Giornalismo temerario

A proposito di una singolare richiesta di rettifica

di Paolo Persichetti

Negli ultimi tempi si è discusso molto dell’uso delle querele per diffamazione o calunnia a mezzo stampa, utilizzate in realtà come strumento di censura. Nel mondo anglosassone vengono indicate con l’acronimo Slapp (Strategic lawsuit against public), ovvero azioni legali strategiche contro la partecipazione pubblica. Si tratta di azioni penali o civili intentate con la sola intenzione di intimidire il giornalista citato in giudizio, per dissuaderlo dal proseguire le sue inchieste o dare notizie scomode al soggetto che ha promosso la causa.

Allergia alla critica
Numerosi sono i casi di cronaca che riferiscono di querele mosse da esponenti del mondo politico e soprattutto del governo, o da attori economico-finanziari potenti, contro giornalisti o organi di stampa ritenuti scomodi, oppure intellettuali o esponenti della società civile che hanno posizioni non allineate. E’ recente la notizia che alcuni politici, e non solo, ricorrevano a delle agenzie specializzate nell’inviare lettere che, con la minaccia di portare in giudizio singoli cittadini per aver espresso opinioni critiche sui social nei loro confronti, chiedevano risarcimenti sulla base di una tabella. Vi è senza dubbio una tendenza diffusa a mettere il bavaglio, chiudere la bocca a qualunque critica o opinione che non sia gradita, acquiescente o controllata. E’ diffusa un’allergia alla critica che in qualche modo l’era dei social ha accentuato imbarbarendo le discussioni, impoverendole di contenuti e di democrazia.

Professionisti del vittimismo

Ma a comportarsi in questo modo non sono soltanto i detentori del potere economico e politico, ci sono anche soggetti collocati nei livelli intermedi della società. Peggio ancora sono quelli che oggi si ergono a vittime delle querele temerarie promosse da governo e politica, e chiedono con forza una legge in materia, ma hanno fatto largo uso fino a poco tempo fa dello stesso strumento intimidatorio. Basti pensare al caso di Roberto Saviano che sparava querele a raffica contro ogni critica mossa nei suoi confronti e da lui percepita come lesa maestà del suo autodichiarato magistero morale, denunciando macchine del fango.

L’uso della querela come scudo
Nella mia esperienza di lavoro giornalistico ho visto arrivare nei giornali dove ho lavorato le querele più diverse. Ricordo colleghi denunciati perché avevano definito neofasciste o naziste organizzazioni della estrema destra che tali sono o ne agitano i temi. Questi gruppi mettevano in pratica lo strumento della querela sistematica per garantirsi una impunità d’immagine e di azione. E talvolta accadeva che in tribunali periferici trovavano anche il giudice che dava loro ragione. Erano fascisti ma lo non si poteva dire. Io stesso sono stato querelato da uno dei capi di Casapound anche se per lui non è andata bene. Un’altra volta fece pervenire al giornale una lettera che con il pretesto di chiedere una rettifica, ci riempiva di insulti. L’ho conservata come un trofeo. Ho assistito all’obbrobrio di un garante dei detenuti che ha querelato un ergastolano perché in una intervista aveva denunciato la sua rete clientelare. Per fortuna poi è stato travolto da una nota indagine che ha colpito la Capitale per i suoi rapporti con uno degli inquisiti.

L’uso della querela come bavaglio

Il nostro giornale e io stesso venimmo querelati da Saviano. All’epoca ero in semilibertà e l’esposto denuncia scritto dal suo legale era una sequela di ingiurie, killer della penna o roba del genere. Nonostante per Saviano quell’esperienza sia finita molto male, con postumi anche personali come ho letto tempo fa in una intervista, la notizia della sua clamorosa sconfitta in tribunale, era la prima volta in assoluto (la prima di molte altre che poi arrivarono), fu censurata da tutta la stampa. «Non possiamo dare ragione a un ex brigatista e distruggere l’immagine di Saviano», fu la risposta. Eppure aveva torto marcio, si era inventato una storia assurda che coinvolgeva la madre di Peppino Impastato. Privo del coraggio di querelare gli amici e familiari del giovane militante comunista ucciso dalla mafia che l’avevano criticato, attaccò me in giudizio perché avevo riportato le loro dichiarazioni. Pensava che fossi l’obiettivo più fragile, facile da colpire. Chi mai avrebbe dato ragione a un ex brigatista, per giunta ancora in esecuzione pena? Per correre ai ripari, fuori tempo massimo, aveva cambiato persino versione aggravando la sua menzogna, anche se nessuno gliene ha mai chiesto conto. Nel mondo del mainstream funziona così: non si fanno domande scomode. Ebbene, nonostante il giudice mi dette ragione censurando duramente la querela, si allungò di un anno e mezzo la mia detenzione in semilibertà che poi era l’obiettivo ricercato da Saviano: mettermi il bavaglio facendomi richiudere in cella. Anche le associazioni vittimarie degli anni 70 utilizzano lo strumento della querela per intimidire ex esponenti di quella stagione politica o chi fra i pochi intellettuali di questo Paese ha ancora il coraggio di esprimere posizioni che divergono dalla narrazione dominate su quel periodo. Spesso questi attori, che oggi assumono posture vittimarie ma ieri denunciavano chi faceva lavoro di informazione, si autorappresentano come dei cavalieri solitari, Robin Hood che agitano temi d’interesse pubblico contro i poteri forti anche se appartengono essi stessi a gruppi editoriali-finanziari, fazioni di potere, magari solo temporaneamente all’opposizione. Una situazione che complica le cose e ci fa capire che dietro al più generale tema del sacrosanto diritto alla critica e libertà di parola si cela anche uno scontro tra fazioni politico-economico-editoriali e finanziarie, tutte interne all’establishment.

Non solo querele ma anche giornalismo temerario

Avrete capito che il tema delle querele temerarie è questione delicata e complessa che investe un principio di tutela generale e costituzionale della critica e della libertà di parola ma anche il modo in cui si fa giornalismo. Perché, è bene sottolinearlo, esiste anche un giornalismo «temerario», oggi molto di moda, che cancella diritti e rispetto della persona e in particolare dei soggetti più fragili, diffonde fake news e impiega fonti poco trasparenti. L’esempio più eclatante che si può fare riguarda Report, una trasmissione di approfondimento che troppo spesso diffonde inchieste realizzate grazie alla collusione con apparati informativi vicini a strutture d’intelligence. Una pericolosa vicinanza, se non sovrapposizione, che fa del giornalismo una semplice cassetta delle lettere di veline interessate, informazioni riservate, camuffate con falsi invii anonimi o testimoni travisati, che settori dell’apparato lasciano uscire per favorire o screditare un’area o un personaggio della politica, della finanza o dell’economia. Il giornalismo indipendente è un’altra cosa.

Una singolare richiesta

La storia che sto per raccontarvi riguarda proprio questo modo di concepire il lavoro giornalistico. In questi giorni ho ricevuto una singolare «richiesta di rettifica» da una collaboratrice del Fatto quotidiano. La signora ha intimato me e il direttore dell’Unità, Piero Sansonetti, con cui collaboro, di modificare un articolo apparso lo scorso 2 aprile (lo trovate qui), presente anche in Insorgenze.net.
Nelle sue doglianze l’autrice della lettera sembra imputarmi la colpa di non aver posseduto le doti divinatorie che mi avrebbero permesso di prevedere il futuro, per questo chiede la rettifica di una breve frase da me scritta tre mesi prima che fosse avvenuto l’episodio di cui avrei dovuto dare notizia e lo fa, per giunta, con sei mesi di ritardo.
L’articolo raccoglieva le smentite di due ex brigatisti alle affermazioni attribuitegli da una informativa dei carabinieri nel corso di una intercettazione, per altro illegittima come stabilito dal tribunale, riguardo la presenza di un «altro uomo» tra i brigatisti presenti in via Fani. L’informativa era stata riportata con rilievo sul Fatto quotidiano del 14 marzo dell’anno precedente dalla stessa giornalista, che oggi avanza le rimostranze, citando in extenso il presunto nuovo nome per ben otto volte. A conclusione del mio pezzo accennavo in una riga al fatto che la vicenda aveva suscitato uno strascico giudiziario. La persona imprudentemente tirata in ballo l’aveva, infatti, citata in giudizio, ecco il testo: «La vicenda ha avuto anche un seguito giudiziario. Giorgio Moroni ha citato in giudizio l’autrice dell’articolo apparso sul Fatto quotidiano il 14 marzo del 2024, a giugno si aprirà il processo». E’ poi successo che nel giugno successivo il tribunale civile di Genova, dove si è discussa la causa, ha ritenuto assenti gli estremi per un risarcimento del danno nei confronti del denunciante. Lo riferisce la sentenza che gentilmente la dogliante ha allegato insieme alla richiesta di rettifica.

Via Fani e l’invenzione dell’uomo in più

Facciamo un passo indietro per capire meglio i fatti: nella informativa citata, redatta nell’ambito della nuova inchiesta sui fatti della Spiotta avvenuti nel lontano 1975, appariva per una sola volta un nome nuovo tra i componenti della commando che aveva agito in via Fani, tale «Moroni», intercalato da ripetuti riferimenti a «Morucci» e «Matteo», che era il nome di battaglia di quest’ultimo, condannato nel processo Moro. Come spiegavo nell’articolo, si era trattato di un classico caso di misnaming. In una semplice postilla posta in fondo al testo, dunque nemmeno in una informativa a lui dedicata, i carabinieri – al contrario – ipotizzavano che accanto a quel cognome «Moroni» si potesse accostare il nome «Giorgio», mai pronunciato nella intercettazione.
Si trattava di una vecchia conoscenza dell’Arma, o meglio di una spina nel fianco, perché quel Giorgio Moroni fu oggetto di un clamoroso fallimento investigativo dei carabinieri di Dalla Chiesa che scambiarono dei militanti dell’Autonomia con gli introvabili membri della colonna genovese delle Br. Giorgio Moroni ottenne giustizia dopo una procedura di revisione che non solo lo vide assolto ma certificò le prove di una montatura orchestrata da elementi dei carabinieri e dei Servizi, per vantare un clamoroso successo investigativo. Per questa vicenda ottenne anche risarcimento per l’ingiusta detenzione subita.
Nonostante fosse stata edotta su queste circostanze, riferite in buona parte dai carabinieri nella postilla e da Giorgio Moroni stesso, in un colloquio tra i due, l’autrice dell’articolo apparso sul Fatto quotidiano, senza che ci fossero mai stati sviluppi investigativi di alcun tipo, aveva senza scrupolo alcuno messo in pasto all’opinione pubblica quel nome, riportato ben otto volte nel pezzo. Sarebbe bastato non citarlo, o riportare le semplici iniziali, dando in questo modo comunque conto del fatto di cronaca, ma troppo ghiotta era l’occasione di rilanciare a ridosso dell’anniversario di via Fani l’ennesimo mistero ancora irrisolto (perché inesistente) del sequestro Moro: «gli interrogativi sulla identità e numero di persone che parteciparono al sequestro non hanno mai trovato una risposta definitiva», glissava la giornalista.

Il testo e il suo contesto

Messaggi temerari

Accanto al testo esiste un contesto, che in questo caso è decisivo: riproporre la solita litania dietrologica, la narrazione complottista di fronte alla quale qualunque scorrettezza e temerarietà appare giustificata. Nella sentenza leggiamo che lo stesso giudice conviene sulla «verosimile assoluta infondatezza delle parole pronunciate dall’Azzolini», oltre a dirsi «consapevole della sofferenza e comprensibile doglianza dell’attore (Giorgio Moroni ndr) per l’ennesimo coinvolgimento in vicende alle quali risulta essere del tutto estraneo, oggi come in passato». Il giudice riconosce dunque la legittimità in astratto della doglianza ma ritiene che questa «non costituisce elemento di contestazione nei confronti della giornalista», che si sarebbe limitata a riferire con «atteggiamento di scrittura assolutamente neutro» i contenuti di una informativa dei carabinieri. Semmai – suggerisce – questa andava rivolta all’indirizzo degli inquirenti. Un’affermazione quantomai inopportuna poiché è di fatto impossibile attaccare l’attività investigativa, dimostrandone dolo o colpa, salvo detenere il potere politico-amministrativo per esercitare una censura nei confronti di chi ha stilato la postilla contenuta nella informativa.
Una sentenza ampiamente autocontradditoria poiché «i canoni di verità, continenza e pertinenza» richiamati sono smentiti da alcune affermazioni presenti nella nota difensiva della giornalista, dove si affermava – riporta la sentenza – che Autonomia operaia, gruppo al quale aveva appartenuto Giorgio Moroni, era «ritenuta all’epoca la faccia della stessa medaglia delle Brigate rosse». Affermazione storicamente inesatta e pregiudizievole. Insomma se un antico detto riferisce che esiste un giudice a Berlino, a Genova a quanto pare non se ne è trovata traccia.

