La Francia ha deciso di scarcerare Marina Petrella

Finisce l’incubo dell’ex Br, in pessime condizioni di salute

di Paolo Persichetti

Liberazione 6 agosto 2008

Dopo una battaglia di 11 mesi e 24 giorni, dopo che il corpo stesso di Marina Petrella è sceso in lotta deciso ad affrontare l’estrema resistenza, quello sciopero della vita che la stava lentamente spegnendo, ultima disperata vendredi_28_mars_5 evasione dal fine pena mai, la chambre d’accusation della corte d’appello di Versailles ha deciso ieri la sua scarcerazione per ragioni di salute. L’ex militante delle Br da oltre un decennio rifugiata in Francia grazie alla protezione della dottrina Mitterrand è stata rimessa in libertà sotto controllo giudiziario.
Non potrà lasciare il territorio francese, dovrà sottoporsi alle cure mediche necessarie nell’ospedale saint- Anne di Parigi, dove era stata ricoverata il 23 lugio scorso. Se il suo stato di salute lo consentirà, una volta dimessa dovrà sottostare all’obbligo di domicilio presso l’abitazione familiare e firmare periodicamente presso il commissariato di zona. «Questo risultato è solo un primo passo», ha dichiarato la figlia Elisa Novelli, nata in un carcere speciale italiano all’inizio degli anni 80 e in prima fila nella battaglia contro l’estradizione della madre. «Il nostro impegno proseguirà con la richiesta al presidente Sarkozy di ritirare il decreto applicando la clausola umanitaria prevista nella convenzione europea sulle estradizioni», ha poi concluso. Ora la piccola Emma, la seconda figlia della Petrella nata in Francia, potrà rivedere la madre. Forse non subito viste le condizioni di salute dell’esiliata italiana arrivata a pesare 39 kg. «L’ho trovata estremamente indebolita, si direbbe che sia invecchiata di 20 anni. Mi ha guardato negli occhi e mia ha detto: “lo sai che sarà dura, ma avranno soltanto il mio cadavere. Non porteranno via nient’altro”», ha raccontato Hamed ad una radio parigina, il compagno che aveva finalmente potuto rendergli visita per la prima volta dopo tre mesi.
La decisione era nell’aria da alcuni giorni, dopo il cordoglio suscitato dalla scomparsa di uno degli avvocati di Marina Petrella, Jean-Jacques De Félice, figura storica del foro di Parigi sempre in prima fila nella difesa dei sans papiers e dei senza tetto, membro del comitato di difesa dell’Fln ai tempi della guerra d’Algeria. A smuovere le acque è stata anche la ferma presa di posizione del professore Frédéric Rouillon, titolare della cattedra di psichiatria presso l’università René-Descartes che in passato aveva denunciato la presenza di gravi errori nelle scelte terapeutiche impiegate sulla fuoriuscita. Sulle pagine del quotidiano Libération del primo agosto, il responsabile del servizio dove la Petrella è in cura, aveva spiegato che il ricovero d’urgenza della paziente era avvenuto disattendendo quanto previsto dalla legge. Per questo motiva domandava una sua rapida scarcerazione affinché potesse essere sottoposta ad un trattamento terapeutico efficace. Non c’è stata, quindi, nessuna particolare sorpresa quando nella serata di lunedì 4 agosto le agenzie hanno diramato la notizia che il giorno successivo sarebbe stata discussa la rimessa in libertà, su richiesta della stessa procura generale che annunciava anche il suo orientamento favorevole alla scarcerazione.
Se è vero che questa decisione non influisce minimamente sulla proseguio della procedura d’estradizione, il Consiglio di Stato deve infatti ancora pronunciarsi sul ricorso sospensivo depositato dall’avvocato Irène Terrel, tuttavia segnala un evidente cambio di rotta del potere politico francese.
Un cambio di strategia che si era già palesato con le dichiarazioni rese dal presidente della repubblica francese a conclusione del vertice del G8 in Giappone e con l’invio di una lettera al primo ministro Berlusconi, nella quale si chiedeva al governo italiano di farsi latore di una domanda di grazia presso il Quirinale. Gli argomenti esposti da Sarkozy sono andati col tempo affinandosi dopo la confusione iniziale. Soprattutto l’ospite dell’Eliseo ha insistito ripetutamente sull’insensatezza di sanzioni penali, per giunta infinite, che restano ancora pendenti a distanza di decenni dai fatti incriminati.
Che Sarkozy sia in qualche modo tornato sui suoi passi, lo dimostra anche la politica globale messa in campo negli ultimi tempi sull’intera materia dei residui penali dei conflitti politico-sociali che hanno segnato la fine del Novecento. È di questi giorni, infatti, la concessione della liberazione condizionale a Nathalie Ménigon, membro di Action directe in semilibertà da un anno, arrestata nel 1987 e condannata a diversi ergastoli. Dopo Joëlle Aubrun, liberata a seguito delle sue gravi condizioni di salute e deceduta nel frattempo, e Jean-Marc Rouillan, messo in semilibertà da alcuni mesi, Sarkozy ha deciso la chiusura degli «anni di piombo» francesi. Tutti i militanti legati alla stagione della lotta armata svoltasi in Francia tra la fine degli anni 70 e gli anni 80 sono stati concentrati nell’istituto penitenziario di Fresnes, nella periferia sud di Parigi, dove è presente il Centro d’osservazione nazionale incaricato di valutare la pericolosità sociale dei detenuti prima che questi vengano ammessi al regime di prova della semilibertà e successivamente in libertà condizionale. Sono altre le emergenze che preoccupano il presidente francese. Le nuove politiche securitarie si indirizzano ormai contro i migranti, i residui penali del Novecento rappresentano solo una zavorra anche per la visibilità sociale dei vecchi militanti incarcerati, sostenuti da una parte della società civile che ne chiede da tempo la scarcerazione. Solo in Italia il passato divora il futuro e si nutre di vendette senza fine. Come è accaduto per Rita Algranati estradata nel 2004 per scontare l’ ergastolo.

