Pagliuzze, travi ed eroi

Risposta a Severino Cesari, direttore editoriale di Einaudi-Stile libero (cioè Mondadori, casa editrice di Roberto Saviano)

Alessandro Dal Lago
il manifesto 17 giugno 2010

Severino Cesari («Non prendiamocela con una fiaccola nel buio», il manifesto 11 giugno) entra nel merito del mio «pamphlet» sul fenomeno Gomorra-Saviano) e lo stronca in base ai miei errori fattuali. In sostanza, avrei riportato cose che Saviano, in Gomorra e altri testi, non dice. Da qui, evidentemente, l’infondatezza di quanto scrivo. Come è detto in una delle amabili e-mail non firmate che ho ricevuto (e che ovviamente conservo gelosamente), le mie sarebbero tutte «stupide fandonie», ecc..
Si rassicurino tutti i lettori indignati: non ho alcun problema a confessare i miei delitti cartacei. Eccone alcuni. Come Cesari mi rimprovera, è verissimo che, laddove Saviano scrive «stivaletti», io cito «stivali». Chiedo venia. Vuol dire che un giorno o l’altro, se Cesari vorrà, in un pubblico dibattito discuteremo sulla classe logica degli oggetti «calzature». Uno «stivaletto» appartiene alla classe «stivali», come io malignamente faccio intendere, o «scarpe sportive», come ritiene Cesari sulla scorta di Saviano? Il dibattito sarà senz’altro appassionante. Secondo Cesari, inoltre, ho citato affermazioni di Saviano, riportate da un giornalista, in occasione di una «manifestazione anticamorra», e avrei dovuto citare «una trasmissione televisiva». Mi dichiaro touché, dottor Cesari. Se mai il mio libretto avrà una riedizione, correggerò con «dichiarazioni anti-camorra durante una trasmissione televisiva». È soddisfatto? Lei dice anche che io attribuisco a Saviano la parola «olocausto», a proposito dei morti di camorra, mentre invece è nel titolo di un articolo a firma Dario Del Porto. Qui, temo, è lei a essere un po’ frettoloso. Infatti, io cito esattamente l’articolo in questione, con tanto di nome del giornalista (Eroi di carta, p. 25, nota 11).
Mi fermo qui, perché a me le contro-critiche di Cesari sembrano solo considerazioni notarili, allo scopo evidente di emarginare i miei argomenti, evidentemente imbarazzanti. «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo? Come puoi dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio, e tu non vedi la trave che è nel tuo?». Così recita un noto passo del Vangelo, che mi sembra assai pertinente in queste discussioni, e non su stivali o stivaletti, note a pié di pagina, titoli fraintesi e qualsiasi altra «fandonia», ma sul senso di Gomorra e dei suoi effetti, sulla straordinaria figura pubblica del suo autore, su gran parte dei media che ne assumono la difesa preventiva e censoria contro chicchessia e, di conseguenza, sulla cultura politica e letteraria del nostro paese. Lei su tutto questo, caro Cesari, non ha detto proprio nulla. E voglio aggiungere, prima di passare a una cosa molto più seria, che io offro ai miei lettori citazioni assai estese degli scritti di Roberto Saviano e numerosi esempi del suo stile (che io ritengo mediocre, a torto o ragione, ma su cui lei glissa). Cito anche brani di interviste a Saviano, ma sì, che fino a prova (o smentita) contraria sono strumenti legittimi di lavoro per un critico. Almeno per uno, come me, che interpreta quello che legge, bene o male che sia, e lo cita, ciò che il Saviano «indagatore» del crimine organizzato non fa, almeno in Gomorra.
A proposito di pagliuzze, travi, «fandonie», interpretazioni, invenzioni e documentazioni, che mi dice della pagina iniziale di Gomorra, in cui si parla del famoso caso dei «cinesi che non muoiono mai»? Lei sa bene che l’incipit di un romanzo (o qualsiasi altra cosa sia Gomorra) è decisivo per creare la Stimmung, e cioè l’atmosfera emotiva, di un libro e quindi la sua verità presso i lettori. Ora, lei dovrebbe sapere che sia in un libro-inchiesta sui cinesi in Italia (da me citato, in Eroi di carta, p. 69, n.47), sia nel sito delle Associazioni dei cinesi in Italia (idem), la storia dei cinesi è stata giudicata semplicemente una leggenda metropolitana. E questo, per di più, in un paese in cui l’immagine degli stranieri non è esattamente rosea…
Io mi limito a ribadire: se Gomorra è un testo d’invenzione letteraria, lo giudicheremo – liberamente – in base al suo stile. Ma se è un testo che pretende di dire la «verità» fattuale o morale su Napoli, il crimine, la camorra ecc., la storia dei cinesi getta un’ombra lunga sulla sua «verità». E quindi mi aspetto, prima o poi, delle risposte, magari da lei, sulle domande tipiche del buon giornalismo d’inchiesta: «chi», «quando», «dove»? Ecco il problema dell’ambiguità della narrazione in Gomorra, se uno ha letto veramente quello che ho scritto.
Lei, dottor Cesari, è nel suo pieno diritto di ignorare gli argomenti sostanziali di Eroi di carta ed estrarre le pagliuzze dai miei occhi. Ma io sono nel mio, quando confermo che nel saggio si discute soprattutto del rapporto tra un testo e l’apparato retorico, editoriale e mediale che l’ha fatto proprio. Ma vi si discute anche della povertà di idee della sinistra italiana e, naturalmente, di letteratura. Per inciso, solo i moralisti da prima pagina (che esistono solo in Italia) possono aver frainteso il titolo del mio saggio per un insulto a Saviano, mentre è il rimando alla mia riflessione sul significato dell’eroismo in una cultura governata dai media (in cui rientrano, appunto, anche i bestseller «letterari»).
Questa polemica, così come si è sviluppata, è durata abbastanza. È partita dall’ingenua esecrazione di chi ha ordinato di non leggermi, con l’evidente effetto opposto. E anche la sua «lettura», dottor Cesari, non aggiunge molto: è la comprensibile (ma solo in Italia) stroncatura, da parte di un editore, di chi critica un proprio autore. Ma, al di là delle polemiche, il caso Gomorra-Saviano, in termini mediali, resta di grande interesse e invita a ulteriori ricerche e riflessioni. Perché non si tratta tanto di «una fiaccola nel buio», come è titolato il suo pezzo contro di me, quanto di un faro abbacinante che illumina non tanto la «realtà» della camorra, quanto il paese culturale e mediale in cui viviamo.