Quale giornalismo?
Ma quel che ai nostri occhi appare più disdicevole nelle motivazioni della sentenza è la concezione del lavoro giornalistico proposto, inteso come semplice megafono, stampella di informative provenienti dalle attività di indagine, tanto più se verosimilmente infondate, magari di verbali di collaboratori di giustizia che parlano di fatti riportati de relato, spesso antecedenti la loro stessa nascita. Come se il giornalista sia sprovvisto di autonome capacità di discernimento, privo di una propria sfera critica di valutazione che gli consenta di capire se ha davanti una falsa notizia, una informazione priva di riscontri o che necessita di ulteriori verifiche e approfondimenti. Ricordiamo che l’informativa dei carabinieri, fatta pervenire da mani amiche al Fatto quotidiano, venne pubblicata prima del rinvio a giudizio e dell’apertura del processo con il deposito completo e pubblico degli atti di indagine. Dunque prima ancora che i giornalisti e studiosi potessero ascoltare autonomamente il sonoro delle intercettazioni e capire se quella nota fosse stata presa in considerazione dalla procura. Una avventatezza che contrasta col noto decalogo del giornalista, riportato in una famosa sentenza di cassazione dell’ottobre 1984 (la potete trovare qui).

La nota di Stampa romana

Come se già non bastasse questa vicenda si è conclusa, lo abbiamo appreso solo durante la redazione di questo testo, con un comunicato dell’associazione Stampa romana che censurava l’azione giudiziaria «intentata da un ex militante dell’eversione», lamentando la necessità di una legge che tutelasse i giornalisti vittime di citazioni in giudizio temerarie (potete leggerla qui). Che Giorgio Moroni sia stato un ex militante è un fatto noto, da lui mai smentito e persino storicizzato in un volume sulla storia dell’Autonomia operaia a Genova; che sia stato un membro «dell’eversione» non sta scritto, invece, in nessuna sentenza poiché, oltre ad essere stato assolto e risarcito, risulta anche incensurato. L’affermazione dell’organo sindacale è dunque incredibilmente diffamatoria nei confronti di un libero cittadino che ha agito legittimamente a tutela dei propri interessi, come riconosciuto anche nella sentenza.
Ci auguriamo che quanto prima Stampa romana presenti le sue scuse a Giorgio Moroni mentre attendiamo che il Fatto quotidiano, e la giornalista che ha avanzato le sue rimostranze, colmi il debito di informazione che ha contratto con i suoi lettori, informandoli finalmente della smentita pronunciata dai due ex brigatisti sul presunto «uomo in più» presente in via Fani. Oltre a essere un atto dovuto, darebbe prova di onestà intellettuale!

Se la destra si spara addosso, cosiderazioni su Charlie Kirk, Tyler Robinson e Giorgia Meloni

I nipotini dello stragismo tentano di utilizzare la morte di Kirk per riscrivere la storia della destra fascista, additano i migranti come il male della società, lasciandoli annegare in mare o provando a rinchiuderli in carceri oltre-confine. Chiagni e fotti, odia, spara e fai la vittima, sono gli ingredienti di un trumpismo maccheronico a cui la Meloni da voce facendo la faccia cattiva

Odia, spara e poi fai la vittima è questo il credo della destra attuale che Giorgia Meloni interpreta sapientemente riprendendo l’antico adagio «chiagne e fotte». La nuova narrazione lanciata con forza dalla premier durante la festa nazionale dell’Udc e ripresa nel videomessaggio inviato alla kermesse EuropaViva di Vox, dove ha sostenuto che il «sacrificio di Charlie Kirk ci ricorda ancora una volta da che lato sta la violenza e l’intolleranza», ripropone l’autoassoluzione storica della destra fascista. Washing narrativo diffuso in un dossier, Chi soffia sull’odio politico, predisposto dall’organi di propaganda interna ad uso dei gruppi parlamentari di Fdl per istruirli sui contenuti da proporre nelle dichiarazioni pubbliche.
Addossare alla sinistra, intesa in termini talmente dilatati da togliere significato alla parola stessa, le colpe di un supposto clima di tensione, odio, escalation verbale e piccoli episodi, al cospetto dei quali persino i boyscout apparirebbero una gang del narcotraffico, è la trama del documento che elenca dichiarazioni di politici, alcuni uomini di cultura (pochi a dire il vero), qualche presa di posizione di collettivi, commenti social (sic!) e alcune scaramucce di strada che ovviamente dimenticano quanto sul versante opposto la destra fa e ha fatto, considerando anche alcuni omicidi e tentati omicidi contro migranti (ricordiaMo i 6 migranti feriti nel raid armato di Luca Traini a Macerata nel febbraio 2018, conclusosi al grido «l’Italia agli italiani» o i due migranti senegalesi uccisi a Firenze da Gianluca Casseri, ex militante di CasaPound, nel 2011; ed ancora la mappatura degli attiti violenza e delle agressioni omofobe e razziste realizzate da sigle o altri soggetti di estrema destra dal 2014 ad oggi, ben oltre il centinaio https://www.infodata.ilsole24ore.com/2021/06/25/la-lunga-ombra-nera-una-mappa-delle-aggressioni-fasciste/?refresh_ce=1). Una sbobba da caserma che mette insieme un improbabile Pd, passando per i 5S, Avs, i Centri sociali, generici ambienti antagonisti, gli anarchici, alcune testate social, evocando persino gli anni 70, definiti anni di piombo, la lotta armata e le immancabili Brigate rosse, tutti colpevoli di aver diffuso un tale clima di terrore e odio da aver armato – qui si passa improvvisamente dalla scala nazionale a quella mondiale – le mani del giovane Tyler Robinson, responsabile della morte, dell’agitatore politico Charlie Kirk, un rampante del trumpismo.

Un destro che spara sulla destra

Le notizie che giungono dagli Stati uniti ci raccontano tuttavia una situazione molto diversa. Il giovane proviene da una famiglia Maga, di religione mormone, totalmente schierata con il trumpismo. Non vi è alcuna traccia, anche lontana di cultura o posizioni politiche in circolazione nella sinistra americana, tra radical, Woke o antifa, come imprudentemente o volutamente era stato diffuso nelle prime ore, spingendo i nostri conigli nazionali, Saviano in testa a fare distinguo e straparlare a sproposito degli anni 70, dimenticando quello che diceva alcuni anni fa. Le foto apparse sui media mondiali mostrano un nucleo familiare che trovava normale recarsi al poligono di tiro e lasciarsi raffigurare con mitragliatrici tra le braccia. Fin da piccolo Tyler Robinson si è addestrato all’uso delle armi, ha imparato a sparare con fucili di precisione anche a lunga distanza, circostanza spiega l’abilità dimostrata nel centrare al primo colpo da circa 200 metri Kirk. Un personaggio che apparentemente detestava perché troppo moderato per i suoi gusti. 
C’è chi lo ha affiliato ai Groypers, una formazione dell’ultra destra, Alt-right, che prese parte all’assalto di Capitol Hill del gennaio 2021, in rotta con l’organizzazione di Kirk, Turning Point, perché in alcune foto era ritratto nella una posa di un pupazzo simbolo di quel movimento.
In attesa di capirne di più, appare forse più probabile che questo background da destra profonda americana si sia fuso col mondo virtuale dei videogame. Le frasi incise sui proiettili, stando a quanto si è potuto leggere, rinviano a codici tipici dei gamer e di alcuni giochi specifici, persino le parole «Bella ciao», inizialmente interpretate come una rivendicazione antifascista, sembrano indicare la familiarità con un gioco, Far Cry 6, ambientato in una dittatura e inserita pure nelle playlist online dei gruppi alt-right. Insomma la realtà appare più complessa di quel che si voleva far apparire all’inizio. 
L’unica cosa certa è che non vi è traccia di alcun progetto politico di sinistra che punti ad una aggressione armata del trumpismo, semmai quel che si osserva nella realtà è il contrario con la creazione di milizie governative dedite alla caccia allo straniero, l’uso della guardia nazionale per accerchiare le città governate dall’opposizione.
Qui in Italia invece si tenta di utilizzare l’episodio per riscrivere la storia della destra fascista e si additano i migranti come il male della società, lasciandoli annegare in mare o provando a rinchiuderli in carceri oltre-confine. Chiami e fotti, odia spara e fai la vittima sono gli ingredienti di un trumpismo maccheronico a cui la Meloni da voce facendo la faccia cattiva.

Un destro che spara sulla destra
Le notizie che giungono dagli Stati uniti ci raccontano tuttavia una situazione molto diversa. Il giovane proviene da una famiglia Maga, di religione mormone, totalmente schierata con il trumpismo. Non vi è alcuna traccia, anche lontana, di cultura o posizioni politiche in circolazione nella sinistra americana, radical, Woke o antifa, come imprudentemente o volutamente era stato diffuso nelle prime ore, spingendo i nostri conigli nazionali, da Saviano in su, a fare distinguo e straparlare a sproposito degli anni 70 (qui un audio di Saviano quando anni fa diceva cose ben diverse sulla lotta armata).
Le foto apparse sui media mondiali mostrano un nucleo familiare che trovava normale recarsi al poligono di tiro e lasciarsi raffigurare con mitragliatrici tra le braccia. Fin da piccolo Tyler Robinson si è addestrato all’uso delle armi, ha imparato a sparare con fucili di precisione anche a lunga distanza, circostanza che spiega l’abilità dimostrata nel centrare Kirk al primo colpo da circa 200 metri. Un personaggio che apparentemente detestava perché troppo moderato per i suoi gusti. 
C’è chi lo ha affiliato ai Groypers, una formazione della Alt-right, l’ultra destra che prese parte all’assalto di Capitol Hill del gennaio 2021, in rotta con l’organizzazione di Kirk, Turning Point, perché in alcune foto era ritratto nella posa di un pupazzo simbolo di quel movimento.

In attesa di capirne di più, ci sembra probabile che questo background da destra profonda americana si sia fuso col mondo virtuale dei videogame. Le frasi incise sui proiettili, stando a quanto si è potuto leggere, rinviano a codici tipici dei gamer e di alcuni giochi specifici, persino le parole «Bella ciao», inizialmente interpretate come una rivendicazione antifascista, sembrano indicare la familiarità con un gioco, Far Cry 6, ambientato in una dittatura e inserita pure nelle playlist online dei gruppi Alt-right. Insomma la realtà appare più complessa di quel che si voleva far apparire all’inizio. 
L’unica cosa certa è che non vi è traccia di alcun progetto politico di sinistra che punti ad una aggressione armata del trumpismo, semmai quel che si osserva nella realtà è il contrario con la creazione di milizie governative dedite alla caccia allo straniero, l’uso della guardia nazionale per accerchiare le città governate dall’opposizione.
Qui in Italia invece i nipotini dello stragismo tentano di utilizzare l’episodio per riscrivere la storia della destra fascista e additano i migranti come il male della società, lasciandoli annegare in mare o provando a rinchiuderli in carceri oltre-confine. Chiagni e fotti, odia, spara e fai la vittima, sono gli ingredienti di un trumpismo maccheronico a cui la Meloni da voce facendo la faccia cattiva.