«Quando si parla di confini dell’umanità vuol dire che se ne sta escludendo una parte»

«È il populismo che dilaga oggi anche a sinistra»

Intervista a Oreste Scalzone, fondatore di Potere Operaio

di Paolo Persichetti

Liberazione del 6 agosto 2008

Oreste Scalzone riceve la notizia della scarcerazione di Marina Petrella dalla stanza d’ospedale dove è ricoverato in questi giorni. Ci risponde al telefono con la consueta combattività. scalzone_3-4

Liberation ha scritto che la scarcerazione di Petrella è uno schiaffo della magistratura francese a Sarkozy, suggerendo uno scenario all’italiana. Sei d’accordo?
In realtà a me sembra un accecamento non solo della critica ma anche dell’evidenza. La potenza di un corpo che decide di non voler e non poter vivere al di sotto di una certa condizione d’esistenza accettabile, insieme a una difesa accanita, sono riusciti a strappare un primo risultato. Primo passo ma decisivo. In realtà a percepire che il vento era cambiato è stato proprio Sarkozy. Cioè chi espone la propria faccia sul mercato della politica. Quelli che per ora hanno dovuto fare un passo indietro sono stati i funzionari anonimi della crudeltà, quelli che per mestiere gestiscono la banalità del male, gli annidati nei vari corpi dello Stato, le rotelle anonime che rispondono ad un principio di irresponsabilità. Come è noto, in Francia le procure sono sottomesse ad un principio gerarchico. Quando è pervenuto l’imput dalla politica, i magistrati si sono mossi.

Ma cosa fai, ora difendi Sarkozy?
Mi interrogo sulla matrice di questi accecamenti. Secondo me la causa è lo smarrimento del concetto di inimicizia. Quanti sono quelli che veramente l’hanno sostituito con la nonviolenza assoluta? In realtà, la perdita del nemico ha prodotto nei più una perdita dell’altro. Una delle prime forme di scoperta dell’altro da sè è proprio la figura del nemico. Dietro la sua immagine c’è il senso tragico dell’altro.

Ma questo non era un tratto tipico delle destre?
Non è più così, purtroppo. Certo, siamo abituati a vedere in questa deriva una vecchia matrice teologica, quella dove c’è il mondo dei buoni, la civitas dei che giustifica la guerra santa contro l’infedele a cui si riconosce solo lo statuto del sottoumano. Ma la modernità ci ha regalato anche una matrice giacobina, repubblicanista, che ha dato forma costitutiva al mondo borghese ma che poi è stata recepita come eredità culturale dal movimento operaio. I versagliesi hanno schiacciato i comunardi in nome della repubblica, divenuta la forma legittima del leviatano al posto della monarca. Da Dio onnipotente si è passati alla repubblica e poi alla tirannia dei diritti umani. Oggi andrebbe rilanciata una critica comunarda del giacobinismo in antitesi con quella reazionaria di Furet.

Ma che c’entra tutto ciò con Sarkozy?
C’entra eccome. I repubblicanisti francesi assomigliano tanto ai girotondini italiani. Odiano l’avversario perché non sanno nemmeno più percepire il conflitto materiale che li oppone. Quando si parla di confini dell’umanità vuol dire che se ne sta escludendo una parte. Non ci sono più classi, padroni, sfruttatori, ma mostri inspiegabili, mostri extraumani. È il populismo che dilaga oggi anche a sinistra.

La veritable impunité c’est le repentir, c’est à dire l’impunitè d’Etat!

Paolo Persichetti: La justice italienne ne sera pas tendre avec Marina Petrella

par Maguy Day
Mediapart
17 luglio 2008

Premier réfugié italien à être extradé en 2002 après onze ans passés en France en toute légalité, Paolo Persichetti, ancien militant de l’Union des communistes combattants (Udcc), était enseignant en sciences politiques à Paris VIII quand il fut enlevé et extradé en 2002, sur décision du gouvernement Raffarin, au mépris de la parole donnée au nom de la France par François Mitterrand puis par Lionel Jospin depuis le milieu des années 1980.