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Ma dove vuole portarci Saviano?
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Saviano, l’idolo infranto
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Alla destra postfascista Saviano piace da morire

Saviano, l’idolo infranto

Daniele Sepe
il manifesto 6 Giugno 2010


Ma cosa è successo alla sinistra radicale in Italia? Sono io che ho perso la bussola o sono altri che si sono dimenticati per strada un poco di concetti che ci accompagnavano nell’analisi della società? Ad esempio la magistratura, le forze dell’ordine, l’apparato repressivo dello Stato sono oggi nostri alleati nella lotta contro il Capitale? Io ricordavo altre cose. Ma la legalità, le leggi cosa sono se non un sistema di regole che serve a proteggere il più forte dal più debole? Non sono promulgate dallo stesso Stato che l’istante dopo accusiamo di essere classista, liberticida, guerrafondaio e repressivo? No, sembra da quello che sto leggendo oggi che sono io che mi sbaglio. In realtà noi viviamo in una democrazia perfettamente compiuta nella quale chi è nato figlio di un muratore a Casal di Principe e il figlio di Briatore e Gregoraci hanno perfettamente le stesse prospettive: entrambi se capaci si potranno fare strada nel lungo cammino della vita. Noi viviamo in un sistema economico capitanato da gente di cui a volte conosciamo i volti e altre no, ma che si fonda sul consumo. Possedere è essere felici. E questo bisogno di consumare, soprattutto in un momento di crisi come questo, viene cullato, coccolato, alimentato da tutto quello che è la cultura dominante oggi, dai media in primo luogo. Non hai il Suv? Sei un reietto. Non vesti firmato? Non ti fidanzerai. Non sei stato in crociera quest’estate? Sei un fallito. Vendere e ancora vendere. Ma non è che tutti si possano permettere, in maniera «perfettamente legale» di vivere come Veronica Lario, idolo di sinitrorsi perché in conflitto divorzistico col padrone d’Italia per eccellenza, il Signore del Male. E allora c’è della gente selvaggia, una feccia canagliesca che pretende oggi, con una violenza che appartiene ad un’altra epoca, l’epica era del baronaggio e della imprenditoria pioniera e aggressiva degli esordi, non solo di limitarsi a taglieggiare il piccolo commerciante o imporre il prezzo del lavoro di un giorno ad un immigrato in un campo di pomodori, ma addirittura di sedere nei lindi consigli di amministrazione. Ma per noi comunisti una volta questi signori non erano criminali alla stessa maniera? Non sono per noi le due facce della stessa medaglia? Come diceva Brecht «è più grave l’effrazione di una banca o la fondazione di una banca?». Ecco, la nostra bussola culturale, politica, oggi è ancora Brecht o è diventata Roberto Saviano? Chaplin diceva che il crimine paga solo alla grande. Infatti. Io nelle parole e gli scritti di Saviano non ho mai trovato queste sottili distinzioni. Mentre si rivolge in maniera educata e deferente al nostro Presidente del Consiglio, suo editore, con una «preghiera», ai tempi della legge sul processo brave, tuona contro le belve assetate di sangue sedute dietro una sbarra al processo «Spartacus». Sarà, ma io trovo il capitalismo italiano e i boss camorristici tragicamente simili. E non per dire, ma un Marchionne che chiude Termini Imerese (quando Fiat ha ricevuto contributi statali e europei per decenni) buttando sulla strada migliaia di famiglie sta aiutando chi e cosa, se non chi poi può andare a proporre un lavoro certamente un po’ più pericoloso, ma infinitamente più redditizio di un salario da operaio, a un giovane siciliano? Fa bene alla coscienza pensare che leggere un romanzo sulla camorra o gridare ’siamo tutti Saviano’ può fare paura a gente sanguinaria in perfetta collusione con buona parte di quello Stato che dovrebbe combatterli, invece secondo il mio modesto parere se ne strabatte. Comanda il denaro. E un libro è un libro. Una canzone è una canzone. Un film è un film. Ma poi la ricetta a tutto questo proliferare di organizzazioni criminali quale sarebbe? Per noi «sinistri radicali» nel 2010 è diventata l’indagine di Polizia, il processo e il carcere? Ma perché, messo dentro a vita uno Schiavone e i suoi compagni, non ci sarà qualcun altro a prenderne il posto? Se le condizioni sociali e politiche non cambiano ce ne saranno altri cento. E’ ovvio che non può essere il bastone la nostra e la loro liberazione. E soprattutto sarei io e il mio pensiero la stampella della criminalità organizzata? Scusatemi, io auguro a Saviano di vivere centanni e godersi quello che si è guadagnato. Ma lasciatemi per centanni la possibilità a me e ad altri pochi «deficienti invidiosi» di ragionare da comunista e di poterlo scrivere. Nel caso contrario, visto che la gogna è gia partita, la solidarietà della sinistra radicale voglio sperare che arrivi a me. Se no vuol dire che ho buttato via una vita di lotta militante per niente.

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Il diritto di criticare l’icona Saviano