Bugiardi con la scorta

Saviano usa la parola come strumento di potere non come leva di libertà

Roberto Saviano ha sempre utilizzato la parola come uno strumento di potere mai come una leva di libertà. Lo dimostrano le tante querele da lui intraprese in passato contro persone che la pensavano diversamente da lui o ne criticavano le affermazioni perché inesatte, infondate, approssimative (leggi qui una rassegna delle sue querele). Saviano ha sempre rivendicato per sé quello che nega agli altri, si tratta di una sua caratteristica peculiare derivata dalla presunzione di esser il testimone della verità. Egli è colui che dice il vero, un sorta di nuovo messia venuto a illuminare gli uomini con il suo verbo. C’è chi lo ha descritto in passato come qualcuno che vorrebbe correggere le bozze di Dio e così se Saviano è l’incarnazione del vero, gli altri per forza di cosa sono altro dal vero e chi lo critica e non la pensa come lui un ostacolo alla verità. Dei nemici da abbattere. C’è una intolleranza costitutiva nel modo di porsi, un fanatismo profondo.

Nel gennaio del 2010 sono stato querelato da Roberto Saviano perché su Liberazione avevo scritto che i familiari di Peppino Impastato contestavano la veridicità di una telefonata da lui raccontata in un volume appena pubblicato da Einaudi, La parola contro la camorra (Non c’è verità storica, il centro Peppino Impastato diffida l’ultimo libro di Roberto Saviano). Secondo Saviano la madre di Impastato l’aveva chiamato per incoraggiarlo quando lui era ancora un aspirante scrittore del tutto sconosciuto, molti anni prima del successo di Gomorra e che gli fosse concessa la scorta di polizia. Telefonata che Saviano rappresentava come una sorta di passaggio di testimone che l’avrebbe condotto a prendere il posto di Impastato nell’immaginario collettivo dell’antimafia.

(Fonte https://www.nazioneindiana.com/2004/12/08/felicia/?fbclid=IwA)

I familiari di Impastato obiettavano che la signora Felicietta non avesse telefono e che le chiamate a lei dirette passassero attraverso il figlio Giovanni o la nuora e che di questa telefonata non avevano mai saputo nulla. Saviano avrebbe potuto rivendicare un diritto di replica, Liberazione glielo avrebbe senza dubbio concesso. La querelle era pubblica, c’era stato un comunicato stampa della famiglia. Molto attento a non entrare in polemica diretta con i familiari di Impastato e senza mai chiedere alcun diritto di replica, Saviano querelò invece me. Ero in semilibertà da appena due anni e facevo il giornalista nella redazione di Liberazione. La querela non arrivò mai in giudizio perché prima il pm e poi il gip, nel 2013, mi diedero ragione: avevo fatto correttamente il mio lavoro citando fonti attendibili (Persichetti ha utilizzato fonti attendibili, il gip archivia la querGipela di Saviano contro l’ex-brigatista). Fu uno smacco per lo scrittore che vide così incrinata la sua immagine di testimone della verità.

Saviano mentiva, stavolta lo diceva anche la magistratura. Tuttavia della sentenza non parlò quasi nessuno: un importante giornalista di cronaca giudiziaria mi disse che i grandi quotidiani nazionali non potevano scrivere di una vicenda che dava torto a Saviano e ragione a un brigatista. Fu il web a rompere il silenzio pochi mesi dopo. Il giorno dell’anniversario della morte di Impastato improvvisamente iniziò a circolare la notizia della sentenza che dava torto allo scrittore.

In difficoltà, Saviano tirò fuori sui social una nuova versione dei fatti: non aveva mai ricevuto la telefonata direttamente dalla signora Felicia, come aveva fino ad allora raccontato, ma era stata una sua amica che incontrandola l’aveva chiamato e le aveva passato la donna

(Fonte https://www.facebook.com/RobertoSavianoFanpage/posts/10151452425176864)

Perché non averlo detto prima e raccontato ai giudici? Perché non averlo spiegato direttamente ai familiari di Impastato? A quel punto chiesi pubblicamente a Saviano il nome della sua amica, se ci fossero stati altri testimoni, se l’episodio era avvenuto in strada o in casa di Felicietta?
Da allora sono passati otto anni e Saviano non ha mai risposto. Il testimone del vero tace.

Anche se i giudici alla fine mi avevano dato ragione, cosa molto rara, la vicenda della querela ebbe comunque gravi ripercussioni a livello carcerario. All’arrivo della denuncia venni convocato dalla direzione del carcere che mi chiese copia degli articoli incriminati, ritenuti – dalla responsabile di reparto – fondamentali per una compiuta valutazione dell’osservazione trattamentale. Qualcosa di analogo era già accaduto nel carcere di Viterbo alcuni anni prima, quando il  magistrato di sorveglianza si oppose ai permessi di uscita per un mio libro, Esilio e castigo (Negato un permesso all’ex-br Paolo Persichetti per il libro che ha scritto Permessi all’ex Br? No, se non abiura). Anche se i giudici alla fine mi avevano dato ragione, cosa molto rara, la vicenda della querela ebbe comunque gravi ripercussioni a livello carcerario. All’arrivo della denuncia venni convocato dalla direzione del carcere che mi chiese copia degli articoli incriminati, ritenuti – dalla responsabile di reparto – fondamentali per una compiuta valutazione dell’osservazione trattamentale.
Nel febbraio 2011 non ero ancora a conoscenza del contenuto della querela e quindi degli articoli denunciati (in procura nonostante le ripetute richieste avevano sempre opposto il segreto istruttorio), poiché mi era stato notificato un semplice verbale di elezione di domicilio – di cui avevo fornito copia alla Direzione – nel quale si indicava unicamente il numero di protocollo del procedimento senza altre informazioni. Per giunta la richiesta della responsabile di reparto (se è vero che gli articoli dovevano essere analizzati per redigere l’osservazione scientifica della personalità) aveva una tale portata formale che non era possibile indicare dei testi prima di averne ricevuto comunicazione ufficiale da parte della procura. A ben vedere, dunque, è alla procura che la Direttrice avrebbe dovuto rivolgere la sua richiesta, non certo a me. Di fronte ad una tale oggettiva impossibilità, trattandosi in ogni caso di articoli diffusi nello spazio pubblico, consigliai alla Direttrice di recarsi sul sito web di Liberazione per avere completa visione di tutti i miei testi.Il suggerimento venne recepito come un rifiuto di «rapportarsi correttamente con l’Amministrazione». Ecco come l’episodio venne raccontato nella Relazione di sintesi sulla osservazione della personalità:

«Si è accennato alla diatriba con lo scrittore Roberto Saviano. All’inizio del 2011, come riportato sulla stampa e in internet (che ospita vari articoli al riguardo), si è verificata una schermaglia tra il Persichetti ed il suo editore da una parte, ed il Saviano dall’altra, nascente da affermazioni di quest’ultimo sul caso dell’omicidio di Giuseppe Impastato, affermazioni ritenute dalla controparte false o, quanto meno, superficiali. La vicenda è sfociata nella presentazione di una querela per diffamazione da parte del Saviano nei confronti del Persichetti e del suo editore. La Direzione dell’Istituto ne è stata informata formalmente dalla Polizia di Stato. Il 02.03.2011 il Persichetti, durante un colloquio col Direttore di Reparto riguardante proprio tale vicenda, è stato invitato a produrre gli articoli relativi alla querelle, al fine di avere un quadro della situazione; ha percepito come atteggiamento “censorio” la richiesta formulatagli dal dirigente e per tutta risposta gli ha detto chiaramente che gli scritti sono liberamente accessibili su internet e che non vedeva la necessità di doverli produrre lui. Si è pertanto ritenuto di dover informare dell’accaduto e dell’atteggiamento tenuto dal semilibero il Sig. Magistrato di Sorveglianza».

Per dare luogo a questa considerazione finale:

«La forma mentis del Persichetti lo conduce ad avere talora, un atteggiamento “paritario” (anche se tale aggettivo rischia di acquisire una valenza negativa) nei confronti di un’Amministrazione verso la quale, comunque, egli deve rispondere del proprio comportamento e non trattare da pari: il tutto, ovviamente, nel rispetto del diritti della persona. Talora però nel soggetto pare vi sia una difficoltà a rendersi conto che, a differenza di quanto accade in un rapporto tra persone fisiche, rapportarsi con l’Amministrazione richiede una diversa “dialettica”, fatta – anche obtorto collo – di una puntuale esecuzione delle direttive o anche, delle sole indicazioni fornite dalla stessa e dai suoi operatori». (Fonte La relazione del Got Rebibbia).

Leggi anche L’ex-br persichetti, io querelato da Saviano, gip mi diede ragione

Quando il passato non è mai quello degli altri

Recensioni – alcuni mesi nella lotta armata e oggi ricercatore indipendente, ha appena pubblicato un nuovo libro sul caso Moro che entra a piedi uniti in un dibattito che negli ultimi tempi si è segnalato soprattutto per il riemergere di letture complottiste. A Paolo Persichetti il passato continua a chiedere il conto

Paolo Morando, Domani 24 maggio 2022

Oltre trent’anni fa, nel 1991, è stato condannato in via definitiva a 22 anni e mezzo di carcere per partecipazione a banda armata (le Brigate rosse – Unione dei comunisti combattenti) e concorso morale in omicidio (il generale dell’aeronautica Licio Giorgieri, ucciso in un agguato a Roma il 20 marzo 1987).
Nel frattempo, dopo che in primo grado era stato assolto, era riparato in Francia, come tanti altri ex militanti delle formazioni armate. E a Parigi si era ricostruito una vita come studioso, laureandosi e conseguendo un dottorato in Scienze politiche, fino a insegnare come docente a contratto all’università. A Paolo Persichetti il passato è tornato però a chiedere il conto la sera del 24 agosto 2002, quando la polizia francese lo ha fermato per poi consegnarlo a notte fonda ai colleghi italiani, in un rendez-vous degno dei migliori film di spionaggio: sotto il traforo del Monte Bianco.
Era stato arrestato una prima volta nel 1993, opponendosi però all’estradizione con successo, grazie a un pronunciamento dell’allora presidente francese François Mitterrand, che ha confermato la validità della propria “dottrina”. Persichetti ha terminato di pagare il conto alla giustizia italiana nel 2014, quando è stato scarcerato definitivamente. Ma già dal 2008 era in semilibertà e aveva iniziato a collaborare prima con Liberazione, l’allora quotidiano di Rifondazione comunista, poi con il Manifesto, Il Garantista, Il Rifomista e il Dubbio.

Il lavoro da storico
Si può dire che oggi Persichetti è uno storico di riconosciuto valore? Si dovrebbe poterlo fare, non fosse altro per la sua curatela di una importante Storia delle Brigate rosse in tre volumi (finora è apparso solo il primo). Si può dubitare della sua impostazione di studioso, per forza di cose caratterizzata dalla precedente militanza? Anche questo è possibile, ma senza dimenticare che la ricerca storiografica vive di contrapposizioni, di revisionismi e contro revisionismi (nel senso nobile del termine, sia chiaro), di confronto tra idee. Ma sempre sulla base di documenti. E Persichetti, da questo punto di vista, è un formidabile cane da tartufo: il suo lavoro di studioso lo dimostra.
Il suo ultimo libro “La polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro”, pubblicato in questi giorni da Derive Approdi entra tra l’altro a piedi uniti in un dibattito, quello su via Fani e i 55 giorni dello statista nella “prigione del popolo”, che negli ultimi tempi si è segnalato soprattutto per il riemergere di letture complottiste che da sempre covano sotto la cenere.
E d’altra parte la pubblicistica in materia è sterminata. Il libro di Persichetti è un ottimo strumento per orientarsi con un minimo di cognizione di causa in un quello che è diventato un autentico ginepraio, sulla base di una vulgata sfornita di prove che ormai sembra essersi fatta inespugnabile. Al punto che in una sentenza importante come quella che, tre anni fa, ha condannato all’ergastolo l’ex Nar Gilberto Cavallini per la strage di Bologna, si parla scorrettamente del covo di via Gradoli come della prigione di Aldo Moro. Un mero lapsus dell’estensore, certo, in una sentenza di oltre 2mila pagine altrimenti formidabile, ma è un lapsus che la dice lunga su quanto in questi anni è avvenuto e continua ad avvenire.

