde occasione di salire in cattedra e recitare l’autocritica degli altri.