L’inconfessabile scambio di favori tra Meloni e Milei dietro l’arresto dell’ex brigatista Leonardo Bertulazzi

Dietro l’arresto dell’ex brigatista, oggi settantaduenne, Leonardo Bertulazzi ci sarebbe un patto tra Meloni e MIlei per salvare dalla giustizia argentina un prete italo-argentino coinvolto nei crimini della dittatura sudamericana degli anni 70. Il suo nome è Franco Reverberi, ultraottantenne emigrato giovanissimo in Argentina dove la sua famiglia si trasferì nel secondo dopoguerra in cerca di fortuna.

Il sacerdote assassino che benediva le torture

Nel nuovo continente il giovane Reverberi finì in seminario per poi prendere i voti e diventare parroco di Salto de Las Rosas, una piccola località sotto le Ande. Nel 1976, mentre il ventiquattrenne Bertulazzi lasciava Lotta continua, una formazione della estrema sinistra ormai in crisi per entrare nella nascente colonna genovese della Brigate rosse, don Reverberi, allora trentanovenne, sulla scia del golpe militare guidato dal generale Jorge Videla diventava cappellano militare, ausiliare dell’VIII squadra di esplorazione alpina di San Rafael.
Nel 1980 – recitano le accuse della giustizia argentina – iniziò a frequentare il centro di detenzione clandestina “La Departamental”, una delle strutture utilizzate dal regime dittatoriale nell’ambito del “Piano Condor”. Un progetto di sterminio delle opposizioni politiche contro le dittature, portato avanti a colpi di arresti, sparizioni, torture di massa e omicidi dei militanti della sinistra rivoluzionaria, peronisti e radicali (almeno duemila le persone uccise e trentamila quelle scomparse, i cosiddetti desaparecidos). L’operazione concordata tra le dittature fasciste del Sud America (Cile, Argentina, Brasile, Bolivia, Paraguay e Perù) aveva la supervisione della Cia. Reverberi è stato accusato di aver partecipato nel 1976 al sequestro, seguito da torture e omicidio, di un giovane peronista, Josè Guillermo Beron. Secondo le testimonianze rilasciate da diversi sopravvissuti ai centri di detenzione della dittatura, il sacerdote era solito frequentare le stanze delle torture per assistere agli interrogatori leggendo passi della bibbia e invitando i seviziati a collaborare con i propri torturatori, perché questo sarebbe stato il volere di Dio. Finita la dittatura Reverberi riuscì a farsi dimenticare continuando a dire messa. Soltanto nel 2010 emersero le sue prime responsabilità, ma il prete fece in tempo a riparare in Italia per tornare a dire messa nella sua parrocchia natale, Sorbolo, un paesino in provincia di Parma, ospite di don Giuseppe Montali

Due pesi e due misure
Raggiunto da una prima richiesta di estradizione, nel 2013 la magistratura italiana respingeva la domanda poiché non emergevano con nitidezza responsabilità dirette del sacerdote. Nell’ottobre 2023 tuttavia la cassazione confermava l’avviso favorevole a una nuova richiesta di estradizione, formulato in precedenza dalla corte d’appello di Bologna, che stavolta conteneva prove nuove sul suo coinvolgimento nella morte del giovane Beron e le torture inferte a nove detenuti. Secondo la cassazione i reati commessi da Reverberi si inserivano in «un sistema seriale di torture, catalogabili come crimini contro l’umanità, posti in essere nei confronti di dissidenti politici del regime militare allora al potere in Argentina, effettuate all’interno di una struttura penitenziaria adibita allo scopo e all’interno della quale vi era l’odierno estradando che svolgeva le funzioni di cappellano militare e che si assume avesse favorito l’operato dei militari».
Ancora una volta però Reverberi riusciva a cavarsela: nel novembre dello stesso anno, infatti, sale alla presidenza della repubblica argentina l’esponente dell’ultradestra Javier Milei. Così nel gennaio 2024, il ministro della giustizia del governo Meloni, Carlo Nordio, a cui spettava la decisione finale, non concedeva l’estradizione del prete torturatore, a causa dell’età avanzata (86 anni) e del suo precario stato di salute. Una decisione solo in apparenza garantista, per altro in netto contrasto con l’attività persecutoria promossa dal governo italiano nei confronti di Leonardo Bertulazzi, condannato (leggi qui) – a differenza di Reverberi – solo per reati associativi e per il sequestro dell’armatore Pietro Costa, sulla base dei de relato di due pentiti che non avevano partecipato al fatto, anzi uno dei due non era ancora entrato nelle Brigate rosse quando avvenne.

Il patto dei Bravi
I fatti appena elencati mostrano come la decisione di Nordio sia stata frutto di un accordo politico sancito dal caloroso tête-à-tête che Meloni e Milei hanno offerto ai fotografi durante le giornate del G7, tenutesi in Puglia lo scorso giugno 2024. Concessa l’immunità al torturatore Reverberi, come auspicato da Milei, la premier Meloni ha ricevuto in dono la cattura di Leonardo Bertulazzi in aperta violazione del ne bis in idem. La magistratura argentina, infatti, aveva già respinto la domanda di estradizione inviata nel 2002 perché incompatibile con il proprio ordinamento giudiziario, all’interno del quale non si prevede la possibilità di comminare condanne definitive in contumacia. Dopo questa decisione Bertulazzi aveva ottenuto nel 2004 lo status di rifugiato politico. Asilo improvvisamente revocato il giorno del suo nuovo arresto, il 24 agosto 2024, con un atto di puro arbitrio privo di qualsiasi fondamento giuridico. In questi giorni sulla stampa argentina sono emersi i primi retroscena di questa decisione. Secondo Tiempo argentino Luciana Litterio, fresca di nomina alla testa della commissione nazionale per i rifugiati (Conare), su designazione del ministro dell’Interno del governo Milei, avrebbe «ricevuto una chiamata che l’ha messa tra l’incudine e il martello. Il presidente della Repubblica, Javier Milei, gli ha chiesto, o forse gli ha ordinato, di revocare immediatamente lo status di rifugiato a Leonardo Bertulazzi». La nuova responsabile del Conare si sarebbe ritrovata con le spalle al muro – prosegue sempre il quotidiano argentino: «Litterio aveva due opzioni: ignorare la richiesta, rispettando così i patti internazionali firmati dal Paese e onorando il suo passato di accademica specializzata in rifugiati e migrazioni internazionali, con una carriera di 16 anni come responsabile degli affari internazionali presso la Direzione nazionale delle migrazioni. – carica per la quale fu nominata durante il primo mandato di Cristina Fernández e confermata da tutti i governi successivi –, o rispettare l’ordine presidenziale, gettando a mare la sua carriera e il suo prevedibile passaggio a un posto dirigenziale presso l’Unhcr o a un posto diplomatico nelle Nazioni unite».

Una nuova caccia mondiale ai comunisti
La mancata estradizione di don Reverberi e il riarresto di Bertulazzi, nonostante l’asilo politico concesso, mostrano che nelle due vicende sono stati applicati registri diversi, privi di qualunque standard giuridico, ispirati solo da un feroce revanscismo anticomunista e dalla volontà di proteggere feroci criminali delle dittature sudamericane. A riprova di questo fatto ci sono le dichiarazioni rilasciate al Sussidiario.net dall’attuale capo di gabinetto del ministero della Sicurezza che ha coordinato l’arresto di Bertulazzi nella sua abitazione argentina, pochi minuti dopo la revoca dell’asilo politico. Secondo Carlos Manfroni, «il ministero della Sicurezza, che ha a capo Patricia Bullrich, ha preso la decisione di non proteggere più gli ex terroristi [comunisti rivoluzionari degli anni 70 ndr] dall’estradizione. Rispetto invece ai terroristi argentini [gli oppositori antifascisti della dittatura ndr], che hanno commesso crimini aberranti nella decade degli anni 70», Manfroni si rammarica del fatto che «sfortunatamente la Corte [argentina ndr] in quegli anni decise che le loro azioni criminali erano cadute in prescrizione e che non si trattava di delitti ascrivibili alla lesa umanità. Un criterio sul quale non sono d’accordo ma che al momento impedisce di incarcerarli».

I crimini del potere e quelli degli insorti
Manfroni cita la giurisprudenza che la magistratura argentina ha prodotto negli anni della transizione postdittatura, secondo la quale i reati commessi dagli oppositori alla dittatura militare sono di fatto prescritti, a causa dei decenni trascorsi, mentre i crimini del potere dittatoriale (omicidi, torture e sparizioni), la cosiddetta «guerra sucia», commessi da membri del regime militare, restano tuttora perseguibili perché ritenuti crimini contro l’umanità, per questo imprescrittibili. Una giurisprudenza avanzatissima che, riprendendo i principi del diritto di resistenza, distingue tra violenza frutto della oppressione del potere statale e violenza dal basso commessa dagli insorti. 
A conclusione della sua intervista, Carlos Manfroni rivela anche la strategia concordata tra Milei e Meloni per giungere alla estradizione di Bertulazzi: «nel 2004 – spiega – l’ex Br non venne estradato perché in Italia era stato condannato in sua assenza. Ma secondo il trattato di estradizione tra Argentina e Italia, se l’Italia è pronta ad offrire un nuovo processo invece di usare la vecchia sentenza, Bertulazzi si può estradare e credo che questo, alla fine, sarà lo strumento che verrà usato». Tuttavia in Italia non esiste nessuna norma che preveda un nuovo processo dopo che è stata emessa una sentenza definitiva.

L’esperienza francese

Un precedente recente e significativo che si è scontrato contro questo limite insormontabile riguarda il rifiuto della magistratura francese di estradare dieci ex militanti della sinistra armata italiana degli anni 70. Le corti francesi hanno preso atto della impossibilità da parte italiana di garantire un nuovo processo per chi è stato condannato in contumacia e per questo hanno negato le estradizioni richiamando il mancato rispetto della regola del giusto processo, indicato nell’art. 6 della convenzione europea dei diritti umani. A cui hanno aggiunto anche l’esigenza di tutelare i diritti acquisiti (art. 8) nel corso della pluridecennale permanenza sul suolo francese (ovvero le innumerevoli decisioni giudiziarie, politiche e amministrative pronunciate nel tempo dalla autorità francesi). Precedente giuridico che i giudici argentini chiamati a giudicare il caso Bertulazzi non potranno certo ignorare.

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Bertulazzi era in carcere nel 1978 ma per estradarlo lo accusano di aver partecipato al sequestro Moro

Leonardo Bertulazzi, l’ex brigatista a cui nei giorni scorsi il governo argentino sotto la guida del nuovo presidente di estrema destra Javier Milei ha revocato l’asilo politico, concesso nel 2004 dalla commissione nazionale per i rifugiati, è stato accusato di aver avuto un ruolo nella «logistica del rapimento Moro» e di aver avuto una funzione di «alto rango all’interno dell’organizzazione», nonostante nel 1978 fosse in carcere da almeno un anno. E’ quanto ha scritto il ministero della sicurezza argentino nel suo comunicato ufficiale, imbeccato dai vertici della Direzione centrale della polizia di prevenzione e dagli altri uffici di polizia che hanno coordinato questa nuova operazione di fine estate. Una gigantesca bufala confezionata per impressionare l’opinione pubblica e la magistratura argentina e rafforzare l’inconsistenza giuridica della loro bravata, gonfiando a dismisura il ruolo e la biografia politica di Bertulazzi all’interno delle Brigate rosse di fine anni Settanta. 


Il falso sillogismo
E’ noto che la base di via Montalcini 8, a Roma, nella quale fu custodito Moro durante i 55 giorni del sequestro, venne acquistata da Laura Braghetti (e per questo condannata all’ergastolo) con una parte della somma del sequestro Costa. Ergo, siccome Bertulazzi è stato condannato a 15 anni di carcere per complicità – del tutto marginali – nel sequestro dell’armatore genovese, se ne deve concludere che lo stesso ha acquistato per conto delle Brigate rosse quella base e quindi ha avuto un ruolo nel sequestro. Più o meno è stato questo il falso sillogismo abilmente insinuato nei comunicati ufficiali che hanno portato la stampa e i vari siti d’informazione, ormai in mano a persone professionalmente disinformate, a replicare una simile castroneria. E’ bastata una velina per cancellare evidenze processuali e storiche stratificate da decenni.