Il passato che ritorna
Lo stile di Persichetti, autore di una memorabile inchiesta giornalistica sempre su Bologna (l’incredibile tentativo da destra di addossare la colpa dell’attentato a un giovane di sinistra vittima della bomba, Mauro Di Vittorio, tesi che l’ex brigatista ha contribuito a confutare), è spesso arrembante. E infatti qualche grana gliel’ha procurata. Ad esempio una querela da parte di Roberto Saviano, a cui però il giudice ha dato torto.
Ma il peggio doveva ancora venire. Ed è venuto dal passato, se così si può dire. Come il postino del celebre film, infatti, la giustizia per Persichetti ha suonato due volte: ormai un anno fa, la procura di Roma gli ha sequestrato l’intero archivio, il telefonino, il pc e ogni altro apparecchio elettronico (e pure il “cloud”), nell’ambito di un’inchiesta che lo vedrebbe come “favoreggiatore” di latitanti coinvolti nel sequestro Moro. Ma inizialmente lo si accusava anche di associazione sovversiva con finalità di terrorismo (e il capo di imputazione è stato modificato addirittura cinque volte). Appunto: il passato che non passa.
La vicenda è ampiamente ripercorsa nel suo libro appena uscito, che sfida il mainstream fin dalla prefazione, firmata dalla filosofa Donatella Di Cesare (incorreggibile Persichetti!). E il sequestro citato, guarda caso, ha a che fare con il sequestro Moro. O meglio: con l’ultima (e contestatissima) commissione parlamentare d’inchiesta, ai cui materiali riservati – così la procura – Persichetti avrebbe attinto. La partita giudiziaria è ancora in corso, con lo studioso che da tempo chiede senza successo di poter tornare in possesso di quel materiale: anche perché, al di là della contestazione delle accuse specifiche, la procura si è portata via anche l’intera documentazione sanitaria relativa a suo figlio disabile. E davvero non si capisce che cosa questo possa avere a che fare con un’inchiesta per terrorismo.

L’ultima beffa
Nei giorni scorsi c’è stata una novità, ed è significativo che sia arrivata proprio nei giorni in cui il nuovo lavoro di Persichetti è approdato in libreria: giustizia a orologeria, verrebbe a dire, ma una volta tanto a favore dell’accusato. Sul blog Insorgenze, animato dallo stesso Persichetti, si dava infatti conto (capirete presto il perché del tempo imperfetto) della relazione tecnica richiesta dal gip sul materiale sequestrato.
E si apprendeva che non c’era nulla di riservato, ovvero di materiale dolosamente trafugato e poi diffuso: l’elenco di pdf, immagini, video e quant’altro è certosino e tutto ciò che proveniva in origine dalla commissione Moro Persichetti se lo è procurato utilizzando fonti aperte, soprattutto il sito dell’ex membro della stessa commissione Gero Grassi, per giunta dopo la chiusura dei lavori dell’organismo. E visto che Persichetti sa come va svolto il lavoro di storico, ecco che la relazione glielo riconosceva, attestando come altra grande parte del materiale arrivi dal Fondo Moro depositato all’Archivio centrale dello stato nell’ambito della direttiva Prodi. Che Persichetti ha dunque diligentemente consultato. Visto però che non c’è due senza tre, ecco l’ultima beffa: cioè il gip che in sostanza decide di non dare seguito all’esito della perizia e, invece di disporre la restituzione almeno parziale del materiale sequestrato, rimanda l’intero fascicolo alla procura, azzerando di fatto mesi di battaglia giudiziaria mossa da Persichetti.
Il quale sabato scorso, via Facebook, ha risposto così: “A seguito degli ultimi sviluppi giudiziari legati al sequestro del mio archivio sono venuti meno anche i residuali spazi di agibilità che mi erano rimasti. Allo stato attuale non esiste più lo spazio minimo per svolgere anche il più ridotto lavoro di tipo storiografico e di ricerca. Non esistono più le condizioni obiettive e la serenità che un ricercatore deve sempre avere per condurre con serietà e misura il proprio lavoro. Pertanto sono sospese tutte le presentazioni del libro La polizia della storia che nonostante la situazione e con grande sforzo ero riuscito a portare a termine. Sono sospesi tutti i miei account social e non risulterà più accessibile al pubblico il blog insorgenze.net”.

Uno stratagemma del potere
Tornando al libro, non aspettatevi benzina sul fuoco delle complotterie. Al contrario. Sul caso Moro, ad esempio, Persichetti smonta una diceria di lunga data: la presenza di una moto Honda di grossa cilindrata in via Fani, da sempre smentita da tutti i brigatisti che presero parte al rapimento, presenza invece dimostrata – così si è sempre detto – dal fatto che dai due motociclisti in sella alla Honda partirono raffiche di spari contro il parabrezza di un motorino.
Ebbene, in un verbale del 1994 il possessore di quel motorino raccontò diversamente la dinamica della rottura del proprio parabrezza, che già era tenuto assieme con del nastro adesivo: avvenne per la caduta del mezzo dal cavalletto (che era parcheggiato all’incrocio tra via Fani e via Stresa: lo attesta una foto scovata in rete dallo stesso autore nel 2014) dopo l’agguato brigatista. “Questa foto – scrive Persichetti – metteva definitivamente a tacere la versione dei colpi sparati dalla Honda contro Marini e che avrebbero distrutto il parabrezza, facendo anche crollare la versione della moto con i brigatisti a bordo che avrebbe partecipato al rapimento e di cui il parabrezza infranto sarebbe stata la prova inconfutabile”.
La vis polemica è evidentemente connaturata a Persichetti, visto che si toglie anche lo sfizio di documentare diverse “violazioni” del segreto compiute proprio da componenti della Commissione Moro. Ma il cuore del suo lavoro sta tutto in queste parole: “L’idea che il mondo sia più comprensibile se visto dal buco della serratura di un ufficio dei servizi segreti piuttosto che dai tumulti che attraversano le strade e i luoghi di lavoro è il segno di una malattia della conoscenza. Attraverso la dietrologia si vuole veicolare l’idea che dietro ogni ribellione non c’è l’agire sociale e politico di gruppi umani ma solo un inganno, una forma di captazione, uno stratagemma del potere”.

Roberto Saviano, la nuova figura dello scrittore arruolato

Roberto Saviano, ultima parodia dell’intellettuale impegnato

Paolo Persichetti, Outlet n°4 giugno 2013

02Per Antonio Gramsci erano le «pagliette», dal noto cappello estivo di forma ovale con fondo piatto venuto alla moda negli ambienti della borghesia maschile d’inizio Novecento e consacrato nei dipinti degli impressionisti francesi. L’autore dei quaderni si riferiva ad un particolare ceto di intellettuali che in una delle sue note scritte in carcere dopo la condanna del tribunale speciale fascista non esitava a catalogare come «pennaioli». Personaggi – scriveva – incorporati nelle classi dirigenti meridionali a cui erano stati concessi particolari favori personali, privilegi “giudiziari” o di natura impiegatizia e burocratica. Figure che avevano messo le loro competenze intellettuali al servizio della politica settentrionale di sfruttamento neocoloniale del Mezzogiorno, riducendosi ad un suo accessorio “poliziesco” la cui funzione era quella di presentare il malumore sociale del Meridione come una questione di mera competenza della «sfera di polizia» giudiziaria.

Dimessa la paglietta e aggiornati gli stili vestimentari al look delle popstar, un secolo dopo quel genere di intellettuale, “funzionario del consenso”, non sembra affatto scomparso anche se la sua riproduzione sociale non è più direttamente legata a forme di sottogoverno ma alle strategie di marketing dell’industria editoriale, ai potentati finanziario-editoriali, ad un nuovo e particolare ruolo svolto all’interno degli apparati repressivo-giudiziari dello Stato.

Una delle figure che più si avvicina oggi a questo genere di intellettuale è senza dubbio quella di Roberto Saviano, considerato da alcuni l’autorevole erede del romanzo d’appendice campano, di cui fu caposcuola Francesco Mastriani, prolifico raccontatore napoletano del basso romanticismo, una specie di Eugène Sue partenopeo.

CAMORRA: SENTENZA SPARTACUS, IN AULA ANCHE SAVIANOIl “civismo” di Saviano, infatti, non appartiene alla categoria dell’impegno riassunto nella figura dell’écrivain engagé, ma a quella del volontario che si arruola nella legione militare della scrittura di guerra, che ne fa un author embedded, uno scrittore-soldato che agita l’etica armata, il moralismo in uniforme, l’epica della scorta militare come arma di devastazione di massa dell’intelligenza e della critica. «E’ roba nostra. E’ un patriota, un cazzuto, uno che sa tenere una pistola in pugno, uno che sa sbrigarsela al modo dell’uomo vero», aveva scritto con veemenza Pierangelo Buttafuoco su Libero del 12 maggio 2010. Un’icona perfetta dell’immaginario superomista, della politica come potenza, un vero divulgatore di valori e codici di destra. Buttafuoco non aveva torto, il discorso di Saviano è intriso di postulati d’ordine, ispirato da paradigmi autoritari e purificatori che si coniugano inevitabilmente col verbo legalitario e securitario. Incuriosisce semmai che un autore del genere, legato per giunta alle proprie origini ebraiche, sia tanto irresistibilmente calamitato dal mondo della criminalità organizzata e dalla letteratura antisemita («Come scrittore – spiegò a Panorama il 22 dicembre 2009 – mi sono formato su molti autori riconosciuti della cultura tradizionale e conservatrice, Ernst Jünger, Ezra Pound, Louis Ferdinand Celine, Carl Schmitt. E non mi sogno di rinnegarlo, anzi. Leggo spesso persino Julius Evola, che mi avrebbe considerato un inferiore»), quasi fosse soggiogato dal fascino oscuro e demoniaco del male, attratto da ciò che egli designa come il suo contrario ma rispetto alla quale lascia trasparire una seduzione inconfessabile.

All’inizio, però, l’avventura di Saviano era nata in un altro modo. L’ambizione che muoveva in origine il giovane autore di Gomorra era quella di seguire le orme dell’impegno, declinato tuttavia in una forma che ne preannunciava da subito l’esito: lo spirito di crociata e gli anatemi moralisti preferiti all’esercizio della critica. Elementi caratteristici di una funzione intellettuale che ricorda la categoria degli imprenditori morali, il prototipo dei creatori di norme descritto dal sociologo Howard S. Becker in Outsiders: «opera con un’etica assoluta: ciò che vede è veramente e totalmente malvagio senza nessuna riserva e qualsiasi mezzo per eliminarlo è giustificato. Il crociato è fervente e virtuoso, e spesso si considera più giusto e virtuoso degli altri».

Saviano escogita una tecnica particolare: mostra di mettere in gioco se stesso, presentando la propria figura pubblica come un discrimine tra bene e male. Da una parte la sua probità morale, il suo coraggio civile, la sua denuncia politica, quella che alcuni arriveranno a definire addirittura «parrhesia» (il coraggio di dire la verità, il parlare franco); dall’altra tutti i suoi nemici, di sempre e di turno. Un mondo diviso tra buoni e cattivi, con un linguaggio accusato di nutrirsi di narcisismo mediatico e manicheismo.

Saviano non esita a raccontarsi ad ogni occasione in questo modo, evocando a più riprese Pasolini, di cui annuncia di voler diventare l’erede, recitando in maniera stucchevole «l’io so» e sentendosi in questo modo il verbo incarnato di una nuova verità.

Appena può si appropria dell’immagine dei giornalisti uccisi o perseguitati. Emblematico è il caso di Anna Politkovskaïa, di cui romanza – come troppo spesso gli accade ­– persino le circostanze della morte. Sale sul palcoscenico della difesa della libertà d’informazione e d’espressione, proprio lui che mostra subito di voler usare la parola come una forma di potere sugli altri. Quella parola che fin dal titolo di un suo libro dice di voler utilizzare come strumento per combattere il crimine organizzato, veicolo di libertà che lui sostiene di difendere contro le molte censure; quella parola che distribuisce su tutti i supporti mediatici, a destra e manca degli schieramenti politici, resta legittima solo se da lui pronunciata. La sua parola, intesa come unica parola possibile e che perciò stesso esclude le altre.

Per rafforzare la sua credibilità introduce un nuovo principio di autorità che impiega come una stampella per sorreggere la propria attività pubblicistica, facendo leva sulla postura cristica e l’interpretazione vittimistica del proprio ruolo che in questo modo può garantire sulla verità morale del suo discorso. C’è chi non esita a definirlo per questo un «martire a pagamento», non trovando alcun riscontro le continue “lagne” contro la censura e il timore di rappresaglie.

Ben conscio dell’adagio “chiagne e fotte”, Saviano si mostra un campione del consociativismo mediale. Trasversale e trasformista si adatta ad ogni supporto purché il contratto sia conseguente: pubblica per Mondadori ed Einaudi, editrici belusconiane, poi per Feltrinelli; scrive sull’Espresso e Repubblica, partecipa a format televisivi che seppure vanno in onda sul terzo canale Rai sono prodotti dalla casa di produzione Endemol, anch’essa berlusconiana. Tutto ciò non gli impedisce di offrirsi al pubblico come il campione dell’indignazione permanente, l’interprete autentico e coerente di questo sentimento. Corre a Zuccotti park quando il successo del minuscolo pamphlet di Stephén Hessel ha trasformato in un vezzo mondano il rappresentarsi in questo modo.

Insomma fin da subito Saviano lascia intravedere una cifra conformista, mettendo in mostra un fiuto da bottegaio furbastro, uno spirito codino, l’esatto contrario dell’intelligenza anticipatrice e della coscienza critica.

Tuttavia la maturazione della nuova funzione intellettuale interpretata da Saviano è stata graduale. Chiamato inizialmente a ricoprire il ruolo di amministratore ufficiale della memoria dell’antimafia, entra in conflitto con alcune associazioni storiche come il Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato” e la Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato, che operano sul campo dell’antimafia sociale da decenni. Il contrasto sfocerà in una cocente sconfitta giudiziaria dello scrittore-querelante che vede così minata la propria credibilità letteraria e storiografica. Nel corso delle udienze emergerà un falso macroscopico: nei suoi scritti Saviano raccontava di una telefonata, mai avvenuta, con Felicia Impastato, morta nel frattempo e madre di Peppino trucidato dalla mafia, che l’avrebbe esortato a non mollare. In questo modo, come in una sorta di simbolico passaggio del testimone, Saviano si attribuiva l’eredità morale di Giuseppe Impastato.

Un’altra controversia importante oppone Saviano a Marta Herling, storica e nipote di Benedetto Croce, che aveva duramente contestato la ricostruzione del salvataggio del filosofo napoletano subito dopo il terremoto di Casamicciola, fatta dallo scrittore nel corso di una trasmissione televisiva e poi riprodotta in un libro. Saviano è colto in fallo di fronte all’impiego delle fonti, il suo tallone d’Achille da sempre. Per uno che vorrebbe correggere le bozze di Dio, l’errore è grossolano. La vicenda ripropone ancora una volta l’ambiguità originaria del dispositivo narrativo di Saviano, già contestato in Gomorra, ovvero la pretesa di potersi avvalere del diritto di romanzare, di fare fiction preservando al tempo stesso la credibilità e l’autorità del saggio scientifico. Il tema vero però è quello del rapporto col passato. Per Saviano si tratta di amministrarne il monopolio sottraendosi ai criteri di verifica e confutazione esistenti nella comunità storico-scentifica. Esiste un’altra concezione che ritiene l’approccio al passato un processo, una costruzione plurale che risponde a criteri di verifica pubblica. Per usare dei paradigmi semplificatori: da una parte si propone una verità di tipo orwelliano, come fa Saviano; dall’altra una verità sul modello galileiano.

L’autore campano, sottoposto dall’ottobre 2006 a programma di protezione da parte dell’Arma dei carabinieri, è protagonista di un inarrestabile processo di osmosi con gli apparati inquirenti e d’investigazione che lo ha risucchiato in un gorgo senza fine. Il livello di integrazione, sovrapposizione e identificazione, è tale da averlo trasformarto in una sorta di divulgatore ufficiale, di testimone in presa diretta delle fonti delle procure antimafia e dei corpi specializzati di polizia che operano contro la criminalità organizzata. Situazione che mette a dura prova l’indipendenza critica dello scrittore, ridotto alle sembianze di un organo scrivente sempre più incapace di separarsi dal corpo di cui ormai è parte.

In questo modo Saviano innova la figura del giornalista embedded, introdotta dal Pentagono nel corso della guerra del Golfo del 2003 per controllare alla fonte l’informazione sul conflitto, diventando lo “scrittore arruolato” numero uno delle forze di polizia, degli apparati investigativi e inquirenti sul fronte interno della criminalità organizzata e dei narcotraffici. Basta andare leggere le due pagine di ringraziamenti (441-442) presenti alla fine della sua ultima fatica, Zero, zero, zero, per capire. Qui l’autore è prodigo di riconoscimenti e gratitudine verso:

«L’Arma dei Carabinieri, la Polizia, la Guardia di Finanza, i Ros, i Gico, lo Sco, la Dia e la Dda di Roma, Napoli, Milano, Reggio Calabria, Catanzaro e tutte quelle che qui ho dimenticato, per avermi permesso di studiare, leggere e in alcuni casi vivere le loro inchieste e operazioni: Alga, Box, Caucedo, Crinime-Infinito, Decollo, Decollo bis, Decollo Ter, Decollo Money, Dinero, Dionisio, Due Torri Connection, Flowers 2, Galloway-Tiburon, Golden Jail, Gree Park, Igres, Magna Charta, Maleta 2006, Meta 2010, Notte Bianca, Overloading, Pollicino, Pret à Porter, Puma 2007, Revolution, Solare, Tamanaco, Tiro grosso, Wite 2007, Wite City.
Ringrazio la Dea, l’Fbi, l’Interpol, la Guardia Civil, i Mossos d’Esquadra, Scotland Yard, la Gerndarmerie Nationale francese, la Polícia Civil brasiliana, alcuni membri della Policía Federal messicana, alcuni membri della Policía Nacional de Colombia, alcuni membri della Policija Russa, che mi hanno accompagnato nelle loro inchieste e operazioni: Cabana, Cornestone, Dark Waters, Delfín Blanco, Leyneda, Limpieza, Millennium, Omni Presence, Padrino, Pier Pressure, Processo 8000, Project Colissée, Project Coronado, Russiagate, Reckoning, Relentles, SharQC 2009, Sword, Xcellerator.
Ringrazio tutti i pm, antimafia e non solo, con cui ho studiato e discusso in questi anni. Senza di loro non avrei potuto scoprire molte cose: Ilda Boccassini, Alessandra Dolci, Antonello Ardituro, Federico Cafiero De Raho, Raffaele Cantone, Baltasar Garzón, Nicola Gratteri, Luis Moreno Ocampo, Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino, Franco Roberti, Paolo Storari.
Ringrazio i vertici dell’Arma dei Carabinieri, il Comandante Generale Gallitelli, il Capo della Polizia di Stato Antonio Manganelli, e il Comandante Generale Capolupo della Guardia di Finanza. Ringrazio in particolare il Generale dei Carabinieri Gaetano Maruccia, il Comandante dei Ros Mario Parente, il Generale della GdF Giuseppe Bottillo, che hanno seguito la crescita di questo libro.
[…]
Ringrazio nell’Arma dei Carabinieri coloro che gestiscono la mia vita: il colonnello Gabriele Degrandi, il capitano Giuseppe Picozzi, il capitano Alessandro Faustini».

Layout 1Approfondimenti
Il caso Saviano-impastato

Bugiardi senza gloria

IMG_1454L’inautenticità della testimonianza morale proposta da Saviano nei suoi testi trova una ulteriore conferma nella inconsistenza della rettifica da lui fornita sulle circostanze in cui si sarebbe svolta la presunta telefonata che avrebbe ricevuto da Felicia Impastato, madre di Peppino. Una correzione introdotta a nove anni di distanza dopo le smentite dei familiari e una querela persa. Saviano ammette di aver artefatto il racconto e chiama in causa una ragazza, una sua amica, che avrebbe fatto da intermediaria, senza aggiungere altro. Non dice il nome, non precisa le circostanze. Se vuole essere creduto deve fare qualche sforzo di memoria in più

 
“E così davanti allo specchio di quella che un tempo fu la sua vita, cominciò a sputare tutti i giorni sulla faccia di quel che non era diventato lo scaracchio di ciò che era stato”
Dashiell Hammett

«E’ inutile – diceva don Abbondio – se uno il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare». A leggere certe stizzite pagine di Roberto Saviano (qui) viene subito da pensare che nulla è cambiato da quel dì che Manzoni scrisse i Promessi sposi. Fin dai banchi del liceo ci illudemmo di un’Italia che potesse diventare finalmente leopardiana. E invece con quel suo voler essere don Rodrigo con i più vulnerabili e restare un don Abbondio che si aggira con la scorta dei Bravi davanti ai potenti, Saviano è lì a ricordarci che l’Italia ancora oggi appartiene ai conformisti, mentre quella dei chierici è fatta di allineati, di arruolati, di «pagliette», come li definiva Gramsci con la sua analisi profetica: figure che hanno fatto delle loro competenze intellettuali un «accessorio “poliziesco”, la cui funzione è quella di presentare il malumore sociale del Meridione come una questione di mera competenza della “sfera di polizia” giudiziaria».

9 maggio 2013, il giorno nero di Saviano e la rivincita di Peppino Impastato
Dopo la sonora disfatta giudiziaria subita dalla sua querela contro due miei articoli, di cui uno sul suo scontro con i familiari di Peppino Impastato (qui), Saviano seppur con la coda fra le gambe pensava di essersela comunque cavata grazie alla blindatura costruita attorno alla notizia, censurata da tutti i grandi media e reti televisive. Scrivo censurata perché la notizia non era affatto ignota alle redazioni delle maggiori testate le quali decisero tutte, con pochissime eccezioni (Liberazione online, Il Corriere del mezzogiorno, Filippo Facci su Libero, Radio radicale), di non darne contezza e non commentarla davanti ai loro lettori. Tra «Saviano e il brigatista», anche se una decisione di giustizia dava ragione a quest’ultimo, le redazioni decisero di non raccontare il torto di Saviano. Si doveva stare con lui comunque, anche con le sue bugie, la sua antipatia, la sua arroganza, la sua inautenticità, perché Saviano è il sistema, l’ordine costituito, la norma dominante, non ci si può mettere contro di lui. Come diceva Pascal, «Non riuscendo a fare della ragione una forza, fecero della forza la loro ragione».
Si comprende allora l’illivorita reazione dello scrittore di scorta davanti all’inaspettato successo, dilagato all’improvviso nella rete dopo quattro mesi di silenzio, della bruciante notizia della sua sconfitta. La serenità con cui oggi racconta di averla accolta in gennaio poggiava sull’accerchiamento di quella scomoda informazione, sul silenzio cimiteriale che su di essa sarebbe dovuto cadere grazie alla complicità del sistema mediatico, al conformismo omertoso dell’ambiente, all’enorme influenza del potente gruppo editoriale che gli sta alle spalle, capace di decretare ciò che è vero e ciò che è falso, ciò che è accaduto e ciò che non si deve raccontare.
Non è bastato, come un fiume carsico la notizia inabissata ha scavato un suo cammino, ha trovato la crepa, si è insinuata fino a riemergere in superficie come una sorgente d’acqua, rimbalzando sul web nel giorno dell’anniversario della morte di Peppino Impastato (qui, qui e qui). A quel punto non potendo più ignorarla Saviano è dovuto correre ai ripari. Costretto a dire qualcosa, ha scelto la sua bacheca facebook per tornare sull’episodio (leggi qui) della telefonata fantasma che avrebbe ricevuto dalla madre di Peppino Impastato, per ribadire che quel colloquio telefonico sarebbe realmente avvenuto, nonostante le smentite fornite dal fratello di Peppino, Giovanni, e dalla cognata Felicetta, che gestivano le comunicazioni telefoniche dell’anziana donna.

Una telefonata per entrare nel Pantheon
Perché l’esistenza di questa telefonata rivestiva per Saviano una così grande importanza, tanto da averne fatto la causa di una querela, nonostante nell’articolo messo sotto accusa, che si occupava delle diffida contro Einaudi promossa dai familiari di Impastato (leggi qui), il brano occupasse uno spazio del tutto accessorio, una breve citazione virgolettata di una dichiarazione di Umberto Santino del Centro Impastato, che lo stesso in quei giorni dell’ottobre 2010 aveva ripetuto in altre interviste (qui) mai attaccate da Saviano?
Saviano aveva raccontato l’episodio in uno scritto del 2004 con una ragione ben precisa che lui stesso espone, «come per una sorta di filo che sentivo da lontano legarmi alla battaglia di Peppino Impastato». La veridicità dell’episodio è dunque decisiva per la credibilità e l’autenticità di un personaggio divenuto nel frattempo amministratore ufficiale della memoria dell’antimafia, l’imprenditore morale delle battaglie per la legalità. In caso contrario si sarebbe minata irreparabilmente la sua attendibilità, Saviano si sarebbe trovato fuori dal pantheon nel quale si è era infilato d’ufficio, divenendo così abusivo il passaggio di testimone ideale che lo scambio telefonico con Felicia Impastato avrebbe dovuto legittimare rendendolo l’erede simbolico della storia di Peppino.

Alla ricerca del diversivo, una querela fondata sulla colpa d’autore
Sarebbe interessante capire perché pur sentendosi diffamato Saviano abbia accuratamente evitato di querelare e dunque di affrontare a viso aperto le fonti di quelle affermazioni da lui ritenute false e calunniose, ovvero Umberto Santino, che subito dopo ne ha scritto anche in un libro, Don Vito a Gomorra, editori riuniti 20011, e soprattutto Giovanni Impastato e sua moglie Felicia Vitale, figlio e nuora di Felicia Bartolotta-Impastato.
Nel testo della querela presentata da Saviano si stigmatizzano invece le «usurate formule ideologiche utilizzate da Persichetti», nelle quali – prosegue l’esposto – «sembra di sentire l’eco di un giornalismo aggressivo, figlio di un’epoca fortunatamente chiusasi, ma i cui strascichi ancora avvelenano il presente. L’epoca nella quale molti – “nemici di classe” – trovarono la morte, per mano di coloro i quali (qualcuno li definirebbe “vittime della storia”) ritennero la via della violenza maestra del cambiamento della società. E così, dalle colonne di “Liberazione” Persichetti aggredisce Saviano…», con quella volontà di «vomitare il proprio odio ossessivo ed ossessionato» nei suoi confronti.
Attaccando me, Saviano ha pensato di colpire l’anello debole, il punto ritenuto più vulnerabile, ricorrendo ad un suggestivo parallelo tra la mia storia politica e la successiva odissea giudiziaria, risalenti a 26 anni fa, e il lavoro giornalistico attuale: in modo particolare lì dove – lasciava intendere nella querela – tuttora permarrebbe il dato comune di una pratica di «aggressione» e ricorso alla «violenza» che avrebbe dato corpo ad una sorta di “terrorismo cartaceo”.
L’uso del diversivo tipologico è stato impiegato per svilire e criminalizzare l’esercizio della libertà di critica e la serietà metodologica del mio lavoro. La mia condanna, con relativa revoca della semilibertà, avrebbe inevitabilmente gettato nel discredito i familiari di Impastato e il Centro diretto da Umberto Santino. Quel che si dice un perfetto colpo di sponda nel gioco del biliardo. Solo che Saviano ha steccato la palla, e come Fantozzi ha sgarrato il tappeto verde.
La querela è piena di chicche che la dicono lunga sul fragile retroterra culturale del personaggio, ad esempio quando mostra di non conoscere l’opera di Foucault (leggi qui), il che spiega molto della sua concezione della devianza.

Un racconto inautentico
Nel ribadire che la telefonata c’è veramente stata, Saviano introduce una novità stranamente taciuta per ben nove anni: l’esistenza di una misteriosa (e miracolosa a questo punto) intermediaria che non faceva parte della famiglia Impastato.

«Una ragazza – scrive Saviano – aveva letto i miei articoli e ne aveva parlato alla signora Felicia incontrandola a Cinisi. Le aveva passato me al telefono, all’epoca sconosciutissimo scrittore».

Quasi impaurito da questa sua tardiva rivelazione dai contorni talmente incerti da apparire un fragile escamotage congegnato per non perdere la faccia, Saviano mette subito le mani avanti e precisa:

«Non avevo ancora scritto Gomorra e mandavo come gesto di omaggio gli articoli che scrivevo. Non è detto che ci si ricordi di un ragazzo che scrive di camorra e che nessuno conosce. Appunto, erano anni precedenti al 2004 e Gomorra esce solo nel 2006».

Cosa vuole dire Saviano, che l’anonima fanciulla in questione chiamata a testimonianza della telefonata potrebbe oggi non ricordarsi più dell’episodio?
Saviano, grande frequentatore di materiali giudiziari, iniziato alle fonti investigative, ferquentatore di procure d’ogni risma e luogo, intimo degli apparati di polizia di punta specializzati nelle indagini antimafia, come egli stesso ha riconosciuto recentemente con un gesto d’inattesa trasparenza (leggi qui), sa bene che non può limitarsi a riferire circostanze così generiche e per giunta contraddittorie.
Questa misteriosa fanciulla era di Cinisi o veniva da fuori? E se veniva da fuori che ci faceva a Cinisi? Ha un’identità, un lavoro, una storia, insomma esiste davvero oppure nel frattempo gli è successo qualcosa, ci auguriamo proprio di no! Non vorremmo fosse andata all’estero, in una di quelle lande sperdute dove per una di quelle malaugurate sventure della sorte sia divenuta irrintracciabile, o ancora, avesse incontrato la vocazione per rinchiudersi in un convento di clausura rifuggendo nella contemplazione i clamori del mondo. Per il bene della verità non prendiamo nemmeno in considerazione l’ipotesi che nel frattempo la ragazza abbia potuto sposare un casalese in odor di camorrìa.
Saviano non lo dice, resta vago. In che luogo questa ragazza avrebbe incontrato la signora Felicia, per strada o in casa sua? Ci sono dei testimoni? E perché questa giovane non si è mai fatta avanti di sua sponte? E perché Saviano ha atteso tanto prima di tirarla fuori?
Non lo ha fatto quando scrisse per la prima volta della telefonata (8 dicembre 2004). Non ci ha pensato quando ripubblicò quel testo in una raccolta (giugno 2009). Lo ha omesso nella querela contro di me (12 gennaio 2011). Lo ha dimenticato nella opposizione alla richiesta di archiviazione del pm (24 settembre 2012). Non l’ha menzionata quando si è presentato in aula davanti al gip (15 gennaio 2013). L’ha taciuto quando il gip ha archiviato la sua querela dandogli torto (21 gennaio 2013). Se ne ricorda d’improvviso solo oggi. Perché?
Nel racconto apparso su Nazione Indiana l’8 dicembre del 2004 (qui), poi ripreso in una raccolta di scritti dal titolo La bellezza e l’inferno, uscito come Gomorra presso Mondadori, l’ammiraglia delle case editrici belusconiane, Saviano aveva raccontato in tutt’altro modo le circostanze della telefonata:

«Inviavo a Felicia gli articoli sulla camorra che scrivevo, così, come per una sorta di filo che sentivo da lontano legarmi alla battaglia di Peppino Impastato. Un pomeriggio, in pieno agosto mi arrivò una telefonata: “Roberto? Sono la signora Impastato!
A stento risposi ero imbarazzatissimo, ma lei continuò: “Non dobbiamo dirci niente, dico solo due cose una da madre ed una da donna. Quella da madre è stai attento, quella da donna è stai attento e continua”.»

Oggi Saviano cambia versione, la telefonata non gli arriva più direttamente, come lasciava intendere nel 2009, quando accennava ad una sorta di nesso tra l’invio dei suoi articoli a Felicia e la reazione che questi avrebbero suscitato nell’anziana donna che così l’avrebbe cercato al telefono. Le cose andarono diversamente, dice oggi. Gli articoli li aveva letti la ragazza che poi porge il telefono a Felicia.
Saviano spiega che era sua abitudine inviare in omaggio i suoi articoli ma stavolta non cita più i destinatari, che restano ignoti mentre Felicia scompare. Siamo di fronte ad un passo indietro, ad una rettifica che però aggiunge ancora più dubbi di quanti ve ne fossero in precedenza.
Saviano sa bene che non può lasciare questa storia a metà pensando di cavarsela con una capriola sbilenca. A questo punto o dice tutta la verità per intero, circostanziando in modo esaustivo, credibile e soprattutto verificabile quanto avvenne attorno a quella presunta telefonata, oppure se non è in grado non ha che da chiedere scusa a Giovanni Impastato, Felicia Vitale, Umberto Santino e alla memoria di Felicia Bartolotta. In caso contrario sarà per tutti più che legittimo pensare quel che la fata Turchina disse un giorno a Pinocchio: «Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito! perché ve ne sono di due specie: vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo: la tua per l’appunto è di quelle che hanno il naso lungo».
Quale che sia la verità sulla reale esistenza della intermediaria, Saviano ha già ammesso di aver artefatto l’episodio della telefonata modificandolo in modo da collocarsi al centro degli avvenimenti, lasciando intendere che fosse lui ad avere un rapporto diretto con Felicia e non la ragazza che ha cancellato dal racconto. Una centralità falsa che rende la testimonianza morale della sua narrazione del tutto inautentica.
Di questo passo, caro Saviano, non vorremmo che un giorno ti ritrovassi come quel personaggio di Dashiell Hammett che «davanti allo specchio di quella che un tempo fu la sua vita, cominciò a sputare tutti i giorni sulla faccia di quel che non era diventato lo scaracchio di ciò che era stato».

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La replica del Centro Impastato a Saviano, «è squallido non riconoscere di aver detto cose inesatte e non vere»

Umberto Santino, Presidente del Centro Impastato, risponde a Roberto Saviano che in un intervento postato sulla sua bacheca di facebook (che potete leggere qui) è tornato sull’episodio della telefonata fantasma che avrebbe ricevuto dalla signora Felicia Bartolotta-Impastato, madre di Peppino Impastato, per ribadire che quel colloquio telefonico sarebbe realmente avvenuto, nonostante le smentite fornite dal fratello di Peppino, Giovanni, e dalla cognata Felicetta, che gestivano le comunicazioni telefoniche dell’anziana donna.
Saviano aveva raccontato l’episodio in uno scritto del 2004 con una ragione precisa che lui stesso espone, «come per una sorta di filo che sentivo da lontano legarmi alla battaglia di Peppino Impastato».
La veridicità dell’episodio è dunque decisiva per la credibilità di un personaggio divenuto nel frattempo amministratore ufficiale della memoria dell’antimafia, l’imprenditore morale delle battaglie per la legalità. In caso contrario verrebbe minata irreparabilmente la sua attendibilità, si troverebbe scacciato dal pantheon al quale si è iscritto d’ufficio, divenendo così abusivo il passaggio di testimone ideale che lo scambio telefonico con Felicia Impastato avrebbe legittimato rendendolo l’erede simbolico della storia di Peppino Impastato.
Capite allora che se alla fine diventa legittimo dubitare dell’esistenza di quella telefonata, Robertino si ritova davvero nella merda. Di quelle grosse che non c’è scorta che tenga o blindata che regga

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Scrive Umbero Santino del Centro Impastato a proposito delle ultime esternazioni di Saviano mi limito ad alcune precisazioni:

1. Saviano ribadisce che il film “I cento passi” “aveva giocato un ruolo essenziale, perché l’Autorità giudiziaria desse una risposta definitiva su un caso che ormai ciascuno sentiva vicino. Un film aveva avuto il merito di creare un’urgenza sociale. Un’urgenza giudiziaria”.

Abbiamo già detto che il processo a Vito Palazzolo è cominciato nel marzo del 1999, quello a Gaetano Badalamenti nel gennaio del 2000, il film è andato nelle sale cinematografiche nel settembre del 2000. La Commissione parlamentare antimafia ha costituito il Comitato per indagare sul depistaggio delle indagini per il delitto Impastato nell’ottobre del 1998. Abbiamo pubblicato la relazione nel volume Peppino Impastato, anatomia di un depistaggio, di cui nel 2012 è uscita una nuova edizione. Il film non ha avuto, né poteva avere, nessuna influenza sulla vicenda giudiziaria. Dell’impegno dei familiari, dei compagni di Peppino e del Centro Impastato per la riapertura dell’inchiesta, ben prima del film, aveva parlato il giornalista Francesco Lalicata, durante l’incontro dell’agosto 2009 presso la pizzeria di Giovanni Impastato.

2. Il Centro avrebbe “intimato” a Fazio di ospitare Giovanni Impastato nelle sue trasmissioni, e avrebbe voluto “estorcere… favori di promozione televisiva”. Ci siamo limitati a chiedere la partecipazione di Giovanni per parlare dell’impegno dei familiari, dei compagni di militanza e del Centro per salvare la memoria di Peppino Impastato e per ottenere giustizia. Non aspiravamo, né aspiriamo, a nessuna “promozione televisiva”. Ci basta sapere che abbiamo svolto il nostro lavoro con pieno impegno, anche quando siamo stati isolati da tanti che credevano che Peppino fosse un terrorista e un suicida.

3. Sulla telefonata di Felicia, madre di Peppino, Giovanni e la moglie Felicia hanno dichiarato che quella telefonata non c’è stata. Le loro dichiarazioni hanno avuto un peso decisivo nell’archiviazione della querela. Ora Saviano parla di una ragazza che aveva letto i suoi articoli “e ne aveva parlato alla signora Felicia, incontrandola a Cinisi” e “le aveva passato me al telefono”. Una versione che compare solo ora e che, in ogni caso, è ben diversa da quanto affermato nel libro La bellezza e l’inferno, alla pagina 124: “Un pomeriggio, in pieno agosto, mi arrivò una telefonata…”. Abbiamo parlato della telefonata solo dopo la pubblicazione del libro, poiché prima non ne avevamo notizia.

4. Sui commenti sulla nostra iniziativa mi limito a osservare che squallido è non riconoscere di aver detto cose inesatte e non vere, e non chiedere di ristabilire la verità«.

Umberto Santino, Presidente del Centro Impastato

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Stronzi con la scorta

Scontento perché il figlio non sa sparare, Saviano senior porta il pargolo ad addestrarsi nell’uso della pistola. Soddisfatto della prova gli regala un pallone con la faccia di Maradona. La scena si svolge sul litorale domizio, al Villaggio Coppola dove sorgeva uno dei più grandi mostri d’abusivismo edilizio d’Europa. La spiaggia è un cimitero colmo di spazzatura e vecchie ferraglie arrugginite. Bersaglio due bottiglie di Peroni sul tetto di una 127 bruciata. L’arma è una Beretta 92Fs, versione civile della pistola in uso alle forze di polizia di mezzo mondo che l’autore descrive così: «Era tutta graffiata, sembrava brizzolata, una vecchia signora pistola. Tutti la conoscono come M9 non so perché. La sento sempre citare con questo nome: “Ti metto una M9 tra gli occhi, devo cacciare l’M9? Cavolo, mi devo prendere un M9”. Mio padre mi mise in mano la Beretta. La sentii pesantissima. Il calcio della pistola è ruvido, sembra di carta vetrata, ti si appiccica nel palmo e quando ti sfili la pistola di mano sembra quasi che ti graffi con i suoi microdenti. Mio padre mi indicava come togliere la sicura, armare la pistola, stendere il braccio, chiudere l’occhio destro se il bersaglio era a sinistra e puntare»

Dopo gli spari segue un dialogo in cui si filosofeggia sull’ontologia umana:

“Robbé, cos’è un uomo senza laurea e con la pistola? ”
“Uno stronzo con la pistola.”
“Bravo. Cos’è un uomo con la laurea senza pistola?”
“Uno stronzo con la laurea…”
“Bravo. Cos’è un uomo con la laurea e con la pistola?”
“Un uomo, papà!”
“Bravo, Robertino”

L’episodio è evidenziato da Alessandro Dal Lago a pagina 61 del suo, Eroi di carta, il caso Gomorra e altre epopee, Manifestolibri 2010.
La scena si trova alle pagine 185-187 di Gomorra, Mondandori 2006, prima edizione

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écrit par Paolo Persichetti
(texte traduit par Serge Quadruppani)
(quadruppani.blogspot.fr)

Vous le trouvez partout, dans les endroits les plus inattendus, du fleuriste au marchand de fruits, du kiosque à journaux au bébab, il s’agit d’un contenant de papier qui à l’intérieur abrite des lignes d’encre disposées de manière horizontale, certains insistent pour le définir un “livre” et en effet, de loin, sa forme peut aussi rappeler quelque chose de ce genre, mais quand on s’approche, le trompe-l’oeil est bientôt révélé: ce n’est que de la marchandise reliée, des feuilles pressées et collées, un arbre scié et réduit en pâte, un bout de forêt rasé au sol.
450 pages pour 18 euros. Mais plus que l’ensemble comptent les détails. Par exemple, les deux petites pages 441 et 442, situées dans les remerciements. Ici l’auteur est prodigue de reconnaissances et gratitudes diverses.

«Le corps des carabiniers, la Police, la Garde des Finances, les Ros (corps d’élite des carabiniers, ndt), le Sco (service central opérationnel du ministère de l’intérieur, “superenquêteurs”, ndt), la Dia (direction des enquêtes antimafia ndt), la DDA (direction de district antimafia ndt) de Rome, Naples, Milan, Reggio de Calabre, Catanzaro, et toutes celles que j’ai oubliées, pour m’avoir permis d’étudier, de lire et en certains cas de vivre leurs enquêtes et leurs opérations: Alga, Box, Caucedo, crimine-Infinito, Decollo, Decollo-bis, Decollo-ter, Decollo Mondey, Dinero, Dionisio, Due Torri Connection, Flowers 2 Galloway-Tiburon, Golden Jail, Gree Park, Igres, Magna Charta, Maleta 2006, Meta 2010, Notte Bianca, Overloading, Pollicino, Pret à Porter, Puma 2007, Revolution, Solare, Tamanaco, Tiro grosso, Wite 2007, Wite Cit.
Je remercie la DEA, le FBI, Interpol, la Guardia Civil, les Mossos d’Esquadra, Scotland Yard, la Gendarmerie Nationale française, la Policia civil brésilienne, certains membres de la Policía Federal mexicaine, certains membres de la Policía Nacional de Colombie, certains membres de la Policija russe, qui m’ont accompagné dans leurs enquêtes et opérations: Cabana, Cornestone, Dark Waters, Delfín Blanco, Leyneda, Limpieza, Millennium, Omni Presence, Padrino, Pier Pressure, Processo 8000, Project Colissée, Project Coronado, Russiagate, Reckoning, Relentles, SharQC 2009, Sword, Xcellerator.
Je remercie tous les procureurs, antimafia et autres, avec lesquels j’ai étudié et discuté pendant ces années. Sans eux, je n’aurais jamais pu découvrir beaucoup de choses: Ilda Boccassini, Alessandra Dolci, Antonello Ardituro, Federico Cafiero De Raho, Raffaele Cantone, Baltasar Garzón, Nicola Gratteri, Luis Moreno Ocampo, Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino, Franco Roberti, Paolo Storari.
Je remercie les dirigeants du Corps des Carabiniers, le Commandant général Gallitelli, le Chef de la police d’Etat Antonio Manganelli, et le commandant général Capolupo de la garde des finances.
Je remercie en particulier le Général des Carabiniers Gaetano Maruccia, le Commandant des ROS Mario Parente, le Général de la GDF Giuseppe Botillo, qui ont suivi la croissance de ce livre (…)
Je remercie dans le Corps des Carabiniers ceux qui ont géré ma vie: le colonel Gabriele Degrandi, le capitaine Giuseppe Picozzi, le capitaine Alessandro Faustini».

Eh bien, qu’y a-t-il de nouveau? Il y a bien quelque chose. Ce qui était déjà largement perceptible dans le passé, même si ce n’était encore que sur le mode implicite dans les replis du discours est maintenant exposé de manière transparente: Saviano admet sa nature d’écrivain embedded.

Qu’est qu’un écrivain embedded?
Le terme est devenu d’usage courant en 2003, en février de cette année-là, quand fut introduit dans le nouveau règlement du Département de la défense des USA, diffusé peu avant le déclenchement de la guerre en Irak, une nouvelle figure professionnelle: le journaliste enrôlé par les forces armées d’une nation pour être à leur côté, en première ligne, pour raconter ce qui se passe durant les actions guerrières. Le règlement disait: «ces médias embedded vivront, travailleront, voyageront comme parties des unités dans lesquels ils seront insérés pour faciliter la couverture des actions des forces de combat».
Cette innovation a été transposée dans la plus grande partie des armées mondiales, y compris l’armée italienne. Evidemment, l’intention qui a poussé dans cette voie les états-majors des forces militaires nétait certes pas de devenir démocratiques et transparents mais de réussir de cette manière à gouverner le “Quatrième pouvoir”, en bridant l’information, en la contrôlant et en l’orientant à la source, en souvenir de la guerre du Vietnam perdu politiquement à l’arrière, à l’intérieur des propres frontières des Etats Unis, à cause de la circulation d’images sur la guerre trop anarchiques et libres, qui ne cachaient pas la souffrance de ses mots, les tapis de bombe sur les villes vietnamiennes, les massacres et les violences gratuites infligés à la population civile. Scènes qui avaient mobilisé l’opinion publique étatsunienne et mondiale, créant un fort courant pacifiste.
Tout cela ne devrait plus se répéter. La guerre devait devenir aseptique, propre et éthique, les morts seraient cachés derrière les dénommés “dégâts collatéraux”, le flux et le rythme des informations sélectionné et nettoyé. L’usage des images, de la parole et de l’écriture transformé en un une nouvelle arme stratégique. Pour faire cela, on créerait un nouveau type de soldat: le journaliste embedded.
Saviano renouvelé cette figure professionnelle, devenant l’enrôlé n°1 des forces de police, des appareils d’investigation et d’enquête sur le front interne de la criminalité organisée et des narcotrafics. Une fonction intellectuelle qui appartient à la catégorie particulière des entrepreneurs moraux, au prototype des créateurs de normes, comme les a décrits le sociologue Howard S. Becker dans Outsiders: celui-là «opère avec une éthique absolue: ce qu’il voit est vraiment et totalement mauvais sans aucune réserve et tout moyen pour l’éliminer est justifié. Le croisé est fervent et virtuose, et souvent se considère plus juste et virtuose que les autres».
Le dispositif Saviano avec ses paroles, ses livres, ses prises de position, sa simple présence, légitimées par la posture christique et l’interprétation victimiste de son propre rôle, sert de garantie à la vérité morale, toujours plus distante de la vérité historique. Une machine de guerre médiatique  mise à la totale disposition des entrepreneurs de l’urgence, ds guerriers des batailles judiciaires contre le crtime. Le résultat est une transfiguration de la lutte contre les organisations criminelles qui rend mystique la légalité, édifie une forme d’Etat éthique qui fait de la solution judiciaro-militaire préchée un remède pire que le mal.

Tout cela a toujours été nié par Saviano. Jusqu’à aujourd’hui.
Pour avoir soulevé, en 2010, des questions «sur le rôle d’administrateur de la mémoire de l’antimafia que de puissants groupes éditoriaux ont attribué à Saviano» et souliné «L’inquiétant niveau d’osmose atteint avec les appareils d’enquête et d’investigation, qui l’ont transformé en une espèce de divulgateur officiel des parquets antimafia et de certains corps de police, devrait susciter des questions sur sa fonction intellectuelle et sur sa réelle capacité d’indépendance critique», j’ai été poursuivi en diffamation par Saviano et attaqué par la Direction de la prison (je suis au régime de la semi-liberté).
Par la suite, Saviano a perdu. La plainte a été classée. Peut-être la leçon lui a-t-elle servi. La transparence est toujours une valeur positive, un acte d’honnêteté. Saviano s’est donc décidé à faire un pas en avant sur son propre rôle et sur sa propre fonction intellectuelle mise au service de certains appareils d’Etat.
Voilà, de fait, la liberté est ailleurs.

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Lo trovate dappertutto, nei posti più inattesi, dal fioraio al fruttivendolo, dal giornalaio al kebabbaro, si tratta di un contenitore cartaceo che al suo interno raccoglie righe d’inchiostro disposte in modo orizzontale, alcuni insistono nel definirlo “libro” ed in effetti da lontano la sua forma può anche ricordare qualcosa del genere, ma una volta vicini il trompe l’œil è presto svelato: è solo una merce rilegata, fogli pressati e incollati, un albero segato e ridotto in poltiglia, un pezzo di bosco raso al suolo.

450 pagine per 18 euro. Ma più dell’insieme contano i dettagli. Ad esempio le due paginette, 441 e 442, situate nei ringraziamenti. Qui l’autore è prodigo di riconoscimenti e gratitudine verso:

«L’Arma dei Carabinieri, la Polizia, la Guardia di Finanza, i Ros, i Gico, lo Sco, la Dia e la Dda di Roma, Napoli, Milano, Reggio Calabria, Catanzaro e tutte quelle che qui ho dimenticato, per avermi permesso di studiare, leggere e in alcuni casi vivere le loro inchieste e operazioni: Alga, Box, Caucedo, Crinime-Infinito, Decollo, Decollo bis, Decollo Ter, Decollo Money, Dinero, Dionisio, Due Torri Connection, Flowers 2, Galloway-Tiburon, Golden Jail, Gree Park, Igres, Magna Charta, Maleta 2006, Meta 2010, Notte Bianca, Overloading, Pollicino, Pret à Porter, Puma 2007, Revolution, Solare, Tamanaco, Tiro grosso, Wite 2007, Wite City.
Ringrazio la Dea, l’Fbi, l’Interpol, la Guardia Civil, i Mossos d’Esquadra, Scotland Yard, la Gerndarmerie Nationale francese, la Polícia Civil brasiliana, alcuni membri della Policía Federal messicana, alcuni membri della Policía Nacional de Colombia, alcuni membri della Policija Russa, che mi hanno accompagnato nelle loro inchieste e operazioni: Cabana, Cornestone, Dark Waters, Delfín Blanco, Leyneda, Limpieza, Millennium, Omni Presence, Padrino, Pier Pressure, Processo 8000, Project Colissée, Project Coronado, Russiagate, Reckoning, Relentles, SharQC 2009, Sword, Xcellerator.
Ringrazio tutti i pm, antimafia e non solo, con cui ho studiato e discusso in questi anni. Senza di loro non avrei potuto scoprire molte cose: Ilda Boccassini, Alessandra Dolci, Antonello Ardituro, Federico Cafiero De Raho, Raffaele Cantone, Baltasar Garzón, Nicola Gratteri, Luis Moreno Ocampo, Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino, Franco Roberti, Paolo Storari.
Ringrazio i vertici dell’Arma dei Carabinieri, il Comandante Generale Gallitelli, il Capo della Polizia di Stato Antonio Manganelli, e il Comandante Generale Capolupo della Guardia di Finanza. Ringrazio in particolare il Generale dei Carabinieri Gaetano Maruccia, il Comandante dei Ros Mario Parente, il Generale della GdF Giuseppe Bottillo, che hanno seguito la crescita di questo libro.
[…]
Ringrazio nell’Arma dei Carabinieri coloro che gestiscono la mia vita: il colonnello Gabriele Degrandi, il capitano Giuseppe Picozzi, il capitano Alessandro Faustini».

Zero zero 1

Zero zero 2

E bene, cosa c’è di nuovo? Qualcosa c’è. Quanto era già largamente percettibile in passato, seppur ancora in modo implicito nelle pieghe del discorso, ora è esposto in modo trasparente: Saviano ammette la sua natura di scrittore embedded.

Che cosa è uno scrittore embedded?
Il termine è divenuto d’uso corrente nel 2003 quando nel febbraio di quell’anno venne introdotta dal nuovo regolamento del Dipartimento della Difesa Usa, diffuso poco prima dello scoppio della guerra in Iraq, una nuova figura professionale: il giornalista arruolato dalle forze armate di una nazione per essere al loro fianco, in prima linea, a narrare cosa accade durante le azioni belliche. Il regolamento diceva: «Questi embedded media vivranno, lavoreranno, viaggeranno come parte delle unità in cui saranno inseriti per facilitare la copertura delle azioni delle forze di combattimento».
Questa innovazione è stata recepita dalla stragrande maggioranza degli eserciti mondiali, compreso quello italiano. Ovviamente l’intento che ha mosso gli Stati Maggiori delle forze militari non era certo quello di farsi democratici e trasparenti ma di riuscire in questo modo a governare il “Quarto potere”, imbrigliando l’informazione, controllandola e orientandola alla fonte, memori della guerra del Vietnam persa politicamente nelle retrovie, all’interno delle proprie frontiere a causa della circolazione di immagini sulla guerra troppo libere e anarchiche, che non nascondevano la sofferenza dei propri morti, i bombardamenti a tappeto delle città vietnamite, le stragi e le violenze gratuite inferte alla popolazione civile. Scene che avevano mobilitato l’opinione pubblica statunitense e mondiale creando una forte corrente pacifista.
Tutto ciò non avrebbe più dovuto ripetersi. La guerra doveva diventare asettica, pulita ed etica, i morti andavano nascosti dietro i cosiddetti “danni collaterali”, il flusso e il ritmo delle informazioni selezionato e ripulito. L’uso delle immagini, della parola e della scrittura trasformato in una nuova arma strategica. Per fare ciò andava creato un nuovo tipo di soldato: il giornalista embedded.

Saviano ha innovato ulteriormente questa figura professionale, diventando l’arruolato numero uno delle forze di polizia, degli apparati investigativi e inquirenti sul fronte interno della criminalità organizzata e dei narcotraffici. Una funzione intellettuale che appartiene alla particolare categoria degli imprenditori morali, al prototipo dei creatori di norme, come li ha descritti il sociologo Howard S. Becker che in Outsiders: costui «opera con un’etica assoluta: ciò che vede è veramente e totalmente malvagio senza nessuna riserva e qualsiasi mezzo per eliminarlo è giustificato. Il crociato è fervente e virtuoso, e spesso si considera più giusto e virtuoso degli altri».

Il dispositivo Saviano con le sue parole, i suoi libri, le sue prese di posizione, la sua semplice presenza, legittimate dalla postura cristica e l’interpretazione vittimistica del proprio ruolo, garantisce sulla verità morale, sempre più distante da quella storica. Una macchina da guerra mediatica messa a totale disposizione degli imprenditori delle emergenze, dei guerrieri delle battaglie giudiziarie contro il crimine. Il risultato è una trasfigurazione della lotta contro le organizzazioni criminali che rende mistica la legalità, edifica una forma di Stato etico che fa della soluzione giudiziario-militare predicata una medicina peggiore del male.

Tutto ciò era stato sempre negato da Saviano. Fino ad oggi.
Per aver sollevato, nel 2010, degli interrogativi «sul ruolo di amministratore della memoria dell’antimafia che a Saviano è stato attribuito da potenti gruppi editoriali» e sottolineato «L’inquietante livello di osmosi raggiunto con gli apparati inquirenti e d’investigazione, che l’hanno trasformato in una sorta di divulgatore ufficiale delle procure antimafia e di alcuni corpi di polizia, dovrebbe sollevare domande sulla sua funzione intellettuale e sulla sua reale capacità d’indipendenza critica», (vedi qui), sono stato querelato da Saviano e attaccato dalla Direzione del carcere (sono in regime di semilibertà).

Saviano poi ha perso. Le denuncia è stata archiviata (vedi qui). Forse la lezione gli è servita. La trasparenza è sempre un valore positivo, un atto di onestà. Saviano si è così deciso a fare un passo avanti contribuendo alla chiarezza sul proprio ruolo e sulla propria funzione intellettuale messa la servizio di alcuni apparati dello Stato.


Sull’affaire Impastato-Saviano

Archeologia dell’ignoranza. Se Roberto Saviano ignora Michel Foucault
Saviano débouté d’une plainte contre le quotidien Liberazione
Filippo Facci – Caso Impastato, Saviano perde la causa contro l’ex-br
Liberazione.it – Criticare Saviano è possibile
www.articolo21.org: Archiviata la querela di Roberto Saviano contro il quotidiano Liberazione
“Persichetti ha utilizzato fonti attendibili”, il gip archivia la querela di Saviano contro l’ex brigatista
Filippo Facci – Caso Impastato, Saviano perde la causa contro l’ex-br
Liberazione – Criticare Saviano è possibile
La bugia e la camorra. La madre di Peppino Impastato non parlò con Saviano
Corriere del mezzogiorno – La madre di Peppino Impastato non parlò con Saviano. Persichetti vince la causa
“Non c’è diffamazione”. Per la procura la querela di Saviano contro l’ex brigatista in semilibertà va archiviata
Saviano e il brigatista

I due articoli querelati da Saviano
Non c’è verità storica: il Centro Peppino Impastato diffida l’ultimo libro di Roberto Saviano
Ma dove vuole portarci Saviano?

Per saperne di più
Il paradigma orwelliano impiegato da Roberto Saviano
Attenti, Saviano è di destra, criticarlo serve alla sinistra
Diffida e atto di messa in mora. Rettifica libro “La parola contro la camorra” di Roberto Saviano
Alla destra postfascista Saviano piace da morire

Roberto Saviano è una paglietta: parola di Antonio Gramsci
Saviano le pussy riot e Gioacchino Belli
Arriva il partito della legalità
Michele Serra,“Saviano è di destra ma siccome in Italia non c’è una destra politica rispettabile allora lo ospitiamo a sinistra
Ucciso il sindaco di Pollica: dubbi sulla matrice camorristica
Covergenze paralelle: iniziativa con Saviano e confronto Fini-Veltroni

Ancora su Saviano
La denuncia del settimanale albanes “Saviano copia e pure male”
Occupazione militare dello spazio semantico: Saviano e il suo dispositivo

Il ruolo di Saviano. Considerazioni dopo la partecipazione a “Vieni via con me”
Aldo Grasso: “Vieni via con me un po’ come a messa”
La macchina del fango di Saviano contro i manifestanti del 14 dicembre

Un principio d’autorità vittimaria
Il capo della mobile: “Contro Saviano minacce non riscontrate”
Il capo della Mobile di Napoli: “Vi spiego perché ero contrario alla scorta per Roberto Saviano”

Un uomo di destra
Pg Battista: “Come ragalare un eroe agli avversari. Gli errori della destra nel caso Saviano”
Il razzismo anticinese di Saviano. L’Associna protesta
Buttafuoco, “Saviano agita valori e codici di destra, non regaliamo alla sinistra”

L’eroe di carta
Alessandro Dal Lago:“La sinistra televisiva un berlusconismo senza berlusconi”
Daniele Sepe scrive un rap antiSaviano: “E’ intoccabile più del papa”
Il diritto di criticare l’icona Saviano
La libertà negata di criticare Saviano
Saviano, l’idolo infranto
Pagliuzze, travi ed eroi

Denunce e menzogne
Saviano in difficoltà dopo la polemica su Benedetto Croce
Marta Herling: “Su Croce Saviano inventa storie”
Saviano, prime crepe nel fronte giustizialista che lo sostiene