Alessandro Dal Lago
il manifesto 3 giugno 2010


Non ho intenzione di difendermi dalle «critiche» per il mio libretto sul caso Gomorra-Saviano (anche perché si tratta, per lo più, non di critiche ma di esecrazioni e «vade retro»). Se si è interessati alla questione, mi si può leggere e giudicare di conseguenza. Intervengo invece sull’accusa di dissacrazione che alcuni (per esempio Violante e Flores d’Arcais) mi hanno gettato addosso, visibilmente senza aver letto il testo e, nel caso di Flores, incitando il pubblico a non leggerlo. Qui, come in altri casi (penso a Sofri) non c’è solo un appello alla censura preventiva (mi si critica non per quello che dico ma perché lo dico).
Appare anche un modo di pensare mitologico e autoritario, e quindi sostanzialmente papalino, il che fa specie in persone (parlo di Sofri e Flores) che passano per campioni della libertà di parola e del laicismo. È questa la cultura capace di opporsi a Berlusconi? Per Violante, il mio è un tipico caso di sinistra «iconoclasta». Ne deduco che per lui la sinistra deve adorare le icone. E non diversamente pensa Flores, quando invita a manifestare contro Berlusconi o a darsi al sesso o ad altre attività ricreative, piuttosto che leggermi quando critico Saviano. Insomma, guai a entrare nel merito di quello che Saviano scrive. E soprattutto, guai a interrogarci sul significato politico dell’identificazione di una parte consistente della sinistra nella sua figura e nella sua opera. È semplicemente quanto ho tentato di fare nel mio libro a tre livelli, narrativo, mediale e sociologico (tra parentesi, occuparmi di queste cose è esattamente il mio mestiere, diversamente da quanto Flores, che pure mi conosce da quasi trent’anni, fa credere ai lettori del Fatto quotidiano). Livello narrativo: ho analizzato la «verità» di Gomorra in base al testo e a nient’altro, ignorando qualsiasi pettegolezzo sulle sue fonti, ma portando alla luce il carattere tecnicamente auto-referenziale della narrazione («ci sono stato e ho visto, e quindi dico la verità»); livello mediale: ho discusso la costruzione, in buona parte dei media, dell’eroismo di Saviano, mostrando anche come lo scrittore, nei suoi interventi successivi a Gomorra, abbia in qualche modo fatto proprio il ruolo che gli veniva cucito addosso; livello sociologico (e se vogliamo, politico): che significa il processo di iconizzazione dello scrittore nella sfera pubblica del nostro paese? L’ultimo punto mi sembra decisivo e integra i primi due. La trasformazione di Saviano, a sinistra, in icona del bene contro il male (rappresentato dal crimine organizzato) sposta il conflitto politico in una dimensione morale e moralistica fondamentalmente diversiva e consolatoria. Una dimensione illusoria, in cui – ma questa è solo un’ipotesi – molti scaricano le frustrazioni di una sinistra che in buona parte non è più rappresentata, oppure è impotente di fronte al trionfo della destra. Il fatto interessante è che la categoria dell’eroismo è storicamente appannaggio della destra romantica (penso a Evola), e questo spiega la fortuna di Saviano tra i seguaci di Fini (si veda la fondazione Farefuturo e che cosa pensa di me). Di conseguenza, la classica accusa zdanoviana che mi rivolgono Sofri e Flores («a chi giova?») è risibile, un altro aspetto della loro reazione censoria.
Come si conviene a qualcuno che, volente o nolente, è stato trasformato in icona dell’eroismo, molto spesso le posizioni di Saviano su questioni di interesse pubblico sono unanimiste e apolitiche, e cioè buone per tutti (anche se nel libretto riconosco che talvolta prende posizione contro le derive più clamorose dell’attuale regime in materia di conflitto di interessi). Sostenere che la recente lotta degli studenti contro la distruzione della scuola e dell’università pubblica conta ben poco di fronte al crimine organizzato o ridurre la morte dei soldati in Afghanistan alla questione dei poveri ragazzi del sud che non hanno alternative, senza dire nulla del significato della guerra e dell’implicazione dell’Italia, è qualcosa che non si può passare sotto silenzio. Nessuno chiede a Saviano di occuparsi di questi problemi. Ma se ne scrive o ne parla, naturalmente è criticabile, come chiunque altro. Io trovo grottesco che qualcuno liquidi tutto questo, e cioè la critica di quello che Saviano dice, in termini di «invidia»: è come sostenere che se un critico cinematografico parla male di un film, è perché invidia il regista. Ma dietro tutte queste reazioni, volta per volta isteriche o moraliste, si profila un enorme problema politico: l’impotenza evidente di un’idea di alternativa basata quasi esclusivamente sull’opposizione all’anomalia Berlusconi, e non al blocco di interessi (e valori e simboli) che il cavaliere sintetizza. Di fatto, precari e pensionati, studenti e lavoratori, insegnanti e tutte le altre figure socialmente deboli (per non parlare di marginali, esclusi e stranieri) sono sostanzialmente soli sulla scena politica, in balia di questa destra. E, come le elezioni dimostrano, la mancanza di rappresentanza porta anche quote importanti di elettori di sinistra a votare per gli altri (un classico sintomo di un sistema sociale e politico in preda al populismo). La destra fa politica di classe, eccome, l’opposizione no. E questo è anche un effetto dello spostamento del conflitto in chiave simbolico-morale (e, sì, giustizialista), come dimostra l’ossessione unanime per la legalità. Ecco allora che il conflitto è evacuato, che tutto (dalla questione del lavoro all’ignobile condizione delle nostre carceri o al razzismo imperante) viene minimizzato o comunque messo in secondo piano. Ed è inevitabile se, in nome della legalità, ci mettiamo a priori dalla parte dell’ordine, politico o simbolico che sia.  Di questo, ovviamente, a Saviano non imputo una particolare responsabilità, anche se lo critico, in base ai suoi scritti, per aver contribuito ampiamente alla retorica dell’eroismo. Ma forse i suoi seguaci a priori e a prescindere, le vestali della pubblica indignazione che pontificano dalle tribune mediali, non sono proprio innocenti della spoliticizzazione di cui parlo sopra. E pensando proprio a loro, mi chiedo chi rispetti di più, in ultima analisi, lo scrittore perseguitato dalla camorra: chi lo prende sul serio, discutendolo anche polemicamente, o chi si genuflette davanti alla sua icona.

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Saviano, l’idolo infranto
Buttafuoco, “Saviano agita valori e codici di destra, non regaliamo alla sinistra”
Pagliuzze, travi ed eroi
Attenti, Saviano è di destra. Criticarlo serve alla sinistra
Populismo penale
La libertà negata di criticare Saviano
Alla destra postfascista Saviano piace da morire

La libertà negata di criticare Saviano

Eroi di carta

Marco Bascetta
il manifesto 30 maggio 2010

 