Que pensez-vous des déclarations de Nicolas Sarkozy selon lequel «dans le droit italien, et le droit ça compte, pour avoir le droit au pardon et à la grâce il faut se repentir, que Mme Petrella réfléchisse à ça» (Propos de Nicolas Sarkozy à Strasbourg le 10 juillet 2008)?
Je m’étonne qu’un pays comme la France si attaché à la laïcité, et qui a légiféré sur les signes religieux ostentatoires dans l’espace scolaire, utilise, par la voix de son président, le terme de pardon, à connotation éthico-religieuse. Une notion qui devrait rester confinée au domaine privé et au for intérieur de chaque individu. Quant aux termes «demande de pardon», «expression de regrets» ou encore «repentir» en Italie, ils ont acquis un sens et une portée particulière qu’il est important d’expliciter. Dans la loi italienne, le «ravvedimento», synonyme de «repenti», est prévu uniquement en cas de liberté conditionnelle. Il n’est pas requis pour les autres mesures d’aménagement des peines telles que les permissions, la semi-liberté ou les remises de peines. De toute façon, et uniquement en cas de libération conditionnelle, les juges cherchent à établir s’il y a eu un parcours de «rééducation du passé déviant» avec absence de dangerosité sociale. Ainsi ce type de «repentir» n’entre même pas en ligne de compte pour la concession d’une grâce. Selon une jurisprudence de la cour de
cassation, le «pardon» ne doit en aucun cas être une posture psychologique ou idéologique du condamné. Il est en revanche lié à son comportement durant l’exécution de sa peine dans la mesure où il fournit la preuve d’une critique de ces choix de vie passés. Le «repentir» et le «pardon» renvoient dans les religions monothéistes à de longs processus de «contrition» personnelle. La transformation de cette pratique en «marché des indulgences» et des «péchés de simonie» fut un des thèmes théologiques qui provoquèrent la réforme de Martin Luther au XVe siècle. Or l’Italie comme la France semblent vouloir suivre cette voie. Pourtant, le droit moderne est issu d’une nette séparation entre responsabilité et culpabilité. Il s’attache à des comportement factuels externes, mesurables et vérifiables par tous, comme celui de Marina Petrella ces 27 dernières années.
Et surtout, désormais en Italie, le terme «repenti» a pris une tout autre signification après l’élaboration des lois spéciales en 1979, usurpant celle jusqu’alors utilisée. En 1979, un mécanisme de réduction de peine expressément lié à une collaboration procédurale est apparu dans le système pénal italien, appelé «collaboration judiciaire» qui est en fait une «acquisition d’impunité». Cet accord permet à un homme de se transformer en délateur rejetant la responsabilité pénale sur d’autres qu’il accuse et qui eux refusent ce marché. Il est arrivé à de multiples reprises que des prisonniers ou des réfugiés italiens expriment leurs condoléances pour la souffrance infligée, sans pour autant accepter un tel marchandage. Leurs postures restent incomprises, alors que se multiplient ces «collaborations» pénales. De plus, au lendemain de la décision de Bolzaneto [suite aux événements du sommet du G8 à Gênes en 2001], qui entérine l’impunité de l’Etat vis-à-vis de la torture, un délit qui n’existe pas en Italie, il devient difficile de discuter de la question de la douleur, si pour un camp elle n’est pas reconnue.

Premier réfugié italien extradé en 2002 par le gouvernement français, vous bénéficiez aujourd’hui d’un régime de semi-liberté. Marina Petrella pourrait-elle en bénéficier si la France persiste dans sa volonté de l’extrader ?
Pas du tout. D’abord parce que Marina qui a déjà passé huit ans derrière les barreaux en Italie et onze mois en France s’est vu
refuser une confusion des peines. Donc, une fois en Italie, elle devra recommencer sa peine depuis le commencement jusqu’à
perpétuité. De zéro à l’infini. Selon les lois en vigueur et puisqu’elle a été condamnée à la perpétuité, elle devra attendre dix
ans avant d’envisager de déposer une demande de permission de 45 jours par an. Habituellement, elles sont accordées quelques années après, soit vers la quinzième année. Le régime de semiliberté ne peut être demandé qu’après la vingtième année. Pour cette femme de 54 ans, mère de deux enfants, c’est pratiquement une condamnation à mort.
Sans compter que le président de la commission justice au sénat, Filippo Berselli, du parti alliance nationale (ex-fascistes) a
déposé un projet de loi, discuté en septembre 2008, qui prévoit la fin des aménagements de peine et en particulier pour les condamnés à perpétuité. Le régime de semi-liberté et celui de la libération conditionnelle, qui peut être demandée après 26 ans derrière les barreaux, risquent d’être supprimés. Marina Petrella ne pourra alors bénéficier des remises de peines qui ont été concédées dans les années 1990 aux autres prisonniers politiques, en lieu et place de l’amnistie.

En quoi consiste votre quotidien depuis votre récente mise en semi-liberté ?
C’est une vie normée par les interdits. Les rencontres, la vie sociale, les trajets sont circonscrits. C’est une vie chronométrée. Je quitte la prison à 7h00 du matin pour y retourner à 22h30. Entre les deux, je dois être à mon domicile pendant certaines tranches horaires. Puis je dois me rendre sur mon lieu de travail et ne pas m’en éloigner. Je me déplace avec mes livres, mes documents qui, d’ailleurs, m’ont été volés hier dans le coffre de mon scooter. Mais au moins je ne suis pas rongé par l’inactivité forcée, l’oisiveté intellectuelle et physique incontournables dans le système carcéral.