La compagnia di giro Mollicone, Calabrò, Fioroni
Fake ripreso da tutti i giornali oltre che da una comica dichiarazione del responsabile cultura (e che cultura!) di Fratelli d’Italia, il parlamentare Federico Mollicone, citando un libro di Maria Antonietta Calabrò e Giuseppe Fioroni (ex presidente della seconda commissione Moro), ha affermato che l’arresto di Bertulazzi può portare a «nuove evidenze nell’indagare sull’esatta ubicazione di Moro durante il sequestro». Per farla breve, secondo il Mollicone-Calabrò-Fioroni pensiero, Moro sarebbe stato trattenuto «in un box di Corso Vittorio 42, che era nelle disponibilità della residenza diplomatica dell’allora Ambasciatore del Cile presso la Santa Sede», per intenderci un diplomatico del dittatore Pinochet.
Le evidenze storiche, oltre che le sentenze sulla base delle quali sono stati comminati decine di ergastoli e secoli di carcere, ci dicono invece che i soldi del sequestro dell’armatore Costa furono redistribuiti equamente tra le varie colonne brigatiste. La colonna romana, che agli inizi del 1977 era in fase di costruzione, approfittò della sua quota per acquistare tre appartamenti: uno in via Paolombini, l’altro via Albornoz e l’ultimo in via Montalcini. L’abitazione di via Palombini cadde nel maggio 1978 dopo la cattura e le torture inferte a Enrico Triaca, che gestiva la tipografia di via Pio Foà; via Albornoz non venne mai utilizzata perché solo dopo l’acquisto si scoprì che nello stesso pianerottolo abitava un carabiniere, quindi fu rivenduta; via Montalcini fu ceduta dopo il sequestro Moro. A questo intricato giro di acquisizioni e vendite immobiliari Bertulazzi, ovviamente, era totalmente estraneo.

Nel 1978 era in carcere
Nulla c’entrava per due ragioni: la prima perché non faceva parte della colonna romana ma di quella genovese, all’interno della quale, da semplice irregolare, non ha mai rivestito ruoli di vertice o dirigenziali. Proveniente dal Lotta continua entrò a far parte delle Br genovesi nel 1976 per restarvi poco tempo perché – e qui veniamo alla seconda ragione – nell’estate del 1977 sugli scogli di Vesima, nell’estremo occidente genovese, rimase gravemente ustionato alle mani e al viso mentre armeggiava con del materiale incendiario. Dall’ospedale lo condussero direttamente in prigione dove restò per scontare una condanna di due anni. Durante il sequestro Moro, Bertulazzi era detenuto. Questa è la verità.

Duramente sanzionato nonostante il ruolo marginale
Scarcerato nel 1979 dopo un periodo di congelamento fu reintegrato nell’organizzazione fino al disastro del settembre 1980, quando incappò con due suoi compagni in un posto di blocco da dove riuscì a fuggire. Condannato a 15 anni di reclusione in contumacia per un presunto ruolo marginale nel sequestro Costa, attribuitogli da un pentito, e poi a 19 anni per i reati associativi, Bertulazzi è stato duramente sanzionato dalla giustizia genovese perché era latitante. Una volta cumulate le condanne con la continuazione la pena finale si è cristallizzata a 27 anni di reclusione. Una enormità per un irregolare che non ha mai sparato un colpo di pistola. Pena ampiamente estinta in un qualunque altro paese d’Europa ma in Italia è bastato un cavillo tecnico per inficiare il tempo trascorso e ripartire d’accapo con il conteggio. E così a quarantotto anni dopo arriva la nuova richiesta di estradizione già rifiutata nel 2002 per la contumacia, non contemplata nel sistema giudiziario argentino. Per questo raccontarla sempre più grossa, dopo cinquant’anni, resta l’unica risorsa che il governo e le autorità di polizia italiano hanno per riavere indietro questi esuli di un tempo che non c’è più.

Un accordo tra governi fascisti dietro l’arresto dell’ex brigatista Leonardo Bertulazzi in Argentina

Nella serata del del 29 agosto 2024 i siti d’informazione hanno diffuso la notizia del nuovo arresto a Buenos Aires (nel pomeriggio ora locale) di Leonardo Bertulazzi, un cittadino italiano oggi settantaduenne, ex appartenente alla colonna genovese delle Brigate rosse che nel 2004 aveva ottenuto lo statuto di rifugiato politico dalla Commissione nazionale per i rifugiati (Conare).
In un comunicato le autorità governative argentine hanno affermato che Bertulazzi è stato arrestato dopo che risoluzione del Conare era stata revocata dalle autorità del governo nazionale in presenza di una nuova richiesta di arresto formulata dal governo di Giorgia Meloni.


Nel 2002 un giudice federale respinge la domanda di estradizione
Nel novembre 2002 Bertulazzi era stato raggiunto da una richiesta di estradizione da parte del governo italiano per una condanna a 27 anni di reclusione, a seguito di un cumulo giudiziale che sommava la banda armata, l’associazione sovversiva e la complicità nel sequestro dell’armatore Pietro Costa, realizzato dalle Brigate rosse nel gennaio del 1977. Dopo sette mesi di detenzione il giudice federale Maria Romilda Servini de Cubria emise una sentenza di rigetto perché il processo e la condanna erano avvenuti in «contumacia», possibilità non prevista dalle leggi procedurali argentine.
Il magistrato, ritenendo che in questo modo l’esule italiano non avrebbe potuto esercitare il suo diritto costituzionale di difesa una volta estradato, ne ordinò la liberazione. Successivamente, come abbiamo visto, Berlulazzi avviò la procedura per il riconoscimento dello statuto di rifugiato politico.

L’estinzione prima riconosciuta poi annullata
Nel 2018, trascorsi 30 anni dalla momento in cui la sua condanna era diventata definitiva, il suo legale presentò davanti alla corte d’appello di Genova istanza per il riconoscimento della estinzione della pena, come previsto dall’articolo 172 del codice penale. La corte accolse la richiesta ma nel maggio dello stesso anno la cassazione annullò la decisione, facendo valere un cavillo tecnico-giuridico che imponeva il ricalcolo dei tempi di estinzione della pena a partire dal nuovo arresto del 2002: «Essendo perdurata la latitanza del Bertulazzi dopo la scarcerazione — hanno scritto i giudici nel loro provvedimento —, e rappresentando l’arresto eseguito (in forza di una procedura di estradizione sulla cui legittimità nulla è mai stato contestato dalla difesa del condannato) la manifestazione del concreto interesse dello Stato ad eseguire la pena, il decorso dei termini di prescrizione è iniziato ex novo».
Nel frattempo da quel primo arresto sono trascorsi altri 22 anni e parte delle condanne inflittegli, quelle relative ai reati associativi, sono andate nuovamente prescritte.

Il comunicato del governo argentino

In un comunicato ufficiale emesso dal governo argentino si esplicitano le ragioni che hanno portato alla cancellazione dello status di rifugiato: «Questo arresto riflette l’impegno dell’Argentina a favore dei valori della democrazia e dello stato di diritto (sic!) ed espone al mondo la ferma decisione del presidente Javier Milei di non convivere con l’impunità della sinistra. Si tratta di un passo fondamentale affinché le istituzioni destinate a proteggere le persone in situazioni vulnerabili non vengano prese indebitamente dai terroristi che minacciano la pace e la democrazia».
Al di là delle affermazioni di Milei, l’estradizione di Bertulazzi non sarà una cosa scontata e semplice anche se la magistratura ha per ora confermato lo stato di arresto.

«Posizione giuridica mutata»
A pronunciare la convalida, secondo un’agenzia dell’Ansa, sarebbe stato lo stesso giudice che nel 2003 aveva respinto la richiesta di estradizione italiana perché a suo avviso la posizione giuridica di Bertulazzi sarebbe mutata rispetto al 2003. Stando a quanto riportato da alcune fonti giornalistiche argentine, secondo il magistrato le richiesta di estinzione della pena presentata nel 2018 avrebbe comportato un riconoscimento della sentenza di condanna. Sempre secondo l’Ansa, l’Italia ora avrebbe 45 giorni per formalizzare la richiesta di estradizione e Bertolazzi la possibilità di ricorrere contro la decisione che ha cancellato il suo status di rifugiato politico oltre che opporsi alla procedura di estradizione una volta avviata.
Conosceremo meglio nelle prossime settimane i contenuti giuridici di questa nuova richiesta e in che maniera l’Italia cercherà di aggirare la palese violazione del principio del ne bis in idem. Una procedura di estrazione c’è già stata ed è stata respinta: a che titolo se ne chiede una nuova? Il timore è che le autorità argentine vogliano fare strame delle procedure e delle leggi internazionali e magari espellere Bertulazzi in un paese vicino che poi lo consegnerebbe, come avvenuto in altri casi, alla polizia italiana. Sono anni ormai che l’Italia ogni qual volta affronta battaglie estradizionali riceve solo sonori schiaffi, ragion per cui si è specializzata nelle consegne speciali.

Governi gemelli e nostalgia del piano Condor


Offrendo la testa di Bertulazzi su un piatto d’argento alla sua amica e gemella politica Giorgia Meloni, il governo del fascista Milei sembra intenzionato a condurre una guerra ideologica contro i simboli della sinistra. All’epoca del suo primo arresto Bertulazzi aveva ottenuto il sostegno della madri della plaza de Mayo.
I toni da crociata impiegati nel comunicato ufficiale del ministero della sicurezza sono abbastanza espliciti: si afferma che Leonardo Bertulazzi «è uno dei terroristi latitanti più ricercati dalla giustizia europea […] Ex membro del gruppo terroristico marxista-leninista italiano Brigate Rosse, Bertulazzi è responsabile di crimini atroci che hanno minacciato i valori democratici e la vita di molteplici vittime. Questa organizzazione terroristica è stata responsabile di numerosi atti di violenza in Italia negli anni ’70 e ’80». Insomma le accuse si fanno generiche e ideologiche, la responsabilità penale è personale e non risultano crimini di sangue imputati a Bertulazzi, condannato per complicità nel sequestro Costa sulla base delle dichiaraioni di un pentito quando era già fuori dall’Italia.
Milei, vuole forse far dimenticare gli anni in cui nel suo Paese trovavano ospitalità i peggiori criminali nazisti, si lanciavano in mare i corpi vivi degli oppositori di sinistra ed era in vigore il piano Condor, ovvero la liquidazione di tutti gli oppositori dei vari regimi militari fascisti Sud americani.

La bufala congeniata per favorire l’arresto
Sempre nella dichiarazione governativa si diffonde un falso storico clamoroso, ovvero un presunto ruolo di Berlulazzi nella «logistica del rapimento Moro» e una sua funzione di «alto rango all’interno dell’organizzazione». Evidentemente le autorità di polizia italiane non hanno correttamente informato i loro omologhi argentini: Bertulazzi era un irregolare che non ha mai avuto ruoli di vertice nella colonna genovese e ai tempi del sequestro Moro era detenuto a causa di un incidente incorso nell’estate del 1977 sugli scogli di Vesima, nell’estremo occidente genovese, dove rimase gravemente ustionato alle mani e al viso mentre armeggiava con del materiale incendiario. Nulla c’entra o poteva sapere del sequestro Moro per altro realizzato dalla colonna romana. I soldi del sequestro Costa erano stati redistribuiti equamente tra tutte le colonne brigatiste: la colonna romana, ancora in fase di costituzione, approfittò della sua quota del sequestro per acquistare tre appartamenti situati in via Paolombini, via Albornoz e via Montalcini, dove fu tenuto nascosto Moro nei 55 giorni del sequestro.
Bertulazzi, che entrò nella colonna genovese nel 1976 dopo aver militato in Lotta continua, ha militato complessivamente per una anno nelle Brigate rosse prima di finire in carcere e scontare una condanna di due anni. Scarcerato nel 1979 dopo un periodo di congelamento fu reintegrato nell’organizzazione fino al disastro del settembre 1980, quando incappò con due suoi compagni in un posto di blocco: Bertulazzi riuscì a fuggire e i due suoi due compagni furono arrestati. La direzione centrale della polizia di prevenzione per ottenere il favore del governo argentino deve aver giocato la carta di un suo coinvlgimento nella vicenda Moro, ormai impiegata come un passe-partout, res nullius che chiunque può evocare a sproposito come un qualunque Federico Mollicone di turno.