Idee di scorta

Perché manifestolibri ha voluto pubblicare una decisa analisi critica (seria, rigorosa e diffusamente argomentata, come da più parti è stato riconosciuto) di Gomorra e di numerose, successive prese di posizione pubbliche del suo autore, Roberto Saviano? Ci sono diverse ragioni. La prima può essere messa in chiaro dal passo di un articolo che attacca furiosamente Eroi di carta, il libro di Alessandro Dal Lago edito da manifestolibri, pubblicato sul periodico della fondazione finiana Farefuturo: «Un paese che non ha bisogno di eroi è un paese che non ha esempi da seguire, che rinuncia a guardare il futuro con la speranza del cambiamento…». Da un siffatto «futuro», carico di richiami arcaici e inquietanti modelli, volentieri ci teniamo alla larga. È la discussione democratica, il confronto tra posizioni diverse, l’esercizio dello spirito critico e non l’emulazione di santi, martiri ed eroi a fare crescere una collettività. E, forse suo malgrado, Saviano è stato risucchiato proprio in questo genere di tristi retoriche che non vorremmo veder tornare a prevalere. È vero e molto rilevante il fatto che Roberto Saviano sia minacciato, esposto, in una pesante condizione di rischio. Questo dovrebbe spingere a proteggerlo, a cercare di assicurare rapidamente alla giustizia coloro che lo minacciano, a bandire i politici che si avvalgono dell’appoggio delle mafie. Ma non è in nessun modo un argomento che renda indiscutibili le sue «verità», inconfutabili le sue affermazioni, incontestabile la sua interpretazione del fenomeno camorra, sublime la sua scrittura. Certamente Berlusconi e l’ineffabile Fede hanno attaccato Saviano piuttosto volgarmente (con argomenti, precisa la stampa di destra, del tutto diversi da quelli del sovversivo Dal Lago), quando l’arbitrio e le opportunità del momento hanno suggerito loro di farlo, come in passato gli avevano suggerito di apprezzare lo scrittore campano e in futuro potranno tornare a suggerirglielo. Dobbiamo allora subordinare le nostre riflessioni e i tempi della loro espressione alle mutevoli esternazioni del cavaliere e della sua corte? E, del resto, quanti danni ha fatto la logica secondo cui «il nemico del mio nemico è mio amico»? Anche Adriano Sofri non dovrebbe averlo dimenticato. Ricorderà, spero, gli «amici» assai poco presentabili scelti da certo antiamericanismo. Se dovesse essere questo, come purtroppo sembra, uno dei principi dell’antiberlusconismo odierno (da Di Pietro a Murdoch?) lo considererei una grave iattura, per non dire di peggio. E, tuttavia, non si può negare che Saviano abbia meritevolmente attirato l’attenzione di una vasta opinione pubblica sulla criminalità organizzata in Campania. Ma si potrà pur ritenere, argomentandolo, che lo abbia fatto in forme spesso discutibili e che il mito che gli si è costruito intorno abbia indotto più a una sorta di innocua tifoseria (come dimostrano molte reazioni alle critiche di Dal Lago, emotive e del tutto ignare delle sue motivazioni) che all’impegno politico e sociale o alla comprensione di una realtà complessa e contraddittoria come quella meridionale. Come avranno letto Gomorra dalle parti della Lega? È lecito discuterne? Manifestolibri pensa di sì. È abbastanza evidente che la questione vada ben oltre il caso di Gomorra e del suo autore. Ma, allora, ci si chiederà, perché prendersela proprio con Saviano, viste le numerose controindicazioni? Perché ciò che si è raggrumato intorno alla sua figura è l’esempio più vivido, e al tempo stesso più scomodo, di mito che si sostituisce al ragionamento, di predicazione che prende il posto dell’analisi, di moda che subentra alla convinzione, in un paese in cui tutto ciò che non avviene sotto i riflettori, o nel regno delle alte tirature, semplicemente non esiste, e tutto ciò che da questi è invece illuminato assume i tratti incontestabili della verità e dell’oggettività, di un ordine invalicabile del discorso. In un paese in cui il darsi sulla voce nei talk show è diventato la quintessenza dell’agire comunicativo e l’esercizio della critica impiegando strumenti culturali non banali, una colpevole perdita di tempo. Così, almeno, sembra pensarla Paolo Flores d’Arcais che tuttavia ha inspiegabilmente sottratto una frazione (speriamo limitata) del suo prezioso tempo per mettere all’indice (quello dei libri proibiti) su tre colonne del Fatto quotidiano un libro che non ha letto e non intende leggere. Si possono condividere (e io personalmente le condivido), smontare o respingere le critiche che Dal Lago rivolge all’epopea di Gomorra, ma non censurarle o relegarle nella categoria, che a sinistra non dovrebbe avere cittadinanza, della bestemmia. Sono, alla fine, proprio queste reazioni, le quali rivelano una «sinistra» impregnata della retorica degli exempla virtutis, sempre più disposta a sacrificare la comprensione delle radici (legalissime e beneducate) dell’ingiustizia all’indignazione del telespettatore, alle emozioni forti del suddito in cerca di protezione (che è ben diverso dal cittadino in cerca di sicurezza), a testimoniare della necessità di confrontarsi con i temi importanti che Dal Lago pone. Qui a Berlusconia, tra fandonie e miti, tra spettri ed epifanie del Maligno, tra risentimenti e narcisismi (non stiamo più parlando, sia chiaro, di Saviano, ma dei fustigatori di Dal Lago) è in corso da un pezzo una vera e propria guerra all’intelligenza, dove ogni ragionamento di un qualche spessore è tacciato di sabotaggio o di spregio dell’umore popolare. Un antico scrittore puritano americano diceva che quanto più sei colto, arguto, intelligente, tanto più sei pronto a lavorare per Satana (la camorra?). Attenetevi dunque alle sacre scritture, ai sentimenti «sani», all’ammirazione della Virtù. Che questo imperativo provenga dalla sinistra la dice lunga sullo stato in cui versa. Per quanto ci riguarda continueremo a cercare di comprendere il mondo che ci circonda, a pubblicare e leggere libri che ci aiutino a farlo, anche a costo di mettere in questione, magari giovandogli, qualche idolo popolare.

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Alla destra postfascista Saviano piace da morire

Alla destra postfascista Saviano piace da morire

Affinità elettive: lo sperticato omaggio dei finiani di Farefuturo a Roberto Saviano. Giusto un inciso, Celine non ha scritto solo Voyage au but de la nuit, come credono certi snob parvenu, ma anche Bagatelle pour un massacre, un pamphlet immondezzaio in cui sono raccolti i più beceri luoghi comuni antisemiti. Non serve leggere ogni cosa se poi non si è capaci di capire cosa si legge

di Giovanni Marinetti
Ffwebmagazine (periodico della Fondazione Farefuturo), 6 giugno 2010

Delusione e rabbia tra le fila del popolo viola

Ha ragione Rangeri: Saviano 
è un “patrimonio comune”

C’è scritto “bene comune” ma si può leggere, ancora meglio, con più coraggio, “patrimonio comune”. Di tutti gli italiani. Di destra o di sinistra, poco importa. “Saviano bene comune” è il titolo dell’editoriale di Norma Rangeri, il direttore del Manifesto. Ed è una severa bacchettata nei confronti di quel collaboratore anti-Saviano che tanto ha fatto parlare in queste settimane.
«I nostri lettori sono increduli, arrabbiati, disorientati perché leggono come un ingiustificato attacco le pagine che un nostro collaboratore (…) rivolge a Roberto Saviano» nel suo libro. «Li capisco, per un motivo semplice: ho stima di Saviano e credo che la sua battaglia sia anche la mia».
La battaglia di Saviano è una battaglia di tutti. Questo importa. Solo questo. E sulla tesi del libro, che ha rinfocolato una passione distruttiva in molti adepti dell’antisavianismo, la Rangeri è durissima: «La critica letteraria cede il passo a una discussione politica viziata, a mio parere, da un concentrato di ideologia». E l’ideologia, nella lotta alle mafie, diventa sempre, inevitabilmente, miopia: buio che annega la realtà nella notte del pensiero. E l’unica luce spunta solo se si riesce spalancare la finestra della propria mente verso orizzonti diversi e trovare elementi di patrimonio comune. Soprattutto, ripetiamo, quando si parla di mafie.
Sul Domenicale del Secolo di Italia, Fausto Bertinotti, intervistato da Michele De Feudis, risponde così alla domanda «amare la letteratura di Céline o la cinematografia di Eastwood è ancora considerata una “passione proibita” a sinistra?»: «Quando si percepisce il confronto con mondi differenti come un periodo allora si realizza una deprecabile opzione fondamentalista. La morte della sinistra è il prodotto di una incapacità politica di pensare il confronto con l’altro. Leggere sul terreno della cultura altra autori come Céline o Nietzsche è straordinariamente utile per comprendere la crisi della modernità. Sono autori che forniscono energia per quel progetto politico di liberazione che si incarna nel conflitto sociale».
W la Rangeri allora. E fa bene a rivendicare i suoi lati in comune con quel Saviano (e la sua “formazione marxista”) che più volte ha dichiarato di essere cresciuto anche leggendo Céline. Perché, tanto, in Saviano c’è il superamento di quel purismo ideologico che non serve più a nulla.
«Se essere ascoltati – chiude la Rangeri -, avere successo, essere amati, avere a cuore il riscatto dei deboli, essere testimone di storie come quella di don Diana, fare una battaglia per la legalità contro le mafie (nel paese di Falcone e Borsellino) sono trappole borghesi, modi sbagliati di fare politica, mi piacerebbe che in Italia fossimo sempre di più a sbagliare così».
Ce lo auguriamo anche noi.

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Attenti, Saviano è di destra, criticarlo serve alla sinistra

Buttafuoco, “Saviano agita valori e codici di destra, non regaliamo alla sinistra”


Daniele Sepe scrive un rap anti Saviano: 
«È intoccabile più del Papa»

Il musicista, «comunista» napoletano, accusa lo scrittore di non accettare il contraddittorio e di essere manovrato

Antonio Fiore
Corriere del Mezzogiorno 3 giugno 2010

NAPOLI — Roberto Saviano bugiardo e imbroglione, costruttore del proprio mito, showman interessato più al diritto d’autore che al dovere della verità: se il libro di Dal Lago era una critica all’«eroe di carta», Cronache di Napoli di Daniele Sepe è un attacco senza precedenti all’autore di Gomorra.

Sepe, ma perché ce l’ha tanto con Saviano?

«Non c’è nessuna polemica verso di lui».

Alla faccia: nel suo testo gliene dice di tutti i colori.
«Contesto innanzitutto il fatto che Saviano sia un esperto di mafia».

Nega che a partire dal libro di Saviano sia cambiata nell’opinione pubblica non solo nazionale la percezione del fenomeno camorra?
«Ricordo una bellissima copertina di Der Spiegel negli anni Settanta, quella con la pistola sul piatto di spaghetti. Sin da allora la mafia faceva notizia».

Già, ma quella fu una trovata giornalistica, di costume.
«E anche Gomorra è un libro di costume. Con dentro tante imprecisioni e inesattezze che nessuno si è però preso la briga di verificare».

La storia del container pieno di cinesi morti, va bene. Però Saviano le risponderebbe che…
«Risponderebbe che il suo è un romanzo. D’accordo, anche Sciascia scriveva (straordinari) romanzi sulla mafia. Ma non mi risulta che fosse considerato un esperto di mafia».

Saviano, però, ha portato alla luce gli intrighi di un clan pericolosissimo eppure mediaticamente sottovalutato come quello dei casalesi. Almeno questo, glielo possiamo riconoscere?
«Perché, oltre a quello dei conosciutissimi boss ha fatto mai qualche nome? Se lui sa che i casalesi fanno affari con i grandi della politica e della finanza, perché non ci dice chi sono? Oppure i casalesi il business li fanno con i cinesi morti? Dice di sapere tutto dello scandalo-rifiuti in Campania. Ma quali aziende ha denunciato? Nessuna. Per attaccare un politico – vedi il caso Cosentino – aspetta che i giudici tirino fuori le carte. Saviano è solo una bella cortina fumogena. Se devo informarmi su che cosa è la camorra, scelgo sempre il buon vecchio Napoli fine Novecento. Politici, camorristi, imprenditori di Francesco Barbagallo».


Da un uomo di sinistra, anzi di sinistra radicale, non si sente politicamente scorretto?
«Da comunista dico: quando da decenni la politica è fatta da governi presieduti dagli editori di Saviano, e quando i provvedimenti finanziari si accaniscono sulla povera gente, sicuramente chi ci guadagna è la camorra. La povera gente qualcosa deve pur mangiare, e la legalità è una cosa bellissima, ma non si mangia. Il problema criminale, in Campania e in tutto il Sud, va analizzato tendendo conto che qui sono 20 anni che le aziende chiudono per favorirne altre al Nord, e che la malavita attecchisce per mancanza di alternative, non perché qui vivono scimmie malvage dedite al cannibalismo».

Intanto Saviano, per aver lanciato la sua sfida ai clan, è costretto a vivere sotto scorta. Ma lei ha da ridire anche su questo.
«A me risulta che, a suo tempo, il capo della Mobile dette parere negativo alla concessione della scorta. E per avere espresso questo punto di vista è stato rimbrottato addirittura dal capo della Polizia. Ma allora io mi chiedo: in Italia non c’è solo Padre Pio tra gli intoccabili? Possibile che si possa criticare il Papa, e Saviano no? Che persino Berlusconi accetti il contraddittorio, e Saviano no? Perché non posso dirgli guaglio’, stai dicenno ’na strunzata?».

Forse perché incrinerebbe un fronte di solidarietà verso una persona minacciata di morte?
«Ma chi minaccia Saviano, e perché? Da cittadino italiano avrei il diritto di saperlo: quali sono ’ste minacce? Le telefonate anonime? Non che la cosa mi scandalizzi: in Italia ci sono tante scorte inutili, una in più, una in meno…».

Ma lo sa che cose simili le ha dette Emilio Fede, uno con il quale non credo che lei sia in sintonia?
«Fede è sotto scorta da 15 anni, però continuiamo a criticarlo. E invece Saviano no, è incriticabile?».

Lei comunque non si fa pregare: nel finale della canzone definisce Berlusconi il capo burattinaio che paga l’affitto a Saviano.
«Non sono il capo dei servizi segreti e non ho prove da portare, anche se prendo atto che Saviano è sempre molto deferente verso il suo editore. Del caso Saviano io faccio un’analisi politica: ciò che sta accadendo intorno a questo autore è funzionale a una destra populista, in cui il fenomeno della camorra è ridotto alla cattiveria innata di ceti popolari dediti al malaffare e al loro desiderio di fare soldi il più in fretta possibile. Secondo questa analisi il problema si risolve con più 41 bis, con più esercito, più polizia come vuole Maroni, non a caso amatissimo da Saviano».

E ora come si aspetta che valuteranno a sinistra questa sua presa di posizione?
«Ormai il savianismo è una religione. Credo che come minimo mi scorticheranno vivo».

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Il ruolo di Saviano. Considerazioni dopo la partecipazione a “Vieni via con me”
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Diffida e atto di messa in mora. Rettifica libro “La parola contro la camorra” di Roberto Saviano
Castelvolturno, posata una stele per ricordare la strage di camorra ma Saviano non c’era e il sindaco era contro
Alla destra postfascista Saviano piace da morire
Populismo penale

Il diritto di criticare l’icona Saviano
La libertà negata di criticare Saviano
Saviano, l’idolo infranto
Pagliuzze, travi ed eroi
Attenti, Saviano è di destra, criticarlo serve alla sinistra

Buttafuoco, “Saviano agita valori e codici di destra, non regaliamo alla sinistra”

I Cinesi a Gomorra

Citazioni da Gomorra di Roberto Saviano



Pagina 11

Uscivano dal container uomini e donne. Anche qualche ragazzo. Morti. Congelati, tutti raccolti, l’uno sull’altro. In fila, stipati come aringhe in scatola. Erano iu cinesi che non muoiono mai. Gli eterni che si passano i documenti l’uno con l’altro. […] Avevano tutti messo da parte i soldi per farsi seppellire nella loro città in Cina. Si facevano trattenere una percentuale dal salario, in cambio avevano garantito un viaggio di ritorno. Uno spazio in un container e un buco in qualche pezzo di terra cinese.

Pagina 50
La voce di Xian non si interrompeva mai. La sua lingua veniva sparata fuori dai denti come una mitraglietta. Parlava senza neanche prenmdere respiro dalla narici, come in un’apnea di parole. E poi le flatulenze dei suoi qguardaspalle che saturavano la casa di un odore dolciastro avevano appestato anche la mia stanza. Non era solo la puzza a disgustare ma anche le immagini che quella puzza ti sprigionava in mente. Involtini primavera in putrefazione nei loro stomaci e riso alla cantonese macerato nei suoi succhi gastrici. Gli altri inqulini erano abituati. Chiusa la porta non esisteva che il loro sonno.

 

“Gomorra – scrive Alessandro Dal Lago in Eroi di carta. Il caso Gomorra e altre epopee – ci trasmette un disgusto in virtù del quale una certa umanità è vista alla stregua di materia fecale. Non le merci globalizzate, ovvero la merda cinese, sono al centro del primo capitolo, ma i cinesi di merda”.

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Attenti, Saviano è di destra. Criticarlo serve alla sinistra

Buttafuoco, “Saviano agita valori e codici di destra. Non regaliamolo alla sinistra”

Icona perfetta dell’immaginario superomista, Saviano agita valori e codici di destra. “E’ roba nostra, non regaliamolo alla sinistra, è un patriota, un cazzuto, uno che sa tenere una pistola in pugno, uno che sa sbrigarsela al modo dell’uomo vero”, spiega Pietrangelo Buttafuoco dopo che una lunga intervista apparsa su Panorama ha messo in luce risvolti ancora poco noti del nuovo portavoce dei professionisti dell’antimafia

Pietrangelo Buttafuoco
Libero 12 maggio 2010

Quando la scorta armata diventa una stampella per le idee, il pensiero muore

Quello del regalare gli eroi agli altri è lo sport preferito della destra. Altrimenti non si capirebbe tutta questa fretta di buttare Roberto Saviano in quell’album lì, tra le figurine del pensiero dominante della sinistra, magari in compagnia di Daniele Luttazzi, cacca compresa. Passa sempre in automatico un’idea. E cioè che la lotta alla criminalità sia un tratto distintivo dell’essere di sinistra. Un riflesso condizionato sottaciuto e mai dichiarato convince tutti – quelli di destra, tra i primi – che, insomma, l’impegno contro la mafia sia una cosa da comunisti. Ancora peggio: una cosa da magistrati comunisti. Tutto questo nel frattempo che mai, mai una volta, qualcuno abbia detto che perfino i due più potenti tra gli eroi, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, non corrispondevano al clichè cui ci siamo abituati per quieta obbedienza al pensiero dominante. Si potrà o no dire una volta per tutte che Falcone, appunto Falcone, da vivo era un socialista quando socialista significava Claudio Martelli, Bettino Craxi, Hammamet compresa? Si potrà o no dire e spiegare bene che Borsellino, appunto Borsellino, da vivo era un missino e che lo slogan “meglio vivere un giorno da Borsellino che cento da Ciancimino” è mutuato da un motto stupendamente fascista? Falcone e Borsellino morti hanno dovuto subire l’aggiustamento delle loro biografie ed è quasi da querela – si rischia la querela, oggi – ricordare come al funerale di Beppe Alfano, giornalista, ammazzato dalla mafia, c’era solo la fiamma tricolore. Quello dell’andare a fare la guerra alla mafia era l’istinto primo di ogni militante della destra, Angelo Nicosia, un valoroso deputato – e Giampaolo Pansa se lo ricorderà – all’alba della nascente Repubblica si prese le prime coltellate quando cominciò a stanarli i mafiosi tra i rimasugli ereditati dall’amministrazione d’occupazione anglo-americana. Ancora ieri, con odio sbruffone, nella sua Castelvetrano, il Matteo Messina Denaro, che è ancora oggi latitante tra i latitanti, durante le campagne elettorali faceva sapere ai suoi: “Per i fascisti mai”. Brucia ancora il ricordo di Cesare Mori, il prefetto di ferro voluto da Benito Mussolini che fece fuoco e fiamme sulla viva carne della mafia, mas-sa-cran-do-la. Nel nome di Mori tanti scelsero magistratura, polizia, militanza politica, certo anche Saviano – nel nome di Mori – riconosce quella vena che a Destra faceva scegliere sempre e comunque lo Stato e non l’Anti-Stato, lo ha scritto tante volte ma, si sa, è più facile che un cammello passi dalla cruna di un ago che a destra qualcuno si fermi a leggere, siamo fatti così noi di destra, ci nutriamo solo di comizi scritti. E mai una volta che si scriva un comizio che corrisponda alla verità delle cose perché – chissà – passa sempre questa idea che andare contro la Mafia è un vantaggio dato ai comunisti.
E così, di seguito, per li rami: ognuno che faccia il proprio dovere diventa, in automatico, uno di sinistra. Così vale per chi paga le tasse, per chi denuncia il pizzo, per chi sceglie le guardie e dice basta ai ladri. La stupidità congenita della destra, specie se dotata di microfono e di taccuino, è svelata in questo tic: regalare la battaglia di civiltà alla sinistra. La condanna della destra è tutta descritta in una scena: prendere le corna da terra – quelle degli evasori fiscali, quelle dei magnaccia, quelle degli assassini e quelle degli indifferenti – e mettersele in testa. E tutto questo mentre questo governo, con Roberto Maroni al Viminale, con decisioni sottoscritte da Silvio Berlusconi in persona, sta facendo piazza pulita della criminalità. Tutto questo mentre il mondo intero, con Gomorra sotto il braccio, trova in Roberto Saviano un esempio d’italiano mai visto fino ad oggi. Un italiano che non è, per come lo accusano da destra, un comunista con la barba di tre giorni ma, sempre che il termine non ci esponga alla querela, un patriota. Lui lo ha già scritto, lo ha già detto e lo ha già raccontato molte volte. Non c’è un angolo della vita di questo giovane scrittore che non sia stato svelato, anche al netto delle invidie e degli insulti. Furbizia compresa.
E’ solo uno cazzuto, uno che sa tenere una pistola in pugno, uno che sa sbrigarsela al modo dell’uomo vero, uno che è agli antipodi del fighetta, uno che non c’entra niente con tutti quelli che lo venerano, neppure con RaiTre che gli offre la tribuna, ma ancora meno c’entra con tutti quelli che vogliono togliere a lui e al suo libro i riflettori. Non c’entra con tutte le contumelie che gli lanciano addosso i suoi detrattori. Non assomiglia alle accuse che gli rivolgono, in una sola parola: tutto è tranne che un comunista. Tutto eccetto che un conformista, tutto fuorché un venerando somaro del pensiero dominante, sempre che si abbia la pazienza di leggerselo il suo pensiero, anche perché si rischia di perdersi ciò che può apparire balsamo alle meningi: come quando denuncia gli anni del saccheggio del centro-sinistra.
Ha solo la barba di tre giorni e poi – è vero – s’è nutrito alla fonte della grande letteratura maledetta: da Ezra Pound a Louis Ferdinand Celine. Però va avanti, è generoso, cerca negli altri quello che lui stesso ha assaporato: la libertà di pensarla sempre fuori da ogni schema. Può non piacere ma è un eroe. Avrebbe perfino pietas di Sandokan, il suo nemico, così come ebbe una sovrana ironia al processo, guardando in faccia tutta la feccia. Basta vederlo nell’interezza della sua fisicità. Si muove come in scena, mette in scena la romantica sovrapposizione dell’arte su tutto. E’ solo uno che sfida anche la sua stessa storia pur di fare l’unica rivoluzione necessaria: liberare il Sud dalla Mafia perché la Mafia c’è. E non è di destra. A meno che non si voglia farsela regalare. Giusto per fare a cambio con gli eroi.

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Ma dove vuole portarci Saviano?
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Il diritto di criticare l’icona Saviano
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Saviano, l’idolo infranto
Pagliuzze, travi ed eroi
Attenti, Saviano è di destra, criticarlo serve alla sinistra

Alla destra postfascista Saviano piace da morire


Lodo Alfano e processo breve: la farsa della giustizia di classe

Il risvolto di una giustizia di classe che protegge i più forti è la persecuzione di classe verso i più deboli. Quella che fomenta i giustizialisti di destra, come la Lega, gli ex di An, Di Pietro, Travaglio e che lascia indifferenti i giustizialisti idealisti di sinistra, poi ci sono le amebe intellettuali come Saviano

Paolo Persichetti
Liberazione 26 novembre 2009

Nessuna revisione per il concorso esterno in associazione mafiosa sarebbe in vista. E’ quanto ha fatto sapere il governo per bocca del guardasigilli Angelino Alfano, interpellato da alcuni giornalisti al termine di un’audizione presso la commissione parlamentare d’inchiesta sugli illeciti connessi al ciclo dei rifiuti. Dunque, non sarebbero vere le voci, riprese ieri da alcuni quotidiani, che riferivano di uno studio in corso, da parte del governo, sulla «tipizzazione» del “concorso esterno”. Un reato giurisprudenziale. Vera e propria bestemmia, secondo la tradizione del diritto romano che sancisce l’impossibilità di crimini e pene senza legge certa e scritta. I decenni di eccezione giudiziaria hanno però introdotto la consuetudine anglosassone, facendo del giudice non più la «voce della legge» ma un legislatore. Diverse commissioni, presiedute da Grosso, Nordio e poi Pisapia, avevano proposto di sanare il vuoto legislativo tipicizzando in modo certo i comportamenti da sanzionare. Paradossalmente la destra, forcaiola per natura, non volle approvare una riforma che moderava in parte le pene. La sinistra, giustizialista per vocazione, non fu da meno. E così, davanti alla sacrosanta bocciatura del “lodo Alfano” da parte della Consulta, lo scettro della politica, in particolare della politica d’opposizione, è tornato nelle mani della magistratura. Un fatto quasi inevitabile in una situazione che vede il sistema politico ridotto ad una condizione sempre più evanescente di fronte ad un ipertrofico esecutivo e un peso esterno, che non è più del sociale ma delle lobbies. Di fronte al proliferare della decretazione d’urgenza, addirittura di decreti correttivi d’altri decreti, strumenti privi di qualsiasi fondamento costituzionale, di una produzione legislativa ispirata nella quasi totalità dagli uffici della presidenza del consiglio, con un’aula parlamentare che ha addirittura subito l’onta della sospensione a causa dell’assenza di copertura di bilancio per le leggi in discussione, con una opposizione ridotta alla consistenza di un ectoplasma, la politica la fanno i gruppi editoriali e finanziari che hanno mezzi per condizionare l’opinione, i poteri economici e gli apparati, tra cui eccelle per funzioni, la magistratura. Non tutta, perché in massima parte resta, per natura quasi antropologica, filogovernativa; ma una parte che agisce da efficace minoranza attiva. E così ci siamo ritrovati alla situazione di partenza, all’eterna supplenza giudiziaria che ha aperto la via del potere alle destre e ha gettato l’Italia nel pozzo nero del populismo penale e giustizialista. Sono ritornati in primo piano le inchieste e i processi contro Berlusconi, la creazione del suo impero economico e il suo sistema di potere. Le indagini sul funzionamento di Mediaset, i fondi neri, i giochi finanziari e di bilancio, la corruzione via l’avvocato Mills, e poi le inchieste siciliane e fiorentine, rilanciate dalle ultime dichiarazioni di alcuni pentiti di mafia che hanno consentito di riaprire filoni d’indagine arenati. Spatuzza e Grigoli, due collaboratori di giustizia, sono tornati a parlare del ruolo di Dell’Utri e dei rapporti con i Graviano, famiglia mafiosa trasferitasi al nord. In particolare è molto attesa la deposizione del prossimo 4 dicembre del pentito Spatuzza. Forse troppo attesa dagli spalti giustizialisti che, incapaci di arrivarci con la politica, sognano un Berlusconi finalmente infilzato dalle inchieste e messo definitivamente fuori gioco.
La vecchia scorciatoia giudiziaria torna dunque d’attualità e chi ne soffre di più è ovviamente un’idea di politica carica di progetti, partecipazione e idee. Tutto muore dietro la passione giudiziaria, si fa claque di tribunale, bava da tricoteuses. In un clima del genere non è possibile nemmeno la più timida delle strategie riformiste. Solo ordine, legalità, tribunali, toghe, processi, condanne, odio, risentimento, carceri che però si riempiono solo di poveri cristi. E su questo terreno cresce l’intolleranza, il razzismo, si allungano le radici di una svolta reazionaria delle mentalità che fa egemonia. Berlusconi reagisce tirando fuori dal cilindro, di volta in volta, una soluzione legislativa che pari il colpo (il processo breve è solo l’ultima trovata in ordine di tempo), stravolgendo qualsiasi idea progettuale di riforma del codice penale e di procedura, ridicolizzando il garantismo e rilanciando alla grande la sfacciata rivendicazione di una giustizia di classe, della legge come scudo dei potenti. Il risvolto di una giustizia di classe che protegge i più forti è la persecuzione di classe verso i più deboli. Quella che fomenta i giustizialisti di destra, come la Lega, gli ex di An e Di Pietro, e che lascia indifferenti i giustizialisti idealisti di sinistra.

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Processo breve: amnistia per soli ricchi
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Processo breve: amnistia per soli ricchi

Giustizia, due binari: prescizione breve solo per i “colletti bianchi”, detenzioni lunghe e celle sovraffollate per tutti gli altri

Paolo Persichetti
Liberazione 24 novembre 2009

Prescrizione breve per colletti bianchi e ceti abbienti, detenzioni lunghe e celle sovraffollate per tutti gli altri. Da una parte un’amnistia mascherata e tutta di classe per chi riesce sempre a sottrarsi al processo, figuriamoci alla condanna; dall’altra condanne pesanti, aggravanti e recidive di ogni ordine e grado, pene lunghe e senza benefici, per chi non appartiene ai ceti del privilegio, come è accaduto a Giovanni Lorusso, morto nel carcere di Palmi pochi giorni fa. “Dimenticato” in cella dall’ufficio matricola, nonostante una ordinanza del gip gli avesse concesso gli arresti domiciliari. Lorusso era “pericoloso” perché nell’agosto 2008 aveva rubato uno zaino in una spiaggia di Rimini. Furto punito con una condanna a 4 anni e 5 mesi. Sanzione provocata dall’applicazione di una serie di aggravanti: la recidiva specifica prevista dalla ex Cirielli, la violazione delle misure di sorveglianza dovute alla qualifica di delinquente professionale, che gli era stata applicata in ragione della sua ricca fedina penale. Insomma la classica persecuzione. Dopo la pena, tutta scontata fino all’ultimo secondo, arriva la sanzione civile, l’esclusione dal consesso sociale. Marcato a vita col tesserino rosso al posto della carta d’identità. Niente impieghi nei pubblici uffici, niente patente di guida. Devi giustificare ogni tuo spostamento. Non puoi lasciare il comune di residenza senza un’autorizzazione specifica. Puoi uscire di casa solo nelle ore autorizzate. Liberalissima misura di polizia ereditata dal fascismo e republicanizzata con un espediente: non è più il prefetto che emette la sanzione ma il magistrato di sorveglianza. In fondo ci vuole poco per diventare democratici: basta un giudice nei paraggi e il gioco è fatto. Come ci spiega il nuovo filosofo della politica Roberto Saviano con le sue letterine da baci perugina. È questa l’idea di giustizia che viaggia ormai da anni in questo Paese. Una specie di tira e molla tra il centrodestra che vuole l’immunità degli opulenti, la tolleranza zero su base censitaria, processi e carcere per quelli che considera rifiuti sociali e nemici: migranti, tossicodipendenti, terroristi; e il centrosinistra che se ne infischia di chi viene triturato da leggi sempre più liberticide e pur di arrivare a sconfiggere l’odiato Berlusconi (senza mai riuscirci), promuove un’idea di società penale e disciplinare. In questo clima imbestialito, dove nelle carceri ormai non si hanno più di tre metri quadrati a testa, dove i reclusi hanno raggiunto le 66 mila unità a fronte di 42 mila posti tollerati, sono riprese le proteste. Al Marassi di Genova, venerdì sera i detenuti hanno avviato una battitura contro la situazione di sovraffollamento. Le difficili condizioni di vivibilità hanno subito fatto salire la tensione e nella serata un detenuto ha tentato il suicidio. Intorno alle 23.50, il personale di custodia ha avvertito un forte odore di gas provenire dalla sezione di alta sicurezza. L’intervento tempestivo ha permesso di trovare l’uomo ancora in vita, riverso a terra con la testa ricoperta da una busta di plastica all’interno della quale confluiva il gas di una bomboletta impiegata per il fornello da cucina. Una volta ripresosi, l’uomo ha giustificato la sua azione dipserata come un «gesto di protesta contro le condizioni detentive». Nel solo 2008 sono stati sventati 650 suicidi. La battitura è stata sospesa nella giornata di sabato, dopo un incontro dei reclusi con il direttore che si è impegnato a risolvere nel giro di 24 ore alcune delle situazioni più insostenibili. Una protesta analoga si sarebbe svolta anche nel carcere di Lucca, protagonista questa estate di una semirivolta, insieme ad altre carceri toscane. Ne ha dato notizia il segretario generale del Sappe, Donato Capece, che ha spiegato come nel penitenziario lucchese siano ospitati 200 detenuti per una capienza di appena 82 persone. Mentre a Marassi 780 reclusi si dividono lo spazio previsto per 430 posti letto. Proteste con battitura dei ferri contro il sovraffollamento anche nel carcere San Donato di Pescara. Secondo i testimoni, l’eco delle grida giungeva fin nelle strade circostanti le mura di cinta, in particolare la parola «sovraffollamento», ripetuta in continuazione. Nella struttura del capoluogo adriatico è stata superata la capienza massima, con 75 detenuti in più rispetto a quanto previsto (195 invece di 120). Situazione divenuta ancora più pesante dopo la chiusura della sezione penale per lavori di ristrutturazione, che ha reso necessario ridistribuire i detenuti nelle altre due sezioni. Nelle carceri abruzzesi vi sono attualmente 1.909 detenuti, 434 oltre il limite regolamentare.

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Lo scudo di classe di Berlusconi
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