Que cachent ces procédures d’extradition relancées entre l’Italie et la France ?
Après l’attentat mortel contre Marco Biagi, conseiller du gouvernement italien tué en mars 2002 par un nouveau groupuscule reprenant le vieux logo des Brigades rouges-Pcc, les autorités italiennes étaient à la recherche d’un coupable. Plus tard, au printemps 2003, les pièces de la commission rogatoire internationale, demandée par la justice italienne et réalisée par la division nationale anti-terroriste (Dnat) sous la direction du juge Bruguière, ont montré qu’à l’été 2002 la magistrature de Bologne et l’antiterrorisme italien ont sollicité les autorités françaises afin qu’elle me repère et m’arrête dans le cadre de l’enquête Biagi et non pas pour le vieux décret d’extradition. Finalement, l’extradition ne portait pas sur les faits de 1987 pour
lesquels j’avais été acquitté une première fois en 1989, et puis condamné en appel à 22 ans et 6 mois. Ces faits-là étaient partiellement prescrits. Et comme le précisait le décret signé par le premier ministre Edouard Balladur en septembre 1994, l’extradition était engagée «pourvu que les condamnations ne soient pas prescrites». Manifestement le décret n’était plus valable. Pour m’extrader il fallait faire une nouvelle demande d’extradition pour la seule peine qui était encore en vigueur… Ils ont préféré régler l’affaire autrement… sous le tunnel du Mont-Blanc où j’ai été livré comme un colis. A en croire les autorités italiennes, les attentats de 1999 et 2002 étaient le résultat de l’action déstabilisatrice des exilés parisiens qui, sous couvert de la doctrine Mitterrand, auraient installé un véritable sanctuaire de la lutte armée dans la capitale française. Le montage était politiquement bien soigné puisque l’attaque portait contre deux personnages connus pour s’engager pour une amnistie des réfugiés italiens : Oreste Scalzone et moi-même. En effet, avec l’exportation de l’enquête Biagi en France, l’Italie pouvait finalement régler ses comptes avec la doctrine Mitterrand et les tenants de l’amnistie. Le paradoxe de toute l’affaire, c’est que ni Scalzone ni moi-même n’avons fait partie des Brigades rouges-Pcc. On nous a collé une identité politique qui ne nous appartenait pas. L’enquête à mon encontre concernant Biagi a été classée en novembre 2004 par un non-lieu prononcé car «l’hypothèse même de l’accusation n’avait pas de fondement». Cela n’a de facto rien changé à mon parcours pénitencier bien compromis par une rentrée en Italie marquée par une accusation très lourde pour les faits des années 80. J’ai obtenu un régime de semi-liberté non pas à la moitié mais presque aux deux tiers de la peine. Ce qui est encore plus grave, ce sont les motivations des rejets qui, pendant quatre ans, ont marqué mes demandes. A plusieurs reprises le juge d’application des peines (Jap) s’en est pris à mon livre Exil et châtiment dans lequel je racontais les dessous de l’extradition et contre mes articles publiés dans la presse, remettant en question mon droit de libre parole et ma liberté de pensée. Les mêmes sujets qui, en France, m’avaient permis d’accéder au doctorat et d’enseigner à l’Université avaient pour le Jap italien un contenu criminel très dangereux. Mes liens avec les professeurs de Paris VIII étaient considérés comme la preuve de «contacts avec des milieux influents» qui auraient pu me soutenir dans la fuite. Seul mon transfert à Rome et le changement de Jap m’a permis en janvier 2008 de sortir une première fois en permission et le 31 mai 2008 d’être remis en semi-liberté.

Qu’est-ce que l’Italie a retenu de ces «années de plomb»?
Je ne voudrais pas donner l’impression de me soustraire à l’attention et au respect que demandent les familles endeuillées à la suite d’actions politiques réalisées par des groupes de la gauche révolutionnaire dans les années 1970. Mais alors que chaque camp pleure ses morts, on assiste aujourd’hui à une victimisation sélective. De 1945 à 1969, près de 200 manifestants, grévistes, occupants de terres ou d’usines, étudiants, ouvriers ou paysans ont été tués par les forces de police dans des opérations de rétablissement de l’ordre public. Ces crimes restent impunis à ce jour. Ce n’est pas pour rien que le parti communiste italien demandait alors le désarmement des forces de police en charge des manifestations publiques. La violence politique a été une pratique de l’Etat italien qui a contribué à structurer le conflit socio-politique. Elle n’a pas été introduite par la gauche. A partir de 1969, et pendant une décennie, les attentats néofascistes sur les places, dans les gares et les trains ont fait des centaines de morts. Il a été démontré que les services secrets italiens et les néofascistes étaient impliqués. Et là encore, ces crimes sont restent en grande majorité impunis. Le premier homicide politique de gauche du commissaire Calabresi a eu lieu en 1972. Et c’est seulement en 1976 que les Brigades rouges ont choisi de passer à ce type de stratégie. Il faut avoir à l’esprit ce climat pour comprendre et expliquer la violence politique de la gauche italienne et des militants qui ont hérité du poids de tous ces morts. Ce contexte est aujourd’hui totalement oublié et on tend à décrier ces années comme une crise de violence folle et aveugle provenant de la seule extrême gauche. De plus, durant cette période, la répression pénale a atteint des records. Entre 1970 et 1989, si l’on additionne les peines de prisons infligées pour des faits liés à la violence politique, on atteint 50.000 années. La génération qui avait 20 ans dans les années 1970-80 est la plus sanctionnée de l’histoire de l’Italie depuis l’unification de l’Etat en 1861. Dans le camp de la gauche, 4.087 militants ont été condamnés pour «des actes liés à des tentatives de subversion de l’ordre constitutionnel», appartenance à des «as- sociations subversives» ou pour «constitution de bandes armées». Sur les 1.337 personnes condamnées appartenant à la «famille» des Brigades rouges, en activité pendant 18 ans, 70% des inculpés étaient des ouvriers, des employés du tertiaire ou des étudiants. Comme le montrent les chiffres, une bonne partie des inculpés sont des militants originaires des villes du Sud qui au lendemain de la guerre sont venus travailler dans les centres industriels du triangle Turin, Milan, Gênes. Cette vague de migration, qui se prolonge jusqu’au début des années 1970, donne naissance à un nouveau type d’ouvriers, très radicalisés (ainsi durant «l’automne chaud» de 1969 et les événements de 1972-1973), et plus tard à une constellation de jeunes «enragés», issus du prolétariat des banlieues, qui accèdent en masse à l’instruction supérieure après 1968.

D’autres pays ont-ils accueilli des réfugiés italiens? Ont-ils pratiqué des extraditions?
En effet, mis à part la France, le Brésil, le Nicaragua, l’Argentine, la Grece et le Canada ont également accueilli des militants d’extrême gauche. Seule l’Algérie a livré à la justice italienne les deux militants de gauche qui se trouvaient sur son territoire. Ceux d’extrême droite ont été accueillis par la Grande-Bretagne, avec une forme équivalente de la doctrine Mitterrand qu’on pourrait appeler la «doctrine Thatcher». Les autorités judiciaires et politiques britanniques ont refusé d’extrader ces militants, appliquant la même politique tenue par la France durant la même période, mais cela n’a pas provoqué de débat ou polémique, que ce soit en Italie ou en Europe. Une fois les condamnations prescrites, ces hommes sont rentrés en Italie. Le Liban, le Japon, l’Espagne de Franco puis l’Espagne démocratique et les dictatures sud-américaines ont également accueilli plusieurs de ces militants. Et le leader d’extrême droite, Roberto Fiore, de Forza nuova, est même député au parlement européen.

Peggiorano le condizioni di salute di Petrella

Marina sta male e non può stare in carcere

Liberazione 1 luglio 2008

Paolo Persichetti

Le condizioni di salute di Marina Petrella, l’ex brigatista rinchiusa nelle carceri parigine dall’agosto 2007, tornano a far discutere la stampa francese. Dopo la firma del decreto di estradizione ( Liberazione 11 giugno), la fuoriuscita italiana condannata all’ergastolo e riparata in Francia nel 1993 sotto la protezione della dottrina Mitterrand, è stata nuovamente ricoverata nell’ospedale psichiatrico di Villejuif per essere trasferita nei giorni scorsi presso il servizio medico-psichiatrico di Fleury Merogis. FRANCE-ITALY-JUSTICE-REDBRIGADESNell’edizione in edicola ieri, sia Libération che le Monde hanno dedicato ampio spazio alla vicenda, riportando stralci delle perizie mediche che descrivono «uno stato depressivo gravissimo», traversato da «una crisi suicidaria sincera» assolutamente «incompatibile con la detenzione». La Petrella definisce la sua cella una «camera mortuaria» e ripete che a questo punto la sua morte «è l’unico regalo d’amore che potrò fare alle mie figlie perché permetterà loro d’elaborare finalmente il lutto» che il carcere a vita impedirebbe. Intervistato, Louis Joinet, l’architetto della dottrina Mitterrand, spiega che ovunque nel mondo «la maggior parte dei processi di ritorno alla pace o alla democrazia comportano un margine d’impunità e passano per una amnistia». In Italia gli anni erogati e scontati raggiungono la cifra di 50mila. Ancora troppo pochi? Lo stato di salute della Petrella e l’opportunità di curarla fuori dal carcere erano già stati evocati dalla signora Carla Bruni-Sarkozy in una intervista apparsa il 20 giugno sempre su Libération. Dando prova di una inattesa apertura, la prima donna di Francia aveva risposto a una precisa domanda sulla sorte da riservare ai rifugiati italiani sfuggendo i tradizionali cori giustizialisti che ormai echeggiano su entrambi i versanti delle Alpi.
«Il diritto d’asilo deve essere rispettato per tutti i rifugiati. Ma i terroristi sono da considerarsi tali?». L’interrogativo per nulla retorico segnalava, in realtà, la mancanza di unanimità all’interno dello stesso governo. Nei mesi scorsi l’entourage del primo ministro aveva più volte lasciato filtrare la presenza di forti perplessità sulla vicenda. Pare che lo stesso François Fillon fosse contrario alla firma del decreto ma piuttosto incline ad archiviare la procedura, sulla falsa riga di quanto in passato avevano fatto gli altri governi di destra come di sinistra.
Sembra che il primo ministro si sia dovuto inchinare alla volontà dei falchi dell’Eliseo solo dopo l’ultimo vertice italo-francese, svoltosi il 3 giugno a Palazzo Chigi. Mentre lo staff tecnico del governo italiano preparava gli strumenti normativi per salvaguardare l’immunità penale del nostro presidente del Consiglio, Berlusconi chiedeva al presidente francese garanzie certe sulla consegna di Marina Petrella. I ben informati dicono che in quella sede Sarkozy abbia fatto la sua scelta definitiva. In cambio di quali decisive contropartite ancora non è chiaro. Il presidente francese, si sa, è politico pragmatico, non dà nulla in cambio di nulla. Quanto alle strategie dell’esecutivo italiano, dopo che il ministro della giustizia Alfano ha richiamato nel suo cabinetto gli stessi funzionari che lo avevano retto durante i 5 anni della gestione Castelli, nulla lasciava dubitare che vi sarebbe stato un rilancio delle richieste d’estradizione. Agitare il “fantasma della lotta armata” si è rivelato un investimento politicamente redditizio.

La remise extraordinaire de Paolo Persichetti: un kidnapping sarkozien

La remise extraordinaire de Paolo Persichetti

Daniel BENSAÏD  et Gilles PERRAULT

Libération vendredi 19 mai 2006

La publication de Ma Cavale de Cesare Battisti, préfacé par Bernard-Henri Lévy, relance la controverse sur le sort des réfugiés italiens en France. Certains chroniqueurs se piquent à cette occasion de refaire le procès et de jouer les procureurs. Solidaires de Battisti dans son échappée, tel n’est pas notre propos. La décision d’extrader Battisti, condamné en Italie in absentia, rompt la parole donnée au nom de l’Etat français par un président et un Premier ministre en exercice. Le 20 avril 1985, François Mitterrand avait écrit à la Ligue des droits de l’homme : «J’ai dit au gouvernement italien que ces Italiens étaient à l’abri de toute sanction par voie d’extradition.» Le 4 mars 1998, Lionel Jospin, alors Premier ministre, confirmait cette « doctrine Mitterrand» : «Mon gouvernement n’a pas l’intention de modifier l’attitude qui a été celle de la France jusqu’à présent. C’est pourquoi il n’a fait et ne fera pas droit à aucune demande d’extradition d’un des ressortissants italiens qui sont venus chez nous à la suite d’actes de nature violente d’inspiration politique réprimés dans leur pays». Confiants dans cette parole donnée au nom de la France, plusieurs dizaines de réfugiés ont reconstruit leur vie au grand jour. C’est cette confiance qui est aujourd’hui bafouée, fragilisant plusieurs dizaines de personnes contre lesquelles, depuis leur arrivée dans ce pays, aucun grief n’a été établi.

On a pu lire dans la presse, à l’occasion de la parution du livre de Battisti, que l’engagement pris par François Mitterrand avait été respecté jusqu’à l’arrestation de l’écrivain en 2004. C’est avoir la mémoire bien courte. Il existe en effet un scandaleux précédent. Le 22 août 2002, à la faveur de la distraction estivale, Paolo Persichetti fut lâchement enlevé et livré dans la nuit même aux autorités italiennes sous le tunnel du Mont-Blanc, «métaphore, écrit l’extradé avec un humour grinçant, d’un accord souterrain, signé sans aucune transparence dans les chambres obscures du pouvoir et accompli dans le centre de la terre après une course folle au bout de la nuit». Ce kidnapping sarkozien n’a hélas pas bénéficié du même émoi dans le milieu littéraire que l’envol de Battisti. Or, si Cesare Battisti est en cavale, Paolo Persichetti, condamné sans appel sur le seul témoignage d’un repenti à vingt-deux ans de détention, est enfermé depuis quatre ans déjà à la prison de Viterbo. Son livre Exil et châtiment : coulisses d’une extradition, (Textuel 2005), est un démontage méticuleux de la théorie italienne du complot, du mécanisme de collaboration policière, des incohérences de l’instruction. A quelques exceptions près, les médias français ont gardé sur cet impitoyable réquisitoire un assourdissant silence.

Le cas Persichetti est pourtant exemplaire de ce qui est aujourd’hui en jeu. Arrêté en 1987 pour «organisation de bande armée» dans le cadre de l’enquête sur les Brigades rouges, il fit l’objet d’une seconde inculpation pour participation à l’attentat mortel du 20 mars 1987 contre le général Licio Gorigieri. Lavé de cette accusation en décembre 1989 par la cour d’assises, il fut condamné à cinq ans pour organisation de bande armée et remis aussitôt en liberté pour avoir accompli plus d’un an de préventive. En 1991, il fut condamné en appel à vingt-deux ans sur le seul témoignage d’un repenti. La sentence n’étant pas immédiatement applicable en vertu d’un recours en cassation, il s’est alors exilé en France. En novembre 1993, il fut arrêté dans les locaux de la préfecture de police où il s’était présenté volontairement pour renouveler son permis de séjour. En 1994, Edouard Balladur signait son décret d’extradition. Le président Mitterrand étant intervenu en faveur de sa remise en liberté, il fut libéré en janvier 1995. Il vivait depuis en pleine légalité, avait terminé ses études de sciences politiques, et enseignait à Paris-VIII.

Son extradition, sept ans plus tard, sur ordre du tandem Sarkozy-Perben, constituait une violation flagrante de l’article 14 de la Convention européenne d’extradition du 13 septembre 1957. Il est en effet avéré qu’elle répondait à la demande des autorités judiciaires italiennes, en quête de coupable pour l’assassinat, au printemps 2002, d’un conseiller du gouvernement Berlusconi, Marco Biagi. A peine incarcéré à Ascoli, Persichetti fit en effet l’objet d’une nouvelle instruction de la part des juges de Bologne. Or, la Convention européenne stipule que «l’individu qui aura été livré ne sera ni poursuivi ni jugé pour un fait autre que celui ayant motivé l’extradition». Au terme de deux ans d’enquête sinistrement grotesque, le juge des enquêtes préliminaires dut prononcer, le 5 novembre 2004, un non-lieu définitif en faveur de Persichetti, car «le bien-fondé de l’hypothèse d’accusation doit être considéré exclu», étant donné que les recherches n’ont fait émerger «aucun élément impliquant la personne soumise à enquête».

Il n’en demeure pas moins que Persichetti est toujours en prison et que toutes ses demandes d’assouplissement des conditions de détention ont à ce jour été rejetées. Comme l’écrivait Erri De Luca dans sa préface à Exil et châtiment, «la cellule refermée sur Paolo Persichetti est soudée à la flamme froide de la rancune». Si l’on doit se réjouir de l’émoi suscité par le cas Battisti, il ne faudrait pas qu’une infamie puisse en effacer une autre. Puisse la mobilisation autour de Cesare Battisti tirer des oubliettes le cas Persichetti, otage de deux déraisons d’Etat ! Puisse aussi, l’arrivée d’une coalition de centre gauche en Italie ouvrir enfin le débat sur l’amnistie!

N’est-il pas grand temps de tourner la page de ce passé qui ne passe pas, comme en témoigne encore l’acharnement judiciaire contre Adriano Sofri? Pourquoi l’amnistie semble-t-elle inconcevable en Italie ? Pourquoi la droite et la gauche italiennes, à de rares exceptions près, semblent-elles partager la même crispation tétanisée à ce sujet ? Et pourquoi entretenir la légende d’une fausse symétrie entre « deux démons », alors que la balance est aussi inégale entre un terrorisme d’Etat où se croisent les réseaux d’extrême droite, la loge P2, la mafia, des experts en guerre froide de l’Otan, et une poignée de militants qui se sont clairement expliqués sans se renier sur leur passé (voir la Révolution et l’Etat, d’Oreste Scalzone et Paolo Persichetti, Dagorno, 2000). En Argentine même, à l’occasion du trentième anniversaire de l’instauration de la dictature militaire, le président Kirchner vient de renoncer officiellement, au soulagement d’une partie des Mères de la place de Mai, à ce mythe d’une responsabilité équivalente de l’Etat et de ses victimes. Romano Prodi et sa majorité seront-ils capables d’un geste analogue ?
Mais comme l’écrit encore Erri De Luca : «Je suis dans un pays qui ne considère jamais la condamnation comme purgée. L’ennemi que nous avons été est encore inavouable pour notre pays» qui a « la rancune intacte » et conserve le temps passé «dans une icône de haine». L’extradition de Battisti après la livraison de Persichetti ne serait qu’un sacrifice supplémentaire consenti à cette icône, «au nom du peuple français» !

24 agosto 2002: storia di una “consegna straordinaria”

Retroscena di una estradizione

Paolo Persichetti
Liberazione
venerdì 15 aprile 2005

Era una calda sera d’estate quella del 24 agosto 2002 e l’Italia aveva urgente bisogno di recuperare uno di quei giovani maledetti degli anni ribelli per offrirlo in pasto all’opinione pubblica. Una grossolana impostura, escogitata con l’intento di fornire l’immagine truccata di un brillante successo operativo dopo l’attentato mortale contro Marco Biagi, ucciso pochi mesi prima da un piccolo gruppo che aveva riesumato dal museo della storia una delle ultime sigle della lotta armata. Un paese distratto e annoiato, persino futile, conquistato dall’avidità dell’oblio, impaurito dalla possibilità di sapere, era stato scosso dal frastuono di quegli spari improvvisi. Irritato dal brusco risveglio, aveva rovistato furiosamente in un passato ormai sconosciuto. Cercava in spazi e tempi lontani i responsabili di quei colpi senza radici. Attribuiva al passato quella che era una surreale imitazione figlia del presente. Cercava nelle figure di ieri dei colpevoli per l’oggi. estradizioneFu così che all’alba del giorno seguente venni scambiato nel tunnel del Monte Bianco. Metafora di un accordo sotterraneo, siglato al di fuori di ogni trasparenza, concluso nel ventre della terra, lontano dalla luce del sole, distante dal chiarore del giorno, dopo una folle corsa nella notte. Quella furtiva consegna celava una flagrante violazione della legalità internazionale: una persona non può essere estradata per dei fatti posteriori a quelli indicati nel decreto, in assenza di una nuova richiesta e previa verifica del suo fondamento. Pur di avallare il teorema della centrale francese le autorità hanno agito aggirando tutti gli obblighi previsti dalla convenzione europea sulle estradizioni.
I passati rivoluzionari faticano a diventare storia, adagiati nel limbo della rimozione, periodicamente vedono schiudersi le porte dell’inferno che risucchia brandelli di vita, trascina esistenze sospese. Lasciti, residui d’epoche finite che rimangono ostaggio dell’uso politico della memoria. Non un passato che torna ma un futuro che manca. La concomitanza con l’anniversario dell’11 settembre ricordava quanto la musica nel mondo fosse cambiata. Era tempo ormai per un forte richiamo all’ordine, alla riaffermazione dell’autorità, al rispetto assoluto della legge, al ripristino della certezza della pena. In un fondo di Barbara Spinelli, intitolato «Gli assassini tornano di moda», venivo seriamente redarguito perché i prigionieri e i rifugiati non avevano mai fatto atto di pubblico pentimento. Poche settimane più tardi, nel silenzio cimiteriale di una cella d’isolamento, una lettera anonima riprendeva l’argomento consigliandomi di collaborare con la giustizia, se volevo uscire da quella sentina della terra. Una richiesta surreale che undici anni dopo cercava ancora le prove del verdetto emesso in corte d’appello.
Alla fine di una lunga trafila burocratica, anche il magistrato di sorveglianza non ha autorizzato i permessi d’uscita perché: «non risulta che abbia pubblicamente assunto posizioni di dissociazione della lotta armata, tanto più necessaria alla luce della grave recrudescenza del fenomeno terroristico dichiaratamente ispirato all’ideologia delle Brigate rosse». Una richiesta irricevibile poiché costituirebbe una resa di fronte a trattamenti differenziali e premiali che hanno incrinato il principio di eguaglianza di fronte alla legge e trasformato l’inchiesta, il processo e il carcere, da sedi di verifica e ricerca della prova o svolgimento della pena, in mercati delle indulgenze, fiere dello scambio politico, luoghi dove si riceve un po’ di futuro in cambio del proprio passato. Diceva a tale proposito Jeremy Bentham che «la sfera della ricompensa è l’ultimo asilo dove si trincera il potere arbitrario».
Le diverse formazioni in cui erano divise le Brigate rosse degli anni 80 si sono estinte alla fine di quel decennio. Una netta discontinuità politica fu sancita dai militanti dell’epoca. Lo striminzito gruppo apparso solo più tardi, negli anni 90, sotto la sigla Ncc, è sorto con un evidente intento polemico nei confronti dei fuoriusciti e dei prigionieri che durante gli ultimi grandi processi dell’87-89 avevano decretato la chiusura del ciclo politico della lotta armata. Ogni confusione con le epoche precedenti è dunque ingiustificata e strumentale. Non ci sono ambiguità intrattenute. Chi sostiene il contrario nel ceto politico, nel governo o tra gli apparati investigativi e giudiziari, offre solo la prova di una sorprendente osmosi culturale, una micidiale simmetria d’atteggiamento con gli autori degli attentati D’Antona e Biagi. I quali hanno tutto l’interesse a rimuovere i percorsi politici condotti dagli ex militanti della lotta armata nel decennio 90.
La dissociazione è l’esatto contrario di una disposizione dell’animo, un afflato della coscienza, un soprassalto dello spirito che sosterrebbe nobili percorsi di distacco interiore, assolutamente liberi e disinteressati, ma un tipico modello di autocritica degli altri, che ricava vantaggi giudiziari e penitenziari dall’esportazione delle proprie responsabilità. Paradossalmente il protrarsi della lotta armata, da cui essa pretende un cinico distacco, è il presupposto della sua forza contrattuale. Qualcosa d’assolutamente opposto al divenire politico del fenomeno stesso, al suo approdare altrove, al suo oltrepassarsi attraverso un tragitto assolutamente autonomo, sottratto a qualsiasi forma di connivenza o compiacenza col potere, come è avvenuto alla fine degli anni 80.
La riesumazione di questo vecchio arnese dell’emergenza riporta strumentalmente in dietro di decenni i percorsi politici realizzati. Una caricatura archeologica che si spiega con la maligna intenzione di costruire un nesso morale, in assenza di quello materiale, tra i militanti degli anni 70-80 e gli episodi del 1999 e del 2002. La responsabilità viene così ad assumere una singolare dimensione transitiva, utile per ricacciare indietro il timore di dover riconoscere che quei nuovi colpi d’arma da fuoco siano anche responsabilità di chi ha cullato il paese nella rimozione, di chi quell’oblio ha teorizzato e incensato, di chi in questo modo ha evitato imbarazzanti domande. Il rifiuto ostinato dell’amnistia, mantenendo gli insorti simbolicamente emarginati nei recinti carcerari o nei limbi disciplinari d’esistenze semipenitenziarie, ha congelato il tempo, cristallizzato le epoche, e tentato d’impedire a quel sapere incarcerato, a quelle esperienze sotto chiave o esiliate, di far valere le ragioni dell’irriproducibilità dei modelli di lotta armata trascorsi. Non anatemi morali ma autonome valutazioni politiche udibili dalle componenti sociali antisistema. Tutto questo è mancato. L’Italia è rimasta fedelmente ancorata alle politiche dell’urgenza, allo stato d’eccezione, ai modelli dell’abiura che hanno facilitato il reistallarsi della coazione a ripetere. L’esilio e il carcere hanno alterato la coscienza del tempo, rafforzando nella società la tentazione di considerare immutabile il rimosso.
Negli anni passati, prigionieri e fuoriusciti, se non altro per quella saggezza che fuoriesce dal disagio di chi deve confrontarsi con circostanze sfavorevoli, hanno dovuto misurarsi con la sconfitta esplorandone gli aspetti più reconditi, vivendola sui propri tragitti esistenziali, tra esili senza asilo e castighi. All’anatema hanno opposto la riflessione. Avrebbero potuto barricarsi nelle torri in cemento blindato delle carceri, trovare conforto nell’isolamento penitenziario che gli era destinato, arroccarsi nel dolore per le vittime della propria parte, sentirsi l’emblema sacrificale di un martirio metastorico, vivere di una mortifera nostalgia che come scrive Milan Kundera, «non intensifica l’attività della memoria, non risveglia ricordi, basta a se stessa, alla propria emozione, assorbita com’è dalla sofferenza». Invece hanno rifiutato tutto questo. Non si sono sottratti alla realtà mutata che rendeva obsolete le loro scelte passate. Hanno cercato, nonostante i muri e le sbarre, di andare oltre. Sono evasi dalla loro pena, sono fuggiti ai carcerieri rimasti a sorvegliare solo i fantasmi di una società attardata, ancora madida di rancore contro le immagini vuote d’icone da odiare.
I «vincitori», o quel che ne è rimasto, cosa hanno fatto? Adagiati sopra e poi travolti dagli stessi dispositivi concepiti per sconfiggere gli insorti non hanno saputo condurre a termine la benché minima elaborazione collettiva del lutto. Si rimproverano dei singoli per aver eluso un discutibile senso di colpa, mentre la società italiana è stata interamente conquistata dalla rimozione. Ciò che per i prigionieri e i rifugiati, ma anche per settori della società civile, è oramai storia, materia d’indagine e inchieste serrate da discutere con le tecniche fredde delle scienze sociali, per la quasi totalità del ceto politico e della magistratura resta una ferita aperta, strumentalmente intrattenuta come una piaga viva che non può e non deve cicatrizzarsi. Allo scandaglio del lavoro storico si contrappone la venerazione di una memoria trasfigurata nel culto di un dolore non riassorbibile. Al lavoro d’incorporazione del passato, doloroso e conflittuale, si sostituisce un atteggiamento di rifiuto che fa di esso una trincea su cui attestarsi. L’elaborazione del lutto diventa in questo modo, secondo una consolidata tradizione inquisitoriale, uno strumento di bonifica delle coscienze che aggiunge alla sanzione sui corpi anche la correzione delle menti. Si afferma in questo modo una narrazione penitenziale della storia contrassegnata da totem e tabù, miti fondatori e comportamenti demonizzati. La complessità sociale degli eventi si riduce ad una rozza contrapposizione tra bene e male, il decennio dei movimenti e dei conflitti diventa storia di delitti. I fatti perdono ogni loro dimensione sociale per acquistare unicamente rilevanza penale mentre la militanza si confonde con la devianza. Come in un perfetto esorcismo, gli anni 70 diventano il capro espiatorio del Novecento italiano, il capitolo che manca al livre noir du communisme.
A conti fatti, riflettere su questo passato che non passa, cercando di non farlo restare un’àncora, un peso, una zavorra, ma di scioglierlo nel presente, si è dimostrato una inutile fatica di Sisifo. Uno sforzo vano e inviso, causa di pregiudizio e di sospetto perché non recuperabile e integrabile attraverso logiche premiali e dissociative, ma quel che è peggio, oggetto di un vero e proprio misconoscimento, fatto nullo e non avvenuto, circostanza azzerata, pagina sbiancata.