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Per le persone con disabilità studiare non è più un diritto ma una eventualità di bilancio

Una recente sentenza del Consiglio di Stato (1798/2024) ha respinto il ricorso presentato dai genitori di un ragazzo disabile a cui erano state attribuite un numero di ore di sostegno scolastico inferiori a quelle indicate dai docenti della sua scuola e dagli operatori che si occupano della sua assistenza e riabilitazione.

Ritorna l’esclusione

Il «Pei», piano educativo individualizzato, finalizzato a fornire un supporto personalizzato per l’apprendimento e lo sviluppo di ciascun studente sulla base delle proprie specifiche esigenze e capacità, prevedeva 13 ore invece delle 7 concesse dal comune dove il giovane risiede.
Secondo i giudici amministrativi le indicazioni contenute nel Pei non avrebbero valore vincolante ma solo orientativo, lasciando così l’ultima parola alla burocrazia amministrativa. Una affermazione pericolosa e in contrasto con tutta la giurisprudenza precedente e i pronunciamenti della Corte costituzionale e che di fatto sottomette il diritto allo studio per i minori disabili ai vincoli economici delle amministrazioni locali.

Una distinzione fuorviante
Con una interpretazione capziosa l’Alta corte amministrativa ha distinto l’assistenza didattica fornita direttamente dall’istituzione scolastica, attraverso l’insegnante di sostegno, dall’assistenza all’autonomia e alla comunicazione, fornita per legge dai comuni e dalle regioni e che è parte integrante del diritto allo studio. 
Per intenderci: se vengono meno alcuni servizi essenziali come la possibilità di accompagnare l’alunno con lo scuolabus, oppure l’assistenza diretta alla persona (accompagnarlo in bagno, assisterlo alla mensa ecc), o peggio l’assistenza alla comunicazione fornita da docenti specializzati in Lis e Caa, fondamentali per l’apprendimento e la comunicazione con il resto della classe e i docenti, viene leso il diritto fondamentale alla inclusione scolastica e alla efficacia dell’insegnamento didattico specializzato fornito dagli stessi insegnanti di sostegno che il più delle volte non sono formati a questi linguaggi.

«L’accomodamento ragionevole» e il suo rovescio
I giudici non hanno minimamente indagato se le ragioni di bilancio addotte del piccolo comune della Emilia Romagna per ridurre le ore di assistenza fossero realmente fondate, ha preferito invece introdurre una interpretazione gravemente discriminatoria del diritto all’istruzione per i disabili con argomenti che hanno una significato generale-astratto dalle ripercussioni nefaste. 
La sentenza, infatti, fonda la propria decisione sul ribaltamento del concetto di «accomodamento ragionevole», nozione formulata nella dottrina giuridica nordamericana, Civil Rights Act.
L’accomodamento o soluzione ragionevole venne formulato negli Stati Uniti quale riconoscimento giuridico dell’obbligo per i datori di lavoro di favorire le pratiche religiose dei dipendenti, a condizione che ciò non comportasse gravi disagi all’attività lavorativa. Si è poi diffuso all’ambito della disabilità con il Rehabilitation Act e l’American with Disabilities Act e in Canada con il Canadian Charter of rights and freedoms. Largamente impiegato per facilitare l’inclusione delle persone disabili nel mondo del lavoro, quindi in caso di persone adulte, l’accomodamento ragionevole è inteso come soluzione finalizzata a compensare le misure di inclusione lì dove la normativa è carente.
In sostanza si tratta di un principio di incentivazione all’inclusione, recepito nella Direttiva 2000/78/CE e poi confluito all’interno della Convenzione Onu sui Diritti delle Persone con Disabilità (2006), art. 3, comma 2, per affermare i principi di uguaglianza e di non discriminazione per i lavoratori con disabilità, che i giudici amministrativi, con una bella dose di faccia tosta, sono riusciti a capovolgere proponendone una lettura rovesciata che discrimina anziché includere, che torna ad alzare barriere anziché abbatterle.


Una decisone da respingere
Questa sentenza se non adeguatamente contrastata e annullata aprirà un baratro che indebolirà il diritto all’inclusione aprendo la strada agli argomenti esclusivisti e discriminatori del pensiero razzista oggi tornato di moda. il diritto fondamentale allo studio per le persone con disabilità, come per ogni altro essere umano, non può essere subordinato a esigenze finanziarie ma va tutelato in ogni modo.
La decisione del Consiglio di Stato riapre il tema politico delle risorse economiche destinate alle politiche d’inclusione che non possono essere demandate unicamente agli enti locali, col rischio di una sperequazione territoriale tra comuni e ragioni con maggiore e minore ricchezza. Solo delle politiche di welfare centrale sono in grado di garantire un redistribuzione equa sul territorio nazionale.

La strategia della tensione non c’entra nulla con la strage di Bologna, la sinistra fa male ad accontentarsi della solita narrazione consolatoria



Sentenze e gran parte della pubblicistica iscrivono la strage alla stazione centrale di Bologna del 2 agosto 1980, che fece 85 (forse 86) morti, e 200 feriti, come l’ultimo episodio della strategia della tensione. Addirittura nella sentenza di primo grado contro l’ex avanguardista Paolo Bellini, ritenuto uno dei responsabili della strage insieme a Fioravanti, Mambro e Cavallini, appartenuti ai Nar, si sostiene – sulla scorta di un’ampia pubblicistica complottista – che la strategia della tensione sia proseguita fino alla stragi di mafia del 1992-93. In realtà nessuna delle tante sentenze pronunciate sulla strage è mai riuscita a indicare chiaramente un movente certo e convincente, tanto che solo nelle ultime motivazioni dei verdetti pronunciati contro Cavallini e Bellini ci si addentra sull’argomento, identificando come mandante la P2 di Licio Gelli, nel frattempo defunto, che avrebbe agito per rafforzare la propria capacità ricattatoria all’interno di equilibri occulti di potere. Una ipotesi tra le tante che tuttavia non conferma la tesi della strategia della tensione enunciata in passato.

Nel 1980 la situazione internazionale stava rapidamente mutando: nel maggio dell’anno prima in Inghilterra era salita al governo la tory Margaret Teatcher, un anticipo della cosiddetta controrivoluzione neoliberale che si imporrà definitivamente con l’insediamento alla Casa Bianca del conservatore repubblicano Ronald Reagan. In Italia il clima politico e sociale era profondamente mutato rispetto ai primi anni 70. Si era avviata la stagione del riflusso, il compromesso storico era stato sconfitto, il Pci aveva avviato il suo declino elettorale, il movimento operaio e gli altri movimenti sociali erano sulla difensiva, in forte difficoltà sotto i colpi delle profonde ristrutturazioni del sistema produttivo. L’estrema sinistra in crisi. Non esisteva più il «pericolo comunista» che aveva ispirato la stagione stragista dei primi anni 70. Nella seconda metà del decennio il Pci aveva dato ampia prova di moderatismo, aveva sorretto le istituzioni di fronte all’offensiva della sinistra armata con molto più impegno di altre forze politiche. Non vi erano più ragioni per ricorrere ad una strage di tale portata, la più grande in Europa prima di quella di Madrid del 2004, provocata da Al Quaeda. Anche se sappiamo che gli attentatori non avevano previsto conseguenze così catastrofiche dovute alla presenza di un treno sul primo binario che respinse l’onda d’urto facendo crollare l’edificio dove era situata la sala d’attesa di seconda classe. Per questo motivo si è anche guardato a eventuali ragioni internazionali, come la vicenda di Ustica o il posizionamento dell’Italia nel Mediterraneo. L’aporia giudiziaria rappresentata dall’assenza di un movente valido ha facilitato l’offensiva giornalistica della destra che ha tirato in ballo la cosiddetta «pista palestinese». Ipotesi di comodo, smentita dalla recente desecretazione del carteggio Sismi-Olp, agitata dalla destra con l’intento di riscrivere il paradigma delle stragi e liberare i fascisti e i loro eredi politici dalle responsabilità avute nella precedente stagione delle bombe e dei massacri. Questo tentativo di strumentalizzazione tuttavia non esime dal porsi le giuste domande sul reale movente di quel massacro.

I cani d’Albania

di Pino Narducci 23 luglio 2024
presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia

fonte https://www.questionegiustizia.it/articolo/i-cani-d-albania

Sono trascorsi due mesi dalla liberazione del generale statunitense James Lee Dozier e dallo scompaginamento della colonna veneta “Anna Maria Ludmann-Cecilia” delle Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente(1)

Nel paese infuria il dibattito sulla tortura usata contro i militanti delle BR arrestati dalle forze di polizia. Domenico Sica, sostituto procuratore romano, uno dei magistrati più noti dell’antiterrorismo, esprime le sue convinzioni a Guido Rampoldi di Paese Sera e lo fa in forma di apologo(2).   

Evoca oscure vicende accadute durante l’aggressione dell’Italia fascista all’Albania e racconta al giornalista una storia raggelante. 

Attingendo alla memoria familiare, ricorda che in Albania, durante il secondo conflitto mondiale, molti soldati italiani finivano negli ospedali o venivano rimpatriati perché denunciavano di essere stati morsi da cani idrofobi. Sulle loro gambe, in effetti, erano ben visibili i segni lasciati dai denti di un cane rabbioso. Poi, le autorità scoprirono che un militare aveva costruito una mandibola di cane in legno, con una dentatura fatta di chiodi, e la fittava ai soldati che, per sfuggire agli orrori della guerra ed alla morte, si conficcavano quei chiodi nella carne.

Per Sica, in sostanza, quelli che, nel 1982, denunciano violenze e sevizie sono come quei soldati italiani degli anni ‘40 (sicuramente, secondo la visione del magistrato, «vili traditori della patria»), simulatori che si infliggono ferite sul corpo pur di screditare coloro che li hanno arrestati o li tengono in custodia. Non esiste un problema tortura, ma solo, evidentemente, una gigantesca macchinazione.

Ma non tutti la pensano così.

Livio Zanetti, direttore de L’Espresso affida a Pier Vittorio Buffa l’incarico di condurre una inchiesta sulla storia delle torture. Il giornalista incontra Franco Fedeli, uno degli storici animatori della sindacalizzazione e democratizzazione della pubblica sicurezza, ed entra poi in contatto con due poliziotti. Sono colloqui rigorosamente clandestini durante i quali riceve la conferma che quelle storie sono vere(3)

Buffa scrive il pezzo(4) col quale denuncia le violenze che si stanno consumando, in particolare nel Veneto: «All’ora di pranzo scendevano in piccoli gruppi, si sistemavano ai tavoli del ristorante Ca’ Rossa, proprio davanti al distretto di Polizia di Mestre, e prima di pagare il conto chiedevano al proprietario dei pacchi di sale, tanti. Poi pagavano e con la singolare spesa rientravano al distretto per salire all’ultimo piano, dove c’è l’archivio. In quei giorni, subito dopo la liberazione del generale Dozier, le stanze di quel piano erano off limits, vi potevano entrare solo pochi poliziotti, non più di tre o quattro per volta, insieme agli arrestati, ai terroristi. Lì dentro, dopo il trattamento, un brigatista è stato costretto a rimanere sdraiato cinque giorni senza aver più la forza di alzarsi, da lì uscivano poliziotti scambiandosi frasi del tipo “Così abbiamo finalmente vendicato Albanese”(5). Quell’ultimo piano era infatti diventato il passaggio obbligato per i circa venti terroristi arrestati nella zona. Non hanno subito tutti lo stesso trattamento, ma per alcuni di loro l’archivio del distretto di polizia di Mestre ha significato acqua e sale fatta bere in gran quantità, pugni e calci per ore, per notti intere…La voglia di picchiare aveva infatti talmente contagiato gli agenti di quel distretto (molti erano venuti per l’occasione anche da fuori, da Massa Carrara, da Roma) che, quando il 2 febbraio è stato fermato un ragazzo sospettato di un furto in un appartamento (non quindi di terrorismo) lo hanno picchiato per un paio d’ore per poi lasciarlo andare via quando si sono accorti che era innocente. Secondo le denunce, la violenza della polizia contro le persone arrestate per terrorismo si sta, poco a poco, estendendo come un contagio…». Buffa racconta che fatti di questo tipo sono avvenuti anche Roma, a Viterbo, a Verona e cita i casi di Stefano Petrella, Nazareno Mantovani, Ennio Di Rocco, Lino Vai, Luciano Farina e Gianfranco Fornoni.    

Il pubblico ministero di Venezia lo convoca. Vuole sapere come è entrato in possesso delle informazioni sul distretto di Ca’ Rossa e, soprattutto, vuole conoscere il nome della sua fonte. Il giornalista risponde che è tenuto al rispetto del segreto professionale e non può fare alcun nome. 

«Buffa, nel nostro sistema penale il giornalista non può invocare il segreto professionale per coprire il nome della fonte. Lei rischia di essere incriminato come testimone reticente».

Ma il giornalista non cede e il magistrato lo arresta. Così, nella indagine sulle violenze veneziane, il primo a finire in carcere non è un torturatore, ma il giornalista che le ha denunciate.   

Paradossalmente, entrando nel vecchio carcere di Santa Maria Maggiore, Buffa prosegue il suo lavoro perché, da alcuni detenuti, apprende altre storie che gli confermano che la pratica delle violenze si è diffusa a macchia d’olio. Un ragazzo arrestato per partecipazione a banda armata gli dice che ha scritto il vero perché anche lui è passato per il terzo distretto di Mestre e lì ha visto una persona sdraiata su una barella, uno che aveva parlato dopo essere stato picchiato(6).  

Il giorno successivo all’arresto di Buffa, il SIULP (Sindacato Italiano Unitario Lavoratori della Polizia) di Venezia dirama un comunicato con il quale annuncia di aver chiesto un incontro urgente con il magistrato e precisa che le voci di maltrattamenti su arrestati per fatti di terrorismo sono giunte al sindacato. Si tratta di pratiche tollerate o incoraggiate dall’alto e sostenute dal tacito consenso dell’opinione pubblica.

L’11 marzo ‘82, tre poliziotti del sindacato incontrano il magistrato che ha spedito Buffa in carcere. Sanno che il giornalista è disposto a restare in galera e che non parlerà mai. Solo loro, pagando però un prezzo personale molto alto, possono tirarlo fuori dalla cella. 

Il capitano Riccardo Ambrosini e l’agente Giovanni Trifirò dichiarano al pubblico ministero di essere loro le fonti di Buffa. Il maresciallo Augusto Fabbri, dirigente del SIULP veneziano, non ha incontrato il giornalista, ma anche lui sa che i fatti di violenza sono veri e lo conferma. A quel punto, Buffa è libero di rivelare i nomi delle sue fonti ed il pretore lo assolve e lo scarcera.

Ma la liberazione del giornalista non è che l’inizio di una sofferta e dolente vicenda per i due poliziotti che hanno violato la consegna del silenzio.

La prima dura reazione è quella della questura veneziana, l’istituzione da cui dipende il terzo distretto di Mestre. Questore, funzionari e dirigenti appongono ben 32 firme in calce ad una lettera con la quale chiedono al Ministro dell’Interno e al Capo della Polizia di allontanare Ambrosini e Trifirò dal capoluogo veneto. 

Le proteste contro i due poliziotti dilagano in tutto il corpo della pubblica sicurezza: a Milano, nella scuola allievi ufficiali a Nettuno e nel reparto celere a Roma.

I sindacati più corporativi (il SAP e il SIPID-Intesa Democratica) attaccano a testa bassa il SIULP veneziano, colpevole di gettare discredito sull’operato della polizia perché, mentre questa subisce i colpi delle organizzazioni terroristiche, Ambrosini e Trifirò hanno confidato a un giornalista fatti che non sono provati. Si distanzia nettamente la posizione della CISL veneta che, invece, invoca «la destituzione, la carcerazione e la condanna» per i responsabili di «forme barbare di inquisizione»(7).

Ma anche il SIULP entra in fibrillazione. 

A Bologna gli iscritti attaccano i colleghi veneziani e Bari, addirittura, ne chiede la espulsione. I poliziotti veneti del sindacato si riuniscono nella caserma Santa Chiara. Il dibattito, animato e teso, va avanti per più di cinque ore, ma non riesce a produrre un comunicato finale mentre la segretaria nazionale del sindacato avvia una verifica sull’operato dei suoi aderenti ed anzi annuncia che il comitato di gestione ha accolto le dimissioni presentate da Ambrosini da ogni incarico rivestito nel sindacato.

Il Questore di Venezia rincara la dose ed ordina ad Ambrosini di non allontanarsi dalla città perché deve attendere l’arrivo di un ispettore inviato dal Ministero dell’Interno.

Ma qualcosa alla Cà Rossa sarà pur successo.

Un articolo pubblicato su L’Espresso ricostruisce lo stato d’animo degli iscritti al SIULP che si riuniscono a Mestre, nel salone della federazione unitaria CGIL-CISL-UIL. Sono tante le vicende che affiorano durante il dibattito, alcune i poliziotti le sussurrano ai giornalisti(8).

Un addetto all’archivio del terzo distretto racconta che, un lunedì mattina, gli è stato improvvisamente intimato di non entrare nel suo ufficio. Un altro addetto all’archivio spiega che, nelle stanze degli interrogatori, possono entrare solo alcuni funzionari e che loro, semplici agenti di pubblica sicurezza, sono ridotti a restare nei corridoi. Alcuni, però, le violenze le hanno viste: secchi d’acqua gelata addosso agli arrestati, ragazze a cui vengono brutalizzati i seni, peli strappati con le pinze, minacce di morte e colpi di pistola sparati vicino alla testa di un detenuto.    

Proprio in quei giorni, Alberta Biliato “Anna”, militante delle BR-PCC, arrestata a Treviso, prende la parola durante il processo che si svolge davanti al Tribunale di Verona contro i responsabili del sequestro del generale Dozier(9)

Denuncia che, appena arrestata, il 30 gennaio ’82, viene subito portata al terzo distretto di Polizia di Mestre e, proprio nelle stanze dell’archivio, viene lungamente torturata durante i circa 20 giorni di permanenza in quel posto (occhi sempre bendati, trattamento con acqua e sale, minacce di violenza sessuale, bastonature sotto la pianta dei piedi, sulle gambe, sul capo e sulle orecchie, strizzatura dei capezzoli, mani introdotte nella vagina, peli del pube strappati, pistola carica puntata alla tempia). 

Anche il militante Roberto Vezzà formula accuse analoghe a quelle lanciate dalla Biliato. A via Ca’ Rossa, sempre incappucciato, è stato pestato e, nelle stanze dell’archivio, lo hanno colpito sui piedi con un nerbo di bue e gli hanno somministrato acqua e sale con un imbuto(10).

Il giornalista Luca Villoresi di “La Repubblica” percorre la strada tracciata da Buffa ed intervista un poliziotto che chiede l’anonimato perché non vuole fare l’eroe: se parli, lui lo sa bene, cominciano a trattarti come un fiancheggiatore delle BR, i colleghi non ti salutano più e iniziano i discorsi sul trasferimento(11).

Lavora nella questura veneziana ed a lui, come ad altri, è stato detto di stare alla larga dalla stanza degli interrogatori alla quale possono accedere solo due o tre funzionari. Ma lui ha scelto di vedere quello che succedeva lì dentro, anche se era stato subito cacciato dai colleghi. Qualcosa però è riuscito a scorgere. C’è una immagine che non può dimenticare. Al centro della stanza, una ragazza con una sorta di cappuccio sulla testa dalla quale escono fuori capelli biondi. Un poliziotto la fa girare su se stessa e la colpisce sul capo. In un angolo, su una brandina, un ragazzo con la faccia rovinata. Cosa accadeva durante gli interrogatori lui l’ha già sentito raccontare dai colleghi: calci e pugni, acqua e sale, persone incappucciate, minacce di morte, peli strappati, genitali e capezzoli strizzati. Molti, leggendo l’articolo, ritengono che la ragazza con i capelli biondi vista dal poliziotto sia proprio Teresa Biliato.

La sorte di Villoresi si intreccia con quelle di Buffa, Ambrosini e Trifirò in una giornata memorabile, quella del 29 marzo, che, a sera, si chiude, con un colpo di scena. 

Negli uffici giudiziari veneziani compare la deputata radicale Adele Faccio che conferma di aver fornito al giornalista notizie sulle violenze di Mestre. Poi arriva Buffa, ma, mentre attende di deporre, riceve una comunicazione giudiziaria perché ha violato il segreto istruttorio scrivendo un pezzo sulle violenze che i Carabinieri hanno inflitto ad Annamaria Sudati(12). E’ il turno di Luca Villoresi a cui i magistrati chiedono di rivelare la identità degli anonimi poliziotti veneti citati nell’articolo pubblicato il 18 marzo. Il giornalista di “La Repubblica”, come Buffa, invoca il segreto professionale e spiega che deve contattarli per poter fornire i loro nomi.

Nella stanza dei magistrati entra Franco Fedeli, direttore di “Nuova Polizia”. Sì, è vero, nelle riunioni del SIULP sono circolate molte voci sulle torture che vengono praticate contro gli arrestati per vicende di terrorismo e, quando queste voci sono diventate sempre più corpose, ha chiesto di incontrare il Ministro dell’Interno, senza però aver ricevuto alcuna risposta. 

Torna a sedersi Villoresi che oppone ancora un rifiuto al PM perché ha consultato le sue fonti, ma queste vogliono continuare a restare anonime. Ed allora, anche Villoresi viene arrestato perché è un teste reticente. Però non lo portano subito via perché è il turno di Buffa, che deve indicare i nomi dei detenuti che gli hanno confidato episodi di violenza, e poi del capitano Ambrosini che, così spiega, non è la fonte di Villoresi perché lui ha parlato solo con Buffa. 

Così, quel frenetico lunedì di marzo si chiude con Villoresi che, con le manette ai polsi, esce dal palazzo di giustizia e, a bordo di un motoscafo, raggiunge le celle del carcere di Santa Maria Maggiore. E’ il secondo arresto della indagine veneziana, ancora un giornalista, ancora nessun torturatore. Il 31 marzo, Villoresi può uscire in libertà provvisoria.

Una delle vicende raccontate da Buffa esce dall’anonimato grazie alla denuncia di Marco Fasolato. Il 2 febbraio, il figlio Massimo è stato portato al distretto di via Ca’ Rossa per un controllo, ma giunto lì ha scoperto di essere sospettato di aver commesso una rapina ai danni di una pasticceria. Quattro poliziotti lo gettano a terra e lo picchiano con calci e pugni. Un ragazzo che sostiene di essere stato suo complice lo accusa, ma poi non sa dire quale sia il suo nome. Viene infine rilasciato in stato di shock. Fasolato denuncia che il figlio ha riportato lesioni con una prognosi di tre giorni e che è pronto ad identificare i quattro picchiatori, anzi tre di loro li ha già riconosciuti quando è entrato negli uffici di polizia per presentare la denuncia(13).

Se a Padova il processo per le violenze commesse dai poliziotti contro i carcerieri di Dozier sta per concludersi con una sentenza di condanna per gli imputati, a Venezia, il procedimento iniziato con l’arresto di Buffa, quello che dovrebbe disvelare le violenze della Cà Rossa, si avvia ad una conclusione di segno diametralmente opposto, anzi, in verità, non nasce neppure.   

L’opinione del pubblico ministero è che il caso è stato originato dalle «dichiarazioni generiche, avventate e non documentate di Ambrosini e Trifirò», le accuse di Alberta Biliato e Roberto Vezzà sono sospette perché avvenute con notevole ritardo rispetto ai fatti di violenza subiti a Mestre, anzi ancor più sospette perchè fatte con l’obiettivo di rendere credibile la ritrattazione di precedenti dichiarazioni. Quanto alla vicenda Fasolato, sostiene ancora il magistrato inquirente, il ragazzo si era rifiutato di salire in macchina e ed era stato necessario usare una «certa coazione fisica» nei suoi confronti. Quando poi era stato riconosciuto dal complice, Fasolato era andato in escandescenze ed era stato lui a colpirsi al volto ed alla testa. Il pm, che stigmatizza il comportamento di Buffa e Villoresi, sostiene che la campagna scandalistica sulle torture si fonda su voci e sul sentito dire, tanto che si dice sicuro che «è frutto della fantasia dei giornalisti, nonché di alcuni componenti del SIULP che simili pratiche nonché tollerate siano state incoraggiate dall’alto»(14). Il giudice istruttore archivia il procedimento per le violenze nel terzo distretto di polizia di Mestre. Nessuna tortura, nessuna direttiva dall’alto di usare le maniere forti. 

Trascorrono molti anni prima di scoprire che i fatti denunciati non erano frutto del lavoro fantasioso di Buffa e Villoresi e che le informazioni di Ambrosini e Trifirò(15) erano qualcosa di ben diverso dal sentito dire. 

Il commissario Salvatore Genova, uno dei funzionari inviati dal Viminale a Verona  per coordinare le indagini per liberare Dozier, racconta cosa è realmente accaduto nel Veneto durante la caccia ai sequestratori del generale della Nato ed ai militanti delle BR-PCC. Furono usati metodi illegali e furono i vertici del Ministero dell’Interno a dare il via libera all’uso della tortura.

Su quello che accadde a Venezia, Salvatore Genova ha un ricordo nitido che affida proprio a Buffa: «La voglia di emulare, di menar le mani, di far parlare quegli stronzi non si ferma a Padova. Di Mestre so per certo. Al distretto di polizia vengono portati diversi terroristi arrestati dopo le indicazioni di Savasta. I poliziotti si improvvisano torturatori, usano acqua e sale senza essere preparati come Ciocia e i suoi, si fanno vedere da colleghi che parlano e denunciano. Ma l’inchiesta non poterà da nessuna parte»(16)

Il giornalista finalmente può affermare: «…Allora, avevano ragione i poliziotti che avevano raccontato le torture ai giornalisti e aveva torto lo Stato che coprì se stesso e i suoi uomini, ordinò e avallò la tortura come strumento di interrogatorio di detenuti».  

Così, dopo trent’anni da quegli avvenimenti, salta fuori un pezzo importante di verità e si comprende che, in quei primi anni ’80, il contagio della violenza stava per diventare epidemia e che quei segni ben visibili sui corpi non erano stati lasciati da mandibole in legno di cani rabbiosi trasportate, chissà come, con un avventuroso viaggio, dall’Albania al Veneto.   

(1) James Lee Dozier, sequestrato a Verona il 17 dicembre 1981 dalle BR-PCC, venne liberato a Padova il 28 gennaio 1982. I brigatisti Antonio Savasta, membro del comitato esecutivo delle BR-PCC, Emilia Libèra, Emanuela Frascella, Giovanni Ciucci ed Emanuela Frascella, che comunque denunciarono le violenze subite dopo l’arresto, collaborarono con la magistratura   

(2) L’articolo di Guido Rampoldi, dal titolo Sulla tortura polemiche fra avvocati, magistrati, polizia, che contiene, fra l’altro, l’intervista a Sica, è stato pubblicato nella edizione di Paese Sera del 18 marzo 1982. Sul tema, esprimendo un’opinione che in quel periodo storico era nettamente minoritaria tra i magistrati, il giudice romano Luigi Saraceni, esponente di Magistratura Democratica, disse a Rampoldi: «Così è sempre stato, così continua ad essere: la polizia spesso picchia, la magistratura chiude gli occhi e si tura le orecchie». 

(3) Intervista di Valentina Perniciaro e Paolo Persichetti a Pier Vittorio Buffa pubblicata il 18.1.2012 in Insorgenze.net      

(4) L’articolo di Buffa Il rullo confessore comparve sul settimanale L’Espresso il 28 febbraio 1982.

(5) Il commissario di pubblica sicurezza Alfredo Albanese venne ucciso dalle Brigate Rosse, a Mestre, il 12 maggio 1980.

(6) L’articolo di Buffa sulla esperienza vissuta nel carcere veneziano comparve su L’Espresso del 21 marzo 1982.

(7) I comunicati del SAP, del SIPID-Intesa Democratica e del Comitato di Gestione del SIULP sono pubblicati integralmente nel libro di Progetto Memoria Le torture affiorate, seconda edizione, febbraio 2022, Sensibili alle Foglie.

(8)  L’accurata ricostruzione dell’assemblea è opera dei giornalisti Francesco De Vito e Adriano Donaggio per il settimanale L’Espresso del 28 marzo 1982.

(9) Alberta Biliato, con sentenza dei giudici veronesi del 25 marzo 1982, venne condannata per aver partecipato al sequestro del generale Dozier.

(10) Roberto Vezzà, condannato per aver partecipato al sequestro di Roberto Taliercio, ha ricostruito l’esperienza vissuta a Cà Rossa durante gli anni della detenzione. Lo scritto è stato pubblicato nel libro Le torture affiorate, cit.

(11) L’articolo di Luca Villoresi Ma le torture ci sono state? Viaggio nelle segrete stanze. Quei giorni dell’operazione Dozier venne pubblicato sul quotidiano La Repubblica il 18 marzo 1982.

(12) Anna Maria Sudati dichiarò di aver subito violenze da parte dei carabinieri che l’avevano arrestata a Venezia il 26 gennaio 1982. La sua vicenda è narrata nell’articolo di Pier Vittorio Buffa e Mario Scialoja Una ventina di storie inquietanti pubblicato su L’Espresso del 21 marzo 1982.

(13) La vicenda Fasolato fu oggetto di una interrogazione rivolta al Ministro dell’Interno dal deputato Marco Boato e discussa nella seduta della Camera dei Deputati del 22 marzo 1982, seduta dedicata al tema della tortura e delle violenze contro gli arrestati per fatti di terrorismo.  

(14) La richiesta di archiviazione del pubblico ministero veneziano al giudice istruttore del 22 giugno 1983 è pubblicata nel libro Le torture affiorate, cit.   

(15) Il sovrintendente Giovanni Trifirò morì in circostanze drammatiche. Il 15 aprile 1986, a Mestre, durante un inseguimento a piedi lungo le strade cittadine, esplose accidentalmente un colpo di pistola che uccise la persona inseguita. Sconvolto, Trifirò puntò l’arma contro se stesso e si uccise.

(16) L’intervista di Pier Vittorio Buffa a Salvatore Genova, dal titolo Così torturavamo i brigatisti, venne pubblicata su L’Espresso del 5 aprile 2012.

Il tabù della Repubblica, dalle torture contro Triaca nel 1978 a Bolzaneto nel 2001, un ventennio di violenza degli apparati, di interrogatori non ortodossi, waterboarding e pestaggi, finte fucilazioni e sevizie, taciuti, negati, omessi

Giovedì 25 luglio alle ore 20,00 verrà proiettato presso il Loa Acrobax di Roma, a ponte Marconi, in via della Vasca navale 6, il film documentario “Il Tipografo” che racconta la vicenda di Enrico Triaca, tipografo delle Brigate rosse durante il sequestro Moro, torturato da una squadretta speciale del ministero dell’Interno dopo il suo arresto avvenuto il 17 maggio 1978, una settimana dopo il ritrovamnento del corpo senza vita di Aldo Moro. Con la pratica dell’affogamento simulato con acqua e sale, waterboarding, tentarono di fargli confessare cose che non sapeva sul sequestro. Nel corso del film Triaca racconta quanto accaduto e un ex agente dei Nocs, che nel gennaio 1982 partecipò alla liberazione del generale Usa, Dozier, rapito dalle Brigate rosse-Pcc, rivela per la prima volta le violenze e le torture praticate dalle forze di polizia durante gli interrogatori.

Un filo nero lega il massacro della scuola Diaz e le torture di Bolzaneto, di cui ricorre in questi giorni l’anniversario, durante il G8 di Genova del 2001 e le torture praticate contro militanti delle Brigate rosse e di altri gruppi della lotta armata di sinistra arrestati tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80. Si tratta di un uomo, un alto dirigente della polizia, il suo nome è Oscar Fioriolli, classe 1947, poliziotto formatosi nei reparti Celere e poi sul finire degli anni 70 nelle squadre speciali dell’antiterrorismo. Tra l’87 e il ’97 dirige la Digos di Genova, poi è questore ad Agrigento, Modena e Palermo. Nell’agosto 2001, subito dopo i misfatti del G8 che avevano travolto il questore Francesco Colucci, Fiorolli viene chiamato dall’allora capo della polizia, il potentissimo Gianni De Gennaro, a prendere le redini della questura genovese travolta dalle inchieste giudiziarie e dalle polemiche politiche provocate dalla morte di Carlo Giuliani, ucciso dal carabiniere Mario Caplanica, e le violenze sistematiche dei corpi di polizia contri i manifestanti, i pestaggi e le sevizie nel lager di Bolzaneto (predisposto per accogliere migliaia di fermati nei rastrellamenti di piazza) e all’interno dell’edificio Armando Diaz, una scuola elementare messa a disposizione dal comune per accogliere i manifestanti convenuti per le manifestazioni di protesta contro i potenti del mondo.
La scelta di Fiorolli non fu casuale, non solo perché conosceva la città, ma perché aveva la forma mentis giusta per affrontare quella situazione, ovvero coprire le violenze delle forze di polizia: depistando, dilazionando i tempi delle inchieste, facendo ostruzionismo, costruendo un muro di omertà su quanto era accaduto. Non a caso tentò subito di mettere il bavaglio alla stampa locale accusandola di calunniare le forze di polizia con le sue ricostruzioni sulle violenze di quei giorni, in particolare nella Diaz, evitò ogni collaborazione dovuta con la magistratura che stava indagando, impedì l’identificazione degli agenti che fecero irruzione nella scuola dormitorio.
Fiorolli venne scelto appositamente per la sua biografia: aveva una familiarità ben precisa con le pratiche violente nella quali aveva dato sempre grande prova di affidabilità. Alla fine del 1981 aveva fatto parte della squadra speciale affiliata all’Ucigos che aveva condotto le indagini sul sequestro, da parte della colonna veneta della Brigate rosse-Pcc, del generale Nato James Lee Dozier, vicecomandante della Fatse (Comando delle Forze armate terrestri alleate per il sud Europa) con sede a Verona.
Secondo la testimonianza di un suo collega, l’ex commissario della Digos e poi questore Salvatore Genova, nel corso di una riunione convocata dall’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci all’interno della questura di Verona, presenti Improta, il funzionario cui De Francisci aveva affidato il coordinamento del gruppo di super investigatori, Oscar Fiorolli, Luciano De Gregori e lo stesso Genova, si decise il ricorso alle torture per velocizzare le indagini. A svolgere il lavoro sporco venne chiamato insieme alla sua squadretta di esperti “acquaiuoli” (profesionisti del waterboarding, la tortura dell’acqua e sale) Nicola Ciocia, alias professor De Tormentis, funzionario proveniente dalla Digos di Napoli, già responsabile per la Campania dei nuclei antiterrorismo di Santillo, in forza all’Ucigos. De Francisci fece capire che l’ordine veniva dall’alto, ben sopra il capo della polizia Coronas. Il semaforo verde giungeva dal vertice politico, dal ministro degli Interni Virginio Rognoni. Via libera alle «maniere forti» in cambio di chiare garanzie di copertura. Fu lì che lo Stato decise di cercare Dozier nella vagina di una sospetta brigastista. Prima che entrasse in azione lo specialista Ciocia fu proprio Fiorolli, sempre secondo le parole di Genova, a dare mostra delle sue capacità conducendo l’interrogatorio di Elisabetta Arcangeli, una sospetta fiancheggiatrice delle Brigate rosse arrestata il 27 gennaio 1982.


In una stanza all’ultimo piano della questura di Verona:

«Separati da un muro -raconta Genova – perché potessero sentirsi ma non vedersi, ci sono Volinia e la Arcangeli. Li sta interrogando Fioriolli. Il nostro capo, Improta, segue tutto da vicino. La ragazza è legata, nuda, la maltrattano, le tirano i capezzoli con una pinza, le infilano un manganello nella vagina, la ragazza urla, il suo compagno la sente e viene picchiato duramente, colpito allo stomaco, alle gambe. Ha paura per sé ma soprattutto per la sua compagna. I due sono molto uniti, costruiranno poi la loro vita insieme, avranno due figlie. È uno dei momenti più vergognosi di quei giorni, uno dei momenti in cui dovrei arrestare i miei colleghi e me stesso. Invece carico insieme a loro Volinia su una macchina, lo portiamo alla villetta per il trattamento. Lo denudiamo, legato al tavolaccio subisce l’acqua e sale».

Non c’è solo un nesso umano che lega quanto avvenuto a Genova nel 2001 con la stagione delle torture avvenute nel maggio 1978 e poi nel 1982 contro decine di persone accusate di banda armata. Esiste un retroterra culturale e procedurale, un savoir faire mai spezzato che ha potuto tramsettersi lungo i decenni successivi, superando il secolo. La vicenda delle torture e delle pratiche giudiziarie e carcerarie d’eccezione non è mai stata sottoposta a una radicale critica e rifiuto, ma al contrario recepita e legittimata dall’opinione democratica e da largi settori della sinistra, sempre reticenti sul tema. Anche negli anni successivi ai fatti di Genova, quando l’opinione pubblica era ancora scossa per le violenze viste in quei giorni, questo nesso è stato occultato, evitato, aggirato con imbarazzo. Il dibattito sulle torture praticate in Italia sembra non avere radici nel Novecento, ma sembra nato a Genova nel 2001. Come fanno gli struzzi a sinistra si è preferito mettere la testa sotto la sabbia piuttosto che allungare il collo e guardare lontano, alle proprie spalle, per cogliere genesi e radici di questo fenomeno. La tortura praticata alla fine anni 70, messa in campo in modo strutturale, con l’ausilio di alcune squadre addestrate che operavano in modo sistematico su tutto ilo territorio nazionale contro la criminalità organizzata, il circuito dei sequestri di persona e la sovversione armata, è rimasta un tabù indicibile e questo perché c’era di mezzo proprio la lotta armata e la maniera con cui lo Stato ha affrontato e combattuto questo fenomeno. Non si doveva rimettere in discussione la narrazione edulcorata della vittoria democratica condotta sul filo del rispetto delle norme e della costituzione, con buona pace della legislazione penale speciale, delle carceri speciali, della legislazione premiale e delle torture.

Cinquant’anni dopo la strage di Brescia le istituzioni si assolvono

Nel corso delle celebrazioni che si sono tenute per il cinquantesimo anniversario della strage in piazza della Loggia abbiamo assistito ad una reciproca assoluzione degli organi dello Stato. La presidente del consiglio Meloni a nome del governo, che non era presente, ha accuratamente evitato di ricordare e condannare la matrice neofascista della bomba esplosa durante il comizio del locale comitato antifascista, mentre il presidente della repubblica Mattarella ha scagionato lo Stato da ogni responsabilità, come ai tempi del regime democristiano di cui l’inquilino del Quirinale è degno erede

La strage di piazza della Loggia avvenuta a Brescia il 28 maggio 1974 durante un comizio del Comitato antifascista locale (8 morti e 102 feriti) si distinse immediatamente dagli episodi stragisti degli anni precedenti (piazza Fontana, Peteano, Gioia Tauro, Questura di Milano) perché l’obiettivo colpito rivelava fin da subito la matrice politica neofascista degli esecutori. Dopo un lungo e travagliato iter giudiziario la Cassazione ha confermato la condanna finale di due ordinovisti: Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, quest’ultimo confidente del Sid di Padova col nome in codice «Tritone». Sono tuttora in corso altri due procedimenti contro gli ordinovisti veronesi Marco Toffaloni, all’epoca minorenne e che avrebbe materialmente deposto l’ordigno, e Roberto Zorzi. 

Nel novembre del 1973 il movimento politico Ordine nuovo era stato sciolto dal ministro dell’Interno Taviani sulla base della condanna emessa dal tribunale di Roma per ricostituzione del disciolto Partito nazionale fascista. A causa di questo fatto, nel luglio del 1976 Pierluigi Concutelli, capo militare della struttura clandestina di Ordine nuovo, uccise a Roma Vittorio Occorsio, il pubblico ministero che aveva sostenuto l’accusa contro i dirigenti del gruppo neofascista.
 L’attentato di Brescia come quello successivo sul treno Italicus, nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974 all’interno del tunnel Valdisambro (18 morti e 48 feriti), rivendicato da «Ordine nero» in un volantino che parlava di vendetta per la morte di Giancarlo Esposti, un fascista sanbabilino ucciso dai carabinieri sugli altipiani reatini il 30 maggio precedente, erano una chiara rappresaglia contro la messa al bando di Ordine nuovo.
Creato nei primi mesi del 1974, Ordine nero aveva raccolto transfughi del disciolto Ordine nuovo, di Avanguardia nazionale e del Fronte nazionale rivoluzionario, struttura prevalentemente toscana. Fu protagonista dell’ultima stagione stragista caratterizzata da un’aperta dichiarazione di guerra contro lo Stato accusato di tradimento verso una esperienza politica, eversiva e golpista, che gli apparati avevano lungamente sostenuto, foraggiato, ispirato e manipolato. Strategia che si distingueva dai precedenti episodi che miravano ad attribuire alla sinistra la paternità degli eccidi con l’obiettivo di scatenare una risposta autoritaria dello Stato.

Le bombe del 1974

, la vendetta di Ordine Nero contro chi li aveva utilizzati e illusi con la strategia della tensione
Lungi dall’essere una ulteriore puntata della strategia della tensione questi due sanguinosi attentati, parte di una campagna più ampia avviata nel gennaio del 1974 a Silvi Marina, vicino a Pescara, dove una bomba fallì nel colpire l’ennesimo treno, appaiono piuttosto il segno sanguinoso della sua fine, la conseguenza dell’abbandono precipitoso e rovinoso da parte degli apparati statali che l’avevano utilizzata. Il 9 febbraio un altro ordigno venne ritrovato inesploso su un treno merci diretto da Taranto a Siracusa. A marzo un’esplosione fece saltare una rotaia nei pressi di Vaiano, vicino Prato, dove avrebbe dovuto passare il treno Palatino. La strage mancata fu rivendicata con un volantino di Ordine Nero ritrovato a Lucca. Ad aprile fu colpita la casa del popolo di Moiano, in provincia di Perugia. Nel complesso furono fatti esplodere tra Milano, la Toscana e Savona, oltre una decina di ordigni, culminati nell’attentato compiuto sulla linea ferroviaria di Terontola, il 6 gennaio 1975, a cui segui lo smantellamento del Fronte nazionale rivoluzionario di cui facevano parte Luciano Franci, Mario Tuti, Marco Affatigato, Andrea Brogi e Augusto Cauchi. Gruppo che ebbe contatti anche con Licio Gelli, al quale secondo testimonianze di alcuni pentiti, Cauchi aveva chiesto un finanziamento per la sua attività politica.


La magistratura indaga sui progetti di golpe

Tra il 1973 e il 1974 vengono a galla, grazie a diverse inchieste condotte dalla magistratura, una serie di progetti di golpe di segno politico diverso anche se tutti caratterizzati dalla tentativo di scongiurare il «pericolo comunista». Dall’indagine sulla «Rosa dei venti», portata avanti dal giudice istruttore Tamburino, e da cui emergeva traccia della presenza di strutture «parallele» interne agli apparati statali coinvolte nelle attività golpiste e stragiste. Testimone centrale nella ricostruzione di questa rete, siapur tra contraddizioni e reticenze, sarà il generale dell’esercito Amos Spiazzi. In anni più recenti la ricerca storica ha focalizzato meglio quanto avvenuto: accanto alla struttura Nato europea Stay behind, che in Italia aveva preso il nome di Gladio, apparato di difesa «non ortodosso» gerarchicamente dipendente dai comandi Nato, approntato per fare fronte ad una eventuale invasione militare delle truppe de patto di Varsavia e composto essenzialmente da membri della ex brigata Osoppo, partigiani bianchi antifascisti e anticomunisti, di cui si scoprì l’esistenza nella estate del 1990, dopo la vicenda del «piano Solo» venne messa in piedi una seconda struttura che dipendeva gerarchicamente dal ministero della Difesa. Si trattava dei Nuclei per la difesa dello Stato, apparato misto composto da membri selezionati degli uffici informativi dell’esercito, dei Servizi, dei carabinieri e di civili di dichiarata fede neofascista. Tra i membri di questa struttura disciolta nel 1973 vi erano molti ordinovisti. 

Un’altra inchiesta riguarda il Movimento armato rivoluzionario di Carlo Fumagalli e Gaetano Orlando. Fumagalli era un ex partigiano bianco legato ai Servizi inglesi. Ferocemente anticomunista organizzò una struttura clandestina armata con un forte insediamento in Valtellina, dove realizzò una serie di attentati dinamitardi contro tralicci dell’altra tensione che alimentavano le città e le industrie del Nord Italia. L’intenzione era quella di fronteggiare una eventuale offensiva di piazza o una vittoria elettorale dei comunisti. Nonostante il suo iniziale posizionamento antifascista, Fumagalli non disdegnò l’alleanza con i gruppi ordinovisti in vista di un colpo di stato.

L’esperienza più interessante appare tuttavia quella che venne definita il «golpe bianco», portato avanti da Edgardo Sogno, un altro ex partigiano della brigata Franchi, badogliana, liberale e anticomunista. Sogno aveva progettato in pieno agosto 1974 un «golpe liberale», un colpo di mano istituzionale di stampo presidenzialista, sul modello gollista della quinta repubblica francese che forte dell’appoggio dei vertici militari e istituzionali avrebbe dovuto sciogliere il parlamento, liberarsi del ventre molle democristiano ritenuto corrotto e irriformabile, creare un sindacato unico, internare le opposizioni di sinistra e di estrema destra, abolire l’immunità parlamentare e istituire un Tribunale speciale.

Report e la Repubblica fondata sul complotto

Dopo la fine del secondo conflitto mondiale l’Italia subì delle modificazioni rapide e profonde, da paese rurale si trasformò nel giro di pochi anni in una moderna società industriale. Crebbero i comparti della meccanica, del tessile e della chimica oltre all’edilizia, nacquero i primi assi autostradali e il panorama dei centri urbani mutò drasticamente. Si svilupparono le periferie sotto la spinta di flussi migratori continui provenienti del meridione. Diminuirono le partenze oltreoceano per dirigersi verso il Nord, prima la Svizzera, la Francia, il Belgio, la Germania, in cambio del carbone l’Italia cedeva minatori. Poi solo verso il settentrione, sorsero così le baraccopoli e il problema abitativo divenne uno dei primi temi di conflitto, che rimarrà cronico, oltre quelli legati al nuovo mondo del lavoro, la fabbrica dove i giovani meridionali sradicati dal loro mondo contadino incontravano la disciplina taylorista delle linee di produzione, i ritmi incalzanti, il frastuono, la nocività, un comando di fabbrica oppressivo e asfissiante.

Sviluppo e conflitto
Il boom demografico, la prospettiva di una società non più in guerra, l’avvento dei media di massa, radio e televisione, favoriscono nuovi fenomeni sociali e culturali: nasce il “mondo giovanile” anche sotto l’influenza della società americana. Lo stesso sistema produttivo se ne accorge creando la moda per i giovani, la musica, le vespe e le lambrette. L’istruzione deve aprirsi a questa massificazione rompendo vecchi tabù elitari e così anche «l’operaio può avere il figlio dottore», come recitavano i versi di una nota canzone degli anni della contestazione. Una crescita solo in apparenza lineare: da una parte è la stessa produzione capitalistica che richiede un maggiore livello di istruzione, dall’altra l’assorbimento scolastico e universitario è quasi una esigenza di sistema perché viene incontro al boom demografico creando delle aree di parcheggio giovanile anche se motore di tutto restano le rivendicazioni e dunque il conflitto generato dalle classi lavoratrici che aspirano ad una società più equa, evoluta, animata dalla giustizia sociale, dando vita a cicli di lotta sempre più intensi. Dai moti di Valdagno si arriva all’autunno caldo del 1969 fino all’occupazione della Fiat del 1973.

La fine dei «trenta gloriosi» e l’esplosione del Settantasette
Siamo all’apice dei cosiddetti «trenta gloriosi» quando iniziano a manifestarsi le prime crepe e gli scricchiolii che stanno minando la società fordista: un mondo strutturato all’interno di un compromesso sociale che vedeva il “Noi” operaio organizzato in grandi partiti di massa con potenti cinghie di trasmissione. Quella realtà irrigimentata tra “tute blu” e “colletti bianchi”, con mondi e morali avverse, dove lavoratori e padroni coabitavano a distanza, combattendosi senza confondersi, cominciava a dissolversi, trascinando via le vecchie gerarchie e autorità. A metà degli anni 70 assistiamo così a una crisi di modello sociale e delle sue forme di rappresentanza politiche da cui scaturiscono nuovi movimenti, spesso sconcertanti perché portatori di inedite forme di protagonismo, di partecipazione e richieste, percepite come incompatibili e esorbitanti dall’ordine economico e politico e di fronte ai quali un paese imbalsamato dai vincoli geopolitici e dai patti consociativi oppose il massimo di chiusura. 


Le lotte pagano
Nonostante ciò, quella grande spinta aveva consentito un avanzamento sociale senza precedenti, un rinnovamento culturale, delle mentalità e dei costumi, favorendo persino un adeguamento dei modelli di sviluppo ai nuovi standard del capitalismo consumistico. Sono anni in cui i pori della società si aprono, dando voce ai dimenticati e ai dannati. Spira un vento di libertà che s’insinua nelle crepe aperte dai cunei delle lotte operaie, proiettando sulla scena nuove figure e nuovi «soggetti» – come allora venivano chiamati, usciti dalla loro condizione di minorità civile e politica. Donne, matti, carcerati, omosessuali, giovani, soldati di leva, studenti, disoccupati, tutti vogliono essere protagonisti della propria emancipazione. Mai come in quel momento, gli umili e gli offesi, gli oppressi e i degradati, trovano occasioni e forza, dignità e rispetto, che solo una vita tornata finalmente nelle loro mani poteva dare. Il divorzio, il nuovo diritto di famiglia, l’aborto – per fare degli esempi – mutano la qualità della vita degli italiani. Conquiste a decenni di distanza largamente assimilate anche da chi ne fu ferocemente ostile. E ancora la legge sugli gli asili nido pubblici, il riconoscimento della tutela delle donne nei posti di lavoro con i permessi di maternità e il divieto di licenziamento, l’inclusione di una quota di disabili nei posti di lavoro, l’obiezione di coscienza per il servizio militare, la legge Basaglia con la chiusura degli ospedali psichiatrici, le prime normative sulla nocività del lavoro, le discriminazioni e il super sfruttamento, lo statuto dei lavoratori, i consultori, la riforma penitenziaria (il 1975 è l’anno col minor numero di detenuti nella storia repubblicana), i contratti unici nazionali, l’elevazione della scuola dell’obbligo e l’università accessibile a tutti (con i corsi serali per studenti-lavoratori e il salario studentesco). Conquiste e garanzie andate oggi in buona parte perdute, soprattuto nel mondo del lavoro (con l’avvento della società del precariato e la deregolazione contrattuale) ma anche nelle università e nel carcere.

Il potere consociativo
Sul piano istituzionale, invece, il sistema politico rimase prigioniero delle sue alchimie. La distanza che si aprì tra le istituzioni e una parte della società divenne una sorta di terra di nessuno, attraversata e occupata da movimenti sociali che moltiplicano con una irruenza senza precedenti. Alla separatezza del politico si contrappose l’autonomia del sociale. Ogni ricerca di mediazione e volontà di recepire e integrare venne esclusa. Da una parte, il protagonismo dei movimenti fu avvertito come una minaccia intollerabile; dall’altra, qualsiasi attenzione era risentita come una intrusione che poteva insidiare l’autonomia. Le strategie di rottura guadagnarono terreno sulle semplici posizioni contestatrici e la lotta armata divenne una delle opzioni che conquistò settori di movimento andando riempire le fila dei gruppi combattenti.

La repubblica del complotto
Questo ventennio agitato che si dilunga dalla metà degli anni 60 alla metà degli anni 80 del Novecento italiano, ricco di veloci rivolgimenti, colpi di scena, conflitti durissimi, rapide mutazioni, grandi avanzamenti, repressioni feroci, non ha più una sua narrazione. Per questo può esser facilmente raccontato, meglio sarebbe dire reinventato, come continuum criminale traversato da trame e segreti, tentativi eversivi e assalti rivoluzionari eterodiretti, P2 e mafia, servizi traviati, tutti perfettamente intrecciati e sorretti da un’unica regia e un medesimo disegno: «impedire il compimento della democrazia», ovvero quell’alternativa o alternanza di governo (qui il lessico muta con le svolte politiche). E’ quanto ha fatto Report nella puntata andata in onda domenica 12 maggio nel servizio preparato da Paolo Mondani. Quanto avvenuto da piazza Fontana, dicembre 1969, alla morte di Falcone-Borsellino nell’estate 1992, avrebbe fatto parte di un unico disegno dove tutto si tiene: tentativi di golpe, stragi fasciste, lotta armata, rapimento Moro, attentati mafiosi, avvento del Berlusconismo. Una insalata mista.
Un discorso ormai rodato da alcuni decenni e nel quale i fatti sociali vengono sistematicamente ridotti a eventi delittuosi, l’analisi e la spiegazione che ne segue trasformata in un calco della trama giudiziaria.

La favola del doppio Stato o Deep state
La costituzione di Weimar, come lo statuto albertino, non furono mai aboliti dal nazismo e dal fascismo. Vennero disattivati grazie al potere di sospensione proprio dello stato d’eccezione e affiancati da una seconda struttura, che nel caso dell’esperienza nazista il costituzionalista Ernst Fraenkel definì, in un libro del 1942, «Stato duale». Nasce da qui, in modo azzardato, la formula del «doppio Stato», ripresa in un saggio del 1989 da Franco De Felice.
Questa categoria, che ha fornito una parvenza concettuale alla retorica del complotto, insieme ai continui riferimenti all’azione di «poteri invisibili» e «occulti» (Bobbio) o di uno «Stato parallelo» (Giannuli), e poco importa se la data d’origine debba risalire allo sbarco degli americani in Sicilia, al Gobbo del Quarticciolo, a Portella delle ginestre, al rumor di sciabole e alle Intentone degli anni 60 (la letteratura dietrologica propone infinite varianti), aiuta davvero a comprendere la storia del dopoguerra e del decennio 70 in particolare?
Come spiegare allora che un giovane sostituto procuratore di nome Luciano Violante, destinato ad una carriera d’esponente storico del primo Stato (quello che la vulgata dietrologica ritiene buono), interviene su informativa del ministro degli interni democristiano Paolo Emilio Taviani, medaglia d’oro della Resistenza bianca, fondatore di Gladio, dunque esponente del secondo Stato (quello deviato), per indagare contro Edgardo Sogno, membro a questo punto di un terzo Stato (stavolta traviato), che tramava un golpe gollista di ristrutturazione autoritaria della repubblica, nel mentre operava attraverso i carabinieri della divisione Pastrengo un quarto Stato (deviatissimo e traviatissimo) in combutta col Mar del neofascista Carlo Fumagalli, le bombe stragiste, le cellule nere del Triveneto, il tutto in presenza del «super Sid», scoperto dal giudice Guido Salvini, che forse era dunque un quinto Stato (ancora più che deviato o traviato, uno Stato invertito)?
Poi c’erano gli Stati negli Stati come la mafia, cioè lo Stato doppione e, infine, gli antistati, come le Br, che però certuni vorrebbero una diramazione di uno dei precedenti cinque Stati. Che vuol dire tutto questo? Forse che l’Italia era un paese eccessivamente statalista?

La dietrologia contro le trame di Stato che si fa dietrologia dello Stato contro la società
L’ idea che il mondo sia più comprensibile se visto dal buco della serratura di un ufficio dei servizi segreti piuttosto che in luoghi dove si tessono e scontrano le relazioni sociali, economiche e politiche, prima che una squallida strumentalizzazione politica è il segno tragico di una malattia della conoscenza. Che la comprensione della società si risolva con una risalita verso l’alto, ricostruendo l’ordito della cospirazione, quell’apice dove dei burattinai dovrebbero tirare per forza dei fili, regolando i giochi, è divenuta semplificazione consolatoria. In passato era servita ad alcune forze politiche per trovare un alibi che giustificasse i propri fallimenti ma oggi che queste forze sono scomparse è diventato un nuovo instrumentum regni che favorisce una visione delle cose perfettamente congeniale alla perpetuazione dei poteri mai messi in discussione del capitalismo attuale. In questo modo attraverso le dietrologie si vuole sostenere che dietro ogni ribellione non c’è genuinità, sincerità, ma solo un inganno, una forma di captazione, uno stratagemma del potere.

Ancora una domenica bestiale su Rai tre, stavolta
 Report si inventa l’infiltrato della Cia nelle Brigate rosse. In azione il “metodo Mondani”: manipolare i testimoni per deformare la storia


Nella puntata di Report di oggi, domenica 12 maggio 2024, Paolo Mondani intervista lo storico Giovanni Mario Ceci che ha studiato tutti i documenti desecretati delle amministrazioni Usa degli anni 70 e dei primi 80: Dipartimento di Stato, Cia, Security Concil, rapporti dell’Ambasciata americana a Roma. Ricerca poi raccolta in un volume, La Cia e il terrorismo italiano, uscito per Carocci nel 2019.


Nei report desecretati si può leggere che «Nessuno è stato in grado di trovare nemmeno uno straccio di prova convincente del fatto che le Brigate rosse ricevevano ordini dall’estero». L’affermazione era giustificata dal fatto che solo la prova di una interferenza straniera che avesse messo a rischio la sicurezza e gli interessi statunitensi avrebbe legalmente giustificato l’intervento diretto della Cia negli affari interni italiani, più volte richiesto dal governo di Roma a cominciare dallo stesso Aldo Moro pochi mesi prima di essere rapito dalle Brigate rosse.
Nonostante il libro di Ceci, documenti alla mano, sostenga
nquesta tesi, Mondani riesce a censurare l’intero contenuto del volume, ben 162 pagine, capovolgendone il senso.

I documenti raccolti da Ceci dimostrano come la Cia intervenne per reprimere le Brigate rosse, non certo per sostenerle o manipolarle, alla fine del 1981 quando queste rapirono il generale americano James Lee Dozier. L’intervento degli uomini di Langley fu tale che il governo Spadolini non esitò ad autorizzare le forze dii polizia all’impiego sistematico della tortura durante le indagini.



Importanti testimonianze di esponenti delle sezioni speciali antiterrorismo dei carabinieri emersi recentemente hanno dimostrato (leggi qui) che a cercare di avvicinare le Brigate rosse non fu la Cia ma il Partito comunista italiano con l’accordo del generale Dalla Chiesa dopo il gennaio 1979. Si tratta della «Operazione Olocausto», un militante di Botteghe oscure (sede nazionale del Pci), nome in codice «Fontanone», ebbe un ruolo fondamentale nel permettere di agganciare alcuni dirigenti della colonna romana. Altri militanti del Pci fecero da «esche» nelle fabbriche del Nord Italia per permettere la cattura di esponenti brigatisti che cercavano di ricostruire la colonna torinese. L’unico infiltrato ad oggi conosciuto, che riuscì ad entrare nell’organico della colonna veneta delle Br per due anni, 1975-76, fu un operaio di Porto Marghera, Leonio Bozzato, nome in codice «Frillo», arruolato anni prima dal centro Sid di Padova, quando militava in un gruppo marxista-leninista, e successivamente inserito all’interno dell’Assemblea autonoma di Porto Marghera. Difficilmente ascolterete queste cose nel corso della puntata di Report, se volete saperne di più, oltre al libro diu Ceci si consiglia la lettura di La polizia della storia, la fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, Deriveapprodi 2021.

Aldo Moro e l’ambasciatore Usa Richard Gardner

Quando Moro chiese aiuto alla Cia per contrastare le Brigate rosse

Aldo Moro era convinto che il terrorismo non avesse solo un carattere politico ma anche una dimensione internazionale. Pochi mesi prima del suo rapimento, in un incontro avvenuto nello studio di via Savoia con l’ambasciatore degli Stati Uniti Richard Gardner, affrontò la questione sostenendo che il fenomeno della lotta armata era «probabilmente sostenuto dall’Est, forse dalla Cecoslovacchia». Aggiunse che il terrorismo italiano e tedesco erano «profondamente legati» e mossi da un medesimo disegno: «minare le società democratiche sulla frontiere Est-Ovest». Contrariamente a quel che si ritiene oggi, Moro era convinto che lo sviluppo delle azioni dei gruppi armati avrebbe rafforzato gli obiettivi di governo del Pci: «un’escalation incontrollata dell’ordine pubblico» – affermava lo statista democristiano – avrebbe reso impossibile ogni opposizione alle richieste, che provenivano dalle «public demands», di «inclusione» e «partecipazione del Pci al governo per porre fine alla violenza» e «ristabilire l’ordine pubblico». Argomenti che spinsero Moro ad esortare gli Stati Uniti affinché assumessero «un ruolo attivo nel combattere il terrorismo», chiedendo a Gardner una «maggiore assistenza e cooperazione» da parte dell’intelligence statunitense con i servizi di sicurezza italiani» (1). A scriverlo è lo storico Giovanni Mario Ceci nel volume, La Cia e il terrorismo italiano. Dalla strage di piazza Fontana agli anni Ottanta (1969-1986), Carocci 2019. I report dell’agenzia di Langley, dell’ambasciata Usa a Roma e di altri attori dell’amministrazione statunitense, che l’autore cita nel libro, ribaltano l’attuale vulgata mainstream sugli scenari complottisti che avrebbero portato al rapimento del leader democristiano da parte delle Brigate rosse, sgretolando la convinzione stratificata da decenni di un sequestro sponsorizzato e supervisionato, addirittura con l’apporto diretto di forze esterne, in particolare atlantiche, al mondo brigatista, per impedire l’alleanza tra Dc e Pci e l’entrata di quest’ultimo nel governo. Nell’incontro del 4 novembre del 1977, lo statista democristiano fece capire agli americani che l’unico vero modo che avevano per arrestare la progressione elettorale del Pci e le sue ambizioni governative era intervenire su quelle che, a suo avviso, erano le matrici della sovversione interna italiana, ovvero la strategia di destabilizzazione della società che avrebbe trovato sostegno nelle interferenze sovietiche. Attività che, secondo Moro, non era finalizzata a sabotare l’avvicinamento del Pci all’area di governo ma semmai a favorirla rafforzando la sua immagine di unica forza politica in grado di salvare le istituzioni calmierando le spinte antisistema dei movimenti sociali ed esercitando la sua capacità di forza d’ordine. Questa personale convinzione di Moro, che per altro mutò drasticamente quando dalla prigione del popolo nella prima lettera a Cossiga scrisse di trovarsi «sotto un dominio pieno e incontrollato», era opinione diffusa negli ambienti politici moderati e conservatori italiani e trovava ispirazione in alcune precedenti veline dei Servizi italiani che chiamavano in causa l’operato dei Paesi dell’Est.
Anche il Pci riteneva, ma solo in sede riservata, che vi fosse una qualche interferenza oltre cortina, in particolare dei cecoslovacchi. Sono note le lamentele di Cacciapuoti e di Amendola nei confronti dei “fratelli cecoslovacchi” che sdegnosamente rigettavano l’accusa. I sospetti, dimostratisi infondati, dei dirigenti di Botteghe oscure erano dovuti all’ospitalità che nell’immediato dopoguerra Praga aveva fornito, su richiesta degli stessi comunistin italiani, a diversi esponenti delle milizie partigiane comuniste e dell’organizzazione Volante rossa che non avevano deposto le armi dopo la fine della guerra civile e per questo erano stati perseguiti dalla magistratura. Questo bacino di militanti, il più delle volte coinvolti in azioni di rappresaglia contro ex gerarchi ed esponenti fascisti, nonostante fosse stato esfiltrato dall’apparato riservato del Pci era maltollerato dalla nuova dirigenza di fede togliattiana. Un atteggiamento proiettivo che spinse la dirigenza di questo partito ad avviare una ossessiva campagna, divenuta vincente nei decenni successivi, che ribaltava lo schema complottista attribuendo ogni responsabilità del sequestro Moro all’azione dei Servizi segreti occidentali.

Terrorismo interno o internazinale?
L’amministrazione statunitense prese sul serio le richieste di Moro e G.M.Ceci ne ricostruisce attentamente tutti i passaggi: Gardner volato a Washington riferì la richiesta al segretario di Stato Vance ed al consigliere per la sicurezza Brzezinski, la questione venne introdotta in un memorandum inviato ai membri dell’European Working Group, che si riunì il 9 dicembre 1977, dove ci si chiedeva «che aiuto stiamo fornendo all’Italia in relazione al terrorismo (sia interno sia, se ve ne è, Internationally-inspired)? (2). Tuttavia emerse subito un grosso ostacolo dovuto alla presenza della nuova dottrina di «non interferenza non indifferenza» emanata dall’amministrazione Carter e alle limitazioni, introdotte dal Congresso statunitense a metà degli anni 70, che impedivano al governo Usa di intervenire nelle attività di polizia interna di altri paesi. Dopo le polemiche scatenate dai ripetuti interventi diretti della Cia, come fu per il colpo di Stato contro Allende in Cile, le azioni coperte dell’Agenzia d’intelligence furono sottoposte a restrizioni salvo nei casi in cui vi era un manifesto pericolo per la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi interessi. Situazione che si prefigurava solo nel caso fosse stato dimostrato che quanto avveniva in Italia avesse una matrice internazionale. L’assenza di questa prova, più volte richiesta alle autorità italiane, impedì un intervento diretto e immediato della Cia, i cui analisti per altro in un report della Cia “centrale” ritenevano di non condividere «la tesi, alquanto popolare in Italia, che il terrorismo sia alimentato all’estero, né tantomeno il suo corollario, ossia che scomparirebbe se malvagi potenze straniere smettessero di immischiarsi», mentre un’analisi di Arthur Brunetti, capocentro della Cia a Roma, realizzata nei giorni precedenti il sequestro Moro ribadiva che le Br «sono un fenomeno nato e cresciuto interamente in Italia» e che «nulla indicava che l’Unione sovietica, i suoi satelliti nell’Europa dell’Est, la Cina o Cuba avessero avuto un ruolo diretto nella creazione o nella crescita delle Br». (3)
Nel bel mezzo di questo lavorìo diplomatico giunse come un lampo la notizia del rapimento del leader democristiano. Le prime analisi portarono Washington a temere che l’azione delle Br potesse estendersi anche ad obiettivi statunitensi, successivamente i numerosi report prodotti dall’intelligence Usa durante il sequestro focalizzarono l’attenzione verso le possibili ricadute sul quadro politico italiano. Gli analisti osservarono con molta finezza le mutazioni intervenute all’interno della Dc e il profondo cinismo che muoveva la rinnovata «rivalità» e le diverse manovre di riposizionamento dei leader democristiani che ambivano alla successione di Moro come capi del partito per «assumere il ruolo di front runner nelle elezioni presidenziali di dicembre». Secondo la Cia, il governo italiano nel corso del sequestro aveva «riportato una vittoria negativa rimanendo fermo», senza tuttavia essere riuscito a colpire militarmente le Br. Alla fine, concludevano gli analisti di Langley sbagliando completamente previsione, era il partito comunista la forza politica uscita rafforzata dall’esito del sequestro, poiché la linea della fermezza l’aveva collocata – a loro avviso – in una «posizione forte», che avrebbe reso impossibile la nascita di governi senza la sua partecipazione. Sul piano operativo, nonostante una richiesta di top priority da parte italiana, la Cia non andò oltre lo scambio di informazioni. Sotto la pressante insistenza di Roma il governo americano si limitò ad inviare un funzionario del Dipartimento di Stato (non un membro della Cia), Steven R. Pieczenik, psicologo esperto di guerra psicologica che giunse a Roma il 3 aprile 1978 (dopo il trezo comunicato brigatista nel quale si annunciava la collaborazione di Moro all’interrogatorio) e operò su mandato del ministro dell’Interno Cossiga all’interno di un “comitato di esperti”, dove erano presenti figure analoghe. La permanenza dell’esperto americano fu molto breve, convintosi della inutilità del suo contributo, rientrò negli Stati uniti il 16 aprile successivo, dopo appena 13 giorni.

Settembre 1978, la Cia si mobilità contro le Brigate rosse
Alla fine l’ostacolo venne superato con un espediente burocratico: riclassificare le Brigate rosse all’interno della categoria del “terrorismo internazionale”. L’8 maggio, il giorno prima della esecuzione di Moro, lo Special Coordinating Comitee del Consiglio nazionale della sicurezza, Nsc, diede finalmente semaforo verde, ritenendo che si potesse «offrire aiuto all’Italia per combattere il terrorismo internazionale», ma quando la decisione venne comunicata alle autorità italiane il corpo di Moro era già stato ritrovato in via Caetani. La circostanza tuttavia non arrestò i propositi statunitensi che nel settembre 1978 giunsero a Roma con l’obiettivo di svolgere un’attività unilaterale di intelligence contro le Br, attivando operazioni di infiltrazione all’interno questa organizzazione. L’ambasciatore Gardner si oppose, raccogliendo le resistenze italiane, sostenendo che questo tipo di attività sarebbe stata compito delle autorità di Roma. Alla fine si raggiunse un compromesso: l’ambasciata americana «avrebbe considerato caso per caso le proposte di reclutamento di persone da infiltrare nelle Br» con la possibilità di decidere autonomamente se «andare avanti da soli o dopo un accordo con gli italiani». Gardner ricorda nel suo libro di memorie che in effetti si registrò davvero «un caso di questo genere» e «la decisone fortunatamente fu di condurre l’operazione in accordo con il governo italiano». (4)

L’operazione Stark
L’unico tentativo conosciuto, per altro del tutto infruttuoso, è quello di Ronald Stark, un cittadino americano arrestato nel 1975 per traffico di stupefacenti e scarcerato nel 1979 con una motivazione redatta dal giudice Floridia in cui si riconosceva la sua collaborazione con la Cia. Il suo compito sarebbe stato quello di avvicinare all’interno delle carceri alcuni brigatisti detenuti. L’operazione non produsse risultati perché già dal 1977 i Br erano stati tutti trasferiti nel carceri speciali e Stark non finì mai in questo circuito. Se l’operazione di infiltrazione prese avvio alla fine del 1978 – come afferma Gardner – per Stark fu impossibile avvicinarli. Dalla documentazione della Direzione generale degli istituti di pena viene fuori che Stark fu rinchiuso nelle carceri di Modena, Pisa, Matera, Rimini e che nell’ultimo periodo della sua detenzione si trovava a Bologna. Prigioni estranee al circuito delle carceri speciali e che dopo il 1977 non accolsero più al loro interno brigatisti. Dalla stessa documentazione risulta che l’unico periodo in cui Stark, condannato per traffico internazionale di stupefacenti, si trovò ristretto nello stesso istituto di pena dove erano anche altri brigatisti fu il 1975 nel carcere di Pisa, poco dopo il suo arresto, tre anni prima che le Brigate rosse entrassero nel mirino dell’agenzia di Langley. Ammesso che fosse lui l’agente provocatore reclutato negli ultimi mesi del 1978, gli americani erano davvero in seria difficoltà se l’unica risorsa messa in campo per la loro strategia era riposta in un improbabile personaggio, un narco trafficante tenuto a debita distanza dai sospettosi brigatisti incarcerati che al massimo si trovarono a condividere, come riferisce Curcio nel suo libro, A viso aperto, il passeggio dell’aria con uno che cercava di attaccare bottone. Il racconto che Curcio fa dell’episodio (Stark gli propose durante il passeggio di organizzare una evasione dal carcere) lascia supporre che lo statunitense lavorasse già da confidente per il Ministero dell’Interno. In effetti Gardner afferma che l’operazione fu condotta di concerto con i Servizi italiani. Risulta, infatti, che funzionari del Ministero dell’Interno ebbero ripetuti incontri con lui nel carcere di Matera: tra questi spicca il nome di Nicola Ciocia, il famoso professor De Tormentis specialista del waterboarding, torturatore di diversi nappisti e brigatisti, tra cui Enrico Triaca, Ennio di Rocco, Stefano Petrella e di diversi componenti della colonna napoletana. I documenti ci dicono che l’unica persona caduta nella rete di questo agente provocatore fu Enrico Paghera, militante di Azione Rivoluzionaria che dopo la scarcerazione venne nuovamente arrestato e trovato in possesso di una cartina relativa ad un campo palestinese in Libano di cui era indicato il nome del responsabile e che risultò fornitagli dall’americano.

Note
1. Nella nota 26, p. 69, del suo volume, GM Ceci indica come fonte un report inviato dall’ambasciata Usa di Roma, Ambassador’s Meeting with Christian Democrat President, from Amembassy Rome to SecState, 7 November 1977, DN:1977ROME18056. Anche lo storico G. Formigoni, ricorda sempre GM Ceci, aveva riferito su questo incontro e sulla posizione di Moro in, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, il Mulino, 2016, pp.325-6.
2. GM. Ceci, p. 69, nota 27, Memorandum from Robert Hunter and Richard Vine to Members of European Working Group, Agenda for Meeting, December 9, 1977, in DDRS.
3. Giovanni Maria Ceci, La Cia e il terrorismo italiano. Dalla strage di piazza Fontana agli anni Ottanta (1969-1986), Carocci 2019, p. 84.
4. Richard N. Gardner, Mission: Italy. Mission: Italy. Gli anni di piombo raccontati dall’ambasciatore americano a Roma.1977-1981, Mondadori, 2004, p. 